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Autore: Sandra Prensky    09/08/2016    1 recensioni
ATTENZIONE: Non è una traduzione del libro "Black Widow: Forever Red". Avendolo letto, mi sembrava che ci fosse troppo poca attenzione su Natasha, e allora ho deciso di riscriverlo con tutta un'altra trama.
Natalia Alianovna Romanova, Natasha Romanoff, Vedova Nera. Molti sono i nomi con cui è conosciuta, molte sono le storie che girano su di lei. La verità, però, è una questione di circostanze. Solo Natasha sa cosa sia successo veramente nel suo passato ed è ciò da cui sta cercando di scappare da anni. Quando sembra finalmente essersi lasciata alle spalle tutto, ecco che scopre che la Stanza Rossa, il luogo dove l'hanno trasformata in una vera e propria macchina da guerra, esiste ancora. Solo lei, l'unica Vedova Nera traditrice rimasta in vita, può impedire che gli abomini che ha visto da bambina accadano di nuovo. Per farlo, però, dovrà immergersi nuovamente nel passato che ha tanto faticato a tenere a fondo, e sarà ancora più doloroso di una volta: tutta la vita che si è costruita allo SHIELD, tutte le persone a cui tiene sono bersagli. Natasha si ritroverà di nuovo a dover salvare il mondo, affrontando vecchi e nuovi nemici e soprattutto se stessa.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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XIV.

 

If the heavens ever did speak
She's the last true mouthpiece
Every Sunday's getting more bleak
A fresh poison each week
"We were born sick,"

you heard them say it
My church offers no absolutes
She tells me,

"Worship in the bedroom."
The only heaven I'll be sent to
Is when I'm alone with you.

(Hozier – Take Me To Church)

 

 

Russia, 1955

 

Natalia sedeva sul tetto, le gambe incrociate e gli occhi chiusi. Avvertiva la brezza giocare con suoi i capelli vermigli e scompigliarli sempre di più. Adorava salire lì: era l’unico posto dove la Stanza Rossa non la osservasse, l’unico posto dove potesse essere se stessa. E, fino a qualche tempo addietro, l’unico posto dove poteva passare del tempo con il Soldato d’Inverno. Una mattina di diversi mesi prima era uscita sul tetto, come era solita fare, e l’aveva trovato lì. Nessuno dei due aveva proferito parola. L’avvenimento aveva cominciato a ripetersi fino a diventare quasi un rituale: a una certa ora i due si ritrovavano sul tetto e passavano una manciata preziosa di minuti insieme, rigorosamente in silenzio. Non vi sarebbe stata parola più adatta di quella quiete che vigeva tra loro, le loro vite erano troppo rumorose per intaccare anche quei momenti di pace. Eppure, dal giorno della missione, il giono in cui avevano usato James contro di lei, il loro rituale si era spezzato. Lui sembrava evitarla, non incrociava mai il suo sguardo e non era mai nella sua stessa stanza se non durante gli allenamenti. Le mancava averlo con lei sul tetto, le mancava lui. Si era ripromessa di non affezionarsi più a nessuno dopo Ivan, non concedere a nessun altro di farsi strada oltre alla sua facciata di indifferenza. Aveva funzionato, ci era riuscita per diversi anni dopo la guerra. E ora eccola di nuovo qui, ci era di nuovo ricascata. Aveva bisogno di James. Non del Soldato d’Inverno, di lui ne aveva già fin troppo. Lei aveva bisogno dell’uomo che si era quasi commosso quando lei gli aveva dato la sua medaglietta, l’uomo che rimaneva in silenzio con lei sul tetto, l’uomo che aveva pregato i medici di non usarlo come arma contro di lei. Questa volta era ancora diverso da Ivan, però, lo sentiva. Ivan era stato come un padre per lei, o ciò che di più vicino avesse. James, invece... Non sapeva perché, non capiva cosa fosse quella sensazione di vuoto che provava ogni volta che lui la ignorava. Non capiva perché sentisse la sua pelle bruciare ogni volta che entrava in contatto con quella di lui, non capiva perché le importasse così tanto. Era però sicura di odiare quella sensazione. Bene o male si era costruita delle certezze nella sua vita, e lui gliele aveva mandate all’aria tutte. Lui la rendeva vulnerabile, debole, come era stata poche volte nella sua vita. Eppure, in qualche modo, le riusciva difficile stare lontana da lui. Strinse le ginocchia più vicine al petto. L’aria era gelida e lei indossava solo la leggera uniforme della Stanza Rossa, un’uniforme nera e aderente composta da un solo pezzo, ricordava vagamente una muta da sub, ma di sicuro non era altrettanto calda. Rimase a guardare il solito panorama, il cielo grigio carico di neve, la foresta in lontananza al di là delle due fasce di recinzione in filo spinato. Il silenzio faceva da padrone. Poteva quasi sentire i battiti lenti del proprio cuore. Fatta eccezione per le nuvolette formate dal suo fiato, tutto era immobile. Le sembrava quasi di essere intrappolata in una fotografia. Chiuse nuovamente gli occhi. Li riaprì dopo qualche istante, aveva la sensazione che qualcosa fosse cambiato. C’era un altro profumo nell’aria fredda, aveva quasi avvertito uno spostamento. Guardò intorno a sé. Di fianco a lei, sulle tegole, vi era una cartella simile a quella del Soldato d’Inverno dalla quale aveva rubato la medaglietta. Sotto la montagna di timbri “Top Secret”, però, vi era impresso il suo nome. Confusa, alzò gli occhi e riuscì a intravedere con la coda dell’occhio i capelli castani del Soldato prima che scomparissero nella botola che riconduceva all’interno della villa.

-James, aspetta!- Provò a chiamarlo, rompendo il silenzio, ma lui non ricomparve. Senza esitare un momento di più, si alzò, la cartella ben stretta al petto, e scese dalla scala a pioli con un balzo, ritrovandosi così nella piccola soffitta. Piegandosi lievemente onde evitare di sbattere la testa contro il soffitto basso, corse verso la porta, ma una volta uscita non c’era più traccia di James. Imprecando sottovoce, si diresse verso la sua camera. Uno dei pochi vantaggi di essere una delle Vedove Nere più anziane era di non dormire più nello stanzone con le bambine ma avere assegnata una stanza, più piccola e più spoglia di quelle degli istruttori, ma almeno garantivano una parvenza di privacy. Ovviamente, però, la Stanza Rossa era sempre attenta a non lasciare mai che si sentissero troppo a proprio agio: a scopo di evitare ciò, la squallida carta da parati delle sue piccole quattro mura era tappezzata di ritratti delle personalità più importanti a capo della Stanza. Non potevano essere rimossi e la pena che sarebbe stata inflitta nel caso faceva desistere tutte dal provarci. In questa maniera, Natalia e probabilmente anche le altre si sentivano costantemente osservate. Inoltre, alla testiera del letto era perennemente attaccato un paio di manette. Oltre una certa età non erano più obbligate a indossarle la notte, ma erano talmente abituate dopo tutti quegli anni che solo la loro presenza le induceva a cedere e mettersele. Natalia aveva un moto di disgusto ogni sera, appena le sentiva chiudersi intorno al suo polso. Viveva in un luogo dove avevano plasmato talmente tanto le menti di loro ragazzine da fare in modo che si sentissero più sicure indossando delle manette mentre dormivano. Eppure lei, come le altre, non poteva farne a meno. Si odiava per questo ed era sicura che fosse ciò che la Stanza voleva. Quel giorno però, entrando di fretta nella sua stanza fece a mala pena caso sia ai quadri sia alle manette. Si precipitò sul letto dal materasso duro e tirò fuori da sotto la maglia la cartella che aveva tenuto nascosta da occhi indiscreti nel tragitto. Con le mani tremanti, la aprì. Sulla prima pagina vi era attaccata una foto di lei da piccola, non avrà avuto più di cinque anni. Eppure, le sembrava di guardare a un’altra bambina, con un’altra infanzia diversa dalla sua: i lunghi capelli di un rosso vivo erano vaporosi e curati, le sue guance erano rosee, gli occhi smeraldini vispi e un accenno di sorriso era dipinto sulle labbra rosse e carnose. Anche i vestiti che indossava, sebbene si potesse vedere solo la parte superiore di quello che doveva essere un vestito a maniche lunghe color lavanda, sembravano belli e ben tenuti. Non vi era traccia della bambina, poi successivamente ragazza e donna, emaciata che aveva sempre visto riflessa nello specchio, non le guance scavate, non le occhiaie, non lo sguardo triste, le cicatrici, i capelli trasandati di un rosso spento, nemmeno il pallore malaticcio della sua pelle. Se il soggetto della foto non avesse avuto il suo stesso neo sulla guancia, probabilmente avrebbe creduto si trattasse di una bambina molto simile a lei. Non poté fare a meno di osservarla per diversi minuti, rapita. Aveva vissuto lì per talmente tanto tempo che si era dimenticata dell’esistenza di un’altra realtà. Posò la foto e spostò la sua attenzione sul primo file nella cartella. Il suo cuore perse un battito quando notò che vi era scritto il nome dei suoi genitori... O meglio, solo di suo padre, in quanto quello di sua madre sembrava essere sconosciuto. Tuttavia, avere almeno un indizio su uno dei suoi genitori, vedere quel nome, Al'jan Romanov, impresso in nero sulla carta la rendeva in qualche modo felice. Natalia Alianovna Romanova. Suonava bene. Lesse voracemente le poche informazioni sulla sua vita prima della Stanza, scoprendo di essere nata a Stalingrado e di essere l’unica femmina in una famiglia con quattro figli. Tutti i suoi tre fratelli, però, parevano essere morti. Si perse per un secondo a immaginare come sarebbe stata la sua vita se fosse cresciuta con loro, se fosse rimasta la bambina della foto. Provò a immaginarsi cosa volesse dire fare parte di una famiglia che le volesse bene, avere un’infanzia normale. Scosse la testa, con gli occhi lucidi, come a scacciare quelle futili fantasie. Aveva imparato che fantasticare su ciò che avrebbe potuto essere senza la Stanza Rossa non la portava da nessuna parte se non a un dolore ancora maggiore. Girò la pagina e vi trovò un plico di informazioni sulla dinastia degli ultimi zar, i Romanov. Sfoglio il fascicoletto fino all’ultima pagina. Su di questa vi era un certificato, con tanto di firma di uno dei medici più importanti della Stanza, che dimostrava con una serie di dati basati su esami del sangue che lei era in effetti l’ultima discendente in vita della famiglia. Si rigirò il fascicolo tra le mani. Con la nebbia che solo qualche anno dopo avrebbe imparato a identificare come ciò che contraddistingueva tutti i ricordi che avevano provato a cancellarle, le tornò in mente la conversazione che aveva origliato dai dottori che l’avevano visitata il giorno del suo arrivo a proposito del suo cognome. Era la prima volta che le capitava di avere il flash di un ricordo che non pensava di avere, pertanto lo scacciò via senza rimuginarci troppo sopra. In qualche modo, l’idea di avere del sangue blu che scorreva tra le sue vene non la fece reagire come quando aveva letto il nome del padre. In fondo, era solo un nome, che per altro non le aveva mai garantito nessun tipo di agevolazione alla Stanza se non quello di non essere uccisa al suo arrivo. Ora come ora, non era sicura che fosse stato un vantaggio. Sfogliò in maniera disattenta i file successivi, tutti riguardanti gli allenamenti e la sua forma fisica, dati che conosceva fin troppo bene. Non c’erano riferimenti a nessun esperimento e lei al momento ne fu sollevata. Ci vollero diversi anni prima che scoprisse che quei file erano custoditi in una cassaforte nei laboratori dei medici. Riordinò i file e li ripose nella cartella in modo che non si notasse il suo passaggio. La nascose accuratamente in un cassetto del piccolo comodino di fianco al letto. L’avrebbe rimesso a posto in un altro momento. Ora doveva trovare James.

 

Natalia arrivò giusto in tempo per la cena, frustrata. Non riusciva a capacitarsi di come il Soldato riuscisse a non farsi trovare nemmeno lì dentro. Certo, era una villa grande, ma pur sempre un’abitazione chiusa. Non aveva intenzione, però, di sopportare una punizione per essere arrivata tardi a cena. Il pasto trascorse come sempre nel silenzio più assoluto. Natalia mangiò ciò che aveva nel piatto senza nemmeno farvi caso, gli occhi che vagavano per la Stanza in cerca del Soldato d’Inverno. Come si aspettava, non si presentò. Finita la cena si alzò e si diresse verso la sua camera per dormire. Stava salendo le scale, quando udì un medico uscire da una stanza dicendo “Buonanotte, Soldato.” Natalia sorrise tra sé. C’era una sola persona che chiamavano così alla Stanza, e quella persona a quanto pare dormiva nella stanza direttamente sotto la sua.

 

Con il cuore che minacciava di scoppiarle in petto, attese pazientemente che i rumori al di fuori della camera cessassero, segno che nei corridoi erano rimaste solo le guardie notturne. Uscì da sotto le coperte, piano. Era ancora vestita con l’uniforme, la vestaglia che indossava la notte l’aveva messa addosso a un fantoccio fatto di asciugamani e cuscini. Non era il miglior trucco che avesse, ma per quella notte e per simulare la sua presenza nel letto poteva bastare. Scostò la tenda della finestra per guardare fuori e aspettò pazientemente che la guardia del cortile rientrasse per dare il cambio a quella di turno dopo di lui. Da quel momento, avrebbe avuto circa cinque minuti di tempo. Attese in silenzio. Finalmente, vide l’uomo in lontananza sbadigliare, controllare l’orologio e avviarsi verso l’interno. Con tutta l’accortezza di cui era capace, aprì la finestra. Una ventata d’aria gelida la colpì in viso e fu in quel momento che lei realizzò appieno ciò che stava rischiando. Per cosa poi, per parlare con lui? Se l’avessero scoperta a uscire di nascosto la notte per introdursi nella camera di un addestratore, l’avrebbero probabilmente uccisa. O peggio. Scosse la testa. Doveva essere impazzita. Lentamente, con la propria grazia da ballerina, uscì dalla finestra. Tenendosi salda al cornicione, chiuse la finestra. Guardò in basso. Era sospesa a una quindicina di metri da terra. Cercò di controllare la propria respirazione e si fece oscillare fino a quando arrivò a trovare appiglio sulla grondaia. Aspettò qualche secondo, sperando che non cedesse, e quando vide che non accennava a muoversi tirò un sospiro di sollievo. Lentamente, cercando tutti gli appigli che poteva, iniziò la sua discesa. Maledisse mentalmente l’architetto che aveva avuto la brillante idea di progettare i due piani a così tanta distanza. Ad un tratto sentì l’appiglio sotto i piedi cederle e il suo cuore perse un battito. Si sentì cadere e strinse la presa sulla grondaia. Riuscì a fermare la sua caduta, scivolando sul tubo di metallo. Sospirò, ma appena il suo battito rallentò dovette trattenere un gemito. Staccò una mano dalla presa e la osservò. Nonostante fosse buio, non le ci volle molto per notare che stava sanguinando. Sperò di non aver lasciato scie visibili sul metallo. Scese ancora di circa un metro. Grazie al cielo le stanze del primo piano avevano tutte un balcone, per cui l’atterraggio fu agevolato. Estrasse una forcina dai propri capelli e iniziò a lavorare sulla serratura della finestra. Un rumore dietro di lei la fece sobbalzare. La guardia di turno stava uscendo. Si girò e iniziò a lavorare febbrilmente. Appena la guardia si fosse girata, l’avrebbe vista. La serratura non accennava ad aprirsi. Imprecando, continuò a lavorare invano. Vide la luce della torcia della guardia avvicinarsi verso di lei e si guardò intorno in cerca di un possibile nascondiglio. Niente. Presa dal panico, riprese a lavorare maledicendo se stessa e la serratura. A un certo punto la forcina si ruppe nella serratura. Era finita. Si girò verso la luce della torcia. Ormai era vicinissima a lei. Chiuse gli occhi e attese l'inevitabile, trattenendo il fiato. Accadde tutto piuttosto in fretta, ma non ciò che si aspettava lei. Udì la finestra dietro di sé aprirsi e due mani forti afferrarla e trascinarla all’interno. La porta si richiuse e l’unica cosa che le impedì di lanciare un urlo di esclamazione fu una mano posta sulle sue labbra a serrargliele. Respirando a fatica, vide la luce passare davanti alla finestra e superarla. Passati un paio di secondi, avvertì il corpo dietro di lei rilassarsi e la mano scivolare via dalla sua faccia. Si girò di scatto, trovandosi davanti al Soldato d’Inverno. Indossava soltanto i pantaloni, era a torso nudo. Portava un asciugamano intorno al collo. Natalia non l’aveva mai visto così, non aveva mai visto tutte le cicatrici che aveva sul petto, né quelle che contornavano l’attaccatura del braccio di metallo. Cercò di dire qualcosa, ma si ritrovò incapace di articolare il milione di pensieri che le frullavano per la mente. Lo sguardo di lui scese su di lei, per fermarsi alle sue mani.

-Sei ferita.- Disse, atono. Lei si fissò nuovamente le mani. Se n’era quasi dimenticata. Alzò di nuovo la testa e lo vide girarsi e rovistare in un cassetto. Tirò fuori delle bende, poi si girò e la fece sedere sul letto. Senza incrociare il suo sguardo, iniziò a fasciarle le ferite. Lei si accorse dopo qualche istante di stare trattenendo il fiato. Cercò di distrarsi e si guardò intorno. La stanza era decisamente più grande della sua, vi erano un paio di cassettiere in più e persino un armadio e su un lato vi era una porta che probabilmente portava a un bagno privato. In comune con la sua stanza, però, c’erano i ritratti appesi alle pareti. Ritornò con lo sguardo su di lui, che stava tagliando gli eccessi. Non era sicura che fossero mai stati così vicini al di fuori degli allenamenti.

-Ecco fatto.- Borbottò lui dopo un po’.

-Grazie.- Mormorò in risposta. Si riferiva sia alle bende sia all’averla salvata pochi secondi prima, tirandola via dal balcone. Lui non rispose, ma si rialzò e si avviò verso la porta.

-Forse se vai abbastanza velocemente e ti nascondi nell’ombra riuscirai a raggiungere la tua stanza prima che...- Iniziò, ma venne subito interrotto da lei.

-James, ti prego.- Lo guardò, implorante. Non aveva corso tutti quei rischi per essere rimandata nella sua camera. Lui si girò a guardarla, un'espressione confusa dipinta in volto.
-Cosa ti è successo? Sei diventato... Distante negli ultimi tempi.- Gli chiese, senza troppi indugi.
-Natalia, lo sai che è così che dovrebbe essere.- Replicò lui con voce severa. -Tu e io non dovremmo avere contatti al di fuori degli allenamenti.
Lei scosse la testa.
-E il fascicolo di stamattina? Quello non conta come contatto?
Lui sospirò.
-Stavo ripagando un favore.- Rispose secco.
-Sapevi perfettamente che non l'avevo fatto aspettandomi di essere ricambiata. E hai corso un bel rischio rubando il fascicolo, tutto per un debito che ti sei convinto di avere. Non voglio che tu corra rischi per me.
-Nemmeno io voglio che tu ne corra per causa mia.- ringhiò lui di colpo. Natalia di colpo capì.
-È per il giorno della missione, vero? Quando ti hanno costretto ad attaccarmi. È per quello che non ti avvicini più a me? Temi che sia arrabbiata?- Chiese, ansiosa di sapere, di capire. Lui si allontanò finalmente dalla porta.
-Io... Sì, è per quel giorno.- Ammise, sottovoce. -Ma non è perché credo che tu sia arrabbiata. Né spaventata, se è per questo.
Si interruppe. Natalia inclinò la testa, in attesa di una spiegazione. Lui sembrava combattuto tra il dirglielo o no.
-Io... Ho paura.- Confessò dopo un po'. Non era di sicuro ciò che la ragazza si aspettava.
-Pensavo che il Soldato d'Inverno non avesse paura di niente.- Sussurrò lei in tono suo malgrado quasi malizioso. Lui le rivolse un sorriso carico di tristezza.
-Pensavo anche io. Ma è così, ho paura di ciò che ho fatto. Lo sogno ogni notte, è il mio pensiero fisso. Temo di perdere nuovamente il controllo e farti del male, come ho fatto l'altra volta... temo ciò che loro possono farmi fare, non posso fidarmi della mia stessa mente.- Si avvicinò ancora a lei. Ormai erano uno di fronte all'altra, a talmente poca distanza che lei poteva quasi sentire il calore irradiare dal corpo di lui. -Non voglio farti del male, Natalia.- Aggiunse in un sussurro, guardandola dritto negli occhi per la prima volta negli ultimi giorni.
-Non me ne farai, James, lo so che non me ne farai.- Ribatté lei con il cuore che aveva ricominciato a batterle a mille. Se fosse andata avanti di quel passo era sicura che avrebbe avuto un infarto prima della fine della serata.
-Non puoi dirlo con certezza. Sai bene di cosa siano capaci.- La
rimproverò lui. -Ti prego, ora torna nella tua stanza, prima che ti trovino qui. Conosci le conseguenze.- La stava ormai quasi implorando. Non l'aveva mai visto così... Vulnerabile, se non la volta in cui aveva pregato Madame B di non costringerlo ad attaccarla. Era una parte di lui che doveva essere ben nascosta, e a quanto pare usciva fuori solo per lei, e Natalia non sapeva come reagire. Prima che lui la spingesse nuovamente fuori, però, si fermò.
-Non farlo. Non mi tagliare fuori così.- Lo pregò. -So che è infantile, so che non è un comportamento da Vedova Nera, so anche che va contro le regole. Ma ti prego, non credo di potercela fare se torni di nuovo a comportarti come questi ultimi giorni. Sei l'unico qua dentro di cui mi posso fidare, l'unico a cui affiderei la mia vita.- Non aveva più controllo sulle proprie parole, stavano uscendo a getto dalla sua bocca. Non ricordava l'ultima volta che avesse parlato onestamente, col cuore in mano, non ricordava l'ultima volta che aveva mostrato i suoi sentimenti a qualcuno. Si stava dimostrando vulnerabile a sua volta e stranamente ebbe un effetto quasi liberatorio. In qualche modo, si sentiva perfettamente a suo agio con lui e non erano state molte le occasioni in cui avesse potuto dire di sentirsi così, lì alla Stanza. -Ho bisogno di te, James.- concluse, la voce talmente bassa che quasi dubitò che lui l'avesse sentita. Lui la guardò in silenzio per diversi minuti che a lei parvero ore. Dopo un po' si spazientì: gli aveva detto tutto ciò che pensava, si era mostrata debole e tutto ciò che otteneva era un silenzio tombale?
-Davvero ti importa così poco? Sono venuta fin qui rischiando di essere scoperta, rischiando la mia vita, sono stata un libro aperto con te e tu non hai niente da dire? Nemmeno un rimprovero, che come hai detto non dovremmo avvicinarci, è pericoloso, devo tornare nella mia stanza e così via?- Ringhiò con i pugni stretti. La tensione di quella serata le si stava riversando addosso in quell'istante e non era sicura di poterla gestire.
-Dubito che potrei essere così obiettivo.- Borbottò lui, passato un istante. Lei non riuscì a trattenere una risata di scherno.
-Ah sì? E perché mai?- Chiese beffarda. Lui rimase nuovamente in silenzio, mordendosi lievemente il labbro inferiore. Di colpo, portò il suo braccio vero in direzione del viso di Natalia, appoggiando la propria mano sulla sua guancia. Lei si irrigidì, presa alla sprovvista da quell'improvviso contatto. La guancia aveva preso a bruciarle in quella maniera a lei ormai famigliare. Registrò a mala pena il fatto che il viso di lui si stava avvicinando al suo, fino a quando non si ritrovò le calde labbra di James appoggiate alle sue. Lei rimase immobile un paio di secondi, sorpresa, poi chiuse gli occhi e ricambiò il bacio. Lui sembrò essere sollevato dalla sua reazione e si sciolse lievemente, portando anche la fredda mano di metallo sull'altra sua guancia, mentre invece le braccia di lei erano andate a intrecciarsi dietro il suo collo. Nel momento in cui le loro lingue si incontrarono, Natalia sentì finalmente quella sensazione di vuoto nello stomaco colmarsi, come se non avesse voluto altro da quando l'aveva visto per la prima volta. Sotto sotto sapeva che era così, per quanto avesse provato a nasconderlo. Si strinse di più a lui, continuando a baciarlo prima delicatamente e poi man mano con più passione. Lui ricambiava con la stessa enfasi. Quando furono entrambi senza fiato, lui si separò da lei il minimo indispensabile per respirare. Appoggiò la fronte sulla sua.
-Ecco perché.- Sussurrò contro le sue labbra. Lei sorrise e riprese a baciarlo come se fosse l'ultima volta che poteva farlo, con una foga quasi disperata. Si sentiva come se non potesse averne abbastanza di lui, come se non si potesse separare. Le sue mani si staccarono dal collo di James, le sue dita iniziarono a tracciare
sottili linee invisibili sul suo torso, seguendo il tratto dei suoi muscoli, segnando il contorno delle sue cicatrici. Lo sentì contrarsi sotto i suoi polpastrelli e trattenne a stento un brivido. Lo desiderava, più di quanto avesse mai desiderato nulla nella sua vita. Il Soldato si separò da lei quanto bastava per guardarla negli occhi. Il suo respiro era già pesante, i suoi occhi scuri.

-’Tasha, io non...- Iniziò, ma fu subito interrotto da lei.

-’Tasha?- Mormorò quasi divertita. Lui scrollò le spalle.

-Scusami, se non ti piace non lo userò più.

-No, no è... Bello.- Gli sorrise. Aveva sempre odiato essere chiamata in qualsiasi altro nome che non fosse il suo, ma questa volta le piaceva davvero, le piaceva che lui la chiamasse così. Lui sorrise di rimando e annuì.

-’Tasha, non voglio spingerti a fare niente che tu non voglia fare.- Le sussurrò lui con voce roca. Sapeva che il privilegio della scelta alla Stanza era pressoché inesistente, e lui non voleva costringerla a fare qualcosa di cui si sarebbe pentita. Lui non era come loro.

-Lo so.- Mormorò lei in risposta. Sorrise e lo baciò nuovamente, sapendo che avrebbe capito. Lui sorrise sulle sue labbra, e portò le mani sulla schiena della ragazza, a cercare la cerniera della sua uniforme. Mentre la abbassava, la sua bocca scese a seguire il contorno della mandibola di lei, scendendo fino al collo, lasciando una scia rovente ovunque passasse. Natalia tirò indietro la testa, chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra. Faceva fatica a respirare regolarmente. Le sue mani erano ora aggrovigliate tra i suoi capelli castani, mentre quelle di James erano ancora intente ad aiutarla a sfilarsi la tuta, la sua bocca appoggiata tra la sua spalla destra e il collo. La rossa avvertiva il freddo del metallo contro la propria schiena, il suo respiro solleticarle la pelle. Il fiato di entrambi si era fatto affannoso, vi era tra loro, nei loro movimenti, quasi un’urgenza che nessuno dei due riusciva a controllare. Liberatasi finalmente dall’uniforme, con addosso solo la biancheria intima a fare da ostacolo a lui, Natalia si sentì sollevare dalle sue braccia forti, che la adagiarono qualche secondo dopo al letto. Venne raggiunta pochi secondi dopo dal peso e soprattutto dal calore del suo corpo sopra il proprio. Natalia non era vergine, e di sicuro sapeva come comportarsi a letto. Era stato un altro degli insegnamenti della Stanza quando aveva appena quattordici anni, usare il suo corpo come arma. Le avevano insegnato, con suo estremo disgusto, che per quante pistole potesse avere, per quanto brava potesse essere nelle arti marziali le risorse più potenti che aveva erano nelle sue labbra e nelle sue curve. Le avevano insegnato come sedurre gli uomini, come annebbiare la loro mente fino a fare in modo che le raccontassero tutte le informazioni di cui aveva bisogno, come piegarli a proprio piacimento senza che loro sospettassero niente. Il Soldato d’Inverno stesso le aveva dato dei consigli su dove avrebbe potuto nascondere delle armi in modo che non si vedessero al di sopra degli indumenti. E allora l’avevano fatta allenare, fino a quando per lei era diventata quasi una routine. Ed era questo che era sempre stato per lei il sesso, un esercizio, un modo come un altro di uccidere. Prima di quella sera, però, non le era mai capitato di desiderarlo così tanto con qualcuno. Non le era mai capitato di sentirsi così leggera dopo, addirittura felice. Aveva sempre messo i sentimenti da parte, aveva imparato a nasconderli. Aveva, certo, sentito parlare di concetti come l’amore. Aveva però sempre creduto che fossero storie che si raccontavano ai bambini per nascondere loro la dura realtà, o che comunque fosse qualcosa di riservato a chi avesse avuto un’infanzia migliore della sua. In quel momento, però, mentre si ritrovava sdraiata di fianco a lui a riprendere fiato con le sue mani che le accarezzavano dolcemente i capelli e la sua bocca appoggiata sulla sua fronte, non riusciva a trovare un’altra parola per descrivere ciò che provava. Si rannicchiò contro di lui, non riuscendo a fare a meno di sorridere. Chiuse gli occhi e si addormentò in pochi minuti abbracciata a James, per la prima volta dopo anni senza aver bisogno di legarsi al letto con delle manette per sentirsi al sicuro.

 

I mesi successivi furono una parentesi quasi spensierata all’interno del passato alla Stanza Rossa di Natalia. Certo, c’erano sempre gli allenamenti e tutto, ma le giornate passavano nell’attesa di ogni momento che lei potesse passare con James. Si ingegnavano per riuscire a scappare dagli occhi indiscreti delle guardie e delle altre ragazze, per intrufolarsi l’uno nella camera dell’altro la notte, si davano appuntamento nelle zone più nascoste della villa e talvolta anche al di fuori, nel cortile o nei dintorni. Anche negli allenamenti, sebbene continuassero a recitare alla perfezione la parte di addestratore e allieva, era cambiato qualcosa, comunicavano tra di loro con gesti e sguardi. I giorni trascorrevano così, in costante trepidazione, e scivolavano quasi via tra le loro dita. Più cercavano di rallentare il tempo, più questo accelerava. Tuttavia, se, come era probabile, entrambi sapevano che i loro giorni insieme avevano una durata molto breve, nessuno dei due ne fece mai parola.

   
 
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