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Autore: _armida    29/07/2016    2 recensioni
“Sono stupito, non credevo che un bel faccino riuscisse anche a maneggiare un’arma con tale bravura”, disse il Conte.
Elettra provò a tirarsi su, ma finì per andare ad urtare contro la lama della spada, ferendosi leggermente uno zigomo.
“Dovete stare attenta, non volete di certo rovinare tutta questa bellezza così”, aggiunse allontanando la spada dalla faccia della ragazza. Doveva dargliene atto, era davvero bella. Non lo aveva notato prima, quando Grunwald l’aveva portata all’accampamento priva di sensi, era troppo preso dal chiedere al garzone di Da Vinci dove si trovasse la chiave.
Fece cenno a due guardie svizzere di tenerla ferma, mentre lui la perquisiva in cerca di altre armi nascoste. Non ne trovò, ma la sua attenzione fu catturata da qualcosa che la ragazza teneva nella tasca sinistra dei pantaloni: si trattava del suo blocco da disegno. Quando fece per sfogliarlo, una moneta, contenuta al suo interno cadde a terra; non si trattava di una moneta comune, era in oro e presentava sulla sua superficie la faccia di un dio pagano. La raccolse e la osservò accuratamente.
“Cosa sapete riguardo ai Figli di Mitra?”
VERSIONE RIVEDUTA E CORRETTA SU WATTPAD
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Giuliano Medici, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Elettra'
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Capitolo XXIX: Villa Pazzi
 
Alcuni giorni più tardi...

Girolamo Riario camminava per i corridoi di Castel Sant’Angelo, gli occhi arrossati, bisognosi di riposo, e due profonde occhiaie a solcargli il volto, più pallido del solito.
Si fermò davanti ad uno dei numerosi specchi, osservandosi il viso stanco e quel brutto taglio sullo zigomo: nonostante le tempestive cure di Elettra, sarebbe senz’altro rimasta la cicatrice per un po’ di tempo.
Sospirò e riprese la camminata verso il proprio studio. Gli era stato riferito che Da Vinci si era barricato all’interno prima di riuscire miracolosamente a sfuggire e, quando le guardie svizzere erano infine riuscite a sfondare la porta, avevano trovato la cella del prigioniero aperta ma lui, a quanto pare, non si era mosso di un millimetro: suo zio aveva deciso di restare dietro a quelle sbarre, nonostante Da Vinci gli avesse chiaramente offerto una via di fuga.
Da Vinci...
Aveva detto a quel presuntuoso di un artista che gli avrebbe tolto quanto di più caro avesse al mondo ed era proprio quello che si apprestava a fare: Lucrezia Donati, la sua spia, che si era compromessa a causa dei sentimenti che provava per Da Vinci –e da lui ricambiati- a quell’ora sarebbe già dovuta essere cibo per i vermi e, presto, si sarebbe preso anche la sua preziosa città, la sua amata Firenze... Gliela avrebbe fatta pagare per quell’affronto, per essersi preso la seconda chiave per aprire la Volta Celeste. La sua chiave.
Osservò ciò che rimaneva della porta del proprio studio, poi fece alcuni passi nella cupa stanza aspettandosi di trovare disordine, con preziosi documenti e manoscritti sparsi sul pavimento o buttati alla rinfusa in qualche angolo, proprio come dopo il passaggio di un ladro, invece era tutto in ordine, nel modo in cui lo aveva lasciato l’ultima volta che vi aveva messo piede.
Tutto in ordine, perfettamente in ordine...fatta eccezione per un quadernino aperto e poggiato distrattamente sul divanetto; tra le due pagine, il sottile anello d’oro bianco con diamante, rilasciava timidi riflessi. 
Prese il gioiello tra le mani, tergiversando sul da farsi e passandoselo più volte da una mano e l’altra. Gli venne un’idea: si sfilò dal collo il proprio crocefisso d’argento, ne aprì la catenina ed inserì anch’esso all’interno, dopodichè la riallacciò e se la rimise al collo.
Osservò il blocco da disegni di Elettra, aperto su una pagina raffigurante un volto di una giovane dai lineamenti delicati, i lunghi capelli biondi e due grandi occhi chiari: appariva corrucciata, probabilmente per via della difficoltà che rappresentava un autoritratto, ma dalle sue iridi azzurre traspariva spensieratezza. Una spensieratezza che Girolamo non le vedeva da parecchio tempo, ormai.
Accarezzò lentamente la ruvida carta, lo sguardo malinconico e il pensiero rivolto a lei.
“È stata qui, sapete?”
La voce del prigioniero lo riportò alla realtà. Chiuse bruscamente il blocco da disegno, rimettendolo poi nel cassetto da cui era stato preso.
“Sua Santità richiede la mia presenza a Firenze”, disse, ignorando completamente l’affermazione dell’anziano. “Temo che non ci rivedremo per parecchio tempo”

***
 
Alcuni giorni dopo...

“Tu non partirai con noi alla volta della terra indicata dalla mappa dell’ebreo, vero?”
“No, Leonardo, io non posso partire”


“Elettra...mi stai ascoltando?”
La giovane sbattè più volte le palpebre, prima di concentrare tutta la propria attenzione su Lorenzo, seduto di fronte a lei, dal lato opposto della scrivania.
Era stata convocata a Palazzo non appena tornata a Firenze e aveva giusto avuto il tempo di appoggiare i propri bagagli e cambiarsi gli abiti, impolverati dal lungo viaggio.
Il suo sguardo passò dall’imponente figura del Magnifico ad un punto imprecisato della stanza. Chiuse per un istante gli occhi, cercando di riportare alla mente almeno l’argomento della conversazione in atto, ma fu tutto inutile. Le parole dette poche ore prima, le riecheggiavano ancora nelle orecchie, impedendole di pensare ad altro.

“Lo fai per quel coglione di Riario, non è vero?”
“No, Zoroastro, non lo faccio per lui”


“Il viaggio di ritorno da Pisa è stato così stancante?”, chiese Lorenzo, osservando la ragazza davanti a sè con fare indagatore.
“Un po’, in effetti”, rispose Elettra, piegando le labbra in un sorriso alquanto tirato. Era da quella notte, da quando Girolamo le aveva raccontato della triste fine toccata alla madre , che dormire era diventato difficoltoso; anche i rari momenti in cui finalmente il sonno sopraggiungeva era tormentati da incubi e nemmeno lo stare stretta tra le braccia di Leonardo riusciva a far allontanare i demoni. Un paio di vistose occhiaie sotto agli occhi e il colorito più pallido del solito ne erano la prova.
Gentile Becchi, in piedi alle spalle di Lorenzo sospirò preoccupato: se fosse stato per lui, sua nipote non sarebbe mai andata a Pisa a fare da balia a Da Vinci e ai suoi assistenti.
Elettra alzò lo sguardo, incontrando immediatamente quello dello zio, della stessa tonalità d’azzurro: chissà cosa passava per la testa del fidato consigliere della Signoria in quel momento; probabilmente si stava chiedendo cosa avessero combinato quei quattro durate quel breve soggiorno a Pisa. Alla ragazza non era mai pesato nascondere qualche piccolo particolare a quello zio troppo apprensivo, ma ora i segreti erano diventati troppi. E pericolosi.
Cercando di ignorare per l’ennesima volta i sensi di colpa, spostò nuovamente l’attenzione sul Magnifico.
“Abbiamo fatto alcuni progressi con le nuove armi testate a Pisa, ma il maestro Da Vinci non si sente ancora pienamente soddisfatto per divulgare le proprie scoperte”, mentì spudoratamente. Quella era la versione che aveva concordato insieme con Leonardo.
Le labbra di Lorenzo si piegarono in sorriso soddisfatto. “Fa sempre piacere come voi giovani vi impegnate per la salvaguardia e la sicurezza di Firenze”, disse, enigmatico. “Anche se confido che presto le armi non saranno più necessarie alla difesa di Firenze”, aggiunse.

“Lo faccio per Firenze. Ho preso degli impegni con la Signoria e con i Medici, non posso partire”

Elettra sbattè un altro paio di volte le palpebre, confusa. “Cosa...cosa significa che le armi non saranno più necessarie per la difesa di Firenze?”
Lorenzo si lasciò scappare una risata. “‘Tieniti stretti gli amici e ancora più stretti i nemici’, si dice così, no?”
La ragazza annuì, nonostante non fosse per nulla convinta di quello strano ragionamento. Le labbra arricciate e la fronte corrugata ne erano la prova. Si guardò in giro per l’ennesima volta, certa che in quella sala mancasse qualcosa...o qualcuno. “Dov’è Giuliano?”, chiese. Avrebbe dovuto partire per Siena poco dopo la sua partenza per Roma...e sarebbe dovuto essere già tornato con Lucrezia Donati.
L’espressione del Magnifico si fece nuovamente enigmatica. “Volevo proprio parlare di mio fratello”, disse, poggiando i gomiti sulla scrivania ed incrociando le mani sotto al mento. “È partito giusto ieri, ma non ho idea per dove”
Elettra invece lo sapeva, ma ovviamente non poteva rivelarlo a Lorenzo o a Becchi; la sua espressione rimase quella perplessa di poco prima, invitando così il Magnifico a proseguire con il proprio misterioso ragionamento.
“Inaugureremo una nuova era qui a Firenze, senza faide o dissapori con i nostri antichi nemici”. Ci furono alcuni istanti di silenzio, volti ad amplificare il significato delle sue successive parole. “Giuliano sposerà Camilla Pazzi. Unendo in matrimonio le nostre due famiglie riusciremo finalmente a porre fine a gran parte dei nostri problemi”
Lo sguardo della giovane passò in fretta dall’espressione soddisfatta di Lorenzo a quella invece più cupa di suo zio: quella scelta non doveva avergli fatto molto piacere. E probabilmente nemmeno a Giuliano...
“Vostro fratello come l’ha presa?”, chiese, cercando di mantenere un tono neutrale, che non facesse trasparire anche la sua, di preoccupazione.
“Ha convenuto con me che non c’era altro modo, sa che deve farlo”
Elettra annuì. “Certo che non posso lasciarvi soli nemmeno una settimana che qui ne succedono di tutti i colori”, disse, cercando di sdrammatizzare un po’ e piegando le labbra in ampio sorriso divertito.
Le parve per un istante di vedere Gentile Becchi sospirare di sollievo; anche se la giovane non ne comprese pienamente il motivo, probabilmente suo zio aveva creduto che avrebbe reagito male alla notizia.
Lorenzo si lasciò andare ad una breve risata, prima di ritornare serio, mantenendo però un’espressione ironica. “Sabato i Pazzi daranno un banchetto per festeggiare il fidanzamento nella loro tenuta di campagna. Vorrei che tu andassi a dare una mano per l’organizzazione”
“Certamente”, rispose prontamente lei, trattenendo a stento l’entusiasmo.
“Arriveranno dignitari da tutta la penisola, mi aspetto che trovino una festa all’altezza della loro importanza”
“E sarà proprio così”, gli fece eco la ragazza, alzandosi e dirigendosi verso la porta.
“Elettra?”, la richiamò il Magnifico, quando ormai era già sullo stipite.
“Sì?”, rispose lei, voltandosi di nuovo verso di lui.
“Fatti preparare immediatamente un cavallo, andrai subito dai Pazzi. Consegnerai a Francesco una mia lettera con le dovute spiegazioni e...se qualcosa non dovesse convincerti, non farti problemi a fare di testa tua”, aggiunse facendole l’occhiolino.
“Sarà fatto”, disse lei, prima di congedarsi ed uscire.
 
***
 
Poco dopo...

Elettra sistemò svogliatamente le ultime cose che le servivano nella propria sacca da viaggio, poggiata sulla scrivania. Sospirò, la mente concentrata altrove, ancora ferma a quella mattina. A ciò che aveva detto Leonardo, all’espressione delusa di Zoroastro.

Dalla collina su cui si trovavano potevano avere una visuale perfetta di Firenze: l’intera città si estendeva sulla pianura sottostante, circondata da basse colline, boschi e campi coltivati.
La cupola di Brunelleschi si stagliava imponente nel cielo, con la sua sua struttura massiccia e le classiche tegole rossicce; poco lontano, la torre di Palazzo della Signoria e, se si aguzzava ancora un po’ la vista, si poteva notare Ponte Vecchio, con i suoi incessante via vai di persone, che apparivano come tante piccole formiche operaie. Sotto di loro, l’Arno scorreva pigramente, attraversando l’intera città.
Leonardo smontò da cavallo, facendo alcuni passi avanti, verso il limite della vetta della collina. “Mi mancherà questo posto”, disse, osservando con aria malinconica Firenze, la sua Firenze: la città che lo aveva accolto e in cui era cresciuto. Ma anche la città che non aveva esitato a voltargli le spalle quando ne avrebbe avuto più bisogno. Si voltò, tornando ad osservare i propri compagni di viaggio. “E voi, mi mancherete anche voi, amici miei”, aggiunse. 
Sarebbe partito. 
Sarebbe andato in quella terra sconosciuta, dove il Libro delle Lamine era custodito. 
Ormai aveva tutto: aveva le due chiavi per aprire la Volta Celeste, aveva la mappa dell’Ebreo in cui era rappresentata quella terra sconosciuta e aveva la pelle dell’Abissino, con la legenda necessaria per interpretare la mappa.
Zoroastro gli sorrise come solo lui sapeva fare, con quel classico ghigno da presa per i fondelli di chi ha in mente qualcosa. “Ti abbiamo in seguito in tante bravate che non si contano, perché non aggiungere un’altra tacca?”, gli chiese ironico, scendendo da cavallo e mettendosi di fianco all’amico.
“Non potrei mai chiedervi di seguirmi attraverso l’oceano”, ribattè Leonardo, combattuto tra il bisogno di avere accanto i propri amici e la consapevolezza dei pericoli a cui sarebbero senz’altro andati incontro.
“Sì, ma noi vogliamo farlo, maestro”, disse Nico, smontando anche lui da cavallo e avvicinandosi agli altri due. “La Volta Celeste, il Libro delle Lamine, vogliamo scoprirli insieme a voi”
“Lui è un imbecille che si lesserebbe le palle nello sterco di vacca fumante se tu glielo chiedessi. E invece io ho accumulato debiti di gioco che renderanno problematica la mia permanenza a Firenze”, aggiunse Zoroastro, mantenendo tutta la propria ironia. “Dunque dove si va? Ci serve una nave se non sbaglio”
La notizia che due delle persone a lui più care sarebbero state al suo fianco in quell’avventura parve alleggerire le preoccupazioni di Leonardo che, tuttavia, si voltò verso la quarta componente del gruppo, rimasta in disparte. Osservò Elettra in volto, i suoi lineamenti tesi e gli occhi tristi.
“Tu non partirai con noi alla volta della terra indicata dalla mappa dell’ebreo, vero?”, chiese, nonostante conoscesse già la risposta.
“No, Leonardo, io non posso partire”, rispose lei, abbassando subito dopo lo sguardo, incapace di sostenere quello dei suoi compagni di viaggio.
“Lo fai per quel coglione di Riario, non è vero?”. La voce del moro appariva irritata e i lineamenti del suo volto erano insolitamente duri.
“No, Zoroastro, non lo faccio per lui”, disse Elettra.
Da quella notte, da quella lunga notte di alcuni giorni prima, era calato il gelo tra loro due; le poche volte che lo aveva sorpreso ad osservarla nei suoi occhi aveva visto soltanto delusione. Anche Nico appariva imbarazzato in sua compagnia, rivolgendole la parola solo quando strettamente necessario. L’unico che fingeva che niente fosse successo era Leonardo.
“Lo faccio per Firenze. Ho preso degli impegni con la Signoria e con i Medici, non posso partire”, aggiunse. Era la verità. O almeno a lei piaceva credere che fosse così.
Il moro scosse la testa, tornando a darle le spalle, fingendo di essere particolarmente interessato ad un punto indefinito di Firenze.
“Vorrei poter fare qualcosa in più per voi ma l’unica nave in grado di solcare l’oceano è l’Ammiraglia, al momento ancora in mare”. Elettra sospirò, la mente rivolta al pensiero di quell’imponente galeone e al suo capitano, quel padre che non rivedeva da ben due anni. Che cosa avrebbe trovato al suo ritorno? Una figlia completamente cambiata, dal volto pallido, le occhiaie marcate e l’aria malinconica. Mancavano ormai poche settimane al suo ritorno, ma sapeva anche che ci sarebbe anche voluto qualche mese perchè la nave fosse nuovamente pronta a ripartire. Tempo che di certo Leonardo non voleva attendere. 
“Va bene così, Elettra”, disse lui, piegando le labbra in un sorriso di incoraggiamento. “I portoghesi hanno rotte commerciali per l’Africa occidentale, da lì salpiamo per le Canarie e poi improvvisiamo”, aggiunse, mostrando sicurezza nelle proprie parole. 
Subito dopo il suo volto parve farsi pensieroso. “Prima però ho dei conti in sospeso con la famiglia de Medici”
Era chiaro che quel ‘conto in sospeso’ portava il nome di una donna: Leonardo voleva mettere in guardia Lorenzo da Lucrezia Donati. Un ultimo aiuto alla città prima di lasciarla per molto tempo. 
“Perché pensi ancora ai Medici? Cancella Firenze del tutto”, ribattè Zoroastro, con tono ovvio.
“C’è una situazione che devo chiarire con Lorenzo, devo parlargliene di persona”, gli spiegò Leonardo; il suo sguardo prese a vagare da un parte all’altra della collina, incapace di fermarsi per più di un istante sullo stesso soggetto. La mente persa nei propri pensieri. Poi parve riscuotersi, tornando a prestare attenzione ai propri compagni d’avventura. “Ci vediamo al cane abbaiante stasera?”, chiese.
“Perché no?”, disse Zo, retorico. “Qualche birra e un’ultima incursione in una passera fiorentina, così vediamo se le palle di Nico sono lesse o no”, aggiunse, con la propria immancabile ironia.
Elettra, rimasta in disparte, li osservò con aria malinconica: le sarebbero mancati molto, tutti e tre. Le sarebbero mancate le loro avventure e quei momenti di leggerezza, passati tra le battute di Zoroastro, l’aria perplessa di Nico e le bizzarre idee di Leonardo. Momenti che erano sempre in grado di strapparle un sorriso. 
Così presa dai propri pensieri, nemmeno si accorse che tutti e tre si erano voltati verso di lei e la osservavano in attesa di una risposta.
“Verrai anche tu?”, le chiese il moro, lasciandola parecchio stupita.
Lo sguardo della giovane passò da lui a Leonardo, che le sorrise, come segno di incoraggiamento.
Annuì, non potendo fare a meno di sorridere a quel piccolo passo in avanti. “Certo che verrò”


La porta dello studio si aprì, senza che nessuno avesse precedentemente bussato, e Gentile Becchi sgusciò in fretta all’interno, i movimenti tipici di chi voleva passare il più possibile inosservato.
“Elettra?”, chiamò la nipote, in piedi, di spalle, poggiata con entrambe le mani alla scrivania.
La giovane parve non sentirlo in un primo tempo, poi lentamente rilassò la propria postura ed infine si voltò verso di lui.
“Tutto bene?”, le chiese, apprensivo solo come un padre avrebbe saputo fare; spesso si dimenticava di non esserlo.
Elettra annuì, cercando di mostrarsi il più convincente possibile e piegando le labbra in un sorriso, che però apparve innaturale. 
Sapeva che lei mentiva, da troppo tempo.
“C’è qualcosa che posso fare per te?”, domandò nuovamente.
“Grazie, ma qui ho finito”, rispose lei.
Sapevano entrambi che non era ciò che intendeva.
“Come l’hai presa?”
“Che cosa?”, chiese la ragazza, perplessa. Forse era la prima volta da quando era entrato che lei gli prestava completamente la propria attenzione.
“Il matrimonio di Giuliano”
Il suo volto si fece teso. “Sai che i matrimoni combinati non mi piacciono, ma so anche che, come per Lorenzo, anche per Giuliano il bene di Firenze viene prima”
Gentile Becchi sorrise, un sorriso dolce amaro: la felicità di una singola persona, contro quella di un’intera città.
“Ai livelli del signore di una città o...di un nobile l’amore passa in secondo piano”, aggiunse Elettra.
L’anziano consigliere annuì. “Già”, commentò serio, prima che un pensiero, a detta sua divertente, gli sfiorasse la mente, portandolo ad incurvare le labbra all’insù. “Peccato che la servitù non sia in grado di elaborare un simile pensiero: appena saputo dell’imminente matrimonio, alcuni servi hanno pensato di presentare a Lorenzo una protesta formale”
La giovane lo osservò perplessa. “E perchè mai?”, chiese, piegando la testa da un lato in un’espressione quasi infantile.
“Erano tutti certi che ci saresti stata tu al fianco di Giuliano, non Camilla Pazzi”
“Oh...”, le scappò, sorpresa.
Zio e nipote si osservarono negli occhi per alcuni istanti, prima di scoppiare entrambi a ridere.
“Sarebbe...”, provò a dire Elettra tra e risate. “Sarebbe stato come sposare mio fratello”
“Proprio quello che ho provato a spiegare loro”, disse Becchi.
“Sarebbe stato parecchio imbarazzante”, aggiunge lei ridendo.
L’uomo si fermò un attimo, osservandola con il sorriso sulle labbra, assaporando quella risata cristallina che tanto gli era mancata.
La ragazza parve accorgersene e anche le sue labbra si piegarono in un sorriso. “Grazie”, disse semplicemente. A modo suo, era riuscito a tirarle un poco sù il morale.
“Grazie per esserci sempre”, aggiunse, dando un buffetto sulla guancia allo zio. Dopodichè prese la propria sacca da viaggio ed uscì. 
 
***
 
Un’ora più tardi...

La villa di campagna della famiglia Pazzi era graziosa, almeno ad osservarla da lontano; peccato che più ci si avvicinava, più essa appariva trascurata.
Elettra consegnò il proprio cavallo ad uno stalliere e si guardò in giro: il cancello d’ingresso era imponente, in ferro battuto, con dei motivo floreali e sarebbe stato molto ad effetto per gli invitati...se non fosse stato in parte ricoperto da edera. I giardinieri dovevano avere un serio problema con quella pianta: anche la recinzione ne era ricoperta, così come alcuni alberi limitrofi e una parte della facciata della grande abitazione; quel rampicante era completamente fuori controllo!
Si appuntò mentalmente di dover far chiamare alcuni dei giardinieri di Palazzo.
Ci sarebbe stato parecchio lavoro da fare, forse troppo; la festa si sarebbe tenuta quel sabato, appena sei gironi più tardi: quel banchetto si sarebbe rivelato una bella sfida.
“Da questa parte”, le disse un uomo di mezza età che, a giudicare dagli abiti, doveva essere un po’ più alto di livello rispetto ad un semplice servo, probabilmente era il custode della villa.
Gli consegnò la lettera di Lorenzo, chiedendogli gentilmente di consegnarla a Francesco Pazzi il prima possibile.
Venne scortata fino ad un lungo corridoio, terminante con una grande porta in legno scuro, riccamente intagliata. Il suo accompagnatore le fece un inchino di congedo, prima di bussare e scomparire oltre la soglia; Elettra pensò che fosse andato ad avvisare i Pazzi del suo arrivo, ma la sua attenzione era ormai attirata da altro e non ci fece troppo caso.
Più che un corridoio, esso appariva come una galleria di ritratti di famiglia, fin dalle sue origini; i dipinti si trovavano a livello dello spettatore mentre, un paio di metri sopra ad essi, vi era una fila ordinata di trofei di caccia, immancabili in una villa di campagna.
Elettra osservò il ritratto di Francesco Pazzi, poi alzò lo sguardo verso l’alto, non potendo fare a meno di ridere quando vide che il ‘trofeo’ corrispondente era la testa di un cervo, con un ampio palco di corna.
‘Quei due possono fare a gara a chi ce l’ha più grande’, pensò, coprendosi una mano con la bocca.
 
***
 
Nel frattempo...

“Qualcuno potrebbe definirci cospiratori, ma non è così”, disse Francesco Pazzi, seduto capotavola nell’ampia sala adibita agli incontri ufficiali. Di fronte a lui, l’imponente portone ligneo era sorvegliato da un paio di guardie della notte del Capitano Dragonetti, anch’esso presente. “Noi siamo i salvatori della nostra città, noi siamo i salvatori di Firenze”, continuò Pazzi, alzandosi in piedi e tendendo verso l’alto il bicchiere per l’ennesimo brindisi.
Il Conte Riario, seduto alla sua destra, sollevò leggermente il proprio calice con aria annoiata: non riusciva a comprendere lo scopo di quella riunione, non con Francesco che da più di mezz’ora sproloquiava riguardo all’inutilità dei Medici, su come avessero portato alla rovina Firenze e di come si sarebbero invece comportati i Pazzi: a suo parere la città sarebbe rinata a nuova vita. La verità? Senza i finanziamenti e l’intervento di Roma i Pazzi sarebbero stati ancora a rodersi il fegato ed accampare inutili diritti per l’accensione di una colombina. Derisi e messi all’angolo dal resto della nobiltà. Francesco non sapeva nemmeno tenere a bada la propria servitù, figuriamoci se c'è l’avrebbe fatta a mantenere saldamente il controllo su un città grande quanto Firenze.
Riario bevve appena un sorso di vino rosso dal proprio calice, prima di poggiarlo sulla liscia superficie di legno scuro. Si portò entrambe le mani alle tempie , massaggiandosele lentamente: una volta eliminati i Medici sarebbe spettato a lui e ai suoi uomini tutto il lavoro duro.
“Lorenzo è un traditore debole e fallito, che si fa scudo di privilegi politici”, riprese Francesco.
Girolamo voltò la testa nella sua direzione, fulminandolo con lo sguardo ma l’uomo, talmente preso dalle proprie parole, nemmeno se ne accorse. 
“Come può Firenze essere una potenza se l’Europa sa che la repubblica è in simili mani?”
Il Conte tornò a guardare il proprio bicchiere e prese un lungo respiro: per il bene di tutti i presenti, era meglio passare a qualcosa di più pratico.
“Il nome dei Pazzi dà legittimità e sicurezza ai soci in affari e...”
“Francesco, cosa ne dite se passassimo a questioni più pratiche?”, lo interruppe.
L’uomo parve bloccarsi un istante, per nulla soddisfatto di quella interruzione. “Come desiderate, Conte”, disse alla fine, piegando le labbra in sorriso falso, di pura cortesia.
“Forse è il caso di fare nuovamente il punto della situazione”, continuò Riario.
Pazzi annuì, prima di riprendere nuovamente la parola. “Stermineremo i Medici durante il banchetto: lasceremo che si divertano, che bevano e scherzino poi, quando avranno abbassato completamente la guardia, colpiremo”
“Non sarebbe meglio attaccare Lorenzo durante il viaggio ?”, chiese Bernardo Baroncelli, membro di spicco di un influente famiglia di mercanti fiorentini.
“Dobbiamo colpire i fratelli quando sono insieme”, rispose il Conte, togliendo le parole di bocca Francesco. “Lorenzo e Giuliano hanno eguale influenza, seppur di diversa natura, sulla lealtà del popolo. Se non venissero uccisi entrambi, il sopravvissuto reclamerebbe il potere. Eliminandoli insieme invece mutileremmo la loro stirpe...”
“Permettendo così alla mia famiglia di avere finalmente tutto il potere che le spetta di diritto”, terminò il Pazzi, velocemente, per paura che il Conte potesse rovinargli anche quel piccolo momento di gloria interrompendolo.
“E che ne sarà dei sostenitori dei Medici?”, chiese Lorenzo Giustini, politico molto vicino al Papa.
Girolamo sospirò, preferendo lasciare la spinosa risposta a Pazzi.
“Chi si opporrà a noi morirà, è semplice. Gli altri potrebbero essere imprigionati o mandati in esilio”, rispose, dando in fine mostra di un sorriso malvagio, che non prometteva nulla di buono.
Il Capitano Dragonetti si alzò in piedi, chiedendo il permesso di prendere la parola. “Io credo, vostra grazia, che alcuni collaboratori di Lorenzo potrebbero avere la loro utilità, almeno in una prima fase di transizione”
Francesco, seduto comodamente sulla propria poltrona, proruppe in una fragorosa risata, indispettendo non poco il proprio interlocutore. “Sono curioso, Capitano”, disse dopo alcuni secondi, ironico.
“Quattrone, capo delle milizie fiorentine, Piero Da Vinci e Gentile Becchi potrebbero darvi importanti consigli durante la transizione, dando una parvenza di continuità alla popolazione fiorentina fortemente disorientata dalla perdita dei propri signori”
“Non collaboreranno mai”, replicò Pazzi, con fermezza.
“Becchi sì”, ribattè il Conte, esternamente certo delle proprie parole: per settimane si era arrovellato sul trovare un modo per mettere in salvo Elettra dalla furia dei congiurati, non riuscendo però a formulare un piano che riuscisse a soddisfarlo completamente. E ora Dragonetti gliene aveva servito uno su di un piatto d’argento. “La nipote potrebbe essere mia ospite a Forlì. Temendo per la sua sorte, Becchi offrirà tutta la propria collaborazione”
“Lei”, disse Francesco, alzandosi dalla propria seduta e puntando un dito in direzione del Conte. “La ragazzina impertinente può avere senz’altro la propria utilità”. Non potè fare a meno di trattenersi dal ridere, prima di continuare. “Potrebbe intrattenere le truppe del Duca Federico, intrattenere è il suo lavoro. Poco importa che sia un intero esercito di affamati mercenari”
Anche il Cardinale Orsini, al suo fianco, scoppiò a ridere.
Girolamo prese un lungo respiro, le mani strette a pugno.
“Che c’è, Conte Riario? Voi non credete di esservi già divertito abbastanza con quella ragazzina?”, inveì ancora il Pazzi.
Riario stava per ribattere, ma fu interrotto dall’arrivo di uno dei servitori: appariva pallido in volto e portava tra le mani una lettera con lo stemma Mediceo. L’uomo consegnò la lettera a Francesco e il Conte approfittò di quella temporanea distrazione per alzarsi; fece un cenno di congedo e si diresse verso la porta.
Le ultime parole che udì prima di uscire fu il Pazzi sbraitare in tono isterico: a quando pare la lettera non era portatrice di buone notizie.      

Appena varcato il pesante portale ligneo l’aria si fece incredibilmente più leggera e Girolamo potè finalmente rilassarsi un po’. Prese un lungo respiro, prima di guardarsi intorno curioso: la galleria con i trofei di caccia era uno dei pochi luoghi della villa di campagna della famiglia Pazzi che lo aveva piacevolmente colpito.
C’era una persona, una donna, nella galleria: i lunghi capelli biondi erano raccolti in una coda alta, i suoi pantaloni, di colore scuro, erano strappati su un ginocchio e sopra indossava solamente una semplice casacca bianca.
Il Conte si bloccò ad osservarla; una parte di sè non poteva fare altro che restare ammaliato dalla sua figura ma l’altra, la parte più razionale del suo essere, gli ricordò dolorosamente che nella stanza accanto si stava discutendo sul modo migliore per uccidere la famiglia a cui lei aveva giurato fedeltà. 
Elettra era in pericolo. 
E quello era proprio l’ultimo luogo in cui si sarebbe dovuta trovare.
Fece un paio di passi nella sua direzione silenziosamente; il pregiato tappeto persiano attutiva ogni rumore provocato dai pensanti stivali in pelle.
La giovane si trovava davanti al ritratto di Francesco Pazzi e doveva trovarlo davvero divertente, visto che si stava coprendo la bocca con una mano per evitare di ridere. 
“Elettra”, la chiamò con il suo solito tono di voce: basso e lento. Tuttavia, ad un orecchio più attento, si sarebbe potuto trovare una vena di timore in quella voce.
Osservò le spalle della giovane farsi più rigide, la sua postura in generale più tesa.
Elettra portò le mani ai lati del proprio corpo e prese un lungo respiro, incapace di capire se la voce che aveva sentito chiamarla alle spalle era reale o solo un crudele scherzo della propria mente, causata dalla stanchezza e dalle troppe ore di sonno in arretrato. Si voltò lentamente, quasi temesse che una volta girata, l’uomo che aveva pronunciato il suo nome si rivelasse solo un illusione.
Passarono alcuni secondi, eppure lui restava sempre davanti a lei, reale più che mai, con lo sguardo fisso nei suoi occhi colore del mare. 
“Girolamo”, disse alla fine, in quello che era poco più di un sussurro. 
Le sue labbra vermiglie si piegarono in sorriso dolce, rassicurante, in cui lui avrebbe tanto desiderato perdersi per l’ennesima volta, ma c’era qualcosa che non lo convinceva appieno: quando lei si era voltata lo aveva visto, aveva visto quel lampo di paura passare nel suo sguardo e no, non lo poteva di certo ignorare. Prese un lungo respiro, prima di decidersi a dire qualche parola. “Dovremmo parlare, mia diletta”
Eletta distolse momentaneamente lo sguardo, concentrandosi su un punto indefinito del pavimento. “Sì, dovremmo”


Nda
Ed eccomi di nuovo qui dopo lungo tempo con un capitolo di transizione. Voglio scusarmi in anticipo per il ritardo (di nuovo); contavo di riuscire a finire questa parte decisamente prima, ma queste ultime settimane per me sono state molto particolari...Spero per i prossimi di essere un po' più puntuale.
Bene, siamo ai capitoli finali ormai: ne mancheranno tre più l'epilogo, prima di passare al seguito. Sì, ci sarà un seguito (di cui ho già scritto un capitolo ahahah)
Fatta questa piccola comunicazione di servizio, alla prossima 
   
 
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