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Autore: scrittrice in canna    29/08/2016    1 recensioni
[Si può leggere la storia anche senza aver visto Sense8]
Otto ragazzi da tutto il mondo, con storie diverse ma complementari, si aiuteranno a vicenda in un viaggio alla scoperta di loro stessi quando si troveranno legati in maniera inesorabile da qualcosa che va oltre il DNA e il fato: l'empatia.
La loro vita verrà messa in pericolo da un nemico comune e solo lavorando insieme potranno avere una possibilità di sconfiggerlo, senza però dimenticare i problemi di tutti i giorni e i demoni che si portano dentro.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Blaine/Kurt, Brittany/Santana, Finn/Rachel
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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10.



Calzini, magliette, pantaloni, tutto quello che aveva portato con sé sarebbe rimasto lì. Non gli sarebbero serviti i suoi vestiti da civile. Kurt gli aveva permesso di tenere tutto nella cassettiera della stanza per gli ospiti, diceva che se non sarebbe tornato avrebbe dato tutto agli orfani.
Entrambi sapevano che si era irritato soltanto perché avrebbe voluto una qualche assicurazione che suo fratello sarebbe tornato, prima o poi, che avrebbe dormito in quel letto e visto le partite di baseball sul divano mentre Kurt leggeva Vouge, proprio come faceva con Burt. Doveva tornare, non c’erano altre possibilità.

Finn inspirò e chiuse il cassetto, si ritrovò ad inciampare sul suo stesso respiro che per poco non si trasformava in un singhiozzo. Suo fratello si era svegliato quella mattina e si era comportato come se tutto quello che era successo la sera prima fosse stato soltanto un sogno orrendo, e forse era stato davvero così se Finn poteva avere il privilegio di sedersi al tavolo della cucina e aspettare il suo piatto ben riempito per cominciare bene la giornata.
Ormai erano le dieci del mattino, in un’ora sarebbe dovuto essere già sull’aereo e i suoi genitori stavano per arrivare sotto casa per accompagnarlo (Kurt aveva deciso di restare a casa, non ce l’avrebbe fatta), aveva circa dieci minuti per recuperare le funzioni cognitive ed essere sicuro che una volta uscito da quella porta non sarebbe scoppiato in lacrime.
Rachel era seduta sul bordo del letto, quando si era connessa non aveva aperto bocca, sarebbe stato tutto inutile, le avevano sempre detto che aveva un atteggiamento eccessivo e l’unica cosa che voleva in quel momento era fare in modo che Finn si sentisse a suo agio nei suoi ultimi minuti come civile prima dell’imminente partenza perciò decise che era meglio stare zitta e aspettare che fosse lui a fare il primo passo, aveva già pensato a un miliardo di cose che avrebbe potuto dire, altrettante risposte che avrebbe potuto dare a tutte le domande che le avrebbero fatto nei giorni successivi, perché sapeva bene che non sarebbe stata euforica come sempre, non finché lui sarebbe stato in un posto che non era Dublino, sotto l’occhio protettivo di suo fratello. Tutto quel discorso poteva far pensare che Finn non fosse capace di badare a se stesso, che fosse solo un bambino troppo cresciuto, e se una volta poteva essere stato vero - nei giorni lontani delle superiori - era riuscito a diventare un uomo maturo con l’addestramento militare. Certo a volte poteva essere ancora un po’ ottuso, ma tutti lo adoravano anche per quello.
Finn finì di sistemare le ultime cose in silenzio, lanciando sorrisi rassicuranti a Rachel che ricambiava senza metterci davvero il cuore. Solo dopo che si mise il borsone in spalla riuscì a trovare la forza di avvicinarsi a lei e dirle: “Andrà tutto bene.” Le prese una mano accarezzando lentamente il palmo con le sue dita troppo grandi. “Sei stata tu a dirmelo.”
Rachel non trovò il coraggio di rispondere a parole per paura di scoppiare a piangere: sembrava tutto più reale in quel momento, vedendolo pronto per andare via. Annuì e si alzò in piedi per dargli un ultimo bacio d’addio, sarebbe stato umido per colpa delle loro lacrime, ma non se lo permisero. Rachel pensava di essere lì per consolarlo, ma ancora una volta Finn si rivelava essere la sua ancora.
“Okay” sussurrò Finn abbassando lo sguardo verso i suoi stivaloni; deglutì e girò i tacchi per raggiungere suo fratello che lo stava aspettando davanti alla porta dell’appartamento.
Appoggiato al muro del corridoio c’era Jessie, gli occhi indirizzati verso qualcosa che non era all’interno della casa, spostò lo sguardo sul ragazzo più alto solo dopo qualche secondo, sembrava si fosse accorto solo in quel momento di non essere esattamente dove si trovava poco prima.
“Buona fortuna.”
Finn annuì, di nuovo. Non sapeva esattamente come prendere quel genere di auguri. “Prenditi cura di lei, amico.”
Il viso dell’altro ragazzo tradì la sua sorpresa nonostante stesse provando a mantenere un’espressione stoica, si rendeva conto giorno dopo giorno di star perdendo quel suo particolare talento. Si bagnò le labbra con la lingua, un po’ perché non sapeva che dire e un po’ perché la sua gola era improvvisamente diventata asciutta.
“Te lo prometto.” Così com’era comparso, Jessie St. James sparì senza lasciare traccia se non un nodo nella gola di Finn che non si sarebbe sciolto presto.
Girò l’angolo per ritrovarsi faccia a faccia con Kurt che si stava torturando le mani, non sapeva bene cosa fare, come comportarsi; quando era partito per l’accademia non era stato così traumatico, si trovava solo a qualche chilometro da casa e poteva tornare a visitare ogni fine-settimana, invece quello che sarebbe successo dopo quel momento non avrebbe lasciato possibilità di visite o cartoline mandate per gioco che avrebbero lasciato Burt a prendere giocosamente in giro suo figlio dicendo: “Vi vedere domani! Non la riceverà mai in tempo!”
Suo fratello si avvicinava a passo lento, sembrava voler prolungare il suo calvario, non pensava che in quel modo separarsi avrebbe fatto ancora più male. Quando finalmente lo raggiunse, Kurt tirò su col naso e si portò alla bocca il fazzoletto che aveva in mano per smorzare un singhiozzo.
Il ragazzo più alto lo guardò per qualche secondo, poi lo prese tra le braccia senza dire una parola e lo strinse forte nascondendo il viso nella spalla di Kurt, senza preoccuparsi che il fratello gli arrivasse appena al mento.
“Mi mancherai, Finn” ammise lui con voce strozzata rovinando il tessuto della maglietta alla quale si stava aggrappando con tutte le sue forze.
L’altro ci mise qualche secondo prima di rispondere: “Mi mancherai anche tu, fratello” con una pacca sulla schiena prima di lasciarlo andare.
Si fissarono rilasciando una risata forzata prima che Finn staccasse i piedi dal suolo e si dirigesse verso la porta per poi chiudersela alle spalle lasciando un vuoto colmato solo dall’eco del metallo che sbatteva. Il rimbombo rimase più a lungo nella testa di Kurt che teneva i pugni stretti per non far andare via la sensazione del corpo solido di suo fratello che lo abbracciava.
Si scosse dal torpore in cui era caduto solo quando il telefono, che aveva precedentemente abbandonato sul tavolo, squillò. Lo prese con mani tremanti, strinse gli occhi quando rispondendo la voce gli uscì leggermente soffocata.
“Pronto?”
“Kurt Hummel? Sono Lizzie, della compagnia teatrale.” 
Aveva completamente dimenticato il suo provino. “Sì, sì. Certo.” Annuì furiosamente mentre prendeva posto al tavolo della cucina, non si fidava delle sue gambe in quel momento.
“L’ho chiamata per informarla che non abbiamo più bisogno di un esterno per la parte, il nostro lupo si è magicamente ripreso.” Aveva la voce leggermente troppo acuta, Kurt non sapeva bene se fosse
perché stava mentendo. In un altro momento avrebbe pensato che se non volevano prenderlo avrebbero almeno potuto avere la decenza di dirgli la verità senza inventarsi qualche scusa assurda, ma non aveva proprio tempo di preoccuparsi per altre cose, così chiuse la discussione con una frase tanto fintamente cordiale quanto lo era stata Lizzie fino a quel momento: “Capisco perfettamente, non si preoccupi.” Aggiunse anche una risatina per far capire che davvero non era un problema. 

La donna sembrò essere soddisfatta, perché lo congedò con un semplice: “Va bene, buona giornata signor…” si bloccò, probabilmente per guardare di nuovo il suo nome e non fare una gaffe: “Hummel.”
Kurt stava per rispondere: “Anche lei” ma gli avevano già staccato il telefono in faccia. Se quelli erano gli elementi che componevano la compagnia era felice di non aver ottenuto la parte. 
Improvvisamente Kurt realizzò che non c’era più niente che lo ancorava a Dublino: Finn era partito, non era nella produzione di Into The Woods e aveva accumulato così tanti giorni di malattia da potersi permettere di mancare per un po’. Non c’era nessun motivo per cui non dovesse prendere il primo aereo diretto a Parigi e onorare la promessa che aveva fatto a Blaine tempo addietro, anche solo per distrarsi da tutto e tornare alla sua vita vera con un minimo di voglia di vivere. Aveva bisogno di conforto, aveva bisogno di sentire le braccia di Blaine intorno a lui vere e solide. Già s’immaginava le mattinate passate nel letto della grande tenuta degli Anderson, i caffè con i tavoli sulle strade che portavano alla Tourre Eiffel, entrambi avrebbero passato più tempo a fissare l’altro che a godersi il loro pasto. Sarebbero stati una di quelle coppie che Kurt prendeva spesso in giro e l’avrebbero potuto fare alla luce del sole.


Mercedes non sapeva come era arrivata nella casa di cura, gli avvenimenti si accavallavano tra di loro e quello che era sembrato il viaggio più lungo della sua vita fino a qualche ora prima si era trasformato in un battito di ciglia.
La receptionist che avrebbe dovuto indicargli la stanza di suo padre sembrava essersi persa negli immensi corridoi, era andata via dal bancone solo cinque minuti prima eppure a Mercedes sembravano secoli, aveva perso del tutto il concetto di tempo per colpa del nervosismo. Non sapeva come avrebbe reagito davanti al suo genitore più elusivo dopo tutti quegli anni, non sapeva neanche se l’avrebbe riconosciuta, in fondo era cambiata molto da quando era partita per il college a diciotto anni. La sua immaginazione stava viaggiando a mille miglia al secondo e non sembrava volersi fermare, non finché una mano non si poggiò sulla sua spalla e lei si girò per trovare lo sguardo comprensivo di un ragazzo col camice bianco.
“Sono sicuro che andrà tutto bene” la rassicurò, come se potesse leggerle nel pensiero, ma Mercedes sapeva con certezza che non era parte della cerchia, l’avrebbe percepito prima, quello era semplicemente un giovane americano come tanti altri che voleva toglierle l’espressione angosciata che doveva avere in viso, era parte del suo lavoro per quanto potesse saperne lei.
“Non vogliono portarmi da mio padre” disse lei dal nulla. Non era una bugia, non del tutto almeno, era seriamente convinta che l’infermiera di prima stesse aspettando dietro l'angolo che lei se ne andasse e che la stava solo prendendo in giro, ma il ragazzo corrugò la fronte e lasciò cadere la mano che era ancora sulla spalla di Mercedes.
“Ne sei sicura? Come mai?” le chiese leggermente più preoccupato una volta che notò le lacrime che stavano per uscire dagli occhi della ragazza.
“La- la signora.” Indicò verso il corridoio dietro la porta chiusa a chiave che portava alle stanze dei pazienti. Dovette fermarsi per prendere un respiro profondo e sopprimere un singhiozzo. “Lei non mi vuole dire dov'è mio padre.” Forse avrebbe dovuto informarlo dell’animata discussione che avevano avuto, quella durante la quale la donna aveva insistito che Robert Jones non aveva avuto alcuna visita durante tutta la sua residenza alla casa di riposo e che non aveva mai nominato una figlia, anche se quell’ultima parte aveva spezzato il cuore di Mercedes, facendole capire quanto fosse doloroso non avere un rapporto con la sua vera famiglia.
Il ragazzo sembrò discutere qualcosa tra sé e sé per i secondi successivi, le mani nelle tasche del camice e le spalle leggermente alzate, era sulla difensiva.
“Ti ci porto io” dichiarò muovendosi a passi svelti verso l’entrata, Mercedes si affrettò ad andargli dietro.
“Chi è tuo padre?” Le chiese facendo passare una tessera nel macchinario accanto alla porta che produsse un piccolo suono prima di lasciare che la serratura si sbloccasse. Mercedes continuò a seguirlo stando attenta a non sbattere contro una delle due porte mentre entrava nel reparto.
“Jones. Robert Jones.”
Il ragazzo si guardò intorno spazientito, non avevano molto tempo e probabilmente non ricordava la stanza esatta, poi fu come se un fulmine l’avesse colpito e si diresse spedito verso quella che doveva essere la loro meta.
“Uno-uno-quattro” recitò ad alta voce.
Dopo un paio di svolte si fermarono davanti all’uscio della stanza, Mercedes poteva guardare all’interno dato che la porta era aperta: suo padre era ancora come lo ricordava, soltanto con qualche ruga in più e i capelli bianchi, sdraiato sul grande letto bianco fissava il vuoto come sovrappensiero.
La ragazza fece dei passi piccoli verso il letto e non osò parlare fino a quando non si trovò a pochi passi da lui, le lacrime che prima le riempivano semplicemente gli occhi stavano scendendo copiose sul suo viso, riuscì a dire un leggero: “Papà?” per chiamarlo, chiedendogli silenziosamente di guardarla in viso ma lui rimase immobile, lo sguardo vitreo.
Il dottore che l’aveva accompagnata si trovava dall’altro lato del letto, guardava uno schermo al quale Robert era collegato tramite dei fili e sembrava rassegnato mentre scriveva il suo resoconto in una cartellina poggiata sull’unico comodino della stanza.
“Cosa gli è successo?” domandò Mercedes alzando lo sguardo, cercando delle risposta che non sembravano voler arrivare.
Il ragazzo alzò la testa di scatto sentendo la voce ferita della ragazza, si mise dritto e guardò il suo paziente per un lungo istante prima di rispondere: “Ha dovuto fare un intervento al cervello, però è riuscito male. Non l’ha superato bene. Credevo lo sapessi.”
La fiducia cieca di quel ragazzo nell’umanità gli avrebbe portato molti problemi nella vita, pensò Mercedes.
“Senti…” Voleva chiamarlo per nome, ma si accorse che in realtà non si erano mai presentati, l’aveva semplicemente condotta in quella stanza senza chiedere spiegazioni.
“Sam. Mi… mi chiamo Sam” si presentò alzando una mano.
“Sam. Io e mio padre non andiamo esattamente d’accordo. È il motivo per cui sono venuta qui, per chiedere scusa” rivelò mentre si asciugava il viso con il dorso di una mano.
“Mi dispiace, ma ha perso tutte le capacità motorie. Non so neanche se può sentirti adesso” le spiegò con calma.
Mercedes annuì, tutta l’adrenalina lasciò il suo corpo in un istante. “Posso avere un paio di secondi da sola con lui, per favore?”
Sam abbassò la testa e se ne andò senza dire una parola, assicurandosi di chiudersi la porta alle spalle.
La ragazza rimase lì, prese la mano di suo padre e lo chiamò un paio di volte sperando che potesse muoversi per qualche miracolo, ma non accadde.
 

Santana venne sopraffatta da un'ondata di tristezza, imprecò sotto voce e si portò i palmi delle mani sugli occhi premendo più forte che poteva: “Cazzo. Cazzo. Cazzo. Non oggi. Ti prego, non oggi” si ripeteva ispirando ed espirando più normalmente possibile.
Il pacco di Brittany sarebbe dovuto arrivare da un momento all’altro, dopodiché avrebbero dato il via al loro piano per smascherare Metzger, l'ultima cosa di cui aveva bisogno era una crisi di pianto.
“Jones, datti un contegno. Porca miseria!” urlò al nulla appoggiando le braccia sul tavolo e sbattendo le palpebre un paio di volte.
Suonarono alla porta proprio in quel momento e Santana si alzò con forza scagliando la sedia lontana dal tavolo della sala da pranzo.
“Sì?” chiese dura al postino.
“Una consegna per lei, signorina Lopez” la informò il ragazzino leggermente spaventato porgendole una penna e un foglio.
Santana firmò senza davvero curarsi che fosse leggibile e prese il piccolo pacco per poi chiudersi dentro senza neanche ringraziare. Era troppo nervosa per essere gentile con qualcuno.
Si sedette sul divano e aprì la confezione rivelando una piccola chiavetta USB, apparentemente innocua.
E questa cosa dovrebbe aiutarci a depositare quella faccia da trota?” Sapeva che Brittany era lì accanto a lei, poteva sentire il calore del suo corpo e il profumo del suo shampoo.
“Sì, esatto” confermò la biondina, poi si sporse per dare un bacio sulla guancia a Santana come riconoscimento della sua furbizia e l’altra arrossì leggermente, anche se la sua carnagione scura lo nascondeva bene.
“Quindi io la metto nel suo computer per qualche secondo e…”
“Sapremo se lavora davvero con Whisper.”
“Ma come?” domandò Santana leggermente confusa. “Non abbiamo idea di chi sia.”
Brittany sorrise e alzò un dito per indicarsi il petto: “Elizabeth mi ha detto che Whisper cerca solo altri sensate come noi, se tra i pazienti di Metzger ce n’è qualcuno sapremo che qualcosa non va.”
“E qualcuno di loro dovrà sapere di più su Whisper. Tu puoi contattarli” finì Santana con un ghigno, Brittany era davvero un genio quando voleva.
L’altra ragazza annuì e si mise dritta sul divano incrociando le gambe. “Adesso l’unica cosa che dobbiamo fare è prendere un appuntamento.”

 

Kurt aveva passato gli ultimi giorni programmando il volo e studiando ogni modo per non far capire a nessuno che sarebbe partito.
Tenerlo nascosto a Blaine non era stato per niente difficile, specialmente perché la loro ultima connessione risaliva a un paio di giorni prima (venti preziosi minuti accoccolati sul divano, non erano mai stati così tanto tempo insieme) dopodiché non aveva più avuto sue notizie, nessuno sbalzo d’umore o improvvisa voglia d’intonare l’ultima hit di Katy Perry a squarciagola; si vietava di preoccuparsene, poteva essere una cosa normale, in fondo non aveva seguito un corso su come essere sensate, c’erano delle cose che stava ancora imparando col tempo, poteva essere normale che un membro della cerchia non si percepisse ogni giorno. 
Si ritrovò all’indirizzo di casa Anderson prima di quanto avesse potuto sperare, non aveva avuto tempo di guardarsi intorno ed ammirare la vastità della dimora perché aveva preso immediatamente le valigie dal taxi e le aveva portate fino all’entrata pronto a sorprendere Blaine non appena avrebbe aperto. Si rese conto che la porta era aperta, così sgattaiolò dentro (c’era già stato, in un certo senso) e corse nella direzione della stanza del su ragazzo, ma non vi trovò nessuno. Fece il giro di tutte le stanze almeno due volte, controllò nel giardino sul retro e nella stanza del piano, ma lui non c’era. Kurt entrò nel panico più totale, non riusciva più a muovere un singolo muscolo del corpo, si sentiva pietrificato. 
Mercedes gli poggiò una mano sulla guancia per cacciare via una lacrima e gli chiese con voce preoccupata: “Cos’hai, tesoro?” 
Kurt deglutì e si bagnò le labbra, doveva ammettere ciò che in cuor suo sapeva già da giorni, ma era riuscito a cacciare il pensiero così in profondità che nemmeno i suoi compagni riuscivano a percepirlo. Prese un respiro profondo, doveva dirlo ad alta voce il che avrebbe reso tutto reale e non era pronto, non ancora. 
“Credo che Blaine sia in pericolo.”




 

Scrittrice in canna'scorner
MAMMA MIA IL RITARDO ENORME.
Ho avuto un mese di pausa che pausa non è perché ho scritto altra roba pubblicata e non (Ah, ho un account AO3 adesso. Qua. Anche se c'è solo una OS da Settembre dovrebbe riempirsi di cose varie), mi sono anche presa un paio di giorni di meritate vacanze saltando da casa di bookswhisper a casa di un'altra amica. Insomma, ho avuto Da Fare.
Abbiamo finito la prima parte della storia! Mi sento abbastanza soffisdatta, sta venedo come me l'ero immaginata, adesso comincia la parte più movimentata, possiamo dire così, sono una persona orribile quindi chiedo scusa già prima per evitare di doverlo fare più avanti, preparate i forconi, gente. Nessuno è al sicuro. 

Vostra,
Scrittrice in Canna.
   
 
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