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Autore: Old Fashioned    16/08/2016    12 recensioni
Seconda guerra mondiale, battaglia di Inghilterra. Un leggendario quanto inafferrabile pilota della Luftwaffe, soprannominato "Cavaliere di Valsgärde", compare durante le battaglie più cruente, abbatte il suo avversario e subito dopo scompare senza lasciare traccia.
Il Maggiore Stuart, del 19° Squadron, riesce finalmente ad abbatterlo con uno stratagemma, ma quando l'Asso tedesco sarà al suo cospetto le cose si riveleranno molto diverse da come se le aspettava...
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Capitolo 19

L'allarme antiaereo sorprese Stuart nella poltrona in cui era sprofondato la sera prima.
Svegliato di soprassalto, istintivamente il maggiore balzò in piedi, afferrò la combinazione di volo e corse fuori. Nella luce incerta dell'alba vide i suoi piloti uscire dagli alloggi infilandosi frettolosamente i vestiti.
“Uno stormo di bombardieri, signore!” lo accolse l'ufficiale di servizio. “Arrivano da sud est con forte scorta di caccia, e stando a quello che dicono gli osservatori dovrebbero passare proprio qui sopra.”
Lo raggiunse e gli mostrò un foglio.
“Decollare subito,” ordinò conciso il maggiore dopo avergli dato un'occhiata. “Voglio tutto lo Squadron in volo entro cinque minuti!”
Constatò con soddisfazione che gli avieri stavano già portando gli aerei in linea di volo.
Poco dopo il 19° al completo stava sorvolando le campagne del Cambridgeshire diretto verso la costa. Stuart avvistò quasi subito i bombardieri della Luftwaffe: erano degli Heinkel 111 dal caratteristico profilo arrotondato e procedevano in formazione diretti verso Londra.
“Guarda quanti ce ne sono di quei bastardi!” esclamò qualcuno in frequenza.
“Meno chiacchiere, Evans!” fu la secca reprimenda del maggiore, che non amava i commenti fuori luogo.
Nessun altro espresse pareri sulla formazione nemica.
Avvistati gli inglesi, frattanto, gli Heinkel 111 avevano serrato la formazione, il che rappresentava praticamente l'unica azione difensiva che un gruppo di bombardieri potesse compiere se veniva attaccato. Meno spazio c'era fra gli aerei, del resto, meno potevano infilarcisi i caccia nemici.
E a proposito di caccia, ecco spuntare quelli della Luftwaffe, i Messerschmitt 109 dalle corte ali squadrate, quasi neri nella luce tersa del mattino.
Procedevano a gruppi di quattro, nella caratteristica formazione di due più due.
“Prepararsi ad attaccare!” ordinò Stuart in frequenza, e subito vide i suoi piloti prendere quota per portarsi in posizione di vantaggio.
Lui stesso cabrò dando tutta manetta e notò che i tedeschi stavano facendo lo stesso. Carichi di ordigni, però, i bombardieri salivano molto più lentamente dei caccia, che quindi erano costretti a rallentare per non lasciarli indifesi.
Era una situazione tatticamente vantaggiosa e le sorti della battaglia volsero in breve a favore della RAF. Già diversi bombardieri erano precipitati in fiamme e i caccia dovevano difendere sia i superstiti che loro stessi, col risultato che non riuscivano a fare bene nessuna delle due cose.
E poi spuntò dal nulla una coppia di Messerschmitt. I due aerei arrivarono a tutta manetta, poi si divisero e il più avanzato passò attraverso la formazione dei bombardieri dal basso verso l'alto come una lama di coltello. Andò su in verticale per qualche centinaio di piedi, quindi fece una virata sfogata e picchiò bruscamente. Puntò uno dei caccia inglesi più spavaldi, che ormai certo della vittoria si era spinto troppo vicino agli Heinkel 111. Due brevi raffiche e lo Hurricane precipitò lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Il Messerschmitt si sganciò rapido, guizzò di nuovo in posizione d'attacco, ingaggiò un breve combattimento con un altro nemico e inesorabilmente lo abbatté.
“È lui!” esclamò qualcuno in frequenza. “È quel bastardo!”
A questo punto Stuart diede tutta manetta per intercettarlo, ma parve che l'altro avesse capito le sue intenzioni, perché immediatamente fece un Immelmann sfuggendogli proprio sotto il naso, quindi puntò un aereo leggermente arretrato e gli si mise in coda.
A quella vista il maggiore si sentì gelare il sangue. “John!” gridò in frequenza, “John, ce l'hai dietro!”
Corse a dare man forte all'amico, ma sotto i suoi occhi inorriditi il Cavaliere di Valsgärde sparò due raffiche di traccianti e recise di netto un'ala dell'aereo di Poynter.
Subito lo Hurricane si rovesciò a cominciò a precipitare in vite.
“No!” urlò Stuart seguendolo impotente con lo sguardo.
Dopo una caduta che sembrava non finire mai, l'aereo si riprese e uscì dalla vite quel tanto che consentì a Poynter di lanciarsi col paracadute. Il maggiore provò un attimo di fugace sollievo: dunque non era morto. Non ancora, almeno. Nervosamente si disse che era una gran fortuna che non avessero ancora raggiunto la Manica. Ammesso che non fosse ferito da qualche parte, Poynter avrebbe trovato un posto per atterrare e sarebbe stato rispedito allo Squadron prima di cena.
Se tutto fosse andato come doveva andare, ovviamente.
Fu costretto ad interrompere le sue angosciose congetture incalzato dagli aerei della Luftwaffe. Il Cavaliere era ancora nei paraggi e se continuava a perdersi così in elucubrazioni rischiava di essere la sua prossima vittima.

Atterrò esausto poco dopo. Avrebbe voluto chiedere notizie del capitano, ma stavano arrivando altri bombardieri e non poté fare altro che decollare non appena il suo aereo fu rifornito.
Fu solo in tarda mattinata, con tre piloti e cinque aerei in meno nei ranghi dello Squadron, che riuscì a trovare il tempo di cercare il capitano.
Cominciò la sequela delle telefonate: chiamò gli altri Squadron, il Comando di zona, gli ospedali e i reparti della difesa costiera, ma nessuno sembrava aver visto Poynter. Gli furono riportati diversi avvistamenti di aerei precipitati e piloti scesi col paracadute, ma nessuno corrispondeva a quello del suo collega e amico.
“Forse è caduto nel bel mezzo della campagna, signore,” azzardò il sergente Watkins, che aveva seguito tutta la trafila vedendo il suo superiore farsi sempre più mogio ad ogni risposta negativa. “Quando finiscono in mezzo a quelle dannate paludi ci mettono un sacco a recuperarli e...” Captò l'occhiata di Stuart. “Mi scusi, signore,” borbottò, tossicchiando imbarazzato.
I piloti che cadevano nelle paludi di solito ci morivano anche.
Il maggiore stava per replicare quando lo sguardo gli cadde su un notiziario delle Forze Armate che era stato abbandonato sul tavolo. Un titolo cubitale recitava: Il Cavaliere di Valsgärde sarà processato.
Seguiva un articolo che descriveva minuziosamente le malefatte del supposto criminale di guerra ed esaltava in termini a dir poco trionfalistici l'eroismo del maggiore George Stuart, l’abbattitore del torvo nazista, rivelando che entro breve sarebbe stato decorato dal Re in persona con la Distinguished Flying Cross.
Il primo impulso di Stuart sarebbe stato appallottolare il dannato notiziario e lanciarlo fuori dalla finestra, quell'articolo tronfio, pieno di boria e soprattutto falso l'aveva fatto imbestialire, ma coi suoi uomini che lo stavano guardando dovette mantenere il solito contegno.
“Diventerà famoso, signore,” osservò Watkins, ansioso di farsi perdonare la gaffe di poco prima.
“Pare proprio di sì,” sospirò il maggiore, poi uscì dalla baracca del comando per fare qualche passo sul prato antistante. Aveva un disperato bisogno di aria aperta e solitudine. La seconda, più che altro, perché gli riusciva penoso comportarsi con i suoi uomini come se niente fosse mentre l'angoscia e la rabbia gli stavano dilaniando l'anima.
“Abbiamo catturato il Cavaliere di Valsgärde, come no,” ringhiava fra sé e sé, “e allora chi è stato ad abbattere John, lo Spirito Santo?”
E intanto pregava che John fosse vivo e possibilmente incolume, e allo stesso tempo pregava che quei farabutti, cinici, bastardi e mistificatori di Benson e Linwood incappassero nel famoso Heinkel 111 con un'eccedenza di bombe che aveva invocato per loro il giorno prima.

Quando si fece troppo buio per volare, di Poynter non c’era ancora nessuna notizia. Stuart aveva chiesto dappertutto, persino ai municipi dei paesi che avevano sorvolato nel corso della missione, ma l’amico sembrava essersi dissolto nel nulla. Non era tra i corpi che erano stati recuperati, questa era l’unica notizia positiva che aveva ricevuto fino a quel momento. La cosa lo confortava, ma solo parzialmente. Sapeva bene che spesso i corpi non si trovavano, oppure rimanevano così sfigurati che a stento li si riconosceva come umani e venivano genericamente classificati come ‘caduti in azione’.
Ansiosamente si ripeteva che scendere col paracadute non era poi così pericoloso e che al massimo ci si poteva rompere una gamba, ma invariabilmente una vocina interveniva a suggerirgli che forse Poynter era già ferito quando era saltato dall’aereo, e che una volta a terra, indebolito dalla perdita di sangue, non era stato in grado di chiedere aiuto, e quindi giaceva morto o gravemente ferito in qualche posto isolato.
“Dobbiamo aspettare domattina,” disse ad alta voce, anche solo per liberarsi di quei pensieri opprimenti, “col buio le ricerche non possono proseguire.”
I piloti che avevano assistito alle telefonate si dispersero parlottando fra loro.
Guardandoli allontanarsi, il maggiore fece del suo meglio per mantenere il solito contegno. Non era né il primo né l’unico cui capitava una cosa del genere, e non poteva certo tenere per se stesso un atteggiamento diverso da quello che avrebbe tenuto per ognuno dei suoi uomini in un’analoga situazione. Aveva fatto tutto il possibile per cercare Poynter, ora doveva fermarsi e rimandare tutto all’indomani.
E togliersi quell’aria afflitta dalla faccia, soprattutto.
Ostentando la massima tranquillità si diresse verso la mensa. Si obbligò a non pensare a John, ma continuava a rivederlo mentre tirava palline da golf dentro la tinozza del bucato con il distacco dalle cose terrene di un Bodhisattva, oppure mentre sedeva nella sua solita poltrona al circolo ufficiali e sorseggiava con aria da intenditore il suo beneamato Old Fashioned con molta angostura.
Cenò con apparente imperturbabilità, quindi diede le consegne all’ufficiale di servizio e si ritirò nel suo alloggio.
Fuori era buio pesto, il cielo era coperto e non spirava un alito di vento. Il maggiore rimase fermo sulla soglia della mensa per qualche secondo aspettando che gli occhi si abituassero all’oscurità, poi cominciò a procedere a passi lenti verso la chiesa.
Poiché non voleva macerarsi sulla sorte di Poynter per tutta la notte, cercò di dirigere i pensieri verso altre cose. Per un po’ ci riuscì, ma ogni volta che si distraeva tornava a fare capolino la paura per il fato dell’amico.
Arrivò al suo alloggio profondamente avvilito e andò dritto alla poltrona in cui era sprofondato la sera prima.
Vi si lasciò cadere con un sospiro e rimase parecchi minuti immobile al buio. Pensava alla morte. A quella probabile del suo amico, e a quella certa del giovane Hans von Rohr, e pensava che in fin dei conti entrambe erano da attribuirsi all’inganno che l’Intelligence stava portando avanti. In guerra si poteva morire in qualsiasi momento e di qualsiasi cosa, ma nella fattispecie Poynter era incappato in un pilota nemico che per ordini superiori doveva essere considerato abbattuto in combattimento.
Se avessero potuto organizzare un’altra operazione per eliminare finalmente quel fantasma, forse John avrebbe trascorso quella serata bevendo un Old Fashioned al circolo ufficiali, e non chissà dove, ferito o magari morto.
E von Rohr non sarebbe stato impiccato come criminale non avendo altra colpa che quella di essere un ufficiale nemico.
Sospirò di nuovo: si conosceva bene e sapeva che avrebbe trascorso la notte a rimuginare su problemi che non avevano soluzione, diventando man mano sempre più demoralizzato e rancoroso, fino a che il mattino dopo non sarebbe andato in volo stanco, sfiduciato e colmo di risentimento, il che rappresentava la premessa ideale per essere abbattuto.
Di solito in casi del genere parlava un po’ con Poynter, ma ora che era proprio lui a mancargli, con chi poteva parlare?
Gli tornò in mente un pensiero che aveva formulato già il giorno prima dopo la visita dell’Intelligence, ovvero che in fin dei conti gli sembrava di avere molte più cose in comune con von Rohr che con la maggior parte dei suoi connazionali.
Come spinto da una volontà che non gli apparteneva, si alzò dalla poltrona e andò ad accendere una candela, quindi fece il giro di porte e finestre controllando che fossero tutte sbarrate. Quando fu certo di aver eliminato ogni possibile via di fuga si diresse al cancello che separava la chiesa dalla canonica.

Seduto sul suo letto, Hans von Rohr rifletteva sul da farsi. L’inglese era tornato, aveva sentito la porta che si apriva e i passi nel corridoio, ma non si era fermato a salutarlo.
Cosa significava? Doveva chiamarlo? Sarebbe stato troppo sfacciato, anche uno stupido avrebbe capito che c’era qualcosa sotto. E attirare la sua attenzione fingendo un incidente? Poteva fare rumore in qualche modo, l’inglese sarebbe arrivato, lo avrebbe trovato a terra e… no, troppo scontato. Dalla notte dei tempi, chiunque dovesse gestire dei prigionieri sapeva che quello era il sistema tipico per ingannare i secondini. Non avrebbe mai abboccato.
Quindi che fare? Alzò la testa, tentando di cogliere nel buio la sagoma delle alte bifore. Ogni minuto che passava in quel posto era un minuto che sottraeva al combattimento. Non poteva restare lì, doveva andarsene, in qualsiasi modo. Anche a costo di fare quello che stava per fare.
Si ripeté che la vittoria finale era più importante del suo onore.
In quel momento comparve sul pavimento una pennellata di luce. Von Rohr si volse in quella direzione e vide che la tenda era leggermente scostata. Fu attraversato da un brivido. Ci siamo, pensò con un misto di aspettativa e timore. Ce l’avrebbe fatta? Avrebbe ottenuto ciò che si proponeva? E qualora l’avesse ottenuto, avrebbe poi saputo farne il giusto uso? Si accorse di provare la stessa tensione di quando si era appropriato dell’aereo del capitano Müller pronto in linea di volo.
Si morse il labbro inferiore in attesa delle mosse dell’altro.
Passarono alcuni angosciosi secondi di silenzio, poi la lama di luce tremolò leggermente sul pavimento e la voce dell’inglese chiamò: “Tenente von Rohr?”
Hans si alzò cauto e silenziosamente raggiunse il cancello. “Cosa c’è?” domandò. Strinse gli occhi infastidito dalla fiamma della candela.
“Io… mi chiedevo se non fosse stanco di stare sempre chiuso lì dentro,” cominciò Stuart con voce esitante.
Stupito, l’altro aggrottò le sopracciglia. Cos’era, uno scherzo di cattivo gusto? Nonostante ogni suo precedente proposito, strinse le labbra mantenendo un ostinato silenzio.
“Voglio dire, anche se siamo nemici, non significa che dobbiamo necessariamente essere scortesi l’uno con l’altro,” si affrettò a spiegare il maggiore, “può venire di là con me per un po’, se le fa piacere, così magari vede un ambiente diverso.”
Von Rohr si prese qualche secondo per riflettere. Solo il giorno prima avrebbe rifiutato una proposta del genere con sdegno, ma da allora in effetti parecchie cose erano cambiate.
“D’accordo,” disse semplicemente.
“Accetta?” chiese il maggiore. Aveva l’aria così stupita che per un attimo il tenente pensò di avere esagerato.
“Sì, accetto,” confermò, facendo un passo indietro per nascondere nell’ombra il rossore che sicuramente gli aveva colorito le guance.
Subito la pesante serratura scattò e il cancello si aprì stridendo sui cardini. “Non ci sono altre uscite,” si sentì in dovere di precisare il maggiore, “e sono armato.”
“Mi avrebbe stupito il contrario,” non poté fare a meno di ribattere von Rohr.

Stuart condusse il giovane ufficiale in salotto e gli indicò una poltrona. Posò poi la candela su un tavolino che ospitava già una bottiglia e due bicchieri.
“Che significa?” chiese von Rohr, sedendosi cauto.
“Non vorrà farmi bere questo Borgogna da solo,” rispose il maggiore con un sorriso.
“Io non bevo.”
“Fa come il suo Führer, che beve solo latte?”
“Io ammiro il Führer,” rispose brusco von Rohr, rabbuiandosi in volto.
“Ma certo, lei è un ufficiale tedesco,” concesse il maggiore, “però pensavo che potremmo fare come i cavalieri antichi, che anche se erano nemici, ogni tanto sapevano dimenticare le battaglie e intrattenersi amabilmente fra loro. In fin dei conti la summa della poesia cavalleresca viene proprio dal suo paese, o sbaglio? Penso a Wolfram von Eschenbach, per esempio.”
“Una lettura alquanto classista,” commentò lapidario il giovane.
“Che intende dire?” domandò stupito l’altro.
“Cavalieri che passavano il tempo facendo tornei e banchetti, senza lavorare un solo giorno della loro esistenza, mentre nel frattempo i servi della gleba, neppure padroni della loro stessa vita, morivano di fame nelle campagne.”
“Ma i cavalieri aiutavano i deboli.”
“Oh, certo. Un debole a caso di tanto in tanto. Raddrizzavano qualche torto, a modo loro, s’intende, punivano qualche malfattore, o almeno così si dice, ma alla fin fine erano sempre gli sgherri del potere costituito. A parte Florian Geyer, che guarda caso era tedesco, ha mai sentito dire che un cavaliere abbia guidato una rivolta popolare?”
“Veramente no,” ammise il maggiore.
“Eppure avrebbero dovuto. I re e gli aristocratici affamavano il popolo, lo dissanguavano con le tasse. Se i cavalieri avevano davvero tutta questa voglia di difendere i deboli, perché non si sono mai mossi contro chi obbligava la gente a vivere nella miseria?” Fece una breve pausa, poi aggiunse: “Ipocrisia demagogica, come quella di Gesù Cristo quando faceva i miracoli.”
“Cosa?”
“Cristo prende un cieco a caso e gli restituisce la vista. Piuttosto crudele nei confronti degli altri ciechi, non le pare? Ed era anche figlio di Dio, almeno così dicono, per cui se avesse voluto avrebbe potuto ridare la vista a tutti i ciechi della Palestina. Che senso ha aiutare uno solo e lasciare che gli altri si arrangino? Tutti hanno diritto di vivere dignitosamente.”
Stuart lo scrutò pensoso. Nell’empito della discussione, von Rohr aveva assunto un’espressione risoluta che conferiva una nota di durezza metallica ai suoi occhi chiari. Come aveva intuito la prima volta che l’aveva visto, sotto quell’apparenza fredda era passionale e impulsivo: era bastato dargli uno spunto e dopo giorni di sdegnoso silenzio si era lanciato in una requisitoria che quasi non gli aveva lasciato la possibilità di ribattere.
“Diamine, tenente, i bolscevichi al suo confronto sono dei borghesi,” osservò con un sorriso.
“Questo perché come ogni buon nazionalsocialista io ho a cuore il benessere del popolo, non quello di una classe dominante tirannica e avida di privilegi.”
A corto di argomenti di fronte a tanto fervore, Stuart si risolse a stappare la bottiglia. Non era sicuro di aver avuto una buona idea a fraternizzare con quel ragazzo, perché lo stava scoprendo inaspettatamente affascinante.
“Eppure lei mi ricorda Parsifal,” disse piano. Versò il vino, che alla luce della candela era scuro e corposo come sangue.
“Dubito che Parsifal la pensasse come me,” replicò il tenente, accettando il calice che l’altro gli porgeva. Bevve cauto un sorso, e quando riabbassò il bicchiere lo sguardo di Stuart non poté fare a meno di correre al suo labbro inferiore macchiato di rosso.

   
 
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