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Autore: reginamills    10/08/2016    2 recensioni
{Sequel di Take Me Away} | Outlaw Queen AU. Robin Locksley aveva tutto: una bellissima casa, una moglie che amava con tutto sé stesso e che lo ricambiava, un bambino in arrivo e perfino un fedele amico: si tratta di Wilson, il Golden Retriever che lui e Regina avevano adottato. Ma ecco qui: un battito di ciglia e tutto ciò che ama di più sembra scomparire davanti ai suoi occhi. E, come se non bastasse, il passato sembra ripresentarsi...
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Regina Mills, Robin Hood
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Buonasera, di nuovo io! Eccoci con un nuovo capitolo, breve ma intenso. Volevo ringraziare tutti quanti per le splendide recensioni e per tutti i complimenti che mi fate, anche su twitter. Siete splendidi, grazie :)
Spero vi piaccia, buona lettura!

 
Quando Renee si infilò sotto le coperte, quella sera alle nove e mezza, come al solito, il sonno sembrò non voler arrivare. Era così pensierosa, quasi si sentiva in colpa per il giorno che stava per arrivare. 
Sapeva che non era colpa sua se il giorno del suo compleanno sarebbe stato, allo stesso tempo, fonte di grande gioia e di grande dolore, sapeva che non aveva avuto scelta, anche se, potendo, avrebbe scelto di non nascere mai, sapendo di salvare la vita a sua madre. 
Il volto di suo padre era segnato dal dolore. Perfino una bambina piccola come lei sembrava accorgersene. Giorno dopo giorno, le giornate del suo papà diventavano sempre più brevi, finché un giorno, addirittura, cominciò ad andare a letto alla stessa ora in cui ci andava lei.
A scuola, la sua compagna Brianne le aveva spiegato che gli adulti di solito danno degli orari ai bambini per andare a dormire che loro stessi non rispettavano neppure da piccoli. Era soltanto un modo per assicurarsi che si sarebbero svegliati presto il giorno dopo, puntuali per la scuola. Lei non aveva mai visto il suo papà fare tardi la sera, non lo aveva mai sfiorato l’idea di rimanere sveglio fino a mezzanotte -orario che per lei sembrava completamente proibito e spaventoso. Si chiedeva perché, e a volte aveva persino provato a chiederglielo, ma Robin aveva sorriso e le aveva accarezzato i capelli senza rispondere.
Silenziosamente, si strinse sotto le coperte, con il suo amato peluche che le era stato dato dalla nascita e cercò di chiudere gli occhi. Inutile dire che, neppure una manciata di secondi dopo, li riaprì immediatamente.
Si sporse per dare un’occhiata all’orologio sul suo comodino. Segnava le dieci. Era praticamente tardissimo per lei. Una volta era rimasta sveglia fino alle undici, ma era Capodanno, quindi quasi non contava.
Perché non riusciva a dormire? Quella mattina si era svegliata presto, aveva fatto educazione fisica a scuola ed aveva corso molto, quindi aveva ogni motivo per essere stanca. In più, prima di cena era uscita con il suo papà per portare Wilson a fare la sua solita passeggiata, il tutto solo dopo aver finito i compiti.
Di solito, dopo una simile giornata, faticava ad arrivare al coprifuoco con gli occhi ancora aperti, ma quella notte… era diverso. Sentiva che qualcosa non andava e lei non poteva fare niente per cambiarlo.
“Mi dispiace tanto, mamma.” sussurrò nel buio della stanza. Era la prima volta che lo faceva, la prima volta che parlava con sua madre, con qualcuno che non era lì. Qualcosa, però, le diceva che non era inutile, che qualcuno la stesse ascoltando. La sua mamma.
Prese il diario che il suo papà le aveva regalato il giorno prima, quello che aveva lasciato sul comodino, incapace anche solo di aprirlo senza versare almeno una lacrima. Finalmente, sembrò trovare il coraggio di farlo e, con la manina che tremava, accarezzò quella fotografia così spaventosamente bella, tracciando col dito il contorno del viso della donna che ritraeva. Era davvero bella, il suo papà non aveva esagerato nemmeno un po’ quando glielo diceva. Sorrise mestamente e la guardò ancora per qualche istante. Poi, improvvisamente, le venne un’idea.
Prese una penna dal porta matite a forma di elefante che le aveva regalato sua nonna. Era una penna nera, come i capelli della sua mamma. Con riluttanza girò la pagina su cui era incollata la fotografia e, per qualche secondo, le sembrò quasi di mancarle di rispetto nel farlo. La sensazione svanì, tuttavia, quando posò la penna sul foglio bianco, e le parole sembrarono arrivare da sole:

Cara mamma,
sono Renee, tua figlia. E ti voglio bene. 

Si fermò per qualche istante a rileggere quelle parole, poi, un tenero ma fiero sorriso le si dipinse sul volto: non era un caso se quelle parole erano state le prime che aveva scritto. Aveva sempre pensato che, se avesse avuto la possibilità di vedere la sua mamma, anche solo per qualche secondo, la prima cosa che le avrebbe detto sarebbe stata fatta da quelle tre semplici parole: ti voglio bene.
 

La vita senza di te non è facile, mammina. Io e papà non riusciamo sempre a essere felici, anche se lui ci prova in ogni modo. Lui è fantastico, mamma, perciò non giudicarlo male se ogni tanto si dimentica di sorridere davanti a me. Io so come si sente, perché è come mi sento anch’io. Ci manchi tantissimo, mammina. Manchi a papà, perché ha bisogno di te in ogni momento, ha bisogno di te quando piange la notte, nel letto, e fa di tutto perché io non lo senta: questo è un segreto, mamma, non dirlo a papà: io so quando piange la notte. Lo sento. Una volta mi sono alzata per prendere un bicchiere d’acqua e ho sentito papà parlare con qualcuno, nella sua camera. Mi sono avvicinata e ho aperto la porta, facendo attenzione a non farla scricchiolare. Così l’ho sentito parlare con te, mentre piangeva e si asciugava le lacrime contro il cuscino. Non ho sentito molto, ma ripeteva spesso che gli manchi, mamma. Lo ripete sempre.
E quando lo fa davanti a me io rispondo che manchi anche a me, e tanto.
E’ così, mamma, io ho bisogno di te nella mia vita. Ho bisogno che mi abbracci, proprio come mi abbracciavi quando ero ancora nella tua pancia, come nella fotografia. A proposito: sei bellissima, mamma. 

Si fermò per qualche istante, a rileggere ciò che aveva scritto, come si era raccomandata di fare la maestra Blanchard ogni volta che scriveva qualcosa. Sorrise alle tante volte in cui aveva ripetuto la parola mamma. Era una parola che aveva bisogno di pronunciare più di ogni altra cosa e, il solo scriverla, la rendeva quasi tanto felice quanto farlo.

Domani sarà il mio compleanno e anche se tutti mi dicono di festeggiare e di sorridere, io non voglio farlo. So che non c’è niente per cui sorridere, mamma. Tu non ci sei e da quando non ci sei è come se mancassero tutti i motivi per sorridere. Papà dice che, comunque, mi preparerà una torta con le fragole e il cioccolato, e che la nonna verrà per una festicciola piccola piccola, come voglio io.
Non voglio altre persone intorno, mamma, ho bisogno solo di papà, della nonna, di Wilson e di te. Soprattutto di te.

Uno sbadiglio la interruppe e la costrinse a guardare la sveglia sul comodino. Erano le dieci e mezza, era tardissimo. Se suo padre l’avesse trovata sveglia l’avrebbe sicuramente sgridata. O forse no, chi poteva saperlo. Lui non la sgridava mai. Ma, comunque, il sonno che tanto bramava l’aveva finalmente raggiunta. 
Sorrise alle righe che aveva scritto e completò la sua lettera:

Devo andare a dormire, mammina, è tardi e non voglio che papà mi scopra a scrivere. 
No, non so neanche io per quale motivo.
Ti voglio tanto bene, mamma.
A domani.

Mise il diario nel cassetto del suo comodino stavolta, per assicurarsi che nessuno potesse vederlo. Ora era il suo diario segreto. Suo e di sua madre. Poggiò la penna sopra il diario e spense la luce: finalmente il sonno arrivò e, diversamente dagli altri anni, era un sonno dolce e sereno.


fatemi sapere cosa ne pensate se vi va :)
un bacio e alla prossima!

   
 
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