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Autore: Sofyflora98    26/08/2016    1 recensioni
Dal primo capitolo:
"Tutto era iniziato con un cadavere. Un uomo sui cinquanta, vedovo, che faceva una vita abbastanza tranquilla, senza avvenimenti degni di nota. Un bel giorno, di punto in bianco, era morto. L'avevano trovato riverso sui gradini di fronte alla porta di casa. Quando avevano cercato di identificare la causa del decesso, i dottori erano rimasti allibiti. Non c'era una causa. Niente che potesse spiegare come mai un uomo di mezza età perfettamente in salute fosse all'improvviso crollato a terra. Come se tutto il suo organismo si fosse fermato dolcemente, e basta.
Fino a che non colsero sul fatto l'assassino. Quello che fu presto chiarito era che non si trattava di un essere umano. Non del tutto perlomeno. Mangiava e respirava e dormiva. Solo che a volte assorbiva la vita dagli altri."
****
Johnlock
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Victor non era entrato nella casa da quando John era passato attraverso la porta, e non l'aveva fatto fino a che non l'aveva visto uscire portando Sherlock con sé. Si era trattato di quasi un'ora, ma per lui non era stato un problema.
John era infine riuscito a convincere il detective a tornare a Baker Street, ma aveva dovuto attendere che ripiegasse le ali sotto la pelle, e vederle rimpicciolirsi in quel modo era stata la cosa che più lo aveva sconvolto, in verità. Per pochi secondi gli era sembrato che anche gli occhi fossero diversi: cangianti di un colore tra il verde e l'azzurro così intenso che non l'aveva mai visto se non in qualche film con i toni polarizzati. Bellissimi, tanto per cambiare. Si chiese di sfuggita se ci fosse qualcosa in Sherlock che non fosse semplicemente sublime da guardare.
Dopo che questi ebbe finito di ricomporsi e di vestirsi, John gli mise in mano la propria giacca e gli intimò di indossarla, aggiungendo che se non l'avesse fatto l'avrebbe riportato a Baker Street portandoselo in spalla come un sacco di patate. Questo fece sorridere appena il detective, che fece come gli era stato detto. John ne fu sollevato, perché quando era scappato nel bel mezzo della notte non aveva che una camicia a ripararlo dal freddo, e inoltre non era sicuro che sarebbe stato fisicamente in grado di fare come aveva minacciato, se Sherlock si fosse rifiutato, e sarebbe stato imbarazzante. Non che si reputasse debole, anzi, ma se si fosse messo Sherlock in spalla, avrebbe finito per fargli toccare il pavimento con la testa. Beh, magari non proprio, ma comunque la statura non era in suo favore.
Quando erano entrambi usciti dall'appartamento di Victor Trevor, l'uomo li aveva salutato cordialmente, come se nulla di spiacevole fosse accaduto, ed aveva rivolto un'espressione particolarmente dolce all'amico d'infanzia. In quel momento, John si sentì male per lui: una vita intera ad amare una persona che sapeva non l'avrebbe mai ricambiato. Non che tu abbia tutte queste possibilità, invece, no?
Fece passare Sherlock prima di lui, ed ebbe modo di incrociare lo sguardo di Trevor. Vide il suo sorriso farsi più tenue, come sconfitto, e i suoi occhi venire attraversati da un filo di dolore trattenuto. Ma nessuna accusa nei suoi confronti, no. Pura rassegnazione, e accettazione. A John sarebbe piaciuto essere una buona e corretta come lui. Ma invece no, nonostante sapesse che Sherlock non solo non ricambiava, ma nemmeno era consapevole dei sentimenti di Victor nei suoi confronti, non poteva fare a meno di provare una lieve fitta di gelosia. E anche nonostante lui non avesse alcun diritto di essere geloso, dato che Sherlock non gli apparteneva.
In silenzio, si incamminarono fino a raggiungere una delle strade principali, per rendere un taxi che li portasse a Baker Street. L'abitazione di Victor era troppo distante perché potessero tornare a casa a piedi. Casa.
Durante l'intero tragitto non dissero una parola. Non ce n'era bisogno, d'altronde. Ciò che c'era da dire era già stato detto tra le mura della casa di Trevor, e quello che rimaneva da dire, comunque, non poteva essere frivolamente detto in un taxi. John sapeva che c'era ancora molto da dire, da chiarire. Domande da porre e risposte da dare. Ma non aveva idea nemmeno lui di cosa voler chiedere e cosa dover mettere in chiaro. Nella sua mente c'era il caos. Come se gli interrogativi non fossero domande specifiche da dire una alla volta ma una caotica amalgama di urgenze, curiosità e lacune di informazioni indistinguibili l'una dall'altra nel momento in cui apriva bocca.
Salirono le scale del loro appartamento senza parlare, fino a che non si ritrovarono dentro. Era circa mezzogiorno, ma John chiuse le pesanti tende, accendendo piuttosto solo qualche lampada. Non sapeva perché l'avesse fatto, con precisione, ma gli parve che non appena la luce chiara del pallido sole appena coperto da una nuvola grigio topo fu stata chiusa fuori, Sherlock si fosse rilassato un poco. E questo andava bene. Se doveva chiudere le tende per tranquillizzarlo, andava bene. Anche se avesse dovuto vivere al buio. Fino a un anno prima non avrebbe mai pensato ad una cosa del genere. Ora gli sembrava più che naturale.
Sospinse dolcemente Sherlock sul divano, vedendolo obbedire docilmente, e andò in cucina a fare ciò che ogni inglese sapeva era la soluzione ad ogni problema: preparare il tè.
Quando tornò in soggiornò, scoprì che l'amico non si era mosso di un millimetro da quando l'aveva lasciato lì dieci minuti prima.
Gli mise una tazza tra le mani, e si sedette a fianco a lui.
Sherlock non sembrò accorgersi subito del suo ritorno. Aveva lo sguardo fisso sulle proprie ginocchia, come sperduto. John dovette dargli un colpetto sul braccio perché si accorgesse della tazza di tè bollente che aveva tra le mani esangui. Lui sussultò, e per poco non rovesciò la bevanda sulle proprie gambe e sul pavimento.
Il detective la portò subito alle labbra, a quel punto, sprofondando di più tra i cuscini del divano. Watson lo imitò, anche se meno febbrilmente e senza scoccare occhiate fugaci all'altro, cosa che invece Sherlock stava facendo.
John aspettò che avesse finito di bere, e come aveva fatto neanche un'ora prima sul letto di Victor Trevor, fece scivolare piano un braccio dietro la schiena della Creatura, stringendo delicatamente la spalla. Fu un attimo, un istante soltanto, prima che Sherlock si abbandonasse contro di lui. E John era leggermente imbarazzato, certo, ma avvertì anche un'ondata di calore invadergli il petto a quella dimostrazione di fiducia.
Non sapeva bene come, ma si ritrovò ad avere la testa di Sherlock in grembo, quest'ultimo raggomitolato come un bambino. Forse lo era, ancora un bambino. Forse, dopo Baskerville, non era mai realmente cresciuto. Nessuno di loro lo era. Era spesso ciò che accadeva, quando dei ragazzini subivano forti traumi. Sotto certi aspetti maturavano immediatamente, mentre altre parti di loro si bloccavano. Cristallizzate per tutta l’intera vita, a meno che non riuscissero a “guarire” quelle parti di loro che erano state dilaniate.
Probabilmente pensò  non ricorderà nemmeno quel periodo come lo ha effettivamente vissuto. Il cervello di un bambino deforma sempre i ricordi più terribili per mantenere la sua integrità. E anche quello di un adulto.
Anche per quel Jim Moriarty doveva essere stato lo stesso. Ciò che era successo l'aveva distrutto e deviato in modo irreversibile, facendolo diventare il mostro di cui gli avevano detto Sherlock e Mycroft. Provò un lampo di dispiacere anche nei suoi confronti. Dio solo sapeva quanto dovevano aver sofferto quei fanciulli, anni prima.
Il respiro di Sherlock si era fatto lento e regolare. John portò una mano ad accarezzare i suoi capelli, soffici  e sottili come fili di seta.
Si rilassò contro lo schienale del divano. Avrebbe potuto vivere, in un momento come quello. Passare tutti gli anni della sua vita ad intrecciare quelle ciocche morbide e ribelli attorno alle dita, il dolce tepore di Sherlock sul proprio corpo. Improvvisamente provò il desiderio di bacargli la testa. E il viso, quegli zigomi così marcati, e poi le labbra piene rosee.
Desiderio che non vide realizzato quel giorno. Magari, col tempo, avrebbe trovato il coraggio di dirgli la verità sui suoi sentimenti. Ma non quando Sherlock aveva bisogno di tranquillizzarsi, ristabilizzarsi.
No, avrebbe atteso quanto fosse stato necessario.
 
 
 
E aveva atteso, John. Senza dire una parola, aveva assistito allo stupefacente ritorno del detective al suo normale modo di essere.
Per tre settimane era riuscito a tenerlo lontano dalle scene del delitto, facendogli domande su domande, in ogni momento in cui si trovava  a casa invece che all'ambulatorio, riguardo la società in miniatura che le Creature avevano creato. E anche sul funzionamento delle Estensioni, naturalmente. Ora che era riuscito a convincere abbastanza Sherlock di essere assolutamente bendisposto nei loro confronti, poteva esternare la sua curiosità. Per esempio, trovava assolutamente affascinante il modo in cui molte delle Estensioni delle Creature mutassero le loro dimensioni per celarsi completamente all'interno del loro corpo senza però danneggiare gli altri organi.
Aveva chiesto al coinquilino di mostrargli di nuovo l'apertura delle ali, e sebbene all'inizio fosse titubante e sospettoso, questo si era lasciato convincere, sempre più rilassato man mano che vedeva gli occhi di John luccicare dallo stupore e dall'ansia di studiare tutto ciò che poteva essere studiato.
Più di una volta John si era chiesto se non fosse il caso di evitare di mostrarsi così esuberante ogni qualvolta l'altro si spogliasse per spiegare le ali iridescenti, dopo essersi accorto del rossore che gli imporporava gli zigomi mentre lui lo fissava a bocca aperta. Si rese conto, divertito, che al suo posto probabilmente sarebbe morto di vergogna all'idea di voler essere continuamente osservato. Comunque, non avendo ancora ricevuto una risposta negativa alla sua richiesta, proseguì nei suoi “studi”. Che più che studi erano sessioni di ammirazione, ma questo non lo avrebbe mai detto a Sherlock.
Non era carino, non era forse nemmeno molto rispettoso, ma non poteva farne a meno da quando le aveva viste la prima volta. E in qualche occasione aveva avuto modo di scorgere anche i suoi occhi cambiare, diventare cangianti, le pupille solo due quasi invisibili puntini neri. A metà tra occhi umani e occhi d'insetto.
L'immagine complessiva era uno splendore. Una pallida figura dagli arti lunghi e sinuosi, lo sguardo vagamente smarrito e magnetico, le guance arrossite, iridi che quasi brillavano al buio e due eleganti ali un po' membranose e un po' come carta velina attraversate da venature perlacee. Non poteva appartenere a questo mondo, si diceva. Eppure era lì, sotto i suoi occhi increduli, in tutta la sua aliena bellezza.
E sapeva che di sicuro Sherlock era più forte di lui, più pericoloso e letale, ma gli era impossibile, ormai, togliersi dalla testa la convinzione che Sherlock andasse protetto, e che toccasse a lui farlo. Si sentiva quasi in dovere di difendere quell'essere raro e prezioso. E, quando iniziava a pensare a questo, gli sembrava che il mondo intero fosse una fossa di serpenti, un campo minato, che non ci fosse nulla di sicuro e privo di pericoli. Nemmeno la vecchietta che vedeva portare a spasso il cane dalla finestra del soggiorno.
Man mano che io giorni passavano, si rendeva conto di essere sotto esame. Una sera, poco dopo aver cenato, vide di sfuggita Sherlock che lo studiava, come lui stesso faceva con Sherlock. Non con sguardo diffidente o guardingo, ma curioso e perplesso. Come un animale che, dopo aver superato il timore di un umano appena incontrato, inizia ad annusarlo timidamente, per tastare il terreno prima di lasciarsi toccare con tranquillità.
Poi, dopo un altro po' di tempo, il detective, di punto in bianco, gli chiese di aiutarlo a fare “manutenzione” delle Estensioni. John, stupito e incuriosito, accettò immediatamente. Poté così vedere con i suoi occhi l'utilizzo di quel fluido viola di cui gli avevano già spiegato la funzione.
Sherlock lo bevve prima di estrarre le ali, e dopo qualche secondo distorse il volto in una smorfia. Vedendo l'espressione preoccupata di John, gli disse che era normale, che l'aggiustamento delle Estensioni era sempre almeno un po' doloroso. Diversamente dalla normale estrazione delle Estensioni, le ali sbucavano fuori violentemente, squarciando la pelle molto più del solito.
In quei momenti, all'inizio si limitò a stare seduto vicino alla Creatura, ma un po' alla volta prese a mormorare parole di conforto, fino a che non divenne abitudine per lui stringergli le dita pallide e affusolate tra le proprie mentre questi stringeva i denti per non gridare di dolore quando gli spasmi lo attraversavano e la sua carne veniva lacerata. Questa ripetizione spiegava perché le cicatrici non fossero mai sparite, e nemmeno diventate sottili e chiare. La loro forma non mutava mai, per qualche strana ragione la pelle veniva sempre tagliata nella stessa identica maniera, ma la ferita, sebbene rimarginasse più velocemente che in un umano comune, continuava ad essere riaperta.
Era a quel punto che il suo intervento era richiesto. Dava una mano a Sherlock a distenderle, lisciarle e piegare piano le due articolazioni, all'attaccatura e alla piegatura. Erano lisce, al tatto, e leggere. Tiepide e asciutte, ma non secche. Quell'operazione, pensò tra sé e sé la prima volta, gli dava l'impressione di accarezzarle, più che sgranchirle. Questo non lo disse a Sherlock, anche se gli sarebbe piaciuto poterle accarezzare sul serio, solo per vedere il volto della Creatura distendersi e rilassarsi.
Gli piaceva, tutto questo. Beh, non tutto. Ogni smorfia di dolore che vedeva sul volto di Sherlock era una stilettata, ma si rendeva conto che il fatto che Sherlock gli permettesse non solo di vedere, ma anche di partecipare ad una parte così segreta e intima della vita delle Creature, significava fiducia. Molta più di quanta ne avesse mai ricevuta da chiunque prima d'allora.
Era vero che, essendo un medico, ogni persona che doveva farsi curare si fidava ciecamente delle sue parole, ma non era la stessa cosa. I pazienti si fidavano senza dubitare del dottore, di quella figura che sapevano per certo avrebbe sistemato i loro mali senza ferirli. Non di John, l'uomo che viveva in un piccolo appartamento con un detective autistico, e che per anni aveva camminato con una stampella facendo regolarmente incubi sulla guerra in Afghanistan. Si fidavano di lui come uomo di medicina, non come persona in carne ed ossa.
Sherlock, invece, era di lui che aveva mostrato di fidarsi. Di lui, specificamente, e non di qualsiasi altra persona che si fosse trovata nella sua situazione. Di John H. Watson, non di qualsiasi altro medico che avrebbe potuto lavorare in un particolare ambulatorio. E questa consapevolezza lo faceva sentir bene, in un certo qual modo lo faceva anche sentire importante. Utile in quanto se stesso, non in quanto abile in una certa disciplina.
Se solo avesse saputo come far capire a Sherlock come questo lo facesse sentire, lo avrebbe fatto. Se fosse riuscito a comunicargli qualcosa di relativo alle sue emozioni, di renderlo consapevole di quanto vivere con Sherlock gli avesse fatto bene.
Ma non  ne era in grado. E questo era proprio perché era Sherlock, e non qualcun altro. Era estremamente complicato con lui. Tutto era complicato. Parlare, ascoltare, agire. Sherlock di per sé era complicato.
Ma era anche meraviglioso.
 
 
Avevano ricominciato con i casi. Dopo un mesetto scarso, avevano fatto a sapere a Lestrade che poteva tornare a supplicare il detective di sbrogliare i suoi problemi con le indagini in tutta tranquillità. John non aveva fatto in tempo a dirgli questo, che il poliziotto aveva tirato un profondo sospiro di sollievo dall'altra parte del telefono, e aveva subito scaricato loro l'ultimo omicidio avvenuto, che a sentire Lestrade aveva sconcertato parecchio tutti gli ispettori di Scotland Yard.
Si erano presentati sulla scena del crimine come avevano sempre fatto, Holmes con una nonchalance invidiabile, e come al solito Sherlock aveva voluto guardare lui stesso il luogo del delitto nonostante fossa già stato analizzato dalla polizia. John sperò che nessuno si rendesse conto di quanto fossero in realtà cambiati in quegli ultimi trenta giorni. Ovviamente le sue speranze andarono infrante.
Tanto per cominciare, Greg gli chiese come mai fosse stato lui a chiamarlo per dirgli che qualsiasi problema avessero avuto era stato risolto, e per di più con il cellulare di Sherlock. Non avrebbe trovato nulla di strano se fosse stato l'investigatore a usare il telefono del coinquilino, ma era di Watson che stavano parlando.
Quest'ultimo era riuscito ad inventarsi qualcosa che non ricordava bene, ma che più o meno diceva che Sherlock gli aveva messo in mano il cellulare dicendogli di chiamare Lestrade, mentre lui era impegnato in qualche esperimento da cui non intendeva staccarsi un minuto.
Sapeva di non essere stato molto credibile, ma non poteva certo fargli sapere che negli ultimi tempi era diventata un abitudine che non aveva alcuna spiegazione logica e razionale. La gente parlava già anche troppo. O meglio, parlava anche troppo di qualcosa che purtroppo non era, e lì stava il problema.
- Si può sapere cos'è successo in quest'ultimo mese, John? - gli aveva chiesto ad un certo punto Lestrade, sapendo che non avrebbe ottenuto niente se avesse posto la stessa domanda a Holmes.
E il bello era che nemmeno John sapeva bene cos'era successo. O meglio, conosceva i fatti, ma a quanto pareva non erano sufficienti a capire sul serio cosa fosse accaduto. Ma qualcosa di radicale era cambiato, anche se non riusciva a cogliere pienamente la portata di questa mutazione.
- Niente di particolare, Greg. - gli aveva risposto Watson. - Un piccolo problema, nulla di grave in realtà, ma che ha rubato molto tempo. Ora però è tutto risolto. -
Lestrade aveva sbuffato, a quel punto. - E immagino nessuno di voi abbia intenzione di dirmi di che problema si trattava, vero? Sempre che sia stato davvero un problema, e non invece qualcosa di più... personale. -
Intuendo cosa suggeriva l'ispettore, Watson si bloccò un istante. - No, assolutamente no. Era solo un incidente con... un paio di vecchie conoscenze di Sherlock. -
- Anche se si fosse trattato di qualcosa accaduto tra voi due, sappi che non ci sarebbe davvero nessun problema. - si affrettò a dire il poliziotto.
A quel punto John simulò una risata. - Niente di tutto questo, davvero. Ti lasci influenzare troppo da ciò che si dice in giro. -
Lestrade non sembrava del tutto convinto, ma in ogni caso lasciò perdere l'argomento e lo lasciò tornare ad assistere Sherlock nelle indagini, lasciandogli il dubbio su cosa davvero pensassero tutti loro sul motivo della loro assenza dalle scene del crimine.
Lestrade, però, nemmeno poteva immaginare quanto John desiderasse che quello che si diceva su loro due fosse fondato, reale, e non solo una chiacchiera. Ne era stato vagamente consapevole per diverso tempo, e lo aveva pienamente accettato poco dopo essere venuto a conoscenza della vera natura di Sherlock, ma solo dopo aver incontrato Victor Trevor e aver parlato con lui si era reso conto della portata dei suoi sentimenti.
Non improvvisamente, certo, ma quella era stata la scintilla. Ora era una specie di incendio dentro di lui. Qualsiasi cotta o infatuazione che aveva avuto prima, anche nei confronti di un paio di persone con cui aveva avuto relazioni serie per del tempo, ora impallidivano in confronto alla tempesta che lo travolgeva. C’era l’impulso a proteggerlo, come già detto, e la dolce e intensa commozione che sentiva nel vedersi dare fiducia. Ma il desiderio che ora aveva per l’essere sublime che aveva ininterrottamente sotto lo sguardo era bruciante. Da quando aveva accettato di esserne innamorato, quella sensazione si era scavata il suo posto un centimetro alla volta, cominciando con l’essere un forte interesse che calamitava il suo sguardo verso ogni lembo di pelle che rimaneva privo di copertura, fino a divenire un costante scoppiettio di braci pronte a tornare ad essere un fuoco ogni qualvolta ne avessero l’occasione. Questo non semplificava le cose, specialmente quando erano nei paraggi di loro conoscenti.
Oh, e di pelle ne vedeva molta, quando lo aiutava a stirarsi le ali. Liscia e candida come la neve. Anche morbida, probabilmente. Se solo avesse potuto toccarla…  
Il suo autocontrollo era stato messo a dura prova una sera, mentre faceva zapping tra i canali, e come sempre finiva per guardare qualche serie televisiva della BBC (beh, non era colpa sua se quelle americane erano quasi tutte spazzatura!). Senza una parola, Sherlock gli si era accovacciato accanto. Non era una novità che si sedesse vicino a lui sul divano, ma non così. Non a soli due centimetri da lui, completamente rivolto nella sua direzione, che se stesse pensando di appoggiarglisi contro. E anche questo era già successo un paio di volte, ma… Ma quelle volte, per cominciare, Watson non era ancora pienamente consapevole dell’attrazione verso il detective, e quest’ultimo non lo fissava con enormi occhi sgranati e meravigliati. E non aveva la camicia sbottonata per metà.
- Dimmi pure, Sherlock. – gli aveva detto a quel punto, visto che Holmes non aveva fatto nulla da quando si era seduto.
- Dirti cosa? – aveva domandato l’altro, colto di sorpresa.
- Ah, non lo so. Mi fissavi, e ho pensato che dovessi dirmi qualcosa. Errore mio. –
Forse era stata la sua immaginazione, forse un gioco di luce, ma mentre tornava a guardare lo schermo, gli sembrò di vedere un leggero rossore imporporare le gote del più giovane, che a quel punto si era voltato come lui verso il televisore. E che non aveva smesso di lanciare brevi occhiate nervose verso di lui fino a quando non si era ritirato nella sua camera.
Solo una volta che fu lontano da Sherlock, si permise di pensare al candore diafano del suo collo elegante, e al pezzetto di clavicola che si scorgeva dalla camicia non chiusa a dovere. Non riusciva a capacitarsi di come ogni parte di lui fosse così aggraziata, proporzionata e sinuosa. Sembrava un attentato alla sua salute mentale, che diamine.
E la parte migliore di tutto questo, era che siccome era di Sherlock che si trattava, non poteva semplicemente metterlo a conoscenza di ciò che provava come avrebbe potuto fare con una persona normale. Non sapeva nemmeno quanto comprendesse dei sentimenti, e in che modo li provasse lui stesso verso le altre persone. Aveva un terrore cieco di fare o dire qualcosa che avrebbe compromesso la loro amicizia, o che l’avrebbe spaventato, o chissà cos’altro. Senza contare il fatto che poco dopo il loro primo incontro, Sherlock aveva messo in chiaro il suo disinteresse per le relazioni romantiche.
Certo, all’epoca sussurrava al suo orecchio una vocina maliziosa Ma adesso sarà lo stesso?
Per il proprio bene, John era riuscito ad ignorarla fino ad ora.
 
 
 
- Hai già in mente come agire, suppongo. – Jim fece un piccolo sorriso a quelle parole, osservando il suo interlocutore con soddisfazione. La persona seduta di fronte a lui tamburellava lentamente sulla superficie del tavolo, producendo una serie di piccoli ticchettii secchi.
Solitamente non incontrava di persona le persone con cui lavorava, ma per questa Creatura speciale aveva fatto un’eccezione. Si trattava di uno dei rari casi che possedevano capacità uniche tra quelli come loro, ed intendeva lavorarsela per bene, così da poter contare sulla sua cooperazione anche in futuro.
- Certamente. Ho speso le ultime settimane a perfezionare il piano d’attacco. Perché non è una vendetta né niente di simile, tesoro, ma una vera e propria guerra agli Holmes. Solo più mirata e discreta del normale. – il suo sorriso si allargò quando vide scintillare gli occhi azzurri della Creatura.
- E, indovina? Tu avrai una parte fondamentale in questo, proprio nella parte iniziale del progetto. –
Video la curiosità prendere posto al divertimento nell’espressione della Creatura. – Nella parte iniziale? – disse con voce vellutata. – Immagino già che tipo di… azione stai per chiedermi di intraprendere. Utilizzando la prima delle mie cosiddette Estensioni, quindi? –
Moriarty annuì piano, gli occhi neri che scrutavano diabolici la Vipera. Sentiva che c’era una sorta di intesa tra loro due, un desiderio di portare il caos attorno a loro, anche se usavano tendenzialmente metodi molto differenti. La Vipera per anni non aveva  preso una parte precisa nelle fazioni, ma Jim sapeva che era per natura appartenente alla sua. Un’alleanza con uno dei casi rari era sempre di grande beneficio e vantaggio, e le Estensioni della Vipera erano non solo uniche, ma anche molto particolari negli effetti.
- E conoscendoti, so che immagini correttamente. – concluse il Ragno con soddisfazione. – Posso contare su di te, vero? Non mi piace quando devo punire le persone della mia fazione! –
Il sorriso della Vipera era tutto tranne che rassicurante, e a Moriarty piacque. – Ovviamente sì. Si può sempre contare su di me quando mi si ricompensa adeguatamente. –
- Allora vedo che ci intendiamo a meraviglia, tesoro. –
La Creatura iniziò a sfogliare il fascicolo che Moriarty aveva posto sul tavolo all’inizio della loro conversazione. – Sarà interessante incontrare la Libellula. Dicono che sia estremamente sfuggente. In pochi hanno visto le sue Estensioni. e ancora in meno le hanno viste tutte contemporaneamente. Dicono che sia uno spettacolo impressionante, quasi quanto le tue, Ragno. – il suo sorriso s’ammorbidì un poco quando vide la foto sulla scheda informativa che era nelle sue mani. Moriarty conosceva quell’espressione. Significava che avrebbe messo tutto il proprio impegno nel portare a termine il suo lavoro.
- Non sarà troppo difficile, se le tue informazioni sono accurate. – concluse la Vipera, richiudendo il fascicolo di colpo.
- Lo sono. – confermò Jim. - In buona parte derivano da esperienza personale. –
- Benissimo, allora. Comincerò immediatamente. Qual è il segnale di inizio? –
- Un uccisione. Una Creatura con le Estensioni strappate via. Ho già in mente chi assassinare e come. –
La Vipera annuì, e prese il fascicolo con sé, alzandosi. – Vai già via? – alla domanda del Ragno rispose con un canno affermativo. – Ho altro lavoro da svolgere, oggi. –
- Oh, è vero. –
- Fammi sapere se ci sono altre novità che dovrei conoscere. –
- Certo che sì. Ti chiamerò. –
Sentita la risposta del Ragno, la Vipera lasciò la stanza, e Moriarty restò ad ascoltare il rumore dei suoi passi che si allontanavano.
La Vipera era tra le persone più affidabili, quando c’era da portare a termine un compito delicato. Il suo prezzo non era basso, e i metodi molto particolari, ma ne valeva la pena. Era tra gli individui più pericolosi che Moriarty conosceva, escludendo se stesso.
Certo, affidabile nel fare le cose, ma non nel mantenere le alleanze. Non poteva fidarsi ciecamente, c’era sempre un margine di rischio di venire tradito per una ragione o l’altra. L’importante era sempre tenere d’occhio la situazione per essere sicuro di essere “l’offerente migliore”, e fermare qualsiasi possibile tentativo della Vipera di rivoltarglisi contro. La sua posizione, anche se voleva fargli credere di essere completamente fedele alla fazione di sotto, era ancora troppo ambigua.
- Sebastian? – disse a bassa voce. L’uomo uscì dal suo nascondiglio. Moriarty gli aveva ordinato di assistere alla conversazione senza essere visto, per sicurezza. – Fai sorvegliare la Vipera, immediatamente, e con discrezione estrema. Arriverà la fine del mondo, prima che ci si possa fidare completamente di quel serpente. –
Moran annuì brevemente, e lasciò solo il superiore.
Jim sorrise tra sé, reclinando la testa indietro.
Il suo gioco stava per iniziare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*****
 
Note:
Okay, uccidetemi, sto per fare un grande torto ad un personaggio che mi piace molto. Sul serio, mi sento una schifosa bastarda a fare una cosa del genere. Ma che ci posso fare? La storia mi è venuta così, non è che ho deciso razionalmente!
Cooooomunque…. Basta, non so che altro dire.
Grazie a tutte le trentotto persone che seguono questa storia, è davvero il mio record! E ovviamente, a quelle anime sante che recensiscono, condividendo opinioni e sentimenti, e dandomi la lieve speranza che se quello che scrivo è una castronata, mi sia possibile venirlo a sapere prima di fare cinquanta capitoli (figurativamente: non ho mai scritto una storia che superi i ventisei capitoli, e anche leggendo se sono più di trenta mi sembra quasi sempre un’esagerazione).
Un bacio a tutti!
Kisses
 
Sofyflora98

 
   
 
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