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Autore: keska    24/04/2009    29 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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-Bella copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

«Bella? Bella?» mi chiamò insistentemente Alice.

Non risposi.

«Bella, per favore! Oh, benedetta ragazza. Dobbiamo finire di sistemare un mucchio di cose, non startene sempre per conto tuo».

Ignorai la sua voce, senza staccare gli occhi dal libro.

«Alice, lasciala stare» mormorò Edward, dietro di me. Mi carezzò il collo, posando una guancia contro la mia.

Scossi la testa, esasperata. «Come pensate che possa studiare se continuate a fare… così!» esclamai, indicandoli.

«Cosa?» fecero, sorpresi.

«Tu. Mi stai riempiendo la testa di problemi per il matrimonio di cui non dovevo essere neppure a conoscenza, dato che volevo sposarmi su una motocicletta a Las Vegas. E tu!» strillai, diventando completamente rossa e indicando Edward.

Sorrise, malizioso. «Io cosa?».

Mi coprii il viso. «Oh, Edward…».

Rise, per pochi secondi, prima di abbracciarmi e costringermi dolcemente a sedermi sul suo grembo. «Non ti do più fastidio, promesso».

«Come se potessi studiare così. Come se mi dessi davvero fastidio» mugugnai, terribilmente imbarazzata.

Rise ancora, sfacciatamente. Poi sollevò il viso verso Alice. «Lascia stare la mia fidanzata. È nervosa».

«Non sono nervosa!» mi difesi, scattando in alto con la testa «sono… sono solo… un po’ stressata, ecco».

Alice sollevò un sopracciglio. «La fiera dei sinonimi. Bella» incalzò poi «lo sai che non c’è alcun motivo per essere nervosi. O stressati».

Feci scoccare la lingua. «Certo» borbottai, sarcastica.

Edward sospirò, unendo le braccia intorno ai miei fianchi. «Emmett e Jasper lo stanno cercando a Nord e Sud. Ma non è semplice, perché non ci fanno accedere ai territori della riserva. Potrebbero tenerlo nascosto».

Fremetti, agitandomi sul suo grembo. «A Nord e Sud? Ma sono separati? Non si faranno male, vero?» domandai velocemente, preoccupata.

«No, no, Bella. No» dichiarò velocemente, posando entrambe le mani sulle mie spalle. «No, va bene? Sono uniti, e non corrono rischi. Anche se lo trovassero non lo affronterebbero. Vogliamo solo monitorare la sua posizione».

«Ma stiamo parlando di Emmett!» esclamai agitata.

Edward sospirò, prendendomi le mani fra le sue. «Potresti fidarti di me, per favore? Non farei nulla che possa mettere in pericolo i miei fratelli, né lo permetterei. E credi che Alice, qui, lascerebbe andare suo marito se non sapesse che è perfettamente al sicuro?» fece, indicandola.

Mi voltai verso di lei. Mi sorrise, apparentemente perfettamente serena. «Non succederà nulla, Bella. Sta’ tranquilla».

Sospirai, nascondendo il volto nella spalla di Edward. «Lo spero per te. Altrimenti mi arrabbierei. Moltissimo».

Rise appena. «Sono pronto ad affrontare la tua furia».

«Ehi!» lo rimbrottai, allontanandomi per tirargli una pacca sulla spalla.

Poco più tardi, approfittando della calura estiva del mese di Luglio, decidemmo di recarci al ruscello per un bagno. Sapevo che Edward aveva in mente di distrarmi, eppure lo lasciai fare, perché sapevo anch’io di averne bisogno.

«Credo che Alice apprezzerebbe una tua certa collaborazione ai preparativi per il matrimonio» mormorò sulle mie labbra.

Risi, avvicinando il mio corpo al suo, le gambe allacciate contro il suo bacino. «Ma lo sto facendo. Stiamo facendo le prove per il matrimonio, adesso» scherzai, strusciandomi maliziosamente contro di lui.

«Ah sì… Hai proprio ragione» sussurrò, avventandosi con le labbra contro le mie, succhiando e lambendo, lasciando che gli tirassi i capelli fra le dita.

«Prometti che farai l’amore con me?» ansimai sulla sua bocca, senza smettere di guardarlo negli occhi.

«L’ho già promesso» sussurrò, «non rimangio mai le mie promesse. Non, soprattutto, quando mi stai così avvinghiata».

Ridacchiai, rossa in viso. Posai una guancia contro la sua spalla. «Allora… non ci hai ripensato. Non hai paura».

Sospirò. «Bella, non smetterò mai di avere paura. Ma lo faremo. L’ho promesso e lo voglio. Lo faremo».

Sorrisi, allontanandomi per guardarlo negli occhi. «Grazie».

Mi sorrise di rimando, quel sorriso imperfetto che tanto amavo. «Prego» mormorò, sollevandomi insieme a lui per farci cedere insieme nell’acqua.

Risi.

 

Nel pomeriggio Edward dovette andare a caccia, così decisi di seguire Alice a Seattle per perfezionare alcuni preparativi per il matrimonio. A caccia dell’aria condizionata, aveva detto lei. Per farla contenta ed ingannare il tempo, avevo detto io.

«Tutto bene?» domandò, vedendomi intenta a fissare il paesaggio che scorreva attraverso il finestrino della sua Porche. Non prendevamo mai la mia auto. Erano passate due settimane da quando Edward me l’aveva regalata, ma l’avevo utilizzata solo una volta per andare all’università, ovviamente insieme a lui, e solo un’altra volta mi ero azzardata a guidarla in mezzo a Forks - spinta dagli occhi languidi di Edward - per poi pentirmene subito dopo. In compenso Charlie l’adorava, e l’aveva guidata molto più di me.

Mi voltai a sorriderle. Un sorriso stanco e accennato. «Sì, tutto bene» sussurrai, chiudendo fuori il magone che avevo ogni volta che non ero con Edward. Se mi era rimasto qualcosa dagli eventi dell’ultimo mese, questo era proprio la paura per il ritorno di Jacob e un morboso attaccamento a Edward. E non era solo perché sapevo che avrebbe potuto difendermi, stando con me, che lo volevo accanto. Era perché desideravo che non gli capitasse nulla di male, e per fargli capire, secondo dopo secondo, quanto l’amassi.

Alice annuì, spostando nuovamente lo sguardo sulla strada. «Bella, senti. Tu sei come una sorella per me» cominciò, tornando a guardarmi negli occhi «se tu credi che… Se tu credi che questo matrimonio non vada bene per te. Se hai dei… ripensamenti, sappi che io sarei comunque dalla tua parte, e tu sei liberissima di scegliere se piuttosto che mio fratello volessi quel cane. Non che mi piacerebbe essere imparentata con lui e non che non mi si spezzerebbe il cuore per mio fratello ma io comunque…».

Allargai la bocca, esterrefatta. Scossi il capo con decisione. «No, no, Alice. No» dichiarai con fermezza, arrestando il flusso delle sue parole. «No. Sei completamente fuori strada. Non è affatto questo, affatto».

Mi osservò, cercando la verità nelle mie parole.

«No» ribadii, sgomenta dal fatto che mettesse in dubbio le mie parole. «No. Io amo Edward, con tutta me stessa. Lo amo così tanto da voler passare l’eternità con lui, e lo voglio sposare. Tutto quello che è successo non mi ha fatto capire nient’altro che Jacob non è stato altro che il frutto del terrore che Edward non volesse più me. No, Alice. No. Io non l’ho mai amato. Mi ha sempre ingannata, mi ha fatto credere quello he non era vero. Io ho sempre e solo amato tuo fratello, e mai, mai, provato qualcosa in più di un’amicizia calcificata dal dolore per la lontananza di Edward, per Jacob. Mai».

Sorrise, e si voltò a guardare la strada. «Meglio così, allora. Se mi avessi detto il contrario avremmo dovuto latitare lontano da Edward. Mi avrebbe uccisa se avesse saputo che ti avevo spinta a cambiare idea» scherzò.

Risi appena. «Non avrei mai cambiato idea. Alice».

«Sì?».

«Grazie di essere mia amica. Mia sorella».

«Figurati. Ma ancora non mi hai detto cosa ti turba, vero?» domandò, sollevando un sopracciglio.

Raggelai, storcendo il viso in una smorfia.

«Non importa. Presto lo farai» dichiarò sicura, premendo più a fondo l’acceleratore.

Arrivammo a Seattle in un’ora e mezza, la metà di quello che mediamente avrei impiegato per arrivarci. Quantomeno sarei stata meno tempo lontana da casa, e meno tempo lontana da Edward.

Il primo posto in cui ci recammo fu il servizio di catering. Ma, con mio grande stupore, non lo facemmo per ordinare i piatti e gli assaggini, bensì per scegliere i camerieri. Da un catalogo. La signora dell’agenzia pareva conoscere molto bene Alice, segno che il profumo delle sue carte di credito era già stato sentito da quelle parti. Non avrei mai smesso di stupirmi.

Da lì passammo alla scelta dei merletti, dei fiori, dell’arco.

Più volte mi passò per la mente di chiamare Edward, ma Alice, vedendo le mie intenzioni, trovò sempre un nuovo modo per distrarmi o farmi riprendere interesse per quello che stavamo facendo.

«Che ne dici di prendere qualcosa da mangiare? Un bel gelato? E poi ti porto a fare un massaggio eccezionale. Ho sentito che qui hanno massaggiatrici bravissime» mi propose con un occhiolino.

«Vada per il gelato» dissi, incamminandomi verso la galleria dell’edificio. «Della massaggiatrice non sono molto convinta…» protestai, storcendo la bocca.

Mi sorrise. «Vedrai, sarà rilassante. Sediamoci qui» fece, indicando un tavolino. Con grazia sollevò una mano guantata per richiamare l’attenzione di un cameriere, da cui ordinò una grande coppa di gelato con i miei gusti preferiti.

«Alice» la chiamai, osservandola. Mi morsi un labbro, imbarazzata. «Ecco… vorrei chiederti se… ti andrebbe di comprare qualcosa con me».

Sollevò un sopracciglio, sorridendomi. «Certo».

Arrossii. «Beh, ecco… mi chiedevo se…» deglutii «potessimo comprare qualcosa di carino. Un… umh. Un completino, ecco» cincischiai, completamente in imbarazzo.

Portò una mano sulla mia, facendomi sollevare lo sguardo. «Ne compreremo uno stupendo. L’ho già visto» ammiccò, contenta.

Ridacchiai, provando a scacciare il mio imbarazzo. «Oh, bene. Grazie».

«E di cosa…».

Il gelato arrivò poco dopo. Stare con Alice era piacevole, non per nulla aveva chiaramente visto, sin dall’inizio, che saremmo diventate ottime amiche. Un motivo in più per trasformare la mia vita in un’eternità. Anche se avrei perso qualcosa. Anche se quelle strane parole di Edward tornavano sempre, nei momenti meno opportuni, a torturarmi la mente…

Alice sussultò, lo sguardo improvvisamente vitreo.

Ansimai, lievemente, avvolta dalla paura. Provai a ricordare cosa faceva Jasper quando sua moglie aveva una delle sue visioni. «A-Alice? Alice, mi senti?» la chiamai, posando una mano sulla sua, sul tavolo. Deglutii, non ricevendo nessuna risposta. Il cuore mi stava battendo forte nel petto. Che avesse visto qualcosa che doveva accadere a Edward? «Alice!» la richiamai con più forza, afferrando con decisione la sua mano.

Si riscosse, battendo le palpebre e mettendomi a fuoco.

«Cosa hai visto?» domandai ansiosa.

Scosse il capo, sollevandosi in piedi e prendendomi per mano.

«Alice! Dove mi stai portando?!» esclamai, mentre mi trascinava fra la folla.

«Vieni, Bella. Seguimi. Non ti preoccupare. Volevi quel massaggio, vero? Beh, credo sia arrivata l’ora».

Ansimai, agitata. «Ma, Alice! Non mi hai detto cosa hai visto! Che succede?».

Mi ficcò in un ascensore, aspettando che tutti uscissero in modo che potessimo starci da sole. Posò entrambe le mani sulle mie spalle. «Voglio che tu sia calma e rilassata. Non accadrà nulla. Sto solo cercando di proteggerti, va bene? Rilassati» ordinò, voltandosi poi a premere il tasto più alto nell’ordine dei piani. Ma lì c’erano solo uffici! «Andrà tutto bene» mi assicurò puntando il suo sguardo magnetico nei miei occhi. Un secondo prima che le porte dell’ascensore cominciassero a chiudersi era sgattaiolata via.

«Alice!» gridai, chiusa da sola in ascensore. Ansimai, guardandomi attorno, spaventata. Un intero lato costituiva una vetrata, da cui, man mano che saliva, si poteva vedere un panorama sempre più vasto della città di Seattle. Le mani mi tremarono, e feci per premere altri tasti, per arrestare la salita dell’ascensore e uscire da quella trappola alla ricerca di Alice. Ma nei pochi secondi che mi servirono per pensare se fosse meglio seguire i suoi moniti o fare di testa mia, dopo un sibilo e un rumore sinistro, l’ascensore si era bloccato a mezz’aria.

Ansimai, terrorizzata. Premetti ripetutamente il pulsante d’allarme, con un dito, con un palmo, con un pugno, quasi fino a romperlo. «Alice! Alice!» urlai spaventata «Aprite! Aiuto!» gridai, la voce sempre più sottile e le lacrime agli occhi. Deglutii, terrorizzata, voltandomi a guardare alle mie spalle e sentendomi mancare il terreno sotto i piedi.

Mille scenari stavano vorticando nella mia testa, mille cose che Alice poteva aver visto, ma tutte avevano a che fare con una persona: Jacob. Presi la testa fra le mani, sentandola girare velocemente.

«Signorina?» mi sentii chiamare.

Mi ridestai immediatamente.

«S-sì… si è bloccato l’ascensore» biascicai, senza riuscire a dare un contegno alla voce.

«Lo sappiamo, ce ne dispiace. Fortunatamente è l’unica ad essere rimasta bloccata, sfortunatamente anche il sistema di sicurezza è andato. Ma in tre ore dovrebbero poterla tirare fuori».

«No» balbettai «no! No! Non posso rimanere qui tre ore, non posso, non posso!» esclamai, tremando, agitata. Sbattei le mani contro le portiere «fatemi uscire! Fatemi uscire di qui!» urlai, terrorizzata.

La voce, ovattata dalla distanza delle pareti, mi pareva maschile. «Signorina, sta bene?».

«No, no» singhiozzai, scoppiando a piangere, «no». Jacob che trovava Jasper e Emmett. Jacob che andava a cercare Edward mentre era solo, a caccia. Jacob che veniva a prendermi quando ero sola con Alice, e non potevo difendermi.

«C’è qualcuno lì dentro?».

«Si è bloccato l’ascensore?».

«Sta arrivando l’assistenza…». Sentii un vociare confuso. Un certo numero di gente si stava affollando lì intorno.

«Signorina? Come si chiama?» mi chiese la stessa voce di prima.

Ansimai, scuotendo la testa, terrorizzata.

«Signorina?».

«B…Bella…Bella Swan» singhiozzai fra gli ansiti.

«Bella. Vuole che contattiamo qualcuno, c’è qualcuno qui insieme a lei nell’edificio?».

Singhiozzai più forte, vedendo il pavimento inclinarsi. «Alice» sussurrai spaventata, terrorizzata da quello che le poteva accadere. Forse… aveva voluto bloccarmi in ascensore per proteggermi. «Alice, Alice Cullen!» esclamai, con più forza. Le lacrime si mischiarono alle vertigini, dandomi la nausea. «Chiamatela, per favore! Deve venire qui! Chiamatela!» gridai agitata.

«Va bene, va bene. Gliela chiamo, lei rimanga calma».

Agitata, incapace di rimanere in piedi, mi lasciai crollare contro la parete. Le lacrime mi scendevano sul volto e le mani mi tremavano. Avevo paura. Se mi avesse trovata cosa avrei fatto? Avrebbe avuto il coraggio di prendermi o di farmi del male in pubblico? E come sarebbe potuto arrivare a me? D’un tratto mi trovai ad essere grata, ad Alice, per avermi chiusa in quella che fino a quel momento avevo considerato una prigione.

Ma durò un secondo, perché subito il terrore mi schiacciò ancora, ad ondate. E se fosse arrivato a lei? La piccola e indifesa Alice? Cosa le avrebbe fatto? E se invece si fosse scontrato con Edward?

Singhiozzai, portandomi entrambe le mani al viso, agghiacciata. Cosa avrei fatto, se anche fossi sfuggita a lui ancora una volta? Avrei vissuto tutta la vita nel terrore che sarebbe potuto tornare? Edward aveva ragione, dovevo affrontarlo.

«Edward» singhiozzai, scuotendo il capo. Cominciai a singhiozzare più forte. I miei singulti si sentivano, forti e asciutti.

«Che ha, sta male?».

«Povera ragazza».

«La sua amica?».

«Non si trova».

Fremetti, non riuscendo quasi a respirare per il pianto.

«Quanto tempo ci vuole?» domandò una voce femminile, distinta.

«Almeno altre due ore. Siamo già all’opera».

«Senta, non c’è un modo per tirala fuori di lì il più velocemente possibile?» sentii chiedere dalla stessa donna di prima.

«Si potrebbe provare ad aprire le porte manualmente, ma l’ascensore è bloccato fra due piani, bisogna farla salire fin quassù, mi creda, sarebbe meglio aspettare, stiamo lavorando a ritmo sostenuto, un’oretta e mezza e sarà fuori di lì».

Boccheggiai in cerca d’aria. «Alice» biascicai senza fiato, vedendo dei puntini luminosi ai bordi del mio campo visivo.

«No, la tiri fuori, ora. Il prima possibile. La ragazza sta male».

«Va bene allora. Altri dieci minuti e ce la dovremmo fare».

«A-Alice…» biascicai, la voce ridotta ad un sussurro dagli ansiti.

«Bella!» mi sentii chiamare dalla sua voce. «Bella, Bella, tesoro, sono qui».

«Alice» chiamai più forte, singhiozzando. Mi sentivo senza forze. La testa mi girava e le mani mi tremavano. Il petto era scosso da singulti che mi impedivano di respirare.

«È lei l’amica?».

«Sì, sì, sono io. Alice Cullen».

«Crede che dovremmo chiamare un’ambulanza? Non sembra stare bene».

«No, no. Ci penso io. Niente ambulanza».

Al sollievo per la presenza di Alice seguii velocemente la paura. Era quella a paralizzarmi, schiacciata contro la parete. Non volevo allontanarmi, perché avevo un folle terrore che così mi avrebbe presa.

«Bella, calmati, per favore! Sono qui tesoro».

«Edward» singhiozzai, sentendo il viso impastarsi di lacrime e sudore.

«L’ho chiamato, l’ho chiamato. Sta bene, sta venendo qui. Calmati».

Tremai, sentendo la testa girare più forte. Senza forze, mi lasciai andare con la testa contro il vetro, e fui accecata e sorpresa dallo spazio infinito. Richiusi gli occhi, ma tutto questo non faceva altro che aumentare il senso di nausea, mentre la mia testa vagava in una dimensione psichedelica.

Mi lasciai cadere, completamente distrutta, verso avanti, sul pavimento. Posai un palmo contro il metallo freddo, mettendomi rannicchiata in posizione fetale. Tremavo.

«Bella! Bella, parlami, dimmi qualcosa» era Alice, preoccupata.

«A…Alice…» la mia voce fu poco più che un sussurro, ma ero convinta che lei l’avesse sentita.

«Continua a parlarmi, parlami!».

Boccheggiai ancora, in piena crisi di panico. Il mio fiato sollevava nuvolette di polvere dal pavimento. Le palpebre si fecero pesanti. Sentii un rumore stridulo, forzato, come i freni di un treno che sta andando ad alta velocità. Le portiere si aprirono, lasciando un’apertura di poco meno di un metro. Era a due metri d’altezza, per tutto l’altro tratto c’era una lamiera di ferro.

Vidi il viso di Alice, poi un signore con una divisa gialla da pompiere, entrambi inginocchiati sul pavimento. Il vociare si fece ancora più forte.

«Bella!» esclamò la mia amica, preoccupata.

«Signorina, ce la fa a venire qui vicino, così possiamo sollevarla?» mi chiese l’uomo.

Battei le palpebre. Non risposi. Strinsi i pugni, e scossi il capo. Non riuscivo a muovermi.

«La prego, faccia uno sforzo».

Non risposi, boccheggiai ancora in cerca d’aria.

«Bella, ti prego, vieni qui! È tutto apposto tesoro» mi chiamò Alice, disperata.

Piansi ancora. Sentivo le lacrime solcarmi il viso e bagnare il pavimento. La voce di Alice, del pompiere, della signora, erano confuse e mischiate nella mia testa come un minestrone girato col cucchiaio; e tutte insieme, fondendosi, formavano strani suoni e perdevano di significato. Sentii il cuore - che mi batteva forsennato nel petto - gli ansiti, la testa che sembrava oscillare impazzita. Ed io ero ferma, immobile, solo il mio petto era mosso dal ritmo incalzante dei miei respiri involontari. Sentii tutte le forze defluire da me, ma proprio quando le palpebre si stavano chiudendo per consegnarmi al buio sentii la sua voce.

«Alice! È qui?».

Spalancai immediatamente gli occhi.

«Bella!».

«Edward» sussurrai, con la voce arrochita dal pianto.

Mi fissava dall’alto, preoccupato. «Tesoro. Vieni qui, ce la fai?».

Singhiozzai ancora. Non potevo muovermi. Non potevo.

«Bella, tesoro, non c’è niente di cui aver paura» mormorò velocemente, scambiandosi un’occhiata con Alice. «Niente, te lo prometto. Vieni qui, vieni da me. Andrà tutto bene».

Tremai, ma non riuscii neppure ad aprire le mani, chiuse in due pugni. «Non riesco… non riesco a muovermi» singhiozzai, agitata.

«Shh, shh, va tutto bene. Ci riesci invece, ci riesci. Vieni qui Bella, avanti. Piano» mi tese una mano «muovi una mano, piano piano. Abbiamo tutto il tempo».

Con difficoltà, senza smettere di guardarlo, aprii e chiusi una mano. Portai il palmo sul pavimento, provando a fare leva per sollevarmi.

«Ecco, brava. Ce la fai. Vieni qui tesoro» mi chiamò, sbracciandosi ancora di più verso di me e ignorando il monito del pompiere al suo fianco.

Mi sollevai, mettendomi seduta. Mi girava la testa. Deglutii, non smettendo di guardare Edward. Sentivo tutti i muscoli contratti, refrattari ai miei movimenti.

«Solo due passi» fece, incoraggiandomi a mettermi in piedi «solo due. Ti predo io. Afferra le mie mani».

Mi sollevai, vacillando sui piedi. Velocemente, come un pezzo di metallo attirato dal magnete, gli andai incontro, tendendo le braccia. Un passo, poi un altro. Finalmente toccai la sua mano fredda, che si strinse alla mia. Mi sentii confortata e protetta. Feci lo stesso con l’altra mano, e mi sentii tirare velocemente su.

Mi strinse al suo petto, tastandomi il corpo, preoccupato. «Shh, shh» sussurrò, accarezzandomi.

Singhiozzai, tramando fra le sue braccia. «Ho avuto così tanta paura, Edward. Ti prego, non voglio più averne, ti prego».

«No, no, te lo prometto» sussurrò velocemente, non smettendo di cullarmi, «va tutto bene. Stiamo tutti bene, non è successo niente». Si allontanò appena per guardarmi negli occhi. Mi carezzò i capelli. «Stai bene, vero?».

Annuii, tirando su con il naso.

Sospirò, asciugandomi le lacrime dal viso e baciandomi la fronte.

«Bella» mi chiamò dolcemente Alice, prendendomi una mano fra le sue. «Scusami. Era l’unico modo» sussurrò piano.

Solo in quel momento, avvampando, notai che una molteplicità di occhi indiscreti ci fissavano senza alcun riserbo. Tremai, premendo il capo contro la spalla di Edward. Mi prese le mani fra le sue, massaggiandole per riattivare la circolazione.

«Volete spostarvi nel mio ufficio?» chiese gentilmente la donna che mi aveva parlato quando ero in ascensore.

«No, grazie» rifiutò educatamente Alice, carezzandomi i capelli, «credo che adesso la cosa migliore sia tornare a casa».

La donna annuì, invitando la folla degli spettatori ad allontanarsi. Sì scusò, mortificata, per il problema causato, mettendoci a disposizione, qualora ne avessimo bisogno, qualunque cosa. «Prego, prenda un bicchiere d’acqua» disse, porgendomi quello che le avevano appena portato.

«Grazie» sussurrai, le labbra troppo secche perché potesse udirsi davvero.

«Sono contenta che sia arrivato lei» fece, rivolgendosi a Edward «non saremmo mai riusciti a convincerla, altrimenti».

Annuì, contro il mio petto, continuando a stringermi. Intrecciò la sua mano con la mia.

Fu in quel momento che gli occhi della donna si posarono sul mio anello di fidanzamento. Bastarono pochi attimi perché il suo sguardo si spostasse dal mio viso alla mia pancia, sorpreso. Come se avesse finalmente più chiaro il motivo del mio malessere. «È sicura che non vuole che le chiami un’ambulanza?» balbettò, osservando Alice.

Ma prima che la mia amica, molto educatamente, potesse declinare, brontolai stizzita: «Non sono incinta».

La donna arrossì, imbarazzata, mormorando un: «Certo».

Edward rise appena sulla mia spalla, aiutandomi a tirarmi su. Ma quando fui in piedi un capogiro più forte m’investì. Mi prese fra le braccia, sollevandomi e portandomi verso un altro ascensore indicato dalla donna, sicuramente più sicuro. Chiusi gli occhi, nascondendo il viso sulla sua spalla. Non volevo vedere.

«È andato via?» chiese a mezza voce Edward quando fummo soli in ascensore.

«Non so neppure se sia mai venuto. Ho visto un grosso buco nero, non sapevo cosa fare».

Fremetti, provando a riaprire gli occhi. Inutilmente. Edward rafforzò la presa sul mio corpo.

«Mi dispiace per lei. Ma non sapevo che fare. Avevo paura di non poterla proteggere da sola».

«Jacob» mormorai fra le labbra, tremando.

«Shh, Bella. Va tutto bene» mi assicurò Edward, stringendomi il capo con una mano sulla sua spalla.

 

«Ehi, ti sei svegliata» mormorò Edward, vedendomi aprire gli occhi.

Li stropicciai con una mano, tirandomi a sedere. «Mi fa male la testa» mi lamentai con una smorfia, portandomi una mano al capo.

La porta della camera di Edward si aprì, facendo passare Alice con un vassoio. C’era un bicchiere d’acqua e una compressa di paracetamolo.

«Grazie» mormorai, prendendola fra le dita e mandandola giù insieme a un sorso d’acqua. «Che ore sono?» chiesi, osservandomi attorno. Era buio.

«Circa le undici e mezza di sera» mi rispose gentilmente.

Mi allarmai. «Ma… mi padre?» chiesi agitata, osservandoli.

Edward posò entrambe le mani sulle mie spalle. «Tranquilla Bella, tranquilla. Alice l’ha chiamato e ha avvisato che dormirai qui, questa notte. È tutto apposto».

Sospirai, stanca. «Grazie. Stanno tutti bene?».

Annuì. «Fortunatamente era solo un falso allarme. Quel buco nero che ha avuto Alice nelle visioni potrebbe non voler dire nulla. Potrebbe essere dovuto agli altri licantropi o qualcosa che noi non conosciamo. Ad ogni modo nessuno si è fatto male. È questo l’importante».

Sospirai, posando ancora la testa sul cuscino.

«Hai fame? Vado a prenderti qualcosa da mangiare» si offrì, sollevandosi dal materasso.

«Sì, grazie».

«Torno subito» mormorò, chinandosi a baciarmi la fronte.

Alice prese il suo posto, sedendosi accanto a me. «Mi dispiace per il massaggio. Sarà per un’altra volta, promesso».

«Non ti preoccupare Alice. Grazie per tutto quello che fai per me. Ho avuto così tanta paura di perderti, oggi…» confessai con le lacrime agli occhi.

«Oh tesoro» sussurrò, abbracciandomi «non ho corso alcun rischio, davvero. Ho pensato che non sarebbe riuscito ad arrivare a te se ti avessi chiusa lì, con tutta quella gente intorno».

Mi tirai via, osservandola. «Spero che non ritorni mai più».

Mi sorrise, carezzandomi una guancia. «Sta tranquilla» mi rassicurò. Poi si chinò, con aria circospetta, a prendere qualcosa sotto il letto. Era una busta piccola e patinata. «Aprila» m’invitò.

Sorpresa, feci come diceva, scoprendoci dentro un meraviglioso completino coordinato, quasi impalpabile.

«Ti sarebbe piaciuto, l’ho visto».

«Oh, Alice!» esclamai emozionata, lanciandole le braccia al collo e facendola ridere.

   
 
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