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Autore: Clexa_XXX    01/09/2016    4 recensioni
Clexa!Au [ Mini Long 2/4]
Lexa e Clarke sono sposate da due anni e stanno insieme da nove. Sono felici e si amano, ragione per cui Clarke sente il bisogno di passare allo step successivo: avere un bambino. Ma cosa succede se Lexa, invece, non si sente ancora pronta a questo grande passo?
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I love you. Isn't that enough?

 
Capitolo II
 
Lexa prova a rimediare con del sushi. Non va troppo bene.
 
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Incurante di tutto quello che era successo quella notte, la sveglia suonò ugualmente puntuale, alle sei e trenta.
Lexa la percepì come una sirena lontana, quasi come parte del sogno confuso e inconcludente che in quel momento le stava riempendo la testa. Si era addormentata soltanto un'ora prima e anche da allora , comunque, era stato un sonno terribile. Sentiva , vagamente, bambini gridare in lontananza e la voce di Clarke, forse, confusa tra altre mille.
Nel corso della notte, più volte, aveva avuto la sensazione che Clarke fosse tornata lì con lei. Aveva quasi percepito il suo corpo caldo contro la schiena, le sue mani che le stringevano i fianchi, come succedeva molte volte, il suo profumo che l'avvolgeva. Ma non era mai stato reale, Clarke era sempre rimasta in soggiorno e Lexa lì, da sola, nel letto freddo e vuoto.
E vi si trovava anche alle sei, quando Lexa quasi diede un pugno alla sveglia, per spegnerla. Nell'istante successivo, allungò d'istinto il braccio per sfiorare Clarke e trovarla addormentata nella sua porzione di letto, ma le sue dita non toccarono nulla che non fosse il gelido lenzuolo.
Lexa sospirò, rigirandosi fra le coperte e strofinandosi gli occhi gonfi. Avrebbe desiderato che quello della sera precedente fosse stato soltanto un brutto incubo. Uno di quelli in cui ti risvegli ringraziando che non fosse reale. Eppure, per sua sfortuna, nulla di tutto quello che ricordava era stato frutto della sua immaginazione.
Con estrema lentezza Lexa scivolò fuori dal letto, indossando le ciabatte per raggiungere il bagno. Si infilò sotto la doccia per cercare di svegliarsi, sotto l'acqua congelata, ma quando ve ne uscì, il risultato fu il medesimo di quando era entrata. Era a pezzi.
Si vestì velocemente e si trucco appena, essendo in estremo ritardo per il lavoro e poi uscì dalla camera, finalmente. La casa era al buio, ovviamente, a parte qualche luce proveniente dall'esterno, attraverso le finestre del salone.
Lexa lanciò un'occhiata a Clarke, sul divano. Era a pancia in giù, il viso spalmato sul cuscino e i capelli biondi, disordinati, a coprirle gli occhi. Solo la bocca per ben visibile, mezza aperta.
Lexa sospirò. Clarke era bellissima e avrebbe voluto avvicinarsi, per lasciarle un leggero bacio sulle labbra. Ma non osò, si mantenne a debita distanza, anche quando preparò le ultime cose, che le avrebbero permesso di uscire.
Era una situazione terribile. E Clarke non voleva... capire. Non l'avrebbe mai fatto, Lexa la conosceva e sapeva che era troppo coinvolta nel suo desiderio di diventare mamma, utilizzando troppo il cuore, per comprendere le ragioni del suo rifiuto. Lo aveva sempre fatto e lei amava quel suo lato, quell'adorabile amore e dedizione con cui Clarke metteva il cuore in ogni cosa. Ma in quella situazione doveva capire. Doveva farlo, doveva crescere semplicemente.
Lexa prese le chiavi di casa con un sospiro e si infilò il cappotto, rivolgendo un ultimo sguardo alla bionda. Represse ancora una volta l'istinto di avvicinarsi e rivolgere una carezza. Con un nuovo sospiro,decise che avrebbe provato a fare pace con sua moglie in serata. Si sarebbe inventata qualcosa. Quella giornata avrebbe sicuramente aiutato entrambe a chiarirsi le idee.
Lexa uscì di casa, ormai in estremo ritardo per il lavoro, cosa che l'avrebbe fatta rimanere imbottigliata nel traffico di Chicago con l'auto. Scese di corsa le scale del palazzo, strinse il cappotto , infine, mentre si immergeva fra le strade trafficate della città.
 
_______________
 
Quella mattina Clarke si svegliò verso le nove.
Aprì gli occhi lentamente, le braccia intorno al suo cuscino e metà del corpo al di fuori del divano. Le ci volle qualche minuto ad abituare gli occhi a quella luce, minuti in cui restò immobile, in quella posizione, senza muovere un muscolo. Sbuffò sonoramente, quando si ricordò di tutti i fatti di quella notte, motivo per cui ora si trovava lì e non nel suo letto. Provò a muoversi, alla fine, ma sentì una fitta alla schiena e successivamente al collo, segno che i postumi di quella nottata sul divano si sarebbero fatto sentire a lungo.
Incapace di muoversi, Clarke restò in quella posizione ancora per diverso tempo. Ascoltò quel silenzio, dato dalla casa vuota, ma allo stesso tempo sentiva un gran chiasso provenire dalla sua testa. Non riusciva a smettere di pensarci, a smettere di sentirsi amareggiata e triste per la reazione di Lexa. La ragazza doveva essere già al lavoro. Quella mattina, come le aveva promesso, aveva fatto attenzione a non svegliarla. Probabilmente era stato più facile del previsto, visto che non avevano nemmeno condiviso il letto.
A lungo andare, la luce del mattino colpì Clarke dritta sugli occhi, così, alla fine, fu costretta ad alzarsi. Si diresse a passo lento verso la cucina, a piedi nudi, percorrendo le mattonelle fredde. Tirò fuori la polvere del caffè dalla mensola, la unì all'acqua nella macchinetta e la mise sul fuoco. Nel frattempo, si appoggiò al bancone della cucina, non aspettando altro di poter beneficiare di quel caffè. Si massaggiò il collo in più punti, per cercare di attutire quel dolore sordo e incessante. Anche la schiena le duoleva, praticamente ad ogni minimo movimento.
Nell'attesa, la mente di Clarke divagò, senza il suo permesso. Pensò a Lexa, pensò ai suoi occhi verdi, che la sera precedente non l'avevano guardata nemmeno una volta. E naturalmente, fu invasa , di nuovo, da quella rabbia.
Non riusciva a capacitarsi di come non avesse nemmeno voluto ammettere la sua paura, una paura che avrebbero potuto affrontare insieme, come avevano sempre fatto. Ma no, per Lexa era molto più facile rintanarsi nelle sue dannate convinzioni, piuttosto che affrontare la realtà. Nella sua razionalità esasperata.
Il caffè iniziò a ribollire e ciò attirò l'attenzione della ragazza. Si voltò, controllando che fosse pronto e quando se ne accertò, spense il fuoco. Poi, versò la bevanda con estrema attenzione nella sua tazza preferita.
Stava ancora sorseggiando il caffè bollente, quando controllò il cellulare, sperando che Lexa le avesse perlomeno lasciato un messaggio. Quella mattina se n'era andata senza svegliarla, forse al lavoro aveva pensato a quel litigio, alle sue parole, forse ci aveva ripensato. Ma, come sempre, credere che Alexandra Woods potesse ritornare sui propri passi era veramente da pazzi.
E infatti, Clarke non trovò messaggi di sua moglie, quando sbloccò il suo Iphone. Solo uno da parte di Octavia, delle otto del mattino, che le chiedeva come fosse andata con Lexa.
Clarke sospirò, ribloccando il cellulare e facendolo scivolare sul tavolo, davanti a lei. Non rispose alla sua amica, non ne avrebbe avuto le forze.
Finì il suo caffè, sorseggiandolo piano, ma non si sentì per niente meglio. Il dolore al collo e alla schiena non era migliorato, aveva ancora sonno e la rabbia era tutto tranne che scomparsa. In più, non aveva molto da fare quel giorno, cosa che non avrebbe certo aiutato la sua causa. Non aveva nulla con cui riempirsi la testa e smettere di rimuginare continuamente gli stessi pensieri.
Provò, quindi, l'ultima possibilità di salvezza. La più drastica, che aveva calmato i suoi nervi in molte situazioni, anche peggiori di quella. Dipingere, poteva essere la soluzione. Così, riempì nuovamente la tazzina di caffè e si trasferì nella camera accanto, quella riservata alla pittura.
Quando si erano trasferite lì, Clarke si era subito innamorata di quella stanza. Aveva un vista a dir poco incredibile, era il punto migliore in cui osservare i grattacieli di Chicago e il suo Skyline. Soprattutto al tramonto, quando tutto si tingeva di rosa e arancione. Purtroppo , però, era troppo piccola per farla diventare la loro camera da letto, così Lexa aveva avuto la brillante idea di renderla semplicemente la stanza di Clarke. La sua stanza, dove fare la cosa che amava fare di più: dipingere.
Così l'avevano arredata insieme , mettendovi un piccolo armadio a lato, un cavalletto e uno sgabello proprio davanti alla finestra. Clarke passava metà delle giornate guardandovi fuori e l'altra metà dipingendo quello che vi aveva visto.
Spesso, però, Clarke vi disegnava soltanto Lexa. I suoi occhi verdi, che la guardavano dipingere e che , colpiti dalla flebile luce del sole, erano ancora più luminosi e meravigliosi di quanto Clarke potesse anche solo provare a riprodurre. Era sempre quello il problema di dipingere Lexa. La ragazza era sempre più bella di quanto Clarke potesse dipingere su un pezzo di carta.
Anche quella mattina, Clarke si avvicinò allo sgabello e si sedette, osservando i raggi del sole che , timidiamente, toccavano la tela e il suo viso. Poggiò la tazza di caffè lì accanto e prese il pennello fra le dita. Lo immerse nel colore e poi lo riportò sulla tela immacolata, in una semplice e lunga linea. Tracciò una striscia di colore, poi un'altra e un'altra ancora, a dare forma all'immagine, che poteva osservare fuori dalla finestra. Qualche secondo dopo , però, si fermò. Dannazione, era rimasta a fissare il vuoto un'altra volta.
Con un gesto di stizza, Clarke riappoggiò il pennello nella tavolozza, mettendosi in piedi e tirò indietro la massa di capelli biondi, che le era finita davanti agli occhi.
Neanche la pittura sembrava aiutare.
Ormai sconsolata, Clarke abbandonò la stanza, riportandosi nel salone, lasciandosi cadere nel divano. Accese il televisore, cambiando canale, rapidamente, troppo nervosa e impaziente per cercare un programma che davvero le interessasse. Si fermò su un vecchio film in bianco e nero, uno di quelli che in realtà a lei non piacevano affatto, ma che , scendendo a compromessi con Lexa, aveva visto più di una volta. Di solito, la mora accondiscendeva a vedere qualche commedia romantica con Hugh Grant e la volta successiva era Clarke a dover guardare con lei uno dei film in bianco e nero, che tanto le piacevano. Di solito erano compromessi equi, a cui dovevano arrivare per non litigare e per cui Clarke non era poi così dispiaciuta. In fondo, anche se i film non erano poi così interessanti, era sempre una serata in cui poteva stare fra le braccia di Lexa, accoccolata al suo petto, mangiando popcorn e ridendo insieme a lei, ad ogni faccia buffa o attore con i lunghi baffi. Cosa che di solito le faceva scoppiare a ridere entrambe.
In quel momento Lexa non si trovava lì, però. Eppure Clarke non cambiò canale. Osservò lo schermo per un po', poi, in un gesto automatico prese il suo quadernino rosso, apoggiato sul tavolo, non lontano da lei. Lo aprì al primo foglio bianco, nel quale si trovava anche una matita e , senza quasi accorgersene, iniziò a disegnare. Era una cosa che faceva fin da bambina, fin da quando era piccolissima in realtà, e , anche se se crescendo aveva iniziato anche a dipingere, farlo con una semplice matita e un foglio bianco, restava una delle sue cose preferite.
Clarke tracciò semplici linee curve, ora leggere, ora marcate, a formare quello che era l'immagine che si era creata nella sua testa. Come molto spesso le capitava, la bionda non pensò neanche a quello che sarebbe stato il prodotto finale, si lasciò semplicemente trasportare da quell'istinto. Lasciò che la matita scivolasse sul foglio, creando , lentamente e a piccoli step, l'immagine totale.
Quando ebbe terminato , circa un'ora dopo, Clarke si ritrovò a guardare quello schizzo, lei stessa incredula, di quello che aveva creato, fino ad allora non rendendosi conto di come davvero sarebbe potuto apparire.
Sul foglio era ritratta Clarke, seduta sul letto, la schiena contro la spalliera. Aveva il viso sorridente, il braccio a stringere una bambina, seduta tra le sue gambe e sostenuta dal suo tocco. La piccola aveva qualche ciuffo sulla fronte, le gote arrossate e gli occhi spalancati. Tendeva le braccia verso l'alto, verso Lexa che, inginocchiata davanti a lei, acchiappava le sue manine e le sorrideva a sua volta.
Clarke strinse i denti, a quell'immagine. Appariva chiara, perfetta, ai suoi occhi. Così reale per lei, eppure così lontana per Lexa, che fino a quel giorno, non aveva neppure pensato all'eventualità di avere un bambino. E che ne era spaventata.
Clarke la conosceva bene, poteva dire di conoscerla bene, dopo nove anni. Conosceva i suoi occhi e non l'avrebbe potuta ingannare. Lexa aveva paura e il fatto che non volesse ammetterlo, nemmeno con lei, la feriva. Perché, non poteva dirle la verità? Era normale avere paura, sarebbe stato strano non averne, in effetti.
Ma per Lexa era sempre stato così, era sempre stata una codarda. E non perché provava paura, ma perché , ogni volta che la sentiva crescere, la mascherava con qualcos altro. Lexa aveva sempre avuto paura di avere paura.
Clarke strinse i pugni, chiudendo il quaderno con uno scatto. Il televisore ancora trasmetteva il film in bianco e nero. La ragazza si sentì , nuovamente, immersa in tutte quelle sensazioni. Chiuse gli occhi rassegnata, quel giorno , probabilmente, non se ne sarebbe liberata in alcun modo.
 
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Quella fu una giornata terribile e non solo perché era Lunedì.
Come previsto, Lexa rimase imbottigliata nel traffico, accomulando una mezz'ora di ritardo in ufficio. Il signor Lewis, il suo capo e direttore del giornale, le rifilò una ramanzina di quasi dieci minuti. E se c'era una cosa che Lexa odiava erano le ramanzine.
Quando si liberò di quella paranoia e si poté mettere al lavoro, non aveva nemmeno preso un dannato caffè e la stanchezza, unita a tutti i pensieri che ancora le frullavano nella testa dalla sera precedente, le permisero di fare poco e nulla. Avrebbe dovuto fare turni extra per tutta la settimana, per recuperare tutto quel lavoro arretrato.
Quando uscì dall'ufficio alle cinque, la testa le faceva così male da scoppiarle. Controllò il cellulare, mentre rientrava in auto, ma non c'erano né chiamate né messaggi. Segno chiaro che Clarke fosse ancora incazzata con lei.
Lexa si passò una mano sulla fronte, osservando la sua immagine nello specchietto retrovisore. I capelli mori erano arruffati e due occhiaie marcavano pesantemente i suoi occhi verdi.
Sbuffò. Non era assolutamente pronta a litigare di nuovo con Clarke. Aveva bisogno di una pausa, fra un'inferno e l'altro. Nella lista delle cose che più la irritavano al mondo, al primo posto, c'era sicuramente litigare con Clarke Griffin. Non solo perché era , chiaramente, innamorata di lei in un modo che , molti anni prima, avrebbe definito senza speranze, ma anche perché Clarke , oltre ad essere la persona migliore che conoscesse, poteva anche essere la più irritante dell'interno universo. Lexa non sapeva bene se le due cose potessero essere collegate in qualche modo, ma nessuno nell'universo poteva renderla nervosa come faceva biondina. Era come litigare con una bambina di dodici anni, che sbatte i piedi ogni volta che le cose non vanno nel verso che vorrebbe.
Litigare con Clarke le faceva sempre salire un senso di nausea e un macigno, alla bocca dello stomaco. Anche qui, cosa che non accadeva con nessun'altra persona al mondo.
Presa dalla paura di dover ripetere ancora quella lite, Lexa mise in moto l'auto, dirigendosi dalla parte opposta a quella di casa. Guidò per dieci minuti, poi si fermò ad una piccola tavola calda, parcheggiò l'auto e prese un caffè da portar via. Si ritrovò a sorseggiare la bevanda in auto, osservando un punto indistinto davanti ai suoi occhi.
Non aveva ancora pensato alla sorpresa per Clarke. Forse delle rose, ma sarebbe stato stupido. E sdolcinato. E avrebbe ammesso le sue colpe, cosa che non era assolutamente nelle sue intenzioni. Controllò ancora il cellulare, zero notifiche. Nulla, non si era fatta sentire.
Lexa ripose il cellulare nella tasca dei jeans con un'altro sospiro, accese il motore della macchina e appoggiò il caffè bollente nel sedile passeggero. Decise che sarebbe passata da Anya, prima di fare ritorno a casa. Doveva calmarsi, schiarirsi le idee, prima di incontrare di nuovo Clarke.
Si diresse quindi verso la biblioteca di famiglia, nella quale Anya lavorava da alcuni anni. Non aveva voluto frequentare il college, da sempre allergica a qualunque tipo di studio, e così, aveva inizato a lavorare lì. Non era il suo lavoro dei sogni, ma , nonostante le sue lamentele, Lexa era sicura che quel posto le piacesse molto.
Parcheggiò sul retro, prese il caffè e uscì dall'auto, camminando sul marciapiede, per raggiungere l'ingresso principale.
Era Lunedì e la ragazza era praticamente sicura che quel giorno Maggie non lavorava, quindi ci sarebbe stata sicuramente Anya al bancone.
Quando entrò nel locale, il profumo di libri usati che aveva caratterizzato la sua infanzia, la inebriò. Lexa sorrise involontariamente, guardandosi intorno. Aveva trascorso così tanto tempo in quel posto, che lo conosceva a memoria. Ogni sfumatura, ogni piccolo particolare. Al contrario di Anya e Lincoln, Maggie non l'aveva mai dovuta costringere a rimanere lì, fra gli scaffali impolverati, a leggere un vecchio libro. Anzi. Quando usciva da scuola, non aspettava altro che fare i suoi compiti e poi rifugiarsi lì, fra le parole di qualche scrittore inglese o francese, magari. Le piaceva la letteratura horror, i gialli, ma soprattutto l'avventura. Aveva sempre preferito di gran lunga i libri alle persone. Loro non parlavano, non la costringevano a farlo a sua volta.
E dire, però, che la libreria di famiglia le ricordava anche il suo bacio, dato , quasi per sbaglio, ad una ragazzina qualche anno più grande, quando aveva quattordici anni. Lexa lo ricordava con un sorriso, ogni volta, per quanto doveva essere sembrata impacciata. Si chiamava Sally, se non ricordava troppo male.
“Guarda chi si vede” la voce di Anya la sorprese. Lexa ruotò su sé stessa e la vide, seduta a terra, fra le gambe una scatola di cartone stracolmo di libri. Li stava classificando, probabilmente, inserendovi il codice e infilandolo nello scaffale nell'ordine designato.
“Ehi” la salutò, avvicinandosi. Aveva ancora il caffè bollente stretto nella mano destra. Si sedette al suo fianco, lasciandosi andare ad un sospiro piuttosto rumoroso.
Anya le rivolse un'occhiata grave, continuando comunque il suo lavoro “Non troppo entusiasmo, Lexa, sto lavorando e potresti distrarmi”
La mora scosse la testa , facendole intendere che non era dell'umore per rispondere alle sue provocazioni. Appoggiò la schiena contro uno degli scaffali e incrociò le gambe. Prese un sorso di caffè “Credimi, è stata un giornata di merda”
“Oh, povera la nostra Lexy, cosa ti è successo di così terribile?” la prese in giro la sorella, in falsetto e con un piccolo ghigno sulle labbra. Attaccò al bordo del libro un'etichetta, osservando il lavoro soddisfatta, lo ripose nello scaffale. Lexa osservò distrattamente che si trattava di una vecchissima copia di Pride and Prejudice.
“Sono rimasta nel traffico per quasi un'ora, sono arrivata in ritardo al lavoro, ho un sacco di lavoro arretrato per i prossimi giorni, mi scoppia la testa...” Lexa si incupì, puntò lo sguardo sul cartone del caffè, sfiorandolo con il pollice “...E ho litigato con Clarke”
Anya fece una smorfia, in quel momento comprendo il motivo di quella brutta cera. Sapeva bene l'nfluenza che la bionda aveva sull'umore della sorella minore. Per quanto gli altri inconveniente della giornata potessero averla turbata, Lexa aveva quella faccia terribile, probabilmente solo per il litigio con Clarke. Anya roteò gli occhi “Oh andiamo” allungò il braccio, dandole una piccola pacca sulla spalla “Tu e la tua biondina farete pace. Come sempre”
Lexa non sembrò sollevata. Prese un'altro sorso di caffè “Questa volta non è una cazzata, Anya”
Anya alzò lo sguardo, puntandolo su quello pensieroso e abbattuto della sorella minore. Mosse la mascella a destra, poi, chiedendosi perché gli innamorati dovessero fare così tanti drammi. Conosceva lei e Clarke e avevano sempre messo a posto ogni discussione, anche le peggiori. Non c'era da preoccuparsi. Però, vedere così Lexa non le piaceva affatto. In fondo, era sempre la sua sorellina.
Si spostò , quindi, mettendosi seduta più vicino a lei. Le diede un piccolo pugno contro la spalla “Qual è il dramma?”
Lexa si leccò le labbra, prendendo un sospiro, quasi prese il coraggio per iniziare a parlare “ Ieri sera mi ha … chiesto di avere un figlio” disse semplicemente e Anya rimase con la bocca socchiusa. Okay, decisamente non se lo aspettava. Lexa la guardò di soppiatto, non stupita dalla sua reazione, perché sapeva che era stata anche la sua, la sera precedente.
“Cazzo, l'ha presa sul serio la storia di fare felice sua suocera”
Lexa annuì “Già” si morse la lingua, aveva quasi finito il suo caffè. Ne avrebbe avuto bisogno di almeno altri cinque, in realtà “E quando le ho fatto notare che non è il momento giusto, ha dato di matto. Non le ho detto di no, le ho solo fatto notare che non è il momento adatto” imprecò Lexa, prese l'ultimo sorso di caffè, poi lo poggiò a terra energicamente “ Insomma, lei è una cazzo di specializzanda, potrebbero licenziarla o chissà cos'altro. E lo stesso vale per me con il giornale, è un miracolo che ancora non l'abbiano ancora chiuso, in realtà. I figli hanno bisogno di uno stipendio fisso, un posto di lavoro sicuro e poi tutto il resto, la casa, la macchina e il fatto che ...”
“Te la stai facendo sotto, eh?” la interruppe Anya, piegando la testa di lato. Lexa la guardò negli occhi, per un attimo, incrociando il suo sguardo si sentì come bruciata. Lo stomaco le si rivoltò come un calzino e la sua reazioni fu di scattare in piedi, come una molla. “No! Non me la sto facendo sotto, affatto” Lexa alzò le braccia, gesticolando vistosamente. Possibile che nessuno usasse per un attimo il cervello? Nessuno che vedesse la cosa impossibile, come la vedeva lei? “Sono soltanto realista. Una delle due, in una coppia, deve esserlo. E Clarke , decisamente, non può ricoprire questo ruolo”
Anya si sistemò i capelli dietro all'orecchio. Lexa pensò fosse in procinto di dirle qualcosa che non le sarebbe piaciuto, perché strinse le labbre “ Il lavoro è importante, ma tu e Clarke lo avete. Diventerà un medico e tu troverai un giornale decente, quel bambino navigherà nell'oro da qualche anno”
“Non puoi esserne sicura”
“Puoi essere sicura di qualcosa, nella vita?” le chiese retoricamente, si mise in piedi, poggiandole ancora una mano sulla spalla “Senti, Lex', se davvero lo fai per questo, dovresti pensarci. Penso che se lo vuoi davveri davvero, il vostro lavoro non sia davvero un problema. O la casa o l'auto o qualsiasi altro” osservò Lexa fare una smorfia di disapprovazione e rannicchiarsi sul posto “Se invece il motivo fosse un altro, dovresti parlarne con Clarke. E smetterla di fartela addosso. Un bambino non ti ucciderà , ti toglierà il sonno e il sesso, ma sono quasi sicura che resterai tutta intera”
Lexa osservò il pavimento, ancora le parole di Anya, che si aggiungevano a quelle di Clarke, che rimbombavano nella sua testa. Non riusciva a credere di essere l'unica, a vedere quelle come difficoltà effettive. Era così strano? No, non lo era. Non lo era affatto. Volere un bambino, quando sarebbe stata assolutamente sicura di poterlo mantenere. Era semplicemente responsabile.
Incrociò le braccia, stringendosi poi nel suo cappotto scuro “Non sono stronzate, Anya, non lo sono affatto. Il problema non sono io. Avremo un figlio tra qualche anno e la questione è chiusa” tagliò corto, con voce decisa “Clarke può sbattere i piedi quanto vuole questa volta, so di aver ragione”
Anya scosse la testa, mentre la vide allontanarsi verso la porta in cui poco prima era entrata. Sua sorella era impossibile da muovere, quando rimaneva impantanata nelle sue dannate convinzioni “Dove stai andando?”
“A prendere del sushi” Lexa si aggiustò il cappotto, ancora con tono grave. Era decisamente infastidita dal fatto che sua sorella non concordasse con lei, ma anzi, desse ragione a Clarke “Così magari Clarke la smetterà di portare il broncio”
Anya la osservò uscire, senza alcun dubbio nervosamente, richiudendo la porta della libreria dietro di sé. Qualcosa le diceva che il sushi non avrebbe risolto un bel niente.
 
 
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Lexa rientrò a casa che erano appena passate le sette. Chiuse la porta dietro di sé, poi si sfilò la borsa a tracolla e , insieme al cappotto, l'appese all'appendiabiti lì accanto.
Nell'appartamento sembrava essere calato un silenzio tombale, non si poteva udire nemmeno il vociare della radio o della televisione accese. Il che era strano, considerato che difficilmente Clarke amava il silenzio, ragione per cui si circondava di qualche rumore, anche quando , in realtà, era impegnata in ben altre attività.
“Clarke?” chiamò Lexa, superando il piccolo corriodio d'ingresso e girando a destra, verso il soggiorno. Nessuno rispose. Era strano che se ne fosse già andata, il suo turno sarebbe iniziato la mattina seguente. Forse l'aveva cambiato, per evitarla. Quel pensiero le fece stringere lo stomaco. Ma non era quello che anche lei aveva fatto, quel pomeriggio? “Clarke?” chiamò di nuovo e questa volta, un rumore provenne dalla loro camera da letto. Lexa alzò gli occhi e la vide fare capolino dalla porta, incrociando il suo sguardo, ma senza che lei dicesse una sola parola.
“Ehi” la salutò lei per prima, allora, alzando la mano “Ho fatto tardi, ma avevo del lavoro arretrato in ufficio” mentì, non voleva dirle che aveva bisogno di calmare i nervi, prima di rivederla, dopo quella litigata.
Clarke annuì, non aggiungendo altro, sparì di nuovo dentro la stanza. Lexa sospirò pesantemente, appoggiando il vassoio del sushi sul tavolo lì accanto e raggiugendo lei stessa la camera da letto.
Le cose non sarebbero state facili, ne era sicura.
Quando Lexa entrò nella stanza, Clarke stava piegando alcune magliette appena lavate, riponendole in due cassettoni. Portava degli short grigi dai bordini bianchi e una vecchia maglia degli Artick Monkeys nera e bianca. I capelli biondi erano ancora umidi all'altezza delle punte, segno che non doveva aver finito una doccia da molto.
Lexa si avvicinò a lei, cautamente, arrivando a sfiorarle la schiena con il palmo della mano. La ragazza accucciata a terra, si irrigiì subito a quel contatto
“Sei ancora arrabbiata con me?”
Ok, forse la domanda non fu delle più azzeccate. Clarke si spostò di lato, rivolgendole uno sguardo eloquente. Ovviamente era ancora arrabbiata con lei.
“Oh andiamo” sospirò Lexa, spostandosi appena. Continuava a vedere quella storia come assurda. Era il modo in cui si comportava ad essere assurdo, in realtà “Possiamo fare pace? Ho preso il sushi. Il tuo preferito. Che ne dici di cenare davanti alla tv?”
Clarke prese un'altra maglietta fra le mani, le spalle le si irrigidirono, come se ogni parola dell'altra la innervosisse maggiormente “Non ho molta fame”
“Tu non rifiuti mai il sushi” le fece notare Lexa, ancora una volta si riavvicinò a lei. Era inevitabile, soprattutto cercando di fare pace. La loro attrazione era sempre stata impressionante, difficilmente, trovandosi vicine, le due riuscivano a non toccarsi. Anche solo piccoli tocchi, semplici carezze. Erano come calamite di poli opposti.
Clarke ancora una volta non rispose. Quei silenzi forzati iniziavano a diventare esasperanti per Lexa. Quasi preferiva quando le gridava in faccia. La frustrazione di Lexa cominciò a diventare rabbia, come ogni volta, quando non riusciva a mantenere il controllo o ad uscire da una situazione come quella.
“Hai intenzione di non parlarmi per il resto dei tuoi giorni?” le chiese, avvicinandosi a lei, questa volta, si appoggiò al cassettone alla quale Clarke stava lavorando, richiudendolo e piazzandosi praticamente davanti al suo viso.
“Forse” rispose Clarke, con tono schietto, stringendo le labbra “Almeno finché tu continuerai ad evitarmi rientrando tardi dal lavoro” sospirò “E pensando che del cazzo di sushi possa semplicemente bastare a zittirmi e a fare pace”
“Non ho fatto tardi per ...”
“Non hai mai lavoro arretrato il Lunedi, Lexa”
Lexa deglutì. La guardò negli occhi, senza parole, praticamente un'ammissione di colpe. Mentire a Clarke era davvero difficile, lo era sempre stato “Sono stata da Anya, volevo calmarmi per non tornare a casa e litigare di nuovo” confessò, stringendo la mascella.
Clarke alzò un sopracciglio a quella confessione, quasi non gliene importasse, quasi fosse ovvio e sapesse già tutto. Si tirò in piedi, aggiustandosi qualche ciuffo di capelli biondi dietro le orecchie, ancora nervosamente. Provò a superare la mora, che però le afferrò il braccio, tirandola a sé. Il suo corpo si strinse automaticamente a quello di Lexa, che era sempre stata più alta di lei di almeno due spanne. La mora le sfiorò la mano, con la punta delle dita “Mi dispiace per ieri sera. Odio litigare con te” le sussurrò Lexa e si abbassò appena, sfiorandole una guancia. Clarke la guardò negli occhi, non riuscendo a scostarsi, nonostante la rabbia che ancora provava nei suoi confronti, il contatto con il suo corpo l'aveva calmata, come in vano aveva provato di fare in tutta la giornata.
“Sai cosa non riesco a sopportare?” Clarke si morse la lingua, non abbandonando mai gli occhi di Lexa “Che tu non riesca a dire la verità alla persona che dici di amare più al mondo. Potresti dirmi ciò che provi veramente, che non ti senti pronta ad avere un figlio. Perché lo capirei, perché potremmo affrontarlo insieme, come abbiamo sempre affrontato qualsiasi cosa. Avremmo trovato una soluzione, ma non ti fidi di me, a quanto pare, non ti fidi di noi
Lexa sentì il cuore stringersi. Si sentì colpita, perchè , per un attimo, pensò che nelle parole di Clarke si sarebbe potuta celare un fondo di verità. Non le piaceva affatto ammettere di avere paura. Ma ,soprattutto, aveva la consapevolezza di aver ferito Clarke. E ferire Clarke, sapere di farla soffrire, era la cosa peggiore che la sua mente potesse concepire.
Ma poi , la parte più razionale di lei le ripeté che la paura non era nulla, che non fosse portato da ragioni razionali. Forse ne era stata un po' spaventata, ma solo all'inizio, e comunque, solo perché aveva valutato quelle variabili, quelle condizioni che nella loro vita non erano ancora ideali per diventare genitori.
“Non ho paura di avere un figlio” ripete Lexa, sussurrando, cercò di apparire più decisa di quanto non fosse.
“Smetti di pensare. Smettila per un attimo, fallo per me” Clarke aveva la voce rotta dal pianto. Sentiva ancora il corpo di Lexa, contro il suo “Ti amo, questo non è abbastanza?”
Lexa socchiuse gli occhi “Non puoi smettere di pensare, se stai progettando di diventare genitore, Clarke. Questo fa capire che non sei pronto”
“Crescere un bambino non si basa solo sui fatti o sulla razionalità!”
“Beh, di certo, quando avrà fame avrà bisogno di fatti. Di cibo. Che si compra con i soldi… quindi”
Clarke si scostò da lei, con uno sbuffo sonoro, così che lasciasse le presa su di lei. Si portò le mani al viso, incredula, sedendosi sul bordo del letto, ancora una volta. Non riusciva proprio a concepire il modo di pensare della ragazza.
Lexa sospirò con lei, strofinò i palmi delle mani sui jeans, nervosa, non sapeva davvero come gestire quella situazione. Avrebbe voluto rendere felice Clarke, lasciare libero quella picccolissima parte della sua mente, che le diceva che , forse, ci avrebbero potuto provare. Avrebbe potuto pensarci seriamente, non escluderlo a priori. Ma provare non è abbastanza, quando in ballo c'è una cosa importante come un figlio, non è così?
Lexa si accucciò, a ginocchioni, per raggiungere la stessa altezza dell'altra “Clarke, ti amo anche io, sai che ti amo. Ma a volte l'amore non basta. Prova a pensare, un attimo, razionalmente, mettendo da parte la tua voglia di diventare mamma. Pensaci”
“Io ho pensato. E vedo solo che tu” le puntò il dito, toccandole la spalla in maniera profondamente risentita “... tu , come sempre, metti sempre la testa davanti ai sentimenti. Come hai sempre fatto, da quando ti conosco, a qualsiasi costo” le disse, poi si alzò in piedi, non permettendole di aggiungere più una parola, perché uscì dalla stanza, proprio come la notte precedente, sbattendo la porta dietro di sé.
Lexa strizzò gli occhi, prese un respiro profondo, lasciandosi cadere a terra, con la schiena contro il letto e la testa fra le ginocchia.
 
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Clarke strinse gli occhi, ricacciando le lacrime all'interno, mentre si appoggiava al tavolo del salone, quasi senza forze. Per tutto il giorno si era ripromessa di restare calma, di non aggravare la situazione con Lexa, perché probabilmente, solo con la calma sarebbe riuscita a convincerla.
Ma poi aveva fallito, quando se l'era ritrovata davanti, con quella scusa banale del lavoro arretrato e le sue dannate convinzioni, non aveva potuto evitare di volerle gridare in faccia tutta la rabbia che tratteneva nel petto.
Ora la rabbia in parte si era trasformata in lacrime, che minacciavano di uscire dai suoi grandi occhi azzurri. Ma , un'altra parte, quella rabbia ancora le rombava nel petto e le impediva di pensare razionalmente e trovare la soluzione più saggia.
Ora, voleva seguire solo la soluzione che più avrebbe infastidito Lexa.
Quando Clarke sentì i suoi passi, giungere dalla camera da letto, si gettò sul divano, incrociando le gambe e prendendo fra le mani il telecomando e accendendo la tv. Lexa entrò nel salone e la vide, sbuffò sonoramente, visto che Clarke con il pollice aveva alzato il volume, non rivolgendole il minimo sguardo.
Lexa si scostò qualche ciuffo di capelli dalla fronte, prima di sedersi alla destra della bionda e sospirare ancora “Clarke” mormorò Lexa, con una mano si sfiorò la fronte, spostandosi sul ciglio del divano, per avvicinarsi meglio a Clarke e con le dita, sfiorarle le ginocchia.
Clarke continuò ad ignorarla ancora fissando la tv. Non la stava davvero osservando, ma rifiutava di darla vinta a Lexa e voltare la testa nella sua direzione.
“Sai, dovremmo fare pace e mangiare il nostro sushi” continuò Lexa, parlando con più calma possibile. Non ottenne comunque una risposta, così alzò il braccio verso il viso di Clarke. Lentamente il suo indice le sfiorò la guancia, percorrendone il perimetro del viso per qualche millimetro, ma non fece in tempo ad arrivare ad accarezzare i capelli biondi, che Clarke si scostò con freddezza. Lexa strinse le labbra “Clarke, è stata una giornata d'inferno, per favore“
Clarke rimase immobile, nonostante nello stomaco sentì un nodo stringersi maggiormente. Una parte di sé avrebbe semplicemente voluto abbracciare Lexa il più forte possibile. Avrebbe voluto sentire le sue braccia stringerla, come solo lei sapeva fare, e lenire quel senso di tristezza che non riusciva a far sparire in alcun modo. Ma dall'altro lato, Clarke ricordava a sé stessa che la causa della sua tristezza era proprio Lexa. Lexa e la sua dannata codardaggine.
“D'accordo, fa come ti pare allora. Continua con questa sceneggiata da ragazzina” Lexa si alzò di scatto dal divano, strinse i pugni dalla rabbia, mentre non toglieva gli occhi da lei “Sono stufa di correrti dietro. Non parlarmi se non vuoi, questa storia inizia a diventare assurda”
Clarke sentì , a sua volta, il sangue ribollirle nelle vene. Il comportamento arrogante di Lexa le aveva fatto perdere ogni briciolo di autocontrollo che l'aveva fatta rimanere lì, immobile. Questa volta la guardò, ma fu uno sguardo che letteralmente la fulminò“Sai, non ho intenzione di fare niente. Di non dire niente. Come hai fatto tu con me, ieri sera”
Lexa sorrise appena, un sorriso sarcastico ovviamente, portandosi le mani ai fianchi “Un comportamento molto maturo, complimenti. Continua a ricattarmi, come se avessimo dodici anni”
Clarke strinse gli occhi “ E quanto è maturo non riuscire ammettere di avere paura? Mh, Lexa?”
Lexa deglutì e sbarrò gli occhi, Clarke colse chiaramente per un attimo l'esitazione nei suoi occhi. Nell'attimo dopo, però, era già tutto sparito. Lexa strinse le labbra, scuotendo appena la testa “Non ho paura” ribadì, con voce ferma, sicura di sè “Questa è solo quello che dici tu per convincerti che la tua idea di avere un bambino sia giusta. Se tu iniziassi a pensare anche un momento a quello che ti ho detto, capiresti che ho ragione”
“E tu l'hai fatto? Hai cercato di valutare quello che ti ho detto io?” Clarke chiuse la bocca, in quegli istanti, mentre aspettava una risposta da parte della moglie. Digrignò i denti, quando la vide riabbassare lo sguardo ancora una volta, l'ennesima “No, infatti. Sei troppo piena di te, come sempre, per credere di aver sbagliato a reagire così, vero?”
“Non c'era bisogno di valutare quello che hai detto, Clarke”
“Ah no?” Clarke trattenne il respiro, inclinando appena il capo.
“No. Perché è chiaro che non siamo pronte ad avere un bambino! Tu per prima non lo sei, ma non riesci a vederlo. Forse potrai farlo, quando finalmente crescerai! Come puoi pensare di essere pronta ad avere un bambino, quando la vera bambina qui sei tu?” quasi gridò Lexa “ A volte mi sembra di essere sposata con una bambina di dieci anni!”
Seguirono secondi di silenzio. Nessuna delle due parlò. Lexa rimase immobile, gli occhi ancora puntati a terra si alzarono timidamente verso Clarke. La bionda mi morse l'interno della guancia così forte da sentire il retrogusto del sangue sulla lingua. Non riusciva nemmeno a pensare che davvero Lexa avesse detto quelle cose. Che avesse quella considerazione di lei.
Fu colta da nuova rabbia e sentì le mani pruderle. Avrebbe voluto colpire Lexa, spingerla. Avrebbe voluto girdarle così forte. Ma decise di non fare niente. Non avrebbe dato a Lexa il previlegio di sopportare una scenata e poi sentirsi in pace con sé stessa. Avrebbe dovuto sopportare cose ben peggiori.
Perciò Clarke deglutì, tirandosi su con il naso “Perfetto. Se è quello che pensi, non dovremmo nemmeno discuterne” disse, con voce bassa, prima di lasciare la stanza.
Lexa la osservò sparire dalla sua visuale, senza più dire una parola.

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Angolo Autrice:
 
Eccoci qui. Secondo capitolo di questa mini-long, che spero possiate apprezzare, quanto il primo.
Allora, avevo questo secondo capitolo già pronto, ma non riuscivo a pubblicarlo perché non mi convinceva troppo l'ultima parte... la litigata, ecco. L'ho aggiustata, spero che possa essere realistica e seguire più o meno i pensieri delle due protagoniste. Ecco, vorrei che fossero ben chiari, per capire anche le loro motivazioni, giuste o sbagliate che siano. Per quanto riguarda la mia opinione sulla questione, direi che la otterrete alla fine xD
Anyway capitolo che ritengo interessante ( E infinitamente lungo... chiedo perdono, so essere così prolissa...). Come era ipotizzabile, Lexa ha cercato di rimediare, ma non vuole certo cambiare la sua opinione... lo stesso vale per Clarke. EHHHH, bel problema.
Ho poi cercato di mostrarvi un pezzettino del passato di Lexa, almeno come lo immagino nella mia mente e spero che questa Lexuzzia super nerd, amante dei libri vi piaccia, almeno quanto piace a me. Nei prossimi capitoli esploreremo anche il passato di Clarke, vedrete, anche se spero di dedicare intere storie a questo argomento nei prossimi mesi.
E nulla, il terzo capitolo è già scritto in parte, esiste uno “scheletro” di esso, con dialoghi e avvenimenti, mancano descrizioni e particolari, poi sarà pronto. Indicativamente, prossimo Giovedì dovrebbe essere pronto.
Infine, vi ringrazio come sempre immensamente del supporto. Di tutte e cinque le ragazze che mi hanno lasciato una recensione, di chi mi ha fatto complimenti e di chi ha aggiunto la storia alle preferite/seguite. Apprezzo davvero moltissimo il vostro supporto.Spero possiate trovare il tempo di lasciarmi ancora vostre opinioni e pareri nelle recensioni...
A presto!
   
 
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