Neonato
Medea ha ucciso mia madre.
Questa frase suona sciocca, mi è stato già spiegato come
è andata veramente, tuttavia non riesco a credere a qualcosa di diverso da
questo: Medea ha ucciso mia madre.
L’ha uccisa mentre l’aria cambiava colore e diventava
inchiostro, mentre le forme si piegavano, il soffitto si abbassava, fino a
trasformare il mondo in un cilindro che come uno scivolo ti risucchia a
velocità terrificante verso qualcosa.
Occhi rossi.
Ora basta. Non devo pensare. Il poliziotto, il poliziotto
mi aveva detto tutto quanto: Sodatu
Saji, ex agente di polizia e membro di una setta che adorava Kira, era il nome
dell’uomo che aveva sparato a mia madre. Quando mi fu riferito compresi: mio
fratello e mio padre erano morti pur di fermare Kira e c’erano riusciti. Sodatu
probabilmente lo sapeva, anzi forse era stato un subordinato di mio padre, a
suo tempo, poi, se come mi avevano detto era diventato un fedele fanatico, aveva
voluto vendicarsi con i deicidi: gli Yagami. Mia madre.
BAM!
Basta! Scossi la testa annegando i ricordi e le immagini
nei miei residui di razionalità.
Il quinto sparo, invece, dalla pistola di Matsuda. Poi
Sodatu. Morto.
Dalla scomparsa di Light, Matsuda era diventato così
appiccicoso e odiosamente disponibile, da sembrare una guardia del corpo, ma
per una volta era servito a qualcosa. Io ero viva.
Viva.
Nonostante tutto.
A questo pensiero qualcosa saltò nel mio petto, rilucendo
per un attimo. Ero forse … fiera della mia forza? Altezzosa nella mia
disgrazia? Perché poi alla morte di mia madre ero tornata Sayu: Sayu che
cammina, Sayu che parla al poliziotto paziente e calvo che le porta il
bicchiere di carta bollente col caffè, il caffè che Sayu non beve, perché le fa
schifo. Io, l’ultima Yagami dopo quella specie di paralisi mi ero risvegliata
solo dopo un nuovo trauma.
I traumi scandiscono sempre, pensai, nascita e morte.
E io con i piedi finalmente sul pavimento a reggere il
mio peso ero sulla terra nuovamente neonata.
Il pomeriggio rendeva la mia stanza azzurra, opaca, bigia.
Le mie cose disposte in perfetto ordine da mia madre, i vecchi libri di scuola,
i peluche di quando ero bambina vicini al cuscino a quadri un vecchio poster
piegato in sei nel cassetto e bianco e consumato lungo le pieghe. Finalmente mi
decisi a muovermi: riposi le due gomme e le carte di caramella rosse nel
cassetto da cui le avevo tirate fuori, uscii dalla stanza ed entrai in bagno,
si stava facendo buio. L’azzurro diventava grigiastro, accesi la luce,
appoggiai le mani sul lavandino il mio peso lo fece scricchiolare un po’.
BAM!BAM! BAM!
No, maledizione, non così!
Fissai la mia immagine nello specchio. Ero pallida salvo
per qualche segno arrossato: brufoli. Colpa dei medicinali, pensai disgustata.
Da oggi mai più niente di simile, anche tra i seni ero infestata di bollicine
arrossate e i capelli, poi. Troppo lunghi, spettinati, la riga in disordine, le
labbra screpolate.
Non fa niente, mi dissi, sono una neonata, si ricomincia
daccapo.
Ma non ancora. Devo aspettare, devo aspettare almeno
finché la mamma non sarà sepolta, prima di occuparmi di me.
Devo fare almeno questo, lei ha sacrificato se stessa
mille volte. La mia mano sbatte con più violenza di quanto volessi contro l’interruttore,
la luce si spegne.
La mamma aveva già scelto la maggior parte delle cose per
la sua tomba, previdente com’era se ne era occupata appena superati i cinquanta:
il loculo sotto quello di papà, la cornice ovale per la foto, il vaso per i
fiori e la lanterna, io invece dovevo sceglierle una frase.
“Amatissima moglie e madre, i tuoi cari ti ricordano con
affetto” una banalità, quali cari poi? Ero rimasta solamente io. Qui ci sarebbe
voluto Light. Era lui quello bravo. Lui avrebbe trovato le parole giuste.
Invece Light era macinato lentamente dai vermi. Non seppi
perché mi venne in mente una cosa del genere, ma appena quel pensiero prese
colore vomitai sulle piastrelle del bagno, reggendomi con la mano allo stipite
della porta.
“Che schifo” imprecai mentre la torsione dello stomaco si
allentava e il collo ghiacciato tornava a intiepidirsi.
Io sono viva! Io sono viva! Io sono …
***
Vivo.
Era l’aggettivo esatto? Forse. A suo modo.
Il mondo degli Shinigami aveva una sola dimensione:
sabbia. Sabbia per terra, sabbia era il cielo, sabbia era il vento, sabbia
erano quegli Dei. Sabbia e teschi. Io ne avevo posseduto uno a uso di maschera,
ma si era frantumato nel passaggio. Troppo brusco troppo affrettato: l’avevo
tolto dal volto e avevo lasciato che si sbriciolasse da solo tra le dita. Per
una volta, devo ammetterlo, sono stato eccessivamente emotivo. Eppure mi sto
dimostrando recidivo: ho desiderato fin troppo ritrovare questo mondo dopo lungo
tempo di apatia sensoriale. Non sapevo se fosse peggio quello degli Shinigami o ciò che c’era stato prima.
In quel prima c’era stato il buio. Il vuoto.
Dopo la morte non c’è nulla
Semplicemente l’assenza totale di coscienza. Un fischio
perpetuo senza pensiero.
Fiiiiiiiiiiiiiiiii
Neanche la possibilità di soffrirne, nessuna
consapevolezza:
Fiiiiiiiiiiiiiiiii
Poi fui richiamato, e il buio si trasformò in grigio e in
sabbia e all’essere patetico che ero furono resi i ricordi, la capacità di
desiderare e insieme a questa la consapevolezza d’incompletezza.
Perché io
Ero stato
Umano
E quel posto era decomposizione.
L’essere che incontrai subito dopo, colui che mi aveva
richiamato mi spiegò tutto e impose le condizioni,
le maledette condizioni che mi avevano insospettito da subito, ma questo non è
importante, non adesso.
“Torna nel mondo degli umani, segui colui che ha con se
il quaderno che hai lasciato” aveva ordinato e io avevo obbedito con gioia
furiosa ignorando le risate roche alle mie spalle. Non avevo più pietà per gli
uomini. Coloro che avevano tradito il mio sacrificio. Li avrei uccisi senza
distinzioni di sorta, naturalmente.
Non adesso.
Inspirai.
Fumo di sigarette e pioggia.
L’olfatto. Mi sembrava un’eternità che non sentivo un
odore. In questo caso non era un odore che in vita mi era stato caro, ma in
quel momento era la mia nascita.
L’odore dolciastro e ferroso entrò nelle narici risalì in
naso e invase la gola riempiendo il petto rilassando i muscoli, affievolendosi
vicino alle spalle, provocando una strana tensione sul collo e tra le
clavicole. Una tensione estatica e nauseabonda.
In quel momento il cielo degli umani non sembrava tanto
diverso da quello di uno Shinigami: polveroso, arrugginito. L’unica differenza
era la pioggia. Nel parco dove mi trovavo l’erba a tratti appiattita, come
schiacciata, diveniva il letto di qualche pozzanghera, piante dai gambi più
solidi si ergevano tempestandosi di gocce, o, spezzate, profumavano appena di
linfa le gocce di pioggia, luccicando come smeraldi. Smetterò presto di
occuparmi di queste sciocchezze, ma almeno a questa nascita riserverò la dovuta
attenzione. Solo adesso, solo per poco ancora.
Le narici si colmano di odore, gli occhi di colore. Il
tatto, penso, come illuminato. Voglio sentire sulla pelle.
Resi il mio corpo materiale come se stessi impartendo un
ordine alle mie cellule che man mano sento comporsi a catena.
Prima solo formicolio, poi…
PIOGGIA!
Il freddo improvviso come un attacco cardiaco, il
bagnato, il gelo, i rivoli, il modo in cui i capelli si attaccano tra di loro e
poi alla cute, alla nuca, alla fronte, sugli occhi, non fa niente se fa male.
Piacere, estasi.
“Aaah” non vorrei lasciarmi andare! Cazzo!
Al diavolo: l’orgoglio non mi serve a niente.
Gli occhi sono sgranati, la pioggia s’insinua sotto i
vestiti e sulla pelle ristagna e si riscalda a poco a poco, mentre nuova acqua
fredda mi colpisce impietosa, terribile, splendida. È persino sotto le palpebre,
nel naso, tra le labbra. Fa male. Non fa niente.
Il respiro è affannato l’aria è troppo fredda e raschia
dentro il petto.
Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii
Il corpo si irrigidisce e ritorno in me.
Tutto questo non si verificherà più, mi riprometto. Sono
qui per altro adesso. Senza accorgermene sono anche caduto in ginocchio e il
fango ha impiastricciato la giubba verde e i pantaloni.
Mi alzai in piedi, poi senza muovere la testa volsi lo
sguardo alla mia sinistra. C’erano due umani: due quindicenni, erano loro che
fumavano, prima. Guardavano verso di me terrorizzati, così capii: a causa della
pioggia che mi toccava loro vedevano la mia sagoma. Lentamente presi il
quaderno, scarabocchiai poche righe e abbandonai quel posto e due ragazzi
morti: l’una per attacco cardiaco, l’altro per suicidio. Fidanzato si suicida
perché la sua ragazza è morta davanti ai suoi occhi, questa combinazione non
aveva modo di insospettire nessuno e poi io non dovevo farmi scoprire. Era tra
le condizioni.
Resi il mio corpo evanescente e camminai. Nel confine tra
parco e marciapiede c’erano lattine e bottigliette, le ignorai. Il travaglio
era concluso. Ora dovevo solo riprendermi il vecchio quaderno, il quaderno che alla fine ero riuscito a
salvare. Così mi era stato detto di fare, queste erano le regole del gioco. E
io, ancora, facevo da pedina. Ad ogni modo dubitavo che un umano se ne fosse
appropriato, dato il luogo in cui l’avevo nascosto; tuttavia se la mia previsione
fosse stata giusta avrei ugualmente trovato il modo di affidarlo a qualcuno.
Questo mondo doveva ancora ingoiare la mia vendetta e questo mondo io
continuavo a desiderarlo.
***
Via il portapenne, tutti i cassetti, i libri, i pupazzi,
la sveglia, le cornici alcune vuote altre con foto di amiche, foto di classe,
di mio padre, tutto via, tutto per terra. Tutto perché avrei buttato gran parte
di quelle schifezze, per fare spazio, spazio alla nuova Sayu, spazio per me.
Alzai gli occhi. Lo scaffale più alto era ancora pieno mi
arrampicai usando le mensole basse come se fossero scalini, sentendole piegarsi
un poco sotto i piedi, passai una mano sopra di me facendo cadere tutti gli
oggetti lì in alto per terra, scesi ignorando l’asse di legno sformata dal mio
piede. Presi una busta della spesa dallo stipetto sopra il piano cottura in
cucina e cominciai a buttarci le cose che non mi servivano.
Via le foto, via le penne senza inchiostro, via questi
libri che non leggerò mai, chi se ne frega se sono tutti regali di Light, lo
sapeva, cavolo, che non leggevo libri! Poi mi fermai: a terra c’era un pacco
marrone e con un foglio di carta attaccato con lo scotch. Lo presi, e lessi:
era di Light. Dietro con la penna blu c’era una data, anche se non mi sembrava
affatto il modo di scrivere di mio fratello: lui era fin troppo preciso, quando
scriveva sembrava una stampante, quei numeri invece erano sgangherati. La data
risaliva al periodo vicino alla sua morte e io avevo subito una ricaduta e
avevo cominciato a mangiare meno, tanto che ero stata in ospedale per breve
tempo. Mi chiesi perché mia madre dopo aver riposto il pacco tra le mie cose
non mi avesse detto nulla.
Pressai le unghie e strappai la carta, dalla forma
sembrava … come volevasi dimostrare: un libro.
“Prometeo, il genio e il sacrificio”
Che roba era? Un saggio? Al diavolo! Lanciai il libro per
terra indecisa se buttarlo o no, ma quando cadde notai sporgere un angolo scuro dal
fondo del volume. Mi chinai per osservare e sfilai l’angolino nero.
Strano, questo è un …
***
Lo capii, lo capii immediatamente. Lo avvertii come una fitta gelida. Qualcuno
aveva trovato il quaderno.
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Volevo ringraziare chi ha recensito. Lo farei volentieri
più accuratamente ma temo che il mio cervello funzioni molto male al momento
dato che sono le 4.10 di notte (o mattina?) semplicemente: grazie di cuore per
i complimenti e –mi spiace deludervi- sono un ragazzo. Lieto di scrivere per
voi.