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Autore: Cara Jaime    09/08/2016    0 recensioni
Helen è nata in Minnesota e cresciuta in un ranch. A quindici anni si infortuna durante una lezione di educazione fisica. Questo le causa la perdita di una borsa di studio in atletica per l'università. Dopo essersi diplomata alla Fisher High School trova un lavoro come cameriera in un pub, per sostenere i costi di un corso di fotografia. Diventa però la sua ossessione quando riesce a fotografare del tutto casualmente uno strano fenomeno: una figura traslucida sullo sfondo di un'autostrada. Mandando la foto via Internet a diversi esperti e forum, scopre di aver fotografato un fantasma. Elettrizzata dalla scoperta, comincia da quel momento a cercare di replicare l'esperimento. Inizia a viaggiare negli Stati Uniti con il car sharing. Comincia a tenere un diario, dapprima privato, che decide poi di pubblicare in un blog personale, intitolato La Cacciatrice di Spiriti. Lì pubblica anche le sue fotografie. Un giorno viene contattata dal redattore di una rivista che tratta argomenti sovrannaturali, il quale le chiede di cacciare e scrivere articoli per loro. Con il supporto economico di questo nuovo impiego diventa così possibile alla nostra cacciatrice di fantasmi portare avanti la sua attività del tutto indisturbata.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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https://www.youtube.com/watch?v=HJowp6Nvhl8

Dopo un mese dalla mia ultima avventura in Kentucky, penso ancora spesso a ciò che mi sono lasciata alle spalle. Non tanto la pessima esperienza con il fantasma del luogo; mi ci è voluto un po' per smaltire lo shock, ma alla fine mi sono liberata della spiacevole sensazione di disagio che mi ha tormentato per un paio di settimane. Ogni qualvolta spegnevo la luce percepivo la sua spettrale presenza alle mie spalle. Ho dormito male per diverse notti, crollando esausta solo quando il mio fisico non ce la faceva più. Pian piano la situazione è migliorata e i ricordi sono sbiaditi. Ancora oggi mi porto addosso un senso di fastidio, ma il peggio è passato. Quello che non riesco a togliermi dalla testa è la mia breve storia con Dalton. Spesso mi ritrovo a sospirare ripercorrendo il viale della memoria. Non posso dire di provare nostalgia. In realtà pensare a ciò che ho fatto con lui mi fa sorridere languidamente.

Comunque, stamani in ufficio ho trovato la mail di un certo Elias Donaldson. Proviene da Glamis, in Scozia. Il curatore del Glamis Castle mi ha scritto a causa di alcuni inconvenienti accaduti nelle ultime settimane, ma non entra nel dettaglio. Afferma di potermi ragguagliare in modo più approfondito quando giungerò sul posto. Non sono mai stata mandata a indagare fuori dal Paese, perciò la richiesta mi ha stupito parecchio. Ne ho discusso col redattore, incontrando un certo scetticismo. Non a causa della natura della richiesta, ma per il fatto che il curatore ha contattato me direttamente senza passare per i canonici filtri della rivista. Adam mi ha espresso la sua preoccupazione per la mia incolumità. Personalmente ci tenevo un sacco a fare un salto in Europa, visto il periodo dell'anno. In agosto è facile trovare voli e alloggi low-cost. Così gli ho proposto di farmi accompagnare da Betsy Palumbo. È una reporter come me, acuta e tosta. Gira sempre con una pistola, con tanto di porto d'armi. Il capo-redattore ha sorriso e mi ha dato il permesso di partire. Convincere la collega ad accompagnarmi, però, era affar mio.

Mi presento alla sua scrivania quel pomeriggio con un bicchiere di carta di Starbucks colmo di caffè freddo americano, il suo preferito. Un paio di domande alla sua compagna di lavoro quella mattina mi hanno messo nella giusta direzione. Non ho mai lavorato con Betsy e a dire la verità sono un po' tesa. Non so come la prenderà né se accetterà, ma sono disposta a correre il rischio.

“Ciao Betsy!” dico avvicinandomi. Mi appoggio col sedere su un angolo della sua scrivania e le sorride sfacciatamente mentre le porgo la bevanda. Lei solleva la testa dallo schermo del computer e mi fissa freddamente con i suoi occhi neri. Se non altro la mia agitazione scema un poco. Questa donna mi dà i brividi. “Ho una proposta per te.”

“Ah sì?” ribatte lei pigramente. Torna a rimettere la mano sul mouse e sposta nuovamente lo sguardo sullo schermo. Poso il bicchiere davanti a lei ed estraggo dalla borsa che tengo in grembo una stampa della mail.

“Guarda, sarò diretta,” dico spiegando la carta e lisciandola perché si è stropicciata. “Stamattina il curatore di un castello scozzese mi ha mandato questa.” Gliela metto sotto al naso senza farmi problemi e vedo il suo sguardo, abbassarsi sul foglio bianco. Finalmente, esulto dentro di me. Sono riuscita ad attirare la sua attenzione. Sorrido tra me e me mentre la vedo prendere la carta tra le mani. Rimane immobile per un lungo minuto quindi alza la testa e mi guarda.

“Cosa vuoi da me?” Faccio un bel sospiro perché normalmente a quel tono risponderei con uno schiaffo.

“Adam non vuole che ci vada da sola, ma concorda che possa essere una storia interessante. Quindi volevo chiederti se ti va di venire con me,” recito pazientemente tutto d'un fiato. Riecco il nervosismo.

“E perché non me l'hai detto prima?” esclama. Poi assottiglia lo sguardo e piega la testa da un lato. “Perché proprio io?” Prendo un respiro per rispondere, ma... “Aspetta.” Mi fa cenno di fermarmi con una mano. “È per la pisola vero? Ti serve una guardia del corpo.”

“Cosa?” strabuzzo gli occhi incredula. “No!” Betsy non mi dà il tempo di ribattere e si alza.

“Non ho intenzione di fare la babysitter a una pubblicista che non sa badare a se stessa,” dice lapidaria raccogliendo le carte sulla scrivania in un mucchio. Le smazzetta sul tavolo e le ripone in una cassetta di plastica per documenti. Rimango fissare i suoi gesti e sbatto velocemente le palpebre.

“No. Aspetta.” Faccio una pausa per ritrovare i pensieri. “Se avessi voluto questo non ti avrei detto perché stiamo andando in Scozia. Ti avrei semplicemente chiesto di venire con me.” La vedo incontrare il mio sguardo, con enorme sollievo. “Invece ti ho mostrato questa.” Alzo il foglio di carta che è di nuovo nella mia mano. Nei suoi occhi vedo succedersi l'esitazione, poi fredda analisi. Probabilmente sta vagliando i pro e i contro di quella collaborazione. Accidenti, se avessi saputo che sarebbe stato così difficile avrei scelto un'altra.

“Va bene.” Non ci credo. Ha accettato? Mi punta un dito contro. “Ma non ti faccio da guardia del corpo.” Stavolta lascio trasparire il mio fastidio.

“So badare a me stessa, grazie tante,” sbotto alzandomi dal piano della scrivania. Mi allontano dalla sua postazione, diretta verso l'uscita dell'ufficio.

“Grazie per il caffè!” la odo esclamare alle mie spalle. Il tono sembra più allegro. “Ci vediamo domattina alle nove!” Chissà perché mi sento presa in giro.

 

Il giorno seguente, alle nove, arrivo all'aeroporto regionale di Montgomery. L'edificio principale è un grande parallelepipedo dalle pareti simili alle celle fotovoltaiche. Sfilo tra le colonne trovando riparo dal calore alla loro ombra e trovo la mia collega ferma di fronte all'entrata, un trolley nero posato a terra al suo fianco. “Betsy! Buongiorno!” esclamo di buonumore e mi sbraccio per salutarla. Lei solleva lo sguardo dal cellulare, punta nella mia direzione torna a trafficare con l'apparecchio. Cominciamo bene...

Una volta giunte al check-in dichiariamo i nostri bagagli, consegniamo i biglietti e veniamo indirizzate dall'addetta all'uscita adeguata. Quando prendiamo posto sull'aereo cerchiamo i nostri posti e riponiamo i bagagli a mano nel vano soprastante i sedili. Quindi ci sistemiamo l'una accanto all'altra. Tra il via vai di passeggeri che prendono lo stesso volo approfitto dell'occasione per mettermi a mio agio con Betsy. “Allora. Pronta per un viaggio in Europa?” Lei risponde con un muto assenso. Faccio un sospiro, volto la testa verso il finestrino e simulo un urlo silenzioso. Se i fantasmi non mi faranno venire un esaurimento nervoso, sono sicura che lei ci riuscirà. “Tranquilla andrà tutto bene,” dico più a me stessa che a lei, che non mi sembra preoccupata. “Ho messo la mia t-shirt portafortuna.” Tiro i lembi della maglietta nera; sul davanti ha una stampa in bianco e nero di Johnny Cash che fa il dito medio. “Carina,” dice Betsy lanciandole un'occhiata fuggevole, ma non capisco se è sarcastica o ironica. Vedendo che la mia collega non ha voglia di parlare, reclino leggermente lo schienale del mio sedile e mi rilasso, chiudendo gli occhi.

Dieci minuti più tardi mi ridesto al rollio del velivolo. Guardo fuori dall'oblò e scopro che stiamo decollando. Frugo nella mia borsa e tiro fuori il mio tablet. Lo accendo e verifico che la batteria sia carica. L'ho lasciato in carica fino a poco prima di uscire per assicurarmi di avere un'autonomia sufficiente. Infatti il display mi segnala una disponibilità del cento per cento. Benissimo. Con una compagna di viaggio come Betsy, i giochini che ho scaricato, accantonati per diverso tempo a causa del lavoro, mi terranno occupata fino all'arrivo. Spero che la batteria duri tanto. Ci vorranno quasi sedici ore per arrivare in Scozia se tutto va bene, tra le varie fermate.

Mi sveglio scossa da un terremoto. Spalanco gli occhi afferrando il sedile attorno a me e strillo. “Precipitiamo!”

“No scema. Stiamo per atterrare,” mi canzona la voce di Betsy. Assomiglia a quella di Mandy di un famoso cartone animato che coinvolge un bambino idiota di nome Billy e il Cupo Mietitore. Ora che ci penso si comporta un po' come lei. Mi guardo attorno stordita e mi rendo conto che il velivolo si sta inclinando in avanti. La voce dell'hostess all'altoparlante sta finendo di ripetere per l'ultima volta l'ordine di allacciare le cinture e prepararsi per l'atterraggio. Ringrazio Dio con un sospiro di sollievo e obbedisco. Non so se si nota, ma le mie ultime notti non sono state molto tranquille.

Coi piedi finalmente per terra, raggiungiamo il bar per prendere qualcosa. Tra merendine varie e bevande non troppo salutari, abbiamo bisogno di rinfocillarci. In classe economica non si può pretendere di essere servite a pane e vino. Mi fa pensare a mia madre, diceva sempre che a causa dei miei gusti alimentari sembravo più un'europea di un'americana. Personalmente non ho mai trovato divertente ingozzarmi di cibi in scatola e precotti. Punti di vista.

Lasciamo l'aeroporto di Dundee verso l'una di notte e noleggiamo un'auto con la quale raggiungere l'hotel. Prima di partire abbiamo prenotato una stanza in un albergo a due stelle fuori dal centro. La struttura sembra più un palazzo di appartamenti, tranne per l'insegna Travelodge che troneggia sia sulla parete sia sopra l'entrata.

Dopo aver posato i bagagli in stanze separate, diedi a Betsy la buonanotte e mi chiusi in bagno per fare una lunga doccia fresca. Sebbene la temperatura scozzese sia più bassa di quella dell'Alabama, sento il bisogno di levarmi di dosso un bel po' di sudore e stanchezza. Una volta finito, mi avvolgo nell'asciugamano e vado a buttarmi sul letto singolo della mia camera. Prendo il tablet dalla borsa e mi collego al Wi-Fi dell'albergo. Digito “Glamis Castle” nella casella di ricerca di Google e clicco sul sito ufficiale.

Come prima cosa scopro l'orario di apertura, che mi ricorda il nostro appuntamento a pranzo con il curatore. A proposito, devo confermargli il nostro arrivo. Avvio la posta elettronica e mando una mail a Donaldson. Quindi torno alle mie ricerche. Tra gli accenni alla storia del castello trovo una sequela di noiosi resoconti sulla sua costruzione. Non è questo che sto cercando. Torno indietro e scorro i risultati della ricerca fino a che un articolo non attira la mia attenzione. Si intitola “Glamis Castle, il castello più infestato al mondo”. Dubito gli si possa attribuire questo primato, ma l'argomento mi incuriosisce, così decido di dare un'occhiata.

Tra le altre cose scopro ben tre maledizioni legate a esso e addirittura una stanza segreta. In quel posto sono stati perpetrati una lunga sfilza di omicidi e suicidi. Ecco il motivo della sua reputazione in ambito spiritico. Tuttavia non sono convinta. Nonostante ora sappia più o meno a cosa andremo incontro, ho bisogno di vedere con i miei occhi. Intendo recarmi sul luogo, scattare un mucchio di fotografie e mandarle via Internet al laboratorio del giornale per farle analizzare. Solo allora riterrò infestato il castello di Glamis.

Uno sbadiglio mi distrae dalla ricerca e porto una mano alla bocca per nasconderlo. Ripongo il dispositivo sul comodino alla mia destra, mi corico sotto le coperte e scivolo presto in un sonno profondo.

 

La mattina consecutiva mi sveglio con gran cerchio alla testa e uno spaventoso debito di sonno. Spalanco la bocca in uno sbadiglio disteso e mi guardo attorno stropicciandomi gli occhi. Per secondo mi sembra di non riconoscere il luogo in cui mi trovo, ma subito dopo la memoria mi viene in aiuto. Ricordo così di essere in un piccolo albergo modesto della Scozia, l'interminabile viaggio in aereo e la presenza della mia collega nell'altra stanza. Guardo l'orologio sul tablet. Sono le otto. Avrei bisogno di dormire almeno altre quattro ore, ma un gorgoglio allo stomaco mi spinge a decidere di scendere per fare colazione.

Trovo la mia collega già seduta a un tavolo con la sua postura ritta. Dopo aver fatto rifornimento al buffet, mi dirigo verso di lei e prendo posto sulla sedia di fronte. “Buongiorno!” esclamo con un bel sorriso. Al mio the aggiungo del latte e lo zucchero. Quindi spalmo una fetta biscottata con della marmellata alla ciliegia prelevata dalla confezione monodose preparata. Nel frattempo occhieggio Betsy, la quale mi ha a malapena rivolto uno sguardo. Per qualche ragione so che non ce l'ha con me. A modo suo sta cercando di approcciarsi senza correre rischi. Mi domando cosa l'abbia spinta ad adottare questo atteggiamento. Con una stretta allo stomaco penso che decisamente non sono pronta a saperlo. E forse lei lo sente.

Finisco la colazione senza tormentare oltre la mia collega taciturna e la avverto che vado a fare una passeggiata. Fino all'ora di pranzo mancano quattro ore e voglio dedicarle a fare un giro nei dintorni. Così mi armo di uno zainetto in cui metto l'indispensabile, fazzoletti di carta, salviette umide profumate, il cellulare, il portafoglio. Indosso la mia Olympus al collo ed esco.

La giornata è bella, nonostante qualche nuvoletta e un tasso di umidità eccessivo. Il tepore del sole è piacevole sulla pelle accuratamente coperta dai vestiti. Inspiro l'aria aromatizzata dalla salsedine e mi incammino. Le tipiche abitazioni in stile Vittoriano sfilano lentamente accanto a me da un lato e l'altro della strada. Le osservo rapita, scattando di quando in quando un'istantanea. La Scozia è un paese di grande fascino e non solo grazie alle sue leggende. Su Internet ho scoperto che la fama di Dundee è da attribuire alla famosa marmellata che vi si produce, oltre alla notevole attività dei giornalisti. Il posto per me insomma. Curioso come nella mia carriera semi-giornalistica sia capitata in una cittadina in cui la mia professione è così praticata.

Prendo la metropolitana e in venti minuti arrivo in centro dove c'è un particolare museo che ho in mente di visitare. Si tratta del Verdant Works, un museo che espone oggetti e macchinari utilizzati nella lavorazione della iuta. Lo so, non sembra questo granché, ma le antichità di ogni tipo mi hanno sempre affascinato.

Non mi fermo per molto. Faccio qualche scatto dell'esposizione quindi mi sposto alla galleria e museo d'arte McManus. È ospitata da un edificio piuttosto grande in stile gotico vecchio di cento cinquant'anni. Quando arrivo a destinazione mi sento costretta a rallentare alla sua vista. Devo ammettere di avere un debole per questo stile. Fotografo alcuni particolari, oltre a prendere una bella panoramica da cartolina, quindi mi introduco. Secondo la guida che ho scaricato in pdf ci sono ben sei esposizioni da visitare, ma non credo di avere tutto questo tempo. Inoltre detesto fare le cose di fretta. Seleziono quindi un paio di esibizioni dedicate all'era glaciale e a un poeta e pittore britannico dell'anteguerra.

Rinvigorita da quel bagno d'arte lascio la struttura e mi avvio alla fermata della metropolitana più vicina. Alcuni passanti diretti nella direzione opposta voltano la testa verso di me, scrutandomi curiose e sorridendo. A quanto pare la mia soddisfazione è piuttosto evidente. Ricambio con un sorriso gentile e un cenno del capo e mi affretto. Sono ormai le dieci e, anche se ci metterò meno di dieci minuti ad arrivare, voglio essere in anticipo per farmi una doccia e cambiarmi d'abito. Voglio indossare qualcosa di più professionale per il pranzo.

Pigiata tra i passeggeri, all'interno della carrozza di metallo, sento un leggero senso di claustrofobia. Normalmente viaggio in auto da sola. Non sono abituata alle scatole per sardine. Cerco di respirare lentamente per evitare di cedere al panico, ma è arduo. Un'insistente sensazione di essere osservata mi spinge a cercare lo sguardo che mi fissa. Incontro gli occhi azzurri di un uomo alto almeno una ventina di centimetri più di me. È in piedi aggrappato a un passamano, come me. Gli faccio un sorriso e scosto imbarazzata una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

“Tutto bene, signora?” mi domanda con il tipico accento del posto, alzando la voce per sovrastare lo sferragliare delle ruote sulle rotaie.

“Certo!” ribatto in risposta, annuendo velocemente. “Non sono abituata a viaggiare in metro,” spiego. Siccome vedo formarsi una ruga di perplessità in mezzo alla sua fronte, mi affretto ad aggiungere. “Vengo dall'Alabama! Sono americana!” Spero che questo basti a spiegare il mio disagio in quella situazione. Lui fa cenno con il capo e una mano di aver capito. Rivolgo lo sguardo altrove quando l'altoparlante annuncia la mia fermata. “Arrivederci!” esclamo e mi infilo rapidamente tra le porte aperte, scivolando tra la gente. Finalmente fuori, prendo un bel respiro e corro all'albergo.

Elias Donaldson si rivela un uomo alto e distinto dall'aspetto diverso dal comune scozzese. Infatti mi rivelo di essere avere origini anglosassoni. Durante il pranzo in un ristorante italiano, mentre divoro letteralmente i miei calamari fritti, prosciutto e mozzarella e un calzone (sì, lo so, sembra uno schifo, ma vi assicuro che non è così brutto vedermi mangiare, anzi), il curatore ci ragguaglia sui dettagli della nostra visita.

“Ho letto i suoi articoli, Miss Dickson,” dice armato di forchetta e coltello con le quali sta tagliando le sue tagliatelle.

“Oh,” esclamo positivamente sorpresa. “Mi fa piacere.”

“Ho notato una certa dedizione alla materia e un istinto particolare nell'intuire la realtà delle cose.” Smetto di masticare e lo fisso con intensa concentrazione. “Per questo motivo mi sono rivolto a lei.” Ripone le posate e unisce le mani sopra al piatto, poggiando gli avambracci contro il bordo del tavolo ricoperto da una tovaglia linda. “Lasci che le spieghi cosa sta accadendo.”

“Da un mese a questa parte, membri del personale hanno fatto incontri... poco piacevoli. Per esempio c'è un giardiniere rimasto scioccato dopo aver incontrato una donna in camicia da notte nel parco. Dice che aveva lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle e gli ha mostrato i suoi occhi nel palmo della mano.” Il boccone mi si blocca in gola. Batto un pugno sul petto e prendo una gran sorsata d'acqua minerale per mandarlo giù. Nel frattempo la voce di Donaldson si è zittita. Finalmente deglutisco e torno a guardare in faccia il curatore. Negli occhi vedo brillare una luce divertita e le labbra sono rilassate, gli angoli rivolti verso l'alto. Ecco qui, io soffoco e a lui viene da ridere.

“Continui pure,” lo incoraggio con un sorriso divertito e imbarazzato insieme. Del resto troverei anch'io buffa questa scena, se la vedessi da fuori. Ripongo le posate, forse è meglio che finisca di mangiare dopo. Temo questo non sia l'unico episodio macabro e non voglio rischiare di strozzarmi e fare altre magre figure.

“Il secondo episodio è accaduto davanti alla stanza della Regina Madre,” prosegue Elias con tono pacato. Ha un tono di voce carezzevole, sensuale. Scuoto brevemente la testa.

“Vada avanti,” sbotto per interrompere il corso dei miei pensieri. Sulla fronte dell'uomo appare una ruga e il sopracciglio sinistro si solleva, ma non dice nulla. Grazie a Dio riprende a parlare.

“Il guardiano notturno si è imbattuto in un ragazzino ben vestito, ma il suo abbigliamento è arcaico.” Alzo le sopracciglia con aria dubbiosa. “Se si trattasse solo di un'apparizione non ci sarebbe alcun male. Abbiamo fatto l'abitudine a certe cose. Purtroppo il bambino ha iniziato a perpetuare un comportamento molesto nei confronti dell'uomo, il quale è arrivato al punto di risvegliarsi nei luoghi più disparati del castello ricoperto di una strana sostanza non identificabile.” Betsy e io ci scambiamo un'occhiata eloquente. “Infine, nella Blue Room...”

“Blue Room?” È la prima volta che la mia collega si intromette nella conversazione.

“Sì,” fa lui con un cenno affermativo del capo. “Si tratta di un camerino. Qui invece sono stati visti due uomini in uniforme intenti a giocare a dadi.” Silenzio. Stavolta non si tratta di una leggenda metropolitana. Ho la sensazione ci sia qualcosa di serio sotto. Un fremito mi attanaglia lo stomaco, togliendomi quel poco di appetito che mi restava. Sospiro, distogliendo lo sguardo dal curatore dagli occhi azzurri.

“Faremo un sopralluogo,” sentenzio prendendo il comando. Mi pulisco la bocca con il tovagliolo e lo ripongo accanto al piatto. “Scatteremo un po' di fotografie dei luoghi degli avvistamenti e le esamineremo. Probabilmente ci vorrà qualche giorno. Se tra quelle di cui mi ha parlato di sono aree ad accesso ristretto, avremo bisogno dell'autorizzazione a introdurci liberamente.”

“Ma certo. Sono a vostra disposizione,” dichiara Elias, collaborativo. “Siete libere di visitare il castello senza limitazioni nell'orario diurno dalle ore dieci antimeridiane fino alle cinque postmeridiante; a patto di sborsare il costo del biglietto.” Ti pareva. Eccola la sua vena scozzese. Guardo il suo sorriso stupendo e scuoto la testa sentendomi una scema.

“Signor Donaldson,” interviene Betsy burbera e spiccia come sempre, “se vuole che risolviamo questo caso avremo bisogno di accedere al castello di notte. Se non sbaglio tutti gli episodi citati sono successi dopo il tramonto. Vero?” La guardo fissare l'uomo con aria che non ammette replica.

“Sì,” risponde il curatore ammettendo la ragione della mia collega. Lo osservo mentre rimane muto per un lungo minuto, durante il quale si tormenta le mani, pensieroso.

“Se c'è qualcosa che la preoccupa, possiamo darle la nostra garanzia che non arrecheremo alcun danno alla proprietà.”

“Ne siete sicure?” replica lui alzando lo sguardo intenso nel mio, facendomi rimanere senza parole.


 

Cosa avrà voluto dire? È dall'ora di pranzo che questa domanda mi assilla il cervello. Persino ora mentre cammino con Betsy verso l'entrata del castello di Glamis, qualcosa mi tormenta, un presentimento.

“Donaldson non ci ha detto tutta la verità.” Alzo la testa e fisso la collega.

“Hai dato voce ai miei pensieri,” dico pagando il biglietto d'ingresso all'impiegata, che ringrazio e saluto prima di proseguire. Fianco a fianco, Betsy e io ci dirigiamo, cartina alla mano, verso il luogo della prima apparizione.

“Sono due ore che hai una faccia,” ribatte lei infilandosi il portafoglio nella tasca posteriore dei jeans. La guardo incuriosita.

“Davvero?” mormoro tra me e me. Percorriamo il lungo e spazioso corridoio per raggiungere l'accesso al parco. Devo ammettere che l'interno è impressionante. L'arredamento in stile medievale anglosassone è perfettamente restaurato e tenuto più pulito dell'obiettivo della mia Olympus, che sobbalza lievemente contro i miei seni a ogni passo. Spettacolare... Infiliamo una porta e attraverso una stanza simile a uno studio con tanto di caminetto usciamo sul sentiero. Il mio sguardo spazia da ovest a est mentre un senso di immenso mi investe. Quel posto è sconfinato. Alla mia ammirazione si aggiunge subito un certo scetticismo quando percorro alcuni passi sulla strada bianca. “Aspetta,” dico a Betsy, “devo vedere quale strada prendere.”

“Ho già studiato il percorso a memoria,” ribatte lei senza fermarsi. Allora le trotterello dietro e la affianco. La guardo incredula. “Dobbiamo arrivare qua,” aggiunge indicando sulla mappa un giardino circondato da mura, sito all'estremo angolo nord-est del possedimento. Sbarro gli occhi.

“Fino a là?!” protesto a gran voce. “Poteva almeno darci un paio di biciclette! Odio camminare!” sbuffo e piego il depliant per riporlo nella tasca dietro.

“Pensa a quanto seccava ai padroni del castello,” dice lei con un sorriso sghembo pieno di ironia e velato di sarcasmo.

“Loro avevano servitori e carrozze,” borbotto in risposta, ma mi metto di gran lena per stare al passo con la collega, evidentemente molto più in forma di me.

Love is a burnin' thing… Ci vollero circa trenta minuti per raggiungere il giardino. And it makes a fiery ring... Quando arrivammo al cancello mi riparai col fiatone all'ombra del muro di cinta e mi ci appoggiai. Bound by wild desire... Betsy si fermò poco prima di entrare, guardandomi con la fronte corrugata. I fell into a ring of fire...

“Sembra che tu stia per morire...” Alza un sopracciglio.

“Sto... bene,” sbuffo io liquidando la faccenda con un gesto della mano. “Devo solo... riprendere fiato...” Lei mi squadra con aria poco convinta.

“Dovresti fare più esercizio fisico. Per abituarti. Non sai mai in che situazioni ti puoi trovare...” Il suo sottinteso mi giunge bello limpido. Le lancio un'occhiata dietro la quale mi interrogo su quali situazioni abbia mai affrontato la mia collega. Secondo me ha avuto una vita movimentata, ma non ho il coraggio di chiederle... una cosa alla volta. Mi chino con le mani sulle cosce nello sforzo estremo di respirare, quando finalmente i miei polmoni riprendono regime.

“Oh sì,” dico raddrizzandomi contro la parete di pietra, “ora va molto meglio.” Dalla borsa estraggo la mia borraccia e bevo avidamente l'acqua che contiene. “Ancora meglio,” borbotto subito dopo, rimettendola via. No no no no no, it ain't me, babe... it ain't me you're looking more, babe... Mi allontano con un colpo di anche e raggiungo Betsy. “Andiamo?” le sorrido beatamente, sudata ma ancora viva, e la precedo all'interno.

Oltrepassato il grande portone in ferro battuto recante gli stemmi della famiglia reale scozzese, ci troviamo davanti a un lunghissimo sentiero, disteso davanti a noi per svariate centinaia di metri. “Non ci posso credere,” gemo scoraggiata alla prospettiva di dover camminare ancora. Volgo lo sguardo a sinistra, dove sta un trattore moderno spento. Il sentiero è costeggiato da piazzole d'erba e ampi prati. “Sinceramente, non saprei dove cercare qui,” confesso alla mia collega.

“Chiediamo a lei,” fa Betsy indicando avanti con un cenno della testa. Seguo il suo sguardo e incontro la figura di una donna che porta una carriola. Le mie labbra scattano in un bel sorriso e prendo il comando, rinvigorita. Mi avvicino a grandi passi e mi presento.

“Salve! Mi chiamo Helen, ho bisogno di farle una domanda!” La bionda, avrà una quarantina d'anni o poco più, mi guarda perplessa, e fa lo stesso con la mia collega. Betsy la saluta con un'alzata di mano.

“Non potreste stare qui,” dice la donna, “insomma non c'è niente da vedere, come potete riscontrare voi stesse,” spiega tendendo una mano verso il paesaggio. Non ha tutti i torti, se non fosse che siamo qui per un altro motivo.

“In realtà, il signor Donaldson ci ha incaricate di fare delle ricerche per via degli ultimi... incidenti.” Gli occhi azzurri della giardiniera si spalancano e posso quasi percepire i brivido che le congela le ossa. “Stia tranquilla,” dico posando delicatamente una mano sulla sua spalla, “siamo qui per risolvere la situazione.” Lei annuisce con gli occhi, lucidi, leggermente sollevata ma molto scossa.

“Le va di raccontarci se l'è successo qualcosa?” domanda brusca la mia collega. Le lancio un'occhiata di rimprovero alla quale lei non presta attenzione. Scuoto la testa sospirando.

“A me per fortuna non è successo nulla, ma sono impaurita. Non rimango più al castello dopo il tramonto. Anzi, me ne vado almeno quattro ore prima.” Strofina il viso con un braccio e solleva gli occhi supplici su di noi. “Vi prego, risolvete la questione. Salvate i nostri posti di lavoro!”

La guardiamo andare via ciondolando con la carriola appresso dopo esserci profuse in rassicurazioni. Le abbiamo promesso di fare il possibile per riportare la tranquillità, ma mentre ci guardiamo in silenzio, sappiamo entrambe di non essere affatto sicure di riuscirci.

Percorriamo il sentiero fino alla fine per permettermi di scattare diverse fotografie da svariate angolazioni, quindi lasciamo il posto e ci dirigiamo verso uno degli altri luoghi coinvolti. 

La Blue Room è un salottino rettangolare ingombro di un tavolino, un paio di divani di cui uno davanti al caminetto al centro della parete est. Le decorazioni e la carta da parati sono impressionanti. Chissà quanto lavoro ci vuole per mantenere quel posto in condizioni di tale splendore.

Mentre metto piede al suo interno alzo lo sguardo verso il soffitto altissimo, contemplandolo a bocca aperta. Prendo la mira con la macchina fotografica senza nemmeno avvicinarla al viso e premo il pulsante. Gli scatti vengono accompagnati dal suono elettronico preimpostato. “Ci credi? Qui ci viveva della gente,” dico alla mia collega, a qualche passo di distanza alle mie spalle. Riesco a sentire il fruscio dei suoi abiti dietro a me.

“Probabilmente c'era un sacco di polvere da pulire,” ribatte Betsy e quando mi giro scorgo un cilindro bianco spuntarle tra le labbra. Le rivolgo uno sguardo bieco.

“Betsy, qui non si fuma.” La vedo fare la faccia di chi se n'è dimenticato e girare i tacchi per uscire dalla stanza. Scuoto la testa con un sospiro, meravigliandomi della sua sbadataggine. Finito di riprendere il luogo da diverse angolazioni, mi reco nel corridoio dell'ultimo avvistamento, quello che porta alla stanza della Regina. Fremo dalla curiosità di dare una sbirciatina all'interno. Ho sempre sognato di vedere com'è fatta la camera di un reale; al pari tutte le bambine, immagino. Quando ho capito che non sarei diventata una principessa mi sono rimboccata le maniche e ho iniziato a cercare fantasie più realistiche. Una di queste era diventare la prima ballerina del La Scala.

Mi avvicino lentamente e con passo felpato verso l'ingresso della stanza. Mi guardo attorno per assicurarmi di essere sola quindi schiudo l'uscio. Infilo la testa nello spiraglio solo per rimanere basita quando scorgo il letto posto al centro della parete in fondo. “Mio Dio,” bisbiglio. È un antico letto a baldacchino in puro legno massiccio. Anche le coperte, i cuscini e le lenzuola sembrano originali. Probabilmente è così.

“I reali sapevano bene come trattarsi.” La voce maschile che riecheggia alle mie spalle mi fa trasalire, quasi fossi stata colta in flagrante nel commettere una trasgressione. Mi volto richiudendomi velocemente la porta alle spalle come se servisse a nascondere cosa stavo facendo. Donaldson mi fissa divertito, nascondendo un sorrisetto.

“Io stavo...” Ovviamente non ho una scusa pronta, non sono brava in queste cose, ma Elias mi viene subito in aiuto.

“Ammirando la stanza della Regina?” dice passandomi accanto con andatura compassata, le mani giunte dietro la schiena. Si avvicina alla porta e la spalanca con la spinta delle dita della mano destra. “E cosa ne pensa, signorina Vincent?” Ecco, mi sento un'imbecille. Avvampo e mi introduco nella stanza con imbarazzo malcelato.

“Beh...” Mi guardo intorno e fingo di cercare le parole adatte a descrivere quell'opera d'arte. Purtroppo non ho il dono della poesia. “È interessante...” Mi muovo attraverso la stanza, scattando istantanee di qualche particolare a mio avviso interessante. Poi decido di ripiegare su una questione meno tecnica. Volteggio su me stessa fino a trovarmi rivolta verso di lui. “Da quanto sono entrata qui mi domando quanto lavoro ci vuole per tenere un posto del genere in perfette condizioni.” Dalla sua espressione mi pare di aver fatto centro. Con un misto di soddisfazione mascherata da modestia, il curatore inizia a girare per la stanza elogiandone le caratteristiche. Non ne capisco nulla di stili d'architettura e simili, ma annuisco fingendo di stare seguendo il suo discorso mentre invece sto solo cercando una scappatoia. Non appena lui finisce il comizio con un sorriso smagliante, lo restituisco quindi indico il corridoio alle mie spalle.

“È qui che è stato avvistato il fantasma del bambino?” mi informo, malgrado sappia benissimo sia quello il posto giusto.

“Certo.” Lui si avvia premurosamente fuori dalla camera, precedendomi. Lo seguo.

“Mi sarebbe molto utile se potesse descrivere la scena di cui le ha parlato il guardiano,” aggiungo senza mollare un attimo la mia Olympus. Mi sento nervosa e mi domando il perché.

“Il signor MacDonald ha trovato l'apparizione qui,” spiega fermandosi davanti allo stipite destro della porta. “Il bambino spettrale sedeva con la schiena appoggiata alla parete. Quindi ha alzato la testa e... com'è che ha detto? Ah sì, lo ha guardato con due orbite vuote come il suo bicchiere alle sette di mattina.” Corrugo la fronte e faccio una foto del punto caldo.

“Allora il guardiano è scappato urlando, immagino,” mormoro pensierosa.

“Sì, ma dice di aver visto le impronte del bambino seguirlo lungo il percorso.” Lo guardo confusa.

“Le impronte lo inseguivano?”

“Sì,” annuisce, “ha detto che il bambino era scomparso, ma ne poteva vedere le impronte comparire e scomparire dietro di sé.” Mi gratto la testa. Questo sì è curioso... e per una persona che ha visto il suo primo fantasma soltanto un mese prima è tutto dire. Mi schiarisco la gola e faccio finta di ragionare tra me e me, quando Betsy giunge marciando dal fondo del corridoio.

“Betsy!” le sorrido e la raggiungo, vedendola aggrottare la fronte al mio entusiasmo. La afferro per un braccio, bloccandomi sul posto. Lei mi imita.

“Che cosa...?” Le faccio segno di tacere.

“Portami via di qui prima che muoia di imbarazzo. Mi fa domande a cui non posso rispondere,” le sussurro. La mia collega alza gli occhi al cielo e si vede si sta trattenendo dal ridere. “Lo trovi divertente?”

“Tu messa in difficoltà dal curatore di un castello scozzese? Sì.”

“La tua sincerità è confortante. Dai, ora troviamo una scusa e andiamocene. Devo fare qualche ricerca prima di tornare.” Mi volgo verso Donaldson e sfodero uno dei miei sorrisi. Lo vedo farsi interessato e compiere alcuni grandi passi per avvicinarsi a noi. “Per oggi abbiamo finito. Devo tornare in albergo a scaricare le foto sul mio computer e spedirle in redazione. Inoltre ho avuto lo spunto per un paio di idee e ho bisogno di spulciare tra i miei appunti. Per quanto riguarda la visita notturna...” Ecco che Elias si dimostra nuovamente in difficoltà. Tentenna, irrigidendosi per qualche momento in una postura militare.

“Sì... per quanto riguarda quella questione...” Si gratta il lato posteriore del collo, aggrotta la fronte, poi prosegue. “Il mio superiore non sa nulla di tutto questo e preferirei che le cose rimanessero così. Posso darvi il permesso di stare qui una notte sola.” Strinsi un pugno di nascosto in segno di vittoria. “Una. Notte. Sola,” ribadisce lui e io annuisco con decisione. “Anche se non vedete alcun fantasma o non si manifestano presenze durante quell'arco di tempo, non posso concedervene altro.”

“Sissignore, abbiamo capito,” ribatte Betsy rivolgendogli un saluto da gendarme.

Tornate in albergo, scarico le foto sul portatile e le invio in redazione prima di andare a cena. Dopo il pasto torno in camera mia e mi piazzo sul letto con l'apparecchio in grembo. Faccio partire un film in streaming e comincio a navigare.

Cosa può indurre gli spiriti dei morti che finora dormivano in pace a risvegliarsi? Scorro i risultati di una ricerca che non mi sta portando a niente, ma non vedo ciò che è scritto sullo schermo. Sono immersa nei miei pensieri alla ricerca della risposta alla mia domanda. Da cosa sono attirati gli spettri? Avanzando nella mia ricerca scopro diversi modi in cui gli spiriti dei defunti possono essere attratti nella nostra dimensione. Sedute spiritiche e altri metodi bizzarri vengono proposti dalle fonti più svariate. Sebbene dubiti che qualcuno si sia messo a evocare fantasmi durante la notte in un castello scozzese, prendo appunto mentale di domandarlo a Donaldson.

Dopo il tramonto, ci incontriamo al castello con il Curatore, il quale ci informa di essersi già premurato nel mandare a casa il personale. Immagino non possa permettere che succeda un incidente a causa della nostra attività di stanotte. Insieme ci rechiamo nell'edificio e, muniti ognuno di un walkie talkie, ci suddividiamo la zona. Dato che non ho una gran voglia di camminare, mi sono prenotata per la stanza della Regina, dove farò la mia posta. Elias si dirige al Giardino Murato, mentre Betsy prende la Blue Room.

“In posizione?” Lo scatto del pulsante causa una scarica statica che disturba il silenzio attorno a me.

“Ci sono,” risponde prontamente la voce della mia collega.

“Ci sono anch'io,” giunge infine la conferma del curatore.

“Bene. Ricordate. Tenete gli occhi aperti e qualunque cosa succeda, non muovetevi. Limitatevi a fare rapporto.”


 

“Sissignora,” è la risposta lievemente canzonatoria di Elias, in contrasto con il “Ricevuto” più secco di Betsy.

Rimaniamo in silenzio radio per un'ora senza che succeda alcunché. Ansiosa, afferro il mio ricevitore.

“Tutto bene?” Una breve pausa di alcuni secondi e odo la voce profonda e roca di Donaldson.

“Sì... è tutto dannatamente calmo.”

Scarica statica.

“Betsy?”

Nulla...

“Betsy?!” Praticamente urlo nel microfono, stringendo l'apparecchio convulsamente tra le mani.

“Che?!” sbotta lei dall'altra parte della linea. “Mi sono addormentata.”

Lascio ricadere la testa a penzolar tra le gambe ripiegate. Seduta con le spalle al muro, mi trovo nel punto preciso dell'ultima apparizione, la torcia spenta appoggiata accanto a me sul pavimento.

“Mi si sta gelando il sedere,” commento pigiando il bottone. Rialzo la testa e mi guardo attorno. Che idea bislacca quella di fare la posta ai fantasmi? “Direi che qui non si muove niente...”


 

Il walkie talkie mi cade di mano. Mi ritrovo a fissare lo sguardo assente della mia collega. Me la sono ritrovata davanti così, senza alcun avviso.

“Betsy...” Mi alzo spazzolando i pantaloni all'altezza dei glutei. “Che ci fai qui? Dovresti essere alla tua postazione? Va tutto bene?” La voce mi muore in gola.


 

È un sorriso quello? Un angolo della sua bocca si piega all'insù. Faccio appena in tempo a vedere le sue spalle inclinarsi che la sua mano è già stretta attorno al mio collo.

'Dio! Non riesco a respirare!' penso strabuzzando gli occhi e dibattendo le gambe nel tentativo di mollarle un calcio nel ventre. Tuttavia la lunghezza del suo braccio e la mancanza d'ossigeno incipiente tolgono vigore al mio sforzo.

'Elias! Devo chiamarlo!' Giro solo gli occhi verso il mio ricevitore caduto a terra, ma mi è impossibile raggiungerlo.


 

La saliva mi si sta accumulando in bocca, il mondo si sta sfocando sempre più rapidamente e il mio corpo ciondola a una decina di centimetri sopra il pavimento. Davvero grandioso. Mi aggrappo con le mani al braccio di Betsy (ma siamo sicuri sia lei?), cercando di spingermi verso l'alto onde liberarmi dal cappio.

Un velo nero cala sulla mia visuale nel momento in cui mi pare di udire uno scoppio...


 

“Avanti!”

Papà?

“Forza, devi lottare!”

Dalton?

Quella voce familiare riecheggia nel limbo buio in cui mi trovo.

Non riesco a riconoscerla, ricordare di chi è...

La figura di un bambino spettrale, vestito di stracci e dal viso tumefatto, appare di fronte a me. Sembra emanare una sorta di aura lattea, luminescente e traslucida. Alza lentamente il braccio sinistro e indica alla mia destra.

“Avanti!”

Un dolore atroce al petto mi risveglia costringendomi ad alzarmi a sedere. Sono troppo stordita per prestare attenzione ai ringraziamenti di Elias al cielo e ai santi. Per non parlare del male martellante alle costole.

“Dica è per caso impazzito?” biascico mentre cerco di sdraiarmi su un fianco. Sento un gran bisogno di dormire. Da quella posizione riesco a vedere il corridoio che porta alla stanza della sovrana, quindi concludo di trovarmi nella stanza accanto.

“Non si sdrai,” ribatte lui perentorio e mi afferra per il polso destro. Mi arrabatto per rimettermi in piedi con il suo aiuto e rimango addossata al suo ampio torace che emana un piacevole calore.

“Mi scuso per le maniere, ma credo volesse farsi una capatina all'altro mondo prima del tempo, signorina.” Lo sguardo sbattendo le palpebre. Man mano che la mia mente confusa realizza il significato di ciò che mi sta dicendo, sento calare l'ombra sul mio volto.

“Hey hey, rimanga sveglia,” insiste lui, più dolcemente, reggendomi i gomiti.

“No... non sto svenendo... mi sono appena resa conto...” Abbasso la testa perdendo il coraggio di finire la frase. Giro il volto da un lato e appoggio l'orecchio contro il pettorale dell'uomo. Il battito del suo cuore è potente e forse un po' accelerato, ma ha un effetto confortante.


 

“Betsy!” sbotto, irrigidendomi all'improvviso. Lui stringe le braccia attorno alla mia vita e ruota su se stesso di qualche grado. Scorgo la mia collega a qualche metro da noi, seduta a terra con una borsa del ghiaccio sull'occhio. Sgrano gli occhi e rivolgo a Elias un'occhiata perplessa.

“È una tosta. Mi ci è voluto un pugno per stenderla.” Aggrotto la fronte e carico una valanga di insulti da rivolgere a quel damerino scozzese (lo so sembra assurdo, ma è così che lo vedo) quando la voce della collega mi precede.

“Se non l'avesse fatto di avrei strozzato. Dì grazie e non fare storie.” La guardo con sospetto, ma poi, squadrandola per bene, decido che ha detto la verità. Perché mai dovrebbe mentire? Io stessa ho assistito alla sua...

“A proposito, cos'è successo?” Guardo la mia collega e alzo un sopracciglio. Una spiegazione almeno me la deve.

“Non lo so,” ribatte guardandomi dritto negli occhi, molto seria. “Ricordo che un attimo prima stavi urlando nell'apparecchio, quello dopo mi svegliavo con un pugno nell'occhio.”

Possessione. La parola mi precipita nel cervello senza lasciar spazio a dubbi. Eppure chi sono io per giudicare? Non ho esperienza. Betsy potrebbe soffrire di qualche malattia mentale di cui non sono a conoscenza. È stato stupido mettermi in viaggio con una persona di cui non so nulla. Ora me ne rendo conto. Eppure mi sono fidata...

“Non sono schizofrenica, se è questo che stai pensando.” Lo sguardo insistente della collega mi riporta alla realtà.

“Cosa? No, io... non stavo pensando a quello,” borbotto impacciata, ma abbasso lo sguardo con aria colpevole.

“Beh, in ogni caso è bene che tu lo sappia.”

La sua frase pone fine alla nostra conversazione e sento Elias allentare la presa sul mio corpo. Sto riprendendo sensibilità alle gambe e mi farebbe piacere riprendere a usarle. Però la vicinanza con quell'uomo mi dava un senso di beatitudine in questa serata assurda.

Alzo lo sguardo per incontrare i suoi occhi azzurri e vi trovo un'espressione di tenerezza. Rimango a bocca aperta, soprattutto perché, se è rivolta a me, non ne comprendo il motivo. Appaio così fragile seppur coraggiosa?

Mi allontano malvolentieri, per prendere distanza da questa situazione. È strano, non sono stata con un uomo da quando sono tornata dal Kentucky. Elias è il primo a risvegliarmi qualcosa dentro. Solo che non so che cosa sia.

Abbasso lo sguardo e faccio per guardarmi attorno, quando netta accanto a me, ad alcuni passi di distanza... una luce fluorescente e biancastra si concentra a mezz'aria. Lentamente da essa si allungano filamenti dello stesso colore, traslucidi, che paiono allungarsi verso l'esterno. La massa si espande grazie a questi tentacoli e gradualmente prende forma. Prima diviene una sagoma ovaleggiante senza particolari. Via via che le braccia sottili si ammassano, intrecciandosi e arrotolandosi tra di loro, la sostanza evanescente prende la forma di un viso fanciullesco, il cui resto del corpo è una nube sospesa a pochi centimetri dal suolo.

Apro la bocca per lo stupore. È il bambino del mio sogno. (Era un sogno?)

Altri filamenti si allungano e si intrecciano, ammassandosi per creare un arto simile a un braccio. Quando questo acquista nitidezza, si solleva indicando qualcosa alla mia destra. Volto la testa e noto una porta. Guardo il fantasma e lo vedo fare una sorta di cenno di assenso con il capo. Mi lancio di corsa verso l'uscio, la voce di Elias alle spalle che mi chiama da lontano.

Mi inerpico sulla scalinata ripida, aggrappandomi con forza al corrimano per aiutarmi e raggiungere la cima il più velocemente possibile. Odo i passi di Elias e Betsy riecheggiare più in basso, ma non ci bado. So di dover salire in cima alla torre.

Sbuco all'aperto, il petto ansante per il fiatone. Mi avvicino alla merlatura e scorro gli occhi sul panorama. Il podere visto dall'alto appare molto più esteso di quando lo si visita dall'interno. Non so come potrei mai vederlo tutto in una volta. Il chiaroscuro di colore verde predomina la scena, ma nel buio sto cercando qualcos'altro.

“Dammi il binocolo a visione notturna,” dico spiaccia alla mia collega, appena giunta insieme a Elias.

“Non potete stare qui!” si lamenta il curatore.

Mi giro e afferro l'oggetto dalla mano di Betsy. “Se vuole che risolviamo questo caso mi faccia lavorare,” sbotto a malo modo e appiccico il binocolo alla faccia. Mi sporgo leggermente verso l'esterno, ignorando l'avvertimento dello scozzese.

Il podere sembra circondato da un circolo di pietre bianche, ornato ogni quarto da una statua.

“Questo circolo,” passo il dispositivo a Elias e lo esorto a guardare, “c'è sempre stato?” Attendo che lui sbirci attentamente, quindi lo sento mormorare.

“Sì, c'è sempre stato...” Lo guardo interrogativa poiché si è interrotto improvvisamente. “Ne manca una.” Lo vedo accigliarsi. Faccio un passo all'indietro, incrociando le braccia sotto al seno e lancio un'occhiata alla mia collega.

“Cos'ha questo a che fare con i fantasmi?” Betsy è scettica ed è comprensibile da parte di qualcuno senza le appropriate conoscenze.

“Il cerchio era ed è spesso usato nell'occultismo come simbolo di vincolo o protezione. Ora sto parlando in teoria.” Il curatore si gira e restituisce il binocolo, che Betsy provvede a rimettere in borsa. “Quel cerchio, le cui statue sono state curiosamente poste nei punti cardinali, funge da vincolo per gli spiriti di questo posto. Fa in modo che non possano lasciare il castello.” Passano alcuni istanti di silenzio.

“Non ha senso,” protesta la collega.

“Betsy, è un'ipotesi,” apro le braccia gesticolando per la frustrazione. “Almeno sto elaborando una teoria. Ha senso come qualsiasi altra cosa, stanotte.”

“Non ha tutti i torti.” Incontro i suoi occhi ed Elias mi rivolge uno sguardo carico di significato.


 

Mi inarco con un grido. La sensazione proveniente dal ventre mi attraversa, svettando verso la cima della mia testa. Ho le unghie affondate nei fianchi del suo corpo asciutto e lo sento raggiungere un'altra volta il culmine subito dopo di me. Come siamo finiti a letto?

Gli sorrido languida e faccio scorrere una mano sulla pelle liscia, verso l'alto. Lui è bellissimo. E dopo Dalton per il momento è il solo in grado di darmi certe sensazioni.

“Sapevo che eri una gatta a letto,” lo sento dire e gli mollo una ginocchiata nel fianco. Lui si contorce per il colpo, geme e ridacchia.

“Porta rispetto, rude di uno scozzese,” lo apostrofo. Elias scivola al mio fianco, affondando nel letto morbido e io mi giro su un lato per averlo di fronte. Chiude gli occhi quando le nostre labbra si incontrano... le sue sono così morbide e fresche, nonostante i quaranta gradi che abbiamo raggiunto con l'orgasmo. Potrei cuocere un uovo sulla mia pelle. Le lingue si toccano dapprima delicate, poi vorticano in un nugolo di passione. Ora ricordo come siamo arrivati a questo punto.


 

Dopo la mia performance in cima alla torre del castello di Glamis, Elias ci ha mandato a casa con l'assicurazione che da quel momento in poi poteva cavarsela da solo. Più tardi mi ha rivelato che non voleva mettermi in pericolo più di quanto lo ero già stata. Inoltre, individuata la causa delle apparizioni era inutile restare in quel luogo di notte, ma usare quest'ultima per diversi e più utili piaceri. Il suo sorriso sghembo mi aveva spiazzato, il luccichio malizioso nel suo sguardo limpido conquistato. Sospiro al ricordo. Il giorno seguente ha contattato le autorità, dicendo loro di aver riscontrato la mancanza di una statua storica nella proprietà. La denuncia era stata raccolta e le forze dell'ordine di erano messe alla ricerca praticamente subito, poiché tre giorni dopo l'opera d'arte era stata rimessa al suo posto. In concomitanza con ciò, le apparizioni erano cessate. Durante quei tre giorni di attesa, Elias e io abbiamo perso a frequentarci. O meglio, lui ha preso a farmi una corte dolce e spietata, alla quale non ho avuto altra scelta che soccombere. Avevo un gran bisogno di lavar via dalla mia mente quella storia e non c'era modo migliore di cene al lume di candela e della passione tra le lenzuola.

Tuttavia era arrivato il momento di partire. Le mie valigie erano già pronte in albergo. Betsy dormiva nella sua stanza, in attesa del giorno della partenza.

“Domattina?” Alzo gli occhi. Mi sono persa nei pensieri e lui mi risveglia spostandomi una ciocca di capelli umidi dalla fronte.

“Mh? Ah, sì. Domani.” Un po' mi dispiace. Lo guardo dolcemente. È stato un partner fantastico, ma sappiamo entrambi che non può durare. Le nostre vite stanno l'una a miglia di distanza dall'altra e tra l'altro non siamo innamorati. Siamo due adulti consenzienti che hanno goduto di reciproca compagnia sapendo che sarebbe finita presto.

“Sono stato bene.” Infatti. Sfoggio il mio sorriso sfacciato, guardandolo con malizia.

“Oh, anch'io...” Sorride anche lui e la sua bocca si scontra con la mia, mordendola. “Ma... sei insaziabile,” mormoro tra un bacio e l'altro, senza dare segno di disprezzare quello che sta facendo. Le sue dita si intrecciano a quelle delle mie mani e le sollevano sopra la testa, spingendole contro i cuscini.

“Tra un paio d'ore sono pronto,” ribatte lui continuando a sorridere impudente. Lascio scivolare il labbro inferiore tra i denti e sollevo la testa per afferrare il suo.

“Un paio d'ore sono tutto ciò che ho...”

   
 
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