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Autore: HannibalLecter    03/09/2016    0 recensioni
Juno non era mai stata una ragazza troppo ambiziosa: in fondo sognava solo la fama di Andy Warhol, un’esposizione delle sue opere al Metropolitan di New York e un fidanzato che assomigliasse alla foto di Robert Redford da giovane che conservava nel suo portafogli. Una cosa da niente, no? Certamente non aveva progettato di andare a vivere nella palazzina fatiscente di Via Leopardi 13, con Adam e Jack, aspiranti attori e musicisti, come vicini sempre pronti a risucchiarle l’anima con le loro stupidaggini e le loro incursioni notturne. Come non era nei suoi piani improvvisarsi babysitter di un piccolo mostro e terapeuta della madre di quest’ultimo, dedita a troppi Martini, sonniferi e scarpe di Prada. E soprattutto non avrebbe mai pensato di finire ad accudire un capriccioso artista ventiquattrenne, testardo come un mulo, orgoglioso come Draco Malfoy e maledettamente inguaiato.
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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«Quest'idiota si chiama Juno ed ha appena rischiarato di frantumarsi l'osso sacro a causa del vero idiota che ha lasciato i suoi libri sparpagliati in ogni dove! E immagino che il nome di questo vero idiota sia Felix!», strillò la ragazza cercando di raddrizzarsi senza provocare la caduta delle torri pericolanti di libri che la circondavano.

Il ragazzo non parve fare caso ai suoi insulti, più interessato al fatto che quella piccola donna bionda, che si era appena introdotta nel suo appartamento facendo un tuffo di testa tra i suoi libri, pareva conoscerlo.

La studiò attentamente, osservandone i goffi tentativi nel rimettersi in piedi senza inciampare nuovamente. Aveva fatto uno sforzo per vestirsi bene, il ragazzo riusciva a percepire quanto poco si sentisse a suo agio in quegli indumenti neutri e sobri. Privi di personalità. Mentre lei, con quel mare di lentiggini e i polsi carichi di braccialetti tintinnanti, pareva essere sembra ombra di dubbio un bel peperino.  

Juno riuscì, dopo vari tentativi, a ritrovare l'equilibrio e a rimettere i piedi per terra. Si chinò per risistemare approssimativamente i volumi che aveva fatto crollare e nel rialzarsi recuperò l'ampia borsa di pelle, caduta alla sua destra. Quando sollevò lo sguardo si ritrovò un paio di glaciali occhi grigi intenti a fissarla intensamente. Era un ragazzo alto, aveva le spalle larghe e una matassa di capelli biondi rossicci a ricoprirgli la fronte. Sembrava che non vedesse un parrucchiere da anni. Probabilmente si tagliava i capelli da solo. E non pareva affatto imbarazzato dalla sua quasi nudità di fronte ad un'estranea.

«Dove hai preso quella borsa? Da mia madre ovviamente. Che sciocco! Ti ha mandato lei? Ti ha dato istruzioni del tipo: prendilo in braccio, cullalo, cambiagli il pannolino ogni tre ore e ricordati di dargli l'antibiotico? Che cara donna!», biascicò, la voce intrisa di acido sarcasmo.

Persino Juno, che non era mai stata brava a decifrare i sentimenti delle persone, riuscì a comprendere che tra Mrs. Seymour e quello che si era appena scoperto essere suo figlio i rapporti non dovevano di certo essere idilliaci.

Lungi dal volersi far mettere i piedi in testa fin dal primo giorno del suo nuovo lavoro decise che avrebbe fatto semplicemente ciò che le era stato chiesto dalla sua datrice di lavoro, senza badare ai capricci del figlio maggiore di quest'ultima.

«No. Mi occuperò di Marlowe da domani e nel frattempo mi è stato detto di portarti questa e di prepararti il pranzo. Nessun antibiotico e, grazie al cielo, nessun pannolino da cambiarti. Per quello dovrai arrangiarti temo...», ribatté energicamente.

Doveva avere al massimo un paio di anni più di lei, nonostante avesse un viso quasi fanciullesco. Espressione imbronciata compresa.

Lui non parve apprezzare quella sua affermazione ma si limitò a storcere il naso e ad indicarle la strada per la cucina. Cucina che si rivelò essere tanto infarcita di libri quanto il soggiorno e totalmente sprovvista di qualsiasi genere alimentare universalmente considerato commestibile.

Probabilmente il suo fisico magro lo si spiegava così: si cibava delle pagine dei suoi libri.

«Bene. Juno, giusto?», le chiese dopo un attimo di pausa, il tono questa volta più cordiale e una mano tesa quasi in segno di scusa. «Io sono Felix come già sai. Non volevo apparire maleducato, solo che sono un tipo abbastanza solitario e non sono molto bravo con le persone…».

Juno osservò le lunghe dita che gli venivano offerte, prima di alzare lo sguardo ed inchiodarlo in quegli occhi color acciaio che le stavano di fronte. Non aveva mai sopportato le persone ostili, subito pronte a diventare verbalmente aggressive, ma non credeva neanche che fosse giusto etichettare un uomo dopo una prima erronea impressione. Orgoglio e Pregiudizio e Miss Jane Austen lo avevano ampiamente dimostrato. Dubitava di trovarsi di fronte ad un Mr. Darcy ma in ogni caso non voleva sbagliare nel giudicare severamente ed in modo avventato quel ragazzo trasandato che con i suoi troppi centimetri di altezza torreggiava vicino a lei.

Fu principalmente per questo che evitò di mandarlo al diavolo e gli strinse la mano, o meglio lasciò che la sua piccola mano venisse inghiottita dal palmo gelato di lui.

Quanto accidenti era alto?

«Ok, ripartiamo da qui. In ogni caso neanche io ci capisco molto in generale del genere umano…», aggiunse Juno con un sorriso accennato sulle labbra.

Felix lasciò le sue dita libere dopo quella che sembrò un’infinità di tempo ma probabilmente non si trattò che di una decina scarsa di secondi. Sempre continuando a fissarla fece due passi indietro e si accomodò al tavolo da pranzo, la testa sorretta da una mano e uno sguardo carico di sfida. La osservava, come impaziente di sapere quale sarebbe stata la prossima mossa di quella piccola e stramba ragazzina.

Non era la prima volta che sua madre provava a stanarlo da quel suo appartamento polveroso grazie a mezzucci del genere. Solo che prima d’allora si era sempre trattato di stangone che salutavano il metro e ottanta dall’alto, con uno stacco di coscia lungo quanto questa Juno e modi di fare da grande dame.

In quel momento Juno si stava guardando curiosa attorno, la testa lievemente inclinata mentre leggeva la frase di scarabocchiata sulla lavagnetta magnetica attaccata sullo sportello del frigorifero: Non dovete biasimarmi se parlo alle stelle.

«È-»

«Thoreau, lo so. Anni fa scrissi quella precisa frase sul muro esterno del mio liceo, di notte, con il cappuccio calato sulla testa», confessò sovrappensiero. «È curioso ritrovarla proprio qui, proprio adesso».

«Se credi nelle coincidenze allora probabilmente potrebbe essere un tentativo di riportarti alle radici, all’origine. Ti dice qualcosa tutto ciò?», chiese lui sempre più interessato.

Era da sempre che tentava di esplorare come lavorasse il destino nelle vite dell’intera umanità, intessendo tele, strappando fili, incrociando strade, causando collisioni e ridendo della stupidità di quei piccoli e stupidi uomini, inconsapevoli marionette, attori di una tragedia di cui non conoscevano il copione. Era un tarlo che da sempre lo divorava ed era anche ciò che lo aveva portato a rifiutare tutto ciò che i suoi genitori si aspettavano da lui. Scrollandosi di dosso le aspettative di tutti, scegliendo la strada più difficile e meno prevedibile, sbagliando e riprovando, così cercava e aveva cercato di ingannare il fato, di prenderlo di sorpresa. Perché la sola idea che la sua vita potesse essere già stata pianificata da qualcun altro lo faceva semplicemente impazzire. Lo faceva sentire privo di controllo e aumentava esponenzialmente il suo già consistente disorientamento.

«Un ritorno alle origini…», mormorò Juno, gli occhi spalancati e l’espressione assorta, «Ma certo! Ecco quale era il pezzo mancante! Devo fare un passo indietro e lasciare che quella ragazzina di quindici anni che imbrattava i muri della scuola riemerga. Grazie mille! Davvero, non so come potrò mai ringraziarti. È da mesi che mi arrovellavo sul problema che mi bloccava e ora ecco l’illuminazione. Questo è del tutto imprevisto ma assolutamente illuminante!».

Felix provava un’inspiegabile senso di intesa con quella ragazza atterrata senza preavviso tra i suoi libri e nella sua vita.

All’improvviso la ragazza parve riscuotersi e ricordarsi il motivo della sua presenza in quella casa.

«Allora c’è qualcosa che posso fare per te? Posso?», nel frattempo aveva aperto il frigorifero e aveva preso tra le mani un vasetto di marmellata che recava come data di scadenza il marzo di tre anni prima. Insieme a questo abitavano quella fredda landa desolata un limone ammuffito e una bottiglia di vino bianco mezza vuota.

«Sai cucinare? Inizio ad avere fame e non ho ancora pranzato…»

«Dovrò fare un salto al supermercato prima. L’unica cosa che potrei combinare con questi tre ingredienti è un tentativo di avvelenamento a tue spese», gli fece notare lei, sventolando il frutto giallo ormai invaso da vari esemplari di muffe e funghi.

Lui sogghignò, «Incidente non auspicabile durante il proprio primo giorno di lavoro, no?»

Juno scrollò le spalle, un sorrisetto irriverente a dipingerle le labbra, «Che ne sai? Magari tua madre mi aumenterebbe il salario venendo a conoscenza del mio crimine…»

Lui rise divertito e un paio di splendide fossette apparirono ai lati della sua bocca.

Juno gettò gli ingredienti scaduti nella pattumiera piena fino all’orlo che trovò sotto al lavello e ne approfittò per toglierne il sacchetto, annodarlo e posarlo accanto alla porta, in attesa di essere buttato.

«Io vado allora. Hai qualche preferenza? Anticipo io i soldi?», gli chiese mentre apriva i vari stipetti del mobile della cucina per vedere se fosse rimasto qualcosa. Nel constatare che il nulla più assoluto regnava incontrastato si appuntò mentalmente di fare la scorta di ogni genere alimentare di prima necessità. Ai suoi occhi vivere in una cosa sfornita persino delle cose più elementari quali pasta, cibo in scatola a lunga conservazione, biscotti, surgelati le pareva una vera follia.

Lui allungò una mano, come se volesse afferrare qualcosa posto nella tasca posteriore di un paio di fantomatici pantaloni, per poi ricordarsi di esserne sprovvisto e fare così dietrofront e sparire dietro la porta scura.

Ne rispuntò poco dopo, un paio di banconote stropicciate tra le mani e una lista scarabocchiata sul retro di un post-it usato.

Lei prese il tutto in consegna e, non resistendo alla tentazione, sbirciò il breve elenco da lui stilato.

Sbuffò esasperata, «Quanti anni credi di avere? Ho letto male io o qui c’è davvero scritto biscotti Plasmon

Lui si strinse nelle spalle e disse semplicemente, «Sono buoni».

Aveva degli occhi intelligenti quella Juno, nonostante l’aria un po’ svagata. E poteva percepire persino da quella distanza la miriade di domande che le affollavano la mente. Non poteva non ammettere che il suo modo di vivere era alquanto inusuale. Da selvaggi lo definiva sua madre ormai da quando aveva raggiunto la maggiore età ed era sfuggito al suo controllo opprimente. A volte osservava il piccolo Marlowe, e vedeva nei suoi strambi modi di fare una premonizione di ciò che sarebbe diventato: un adulto pieno di rancore ed odio nei confronti di tutti e di nessuno. Una perfetta copia del suo fratellastro più grande.

La bionda raccolse allora la sua borsa e si incamminò verso la porta principale, borbottando un saluto.

Lui non le rispose, ma quando lei stava già per richiudersi la porta alle spalle la richiamò indietro. «Juno!»

Il suo visino lentigginoso fece nuovamente capolino, negli occhi uno sguardo interrogativo.

Poteva chiamarla Juno? O doveva usare il freddo e formale appellativo di Miss? Accantonò momentaneamente quel dubbio, affrettandosi a dare una spiegazione alla ragazza ma soprattutto a sé stesso per quel suo comportamento.

«Se aspetti due secondi ti accompagno. È passato così tanto tempo dall’ultima volta che sono stata io di persona al supermercato che a malapena ricordo dove si trovi…».

Non le diede il tempo di ribattere, sparendo alla velocità della luce al di là della porta che portava alla sua stanza.

Juno, rimasta con la bocca aperta pronta a rispondere che poteva cavarsela benissimo da sola, si rassegnò a rientrare nell’appartamento lasciando la porta socchiusa. Per ammazzare il tempo d’attesa decise di dare un’occhiata più approfondita a quei libri malefici che poco prima al suo arrivo avevano attentato all’integrità del suo coccige.

Pescò il primo volume della pila a lei più vicina e lo studiò scettica. De Amicitia. Nessun testo a fronte. Si domandò se davvero quel ragazzo fosse in grado di leggere senza aiuto uno scritto di Cicerone. Lei aveva seguito un corso di latino ai tempi del liceo, giusto per avere dei crediti in più, ma lo aveva abbandonata esasperata dopo tre lezioni confusa da tutti quei casi e quelle declinazioni, optando per un più accessibile corso di spagnolo. A posteriori si era domandata se fosse stata una scelta saggia cedere allo sconforto iniziale immediatamente e sventolare bandiera bianca così presto. Certo, ora parlava uno spagnolo fluente e non sarebbe mai riuscita a rimorchiare quello gnocco di Ramòn durante quel viaggio a Valencia, ma magari il latino aveva effettivamente qualcosa di prezioso da offrire. Chiuse il libro con decisione e lo ripose al suo posto, ormai era troppo tardi per riprendere i panni della studentessa. O perlomeno della studentessa di latino.

«Ti piace la letteratura latina classica?»

Nel sentire quella voce alle proprie spalle Juno allontanò rapidamente la mano dalla copertina del libro che aveva appena posato in cima alla torre di volumi alla sua destra.

«Sono una ignorante al riguardo», mormorò con aria colpevole, stringendosi nelle spalle.

Oh, accidenti! Quanto avrebbe voluto aver finito quel maledetto corso e poter ora strabiliare con una citazione di…di…di Seneca - perché Seneca era latino, no?- quel sapientone di uno spilungone.

«Peccato. Gli Antichi Romani erano un popolo veramente spassoso sotto certi punti di vista, e ovviamente terribilmente geniale», ribatté raggiungendola e sventolando in aria un mazzo di chiavi.

Lui chiuse la porta con fare distratto e la seguì dentro l’abitacolo dell’ascensore.

«Questo trabiccolo è terribile. Come fai a farti 23 piani quotidianamente sempre con l’ansia di non sapere se ti porterà mai a destinazione?», soffiò nervosa Juno.

Tutto intorno a loro pareva cigolare in modo sinistro e ciò non faceva altro che mettere in dubbio la sicurezza di quella scatoletta metallica che pigramente correva nel cuore di quel vecchio palazzo fatiscente.

«Oh, ma io esco solo una volta a settimana di solito. Questa è un’eccezione, se mia madre ne venisse a conoscenza potrebbe addirittura sciogliersi in lacrime. Sempre se il suo trucco è waterproof», borbottò ironico lui.

Giunti miracolosamente al piano terra si incamminarono verso il grande ipermercato che si trovava tre isolati a sud e che Juno non aveva potuto non notare, grazie alla sua insegna fluorescente e ai cartelloni pubblicitari che tappezzavano ogni angolo della strada, nell’arrivare quel pomeriggio.

Una volta passati oltre le porte scorrevoli in vetro opaco, Juno si diresse prontamente verso i carrelli, una mano nella borsa di tela alla ricerca di qualche spicciolo vagabondo.

 «Un cestello non basterà?», chiese speranzoso il ragazzo. «In fondo mi servono solo du-»

Lei lo liquidò con un gesto annoiato della mano, «Assolutamente no!».

Dieci minuti più tardi si trovavano ancora bloccati al primo reparto, quello della frutta e della verdura, intenti a litigare riguardo alla vera utilità dei broccoli.

Le persone li superavano, osservando, chi con tenerezza, chi con stizza, quella coppietta intenta a discutere su cosa comprare e cosa no. La scenetta che stava avendo luogo vedeva Juno acciuffare una confezione di broccoli e posarla all’interno del carrello cercando poi di proseguire oltre e Felix che prontamente ne bloccava la fuga, riagguantava il pacchetto contenente gli odiati ortaggi verdi e li riposizionava nel loro espositore.

«Non fare il bambino! I broccoli sono salutari e pieni di vitamine!», protestò lei dopo l’ennesima sottrazione dal carrello da parte di lui.

«Grazie mamma. Stiamo facendo la spesa per ME, non per te! Tu potrai comprare quindici kg di broccoli quando vai al supermercato ma io non li voglio insomma!», sbottò lui, prendendo possesso del carrello e lasciandola da sola davanti alle cassette di broccoli.

Juno decise che non valeva la pena prendersela per qualcosa di così insignificante e soprattutto non aveva senso concedergli la soddisfazione di mostrarsi infastidita. Fischiettando lo raggiunse nel reparto colazione e come se nulla fosse agguantò una confezione formato famiglia di biscotti Plasmon e li fece cadere nel carrello, davanti allo sguardo sospettoso di Felix.

Lui d’altro canto si sentiva un completo imbecille. Passava decisamente troppo tempo chiuso in completa solitudine tra quelle quattro pareti ammuffite del suo appartamento e le poche ore fuori da esse le trascorreva in compagnia di sua madre, il che non faceva altro che peggiorare i suoi già gravi problemi relazionali.

Il supermercato a quell’ora di pomeriggio non era particolarmente pieno eppure non poteva impedirsi di osservare quell’anziana signora che, occhiali sulla punta del naso, stava leggendo attentamente la lista degli ingredienti riportata sul retro di una scatola di polpa di pomodoro, la mano stretta intorno al suo fido carrellino in stoffa a quadretti. Oppure quel padre di famiglia che stava facendo scorta di cereali al cioccolato e che, nonostante fosse solo alla seconda corsia, aveva già il carrello strabordante. Evidentemente doveva avere una famiglia molto numerosa o molto affamata. Fare la spesa faceva parte di una quotidianità che gli era sempre mancata da quando aveva intrapreso quella carriera che di conseguenza lo aveva portato ad avere una vita alquanto sregolata. Il susseguirsi del giorno e della notte aveva perso senso ai suoi occhi, dormiva poco e quando capitava, digiunava per due giorni per poi spazzolarsi tre pizze di seguito alle sei di mattina. Quando mai gli era successo di trovarsi alle quattro di pomeriggio a litigare per dei broccoli in un supermarket?

«Ti spiace se compro un paio di cose anche io? Una mia amica è tornata da un viaggio e ho la sensazione che resterà per un po’ da me…», domandò lei, lanciandogli una rapida occhiata per assicurarsi che, nonostante lo sguardo perso a fissare chissà cosa, l’avesse ascoltata.

Lui annuì semplicemente.

Nel giro di un’oretta riuscirono a concludere il loro giro esplorativo e la lasciare la cassa carichi di sporte e buste e con il portafogli più leggero.

Fecero ritorno a casa restando in silenzio finché Juno lo implorò di fare una pausa perché non ce la faceva a portare tutto quel peso senza fermarsi un attimo a riprendere fiato.

Felix si diede dello sciocco, dopotutto era così piccola ed esile, era ovvio che facesse fatica a sobbarcarsi tutto quel peso e così, senza proferire parola, le sfilò dalle mani un paio di buste e le depositò tra le braccia la confezione di carta igienica e un fustone di detersivo in polvere per la lavatrice. Lei per tutta risposta gli dedicò un sorriso riconoscente prima di riprendere a camminare in direzione dell’appartamento.

Juno oltre ad una paura infondata di poter restare senza scorte e morire di fame era anche dotata di molta inventiva culinaria e adorava sperimentare piatti sempre nuovi. Non amava le preparazioni elaborate e che richiedevano l’utilizzo di quindici pentole, ciotole, pirofile e frullatori e si limitava perciò a ricette semplici, spesso primi e dolci, che però erano sempre state apprezzate dai suoi commensali. Ovvero Jack e Adam che si sarebbero mangiati persino la corteccia degli alberi se avessero avuto davvero fame e Lea che solitamente si cibava solo di gomme da masticare, caramelle alla liquirizia e Coca Cola Zero.

Aveva una vena casalinga, ereditata da chissà chi, che le faceva adorare il prendersi cura della sua casa e delle persone che attorno ad essa orbitavano. Le piaceva spolverare, lucidare i rubinetti, far brillare i vetri della doccia. Le calmava i nervi tutto ciò ed era senza dubbio più semplice sbrinare il freezer rispetto al consolare un’amica dal cuore infranto. Fortunatamente l’unica amica che aveva conservato per tutta la durata della sua vita pareva essere sprovvista di un cuore. Eppure poi si ritrovava sempre a dipingere uomini e donne. Perché con una pennellata riusciva a capirli e a ritrarli mille volte meglio di quanto avrebbe mai potuto fare ascoltandoli. Tutte quelle emozioni con le loro mille sfaccettature ed interpretazioni, tutta quella sofferenza, tutta quella solitudine la spaventavano. Ne era terrorizzata eppure finiva sempre per imbrattare le sue tele con quei volti scavati da profonde rughe, con gli occhi stanchi e le mani macchiate.

Non conoscendo le preferenze di Felix decise di andare sul classico e proporre uno dei suoi cavalli di battaglia, nonché regina delle ricette salvacena. Mentre faceva rosolare per bene le zucchine tagliate a rondelle sottili, iniziò a tagliare a cubetti un pezzo di formaggio morbido trovato in offerta al banco dei prodotti freschi. Si sentiva osservata ma si sforzò di non pensarci e continuare con il suo lavoro.

Felix dal canto suo si stava chiedendo perché l’immagine di una donna con il grembiule annodato in vita, grembiule che neanche sapeva di possedere, intenta a cucinare ai fornelli di casa sua un pasto per lui lo facesse sentire così sereno. Non si era più sentito così rilassato da troppi mesi oramai, probabilmente da quando Terry Lo Stronzo aveva deciso di stargli costantemente con il fiato sul collo, inviandogli una media di quindici email all’ora. Alcune puntavano sulla persuasione, altre sul vittimismo, altre ancora erano pure minacce di morte. Quell’uomo avrebbe dovuto darsi una calmata se non voleva che gli scoppiasse una coronaria prima dei cinquant’anni.

«Cosa fai nella vita?», le chiese lui, il tono distratto e le mani occupate a costruire una torre con le scatole di legumi e tonno.

«La tua balia», lo apostrofò lei prendendolo in giro, per poi abbandonare tagliere e coltello per strappargli dalle mani una confezione di piselli e una di ceci e iniziare a smontare la sua costruzione per poter riporre ordinatamente le scatolette.

Lui ridacchiò divertito. «Oltre a questo?», riprovò.

Lei gli rivolse uno sguardo infastidito, soffermandosi per un attimo ad osservare i suoi occhi chiari.

«Dipingo», sentenziò tagliando corto.

«Interessante! Cosa dipingi?»

Juno non gradì di essersi già scoperta così tanto. Lei di lui sapeva solo il nome e che possedeva troppi libri e zero alimenti, mentre lui stava già cercando di scoprire più cose del dovute su di lei. Con pochissime persone parlava della sua passione e ad ancora meno aveva mai mostrato le sue opere, e principalmente lo aveva fatto perché si erano prestati come modelli e pretendevano di vedere se erano usciti bene. Alcuni erano rimasti delusi, forse aspettandosi un classico dipinto ad olio come quelli che in passato i regnanti più importanti commissionavano ai pittori di corte, altri non aveva capito l’opera, pochi avevano sorriso e si erano complimentati.

«Tu invece cosa fai?», rigirò la questione lei, stanca dell’attenzione di lui sulle sue vicende più private.

Mentre ripiegava le borse in plastica vide un lampo di sorpresa attraversare lo sguardo del ragazzo e si chiese se avesse appena fatto una domanda in qualche modo sbagliata.

Felix dal canto suo si sentì immediatamente più a suo agio in compagnia di quella ragazza che aveva confermato i suoi sospetti, chiedendo cosa facesse lui nella vita. Era sempre piacevole accompagnarsi ancora con quelle poche persone che, ignorando la sua vera identità, lo trattavano come tutti gli altri. Nessun artificio.

Desideroso di godersi finché fosse durato quella sorta di anonimato, decise che avrebbe vietato alla madre di accennare qualsiasi cosa alla ragazza. «Talvolta scrivo…»

Lei accolse di buon grado quella risposta vaga e non volle indagare oltre. Anche se doveva ammettere che lo scoprire che anche lui faceva parte in qualche modo del meraviglioso e mutevole mondo degli artisti la rallegrò. Erano dappertutto e tutti ricercavano la bellezza, musa scostante e sfuggente, per poi farne dono al mondo.

Nella mezz’ora seguente Juno finì di preparare il suo modesto pranzo e osservò il ragazzo divorarlo. Le aveva chiesto se voleva fargli compagnia ma lei aveva gentilmente declinato. Erano già le cinque inoltrate del pomeriggio e lei aveva più voglia di fare merenda con qualcosa di molto calorico e zuccherino piuttosto che di pranzare.

«Era molto buono», osservò quasi incredulo Felix, mentre raccoglieva dal piatto con del pane le ultime tracce di formaggio fuso.

Lei sorrise compiaciuta ed evitò di fargli notare quanto fosse semplice da preparare ciò che gli aveva servito per pranzo, così semplice che avrebbe potuto farselo da solo.

«Non assomigli a tua madre…», osservò lei sovrappensiero. Stava addentando una delle pesche che aveva tanto criticato quando lei le aveva comperate al supermercato, i capelli che gli coprivano gli occhi e una goccia di succo che gli colava lungo il mento. Immagine che faceva a pugni con quella di Mrs. Seymour, una nuvola di seta e lacca al profumo di Chanel.

Lui rischiò di soffocare nel sentire ciò e dovette bersi un paio di bicchieri d’acqua per riprendersi. «Lo spero bene! Quella donna pare essere stata progettata in laboratorio per rendermi la vita un inferno!», strillò una volta di nuovo in grado di parlare.

Mrs. Seymour aveva avuto Felix poco più che ventenne, pochi mesi dopo il suo frettoloso primo matrimonio. Il padre era un surfista per metà australiano e per l’altra metà irlandese, più dedito alle onde e alle belle bionde californiane che a suo figlio neonato. Ovviamente questo sua madre non aveva potuto prevederlo nel momento in cui aveva perso la testa per i suoi pettorali scolpiti e il suo stile di vita gipsy.

Dopo il divorzio, arrivato prima che il bambino spegnesse la sua prima candelina, sua madre aveva deciso che si sarebbe sposata solo con un uomo ricco come Creso. Mr. Seymour era stato felice di accontentarla e così quando Felix compì quattro anni venne formalmente adottato dal nuovo marito della moglie, certamente migliore del suo predecessore.

Cresciuto tra collegi privati e scuole maschili, Felix si era sentito sempre a disagio, incapace di adattarsi alle convenzioni sociali e di accontentarsi della vita che i suoi genitori avevano già preconfezionato per lui. A sedici anni era scappato e per nove mesi aveva girato l’Europa con lo zaino in spalla e la cartina tra le mani. Quando era tornato a casa nessuno aveva commentato e lui aveva ripreso la sua vita dal punto in cui l’aveva lasciata. Come se nulla fosse successo. In verità tutto era cambiato e quando si diplomò Felix disertò Cambridge e la facoltà di legge e si iscrisse ad un corso di scrittura creativa. Questa volta i commenti dei suoi genitori si erano fatti sentire eccome. Il più pesante di tutti era stato quello: ingrato.

Era come se lo dovesse loro, il laurearsi in legge, il diventare un avvocato di successo, il portare aventi la stirpe gloriosa dei Seymour. Lo doveva a sua madre, rimasta incinta quando era ancora una ragazzina inesperta, costretta a tentare di tenere insieme la famiglia sposando quel farfallone di un surfista ed infine salvatrice del suo futuro grazie all’arrivo di Seymour. Lo doveva a quel suo padre adottivo, pronto ad aprire il portafogli per garantire che lui avesse sempre il meglio, disposto a sopportare i suoi colpi di testa da ragazzo ed unica figura paterna presente nella sua vita. La verità però era che l’unica persona nei confronti della quale sentiva davvero di dovere qualcosa era lui stesso. Si meritava la possibilità di provare a percorrere una strada meno battuta, ripida e piena di ostacoli. E così se l’era presa quella possibilità, senza aspettare che fosse qualcun altro ad offrirgliela. Aveva allungato una mano e l’aveva afferrata e da allora non aveva mai allentato la presa. Quando poi tutto si era risolto per il meglio ed era riuscito ad ottenere ben più di quello che si sarebbe mai aspettato grazie alla sua arte suo padre si era complimentato e si era concentrato sul piccolo Marlowe, che al tempo non era nient’altro che un’ombra in bianco e nero sullo schermo dell’ecografo e già si ritrovava il posto riservato all’università, ma sua madre no. Lei non aveva mollato l’osso, se non poteva più criticare cosa facesse nella vita poteva però mettere in discussione come avesse deciso di viverla quella vita. Troppo disordinato, troppo asociale, troppo scontroso, troppo cinico. Non c’era aspetto della sua esistenza, delle sue azioni o del suo aspetto che non venisse analizzato ai raggi x da Mrs. Seymour. Andare ad abitare lontano dalla sua safety zone, fatta di viali fioriti e persone che gettavano i rifiuti nei cestini dell’immondizia, optando per un quartiere malfamato, lercio e pullulante di delinquenti non aveva funzionato. All’inizio cercava di attirarlo al suo cospetto inventandosi le scuse più disparate: fantomatici compleanni di parenti sconosciuti, carte da firmare, Marlowe da sorvegliare, malattie immaginarie. Una volta recepita l’antifona Felix aveva smesso di crederle e aveva iniziato ad ignorare le sue chiamate e i suoi messaggi. Per un po’ tutto era filato liscio e lui aveva trascorso i dieci giorni più pacifici della sua vita. Poi un bel dì qualcuno aveva suonato alla porta e aveva decretato la fine della pacchia. Il ragazzo sapeva benissimo che quella non era altro che una prova d’amore e che se non fosse stato per l’affetto incondizionato che provava nei confronti di quel primo ed imperscrutabile figlio che faticava a comprendere sua madre avrebbe rivelato al mondo di essere una bionda tinta piuttosto che mettere piede in quella zona della città. Da allora era tornata qualche volta, sempre attenta a non toccare niente e a farsi scortare da Tobias, ed ad ogni visita non faceva altro che guardarsi attorno e criticare il modo in cui il figlio teneva l’appartamento. L’eccessiva polvere, l’assenza di luce, l’aria viziata. Dopo un po’ il ragazzo si era arreso e aveva stipulato con lei una tregua: Mrs. Seymour non sarebbe più andata a casa sua se lui fosse andato a pranzo da lei tutte le domeniche. E da allora così era sempre stato.

Juno, una volta che lui ebbe finito di mangiare, gli sottrasse piatto e posate e le sciacquò per bene nel lavandino. L’acqua non era troppo calda ma se la fece andare bene lo stesso. Una volta terminato di lavare l’ultima pentola, sollevò le braccia e spalancò le ante chiare dello scolapiatti sopra la sua testa. Rimase così: mani per aria, una fondina da un lato e un bicchiere nell’altra. Le goccioline delle stoviglie appena pulite le scorrevano lungo le braccia e così si riscosse e le posò sul ripiano in marmo accanto ali fornelli.

«Ora spiegami perché nello scolapiatti ci sono infilati dei libri…», esclamò esasperata.

Un po’ era sorpresa ma una parte di lei in verità stava segretamente progettando di trasformare anche il proprio scolatoio in una nuova piccola dispensa per la sua riserva infinita di cibarie.

Lui ridacchiò divertito, «Lì custodisco i miei preferiti o quelli a cui sono legato in qualche modo particolare. Così impiego meno nel recuperarli...»

Su quell’ultima affermazione lei non poté obiettare. Senza dubbio se qualcuno avesse voluto recuperare un libro avrebbe impiegato un giorno solo per cercare tra quelli sparsi tra cucina e soggiorno. E non aveva neanche visto il resto della casa!

«Nella sua insensatezza ha senso», gli concesse lei, prima di rassegnarsi all’idea che quei piatti andavano asciugati a mano da lei. Recuperò un panno giallo lavorato a nido d’ape dal piccolo gancio accanto al frigorifero e iniziò a passarlo sul bordo della fondina. «Raccontami qualcosa di tuo fratello...», gli chiese, un po’ per curiosità, un po’ perché non amava i silenzi imbarazzati.

Lui ridacchiò, probabilmente divertito dal pensiero di quel suo piccolo fratello tanto dispettoso quanto adorabile. «Marlowe è allo stesso tempo la creatura più tenera e più ingestibile del mondo. Un attimo prima sta giocando con le sue costruzioni tutto contento e un secondo dopo sta emulando Tarzan arrampicandosi sulle tende del salotto. È assolutamente imprevedibile e terribilmente sveglio. Non pensare mai, neanche per una volta, che lui non capisca quello che dici agli altri. È un gran chiacchierone ma purtroppo ha la piccola caratteristica di essere sempre fin troppo onesto...»

«Ho sempre pensato che ai bambini come a dei bambolotti ottusi e lagnosi...», rifletté lei, leggermente spaventata dalla descrizione che lui le aveva appena fatto. Magari si sarebbe trovata di fronte ad un bambino prodigio e lei non voleva assumersi la responsabilità di rovinare la crescita di una creatura tanto promettente. Se Mozart avesse avuto lei come balia probabilmente avrebbe finito per fare lo spazzacamino e morire di cirrosi epatica a vent’anni. Ovviamente non avrebbe mai rivelato tutto ciò a Mrs. Seymour.

«Lo credevo anche io prima della sua nascita. Credo che sia diventato così di riflesso, per il fatto di avere una madre del genere, quasi per farle un dispetto. È terribilmente spassoso vederli insieme. Ti renderà la vita un inferno e non so perché ma la cosa mi diverte infinitamente...», concluse perfidamente lui, mentre lei riponeva le ultime stoviglie nello stipetto vicino al forno.

Juno segretamente terrorizzata da quella sua ultima affermazione, lanciata un’occhiata all’orologio, decise che era ora di levare le tende e mettere fine a quell’incontro. Aveva voglia di un gelato e voleva riflettere in solitudine su quei due membri della Famiglia Seymour che aveva conosciuto quel giorno. Le sarebbe piaciuto ritrarli ma non era qualcosa che poteva chiedere ad una persona che aveva conosciuto da due orette scarse.

Ripose lo strofinaccio, si lisciò quasi per abitudine i pantaloni e controllò che la crocchia fosse ancora al proprio posto, per quanto spettinata e precaria.

«Io vado...»

Lui l’accompagnò verso la porta, una corsa ad ostacoli tra quelle centinaia di volumi disseminati in ogni dove, e la salutò in silenzio prima di chiuderle la porta alle spalle.

 

 

***

 

 

«Ti ho già detto quanto io trovi il tuo comportamento estremamente scortese, vero?»

Una pernacchia, subito prontamente seguita da un bel dito medio sventolato per aria, lo raggiunse da dietro i cuscini del vecchio divano grigio.

Per tutta risposta lui si premurò di pigiare con forza maggiore sui tasti del pianoforte, con l’unico scopo di arrecarle il maggior disturbo possibile.

Quella mattina Adam si era svegliato pieno di energia e di inventiva e si era subito seduto al piano, sperando di poter finalmente trovare una degna conclusione alla sua ultima composizione sinfonica. Jack non era parso d’accordo però e così, dopo la sua solita dose di improperi nei suoi confronti, si era dileguato, probabilmente diretto verso quel porto sicuro che era la casa di Juno.

Dopo averli raggiunti e aver riempito a dovere il suo stomaco, approfittando della dispensa sempre piena della vicina, quest’ultima era corsa al suo colloquio di lavoro mentre il fratello era partito alla volta di quella sgangherata compagnia di ‘attori’ che si ostinava a frequentare.

Avere la casa tutta per sé era un lusso troppo grande per non essere opportunamente sfruttato e così, nonostante la voglia di un bel pisolino, si era rimesso all’opera.

Non aveva fatto in tempo a sgranchirsi le dita con un paio di scale e a recuperare una penna nuova che la porta di casa si era spalancata rivelando una figura ben nota. Il suo peggior incubo.

Lea, migliore amica da sempre e per sempre di quella scervellata di Juno, era, se possibile, ancora più folle della sua vicina di casa e in più non offriva un inventario di cibo così vario. Anzi, quando si palesava e, per somma disgrazia dei due fratelli, non trovava l’amica in casa, finiva per ammazzare l’attesa da loro e per fare una sorta di caccia al tesoro volta a scovare quei pochi alimenti che Adam nascondeva e custodiva gelosamente.

Molto più alta di Juno - non che ci volesse molto per superare in altezza la bionda - Lea aveva un corpo snello e flessuoso, quasi da ballerina, caratteristica che faceva a pugni con i suoi mille tatuaggi e i suoi modi di fare tutt’altro che raffinati. Nella vita faceva la barista nei locali notturni anche se sulla carta d’identità alla voce professione figurava che lei fosse un’imprenditrice, promozione dovuta al fatto che aveva sedotto l’impiegato comunale all’anagrafe.

Lea aveva un carattere difficile, non chiedeva mai il permesso, no, lei si prendeva quello che voleva, incurante dei divieti e del buonsenso. Sapeva essere terribilmente spassosa a volte, nonostante per la maggior parte del tempo fosse semplicemente dolce quanto una spremuta di puro limone.

In quel momento se ne stava stravaccata sul loro divano, una gamba gettata in modo scomposto oltre lo schienale, la bocca piena degli Oreo che Adam aveva nascosto - con scarso successo a quanto pareva - sotto il lavabo del bagno, tra un fustone di detersivo per lavatrice e una confezione formato famiglia di carta igienica profumata alla violetta.

«Ogni volta che ti vedo sei sempre più insopportabile e gay, che palle!», borbottò la ragazza, la bocca impastata di biscotti.

Adam, all’ennesimo errore commesso a causa del fastidio e dell’assenza di calma, si arrese a lasciò perdere la tastiera e si alzò dalla sua postazione accanto alla finestra.

«Io sono gay!», sbottò.

Lei fece un gesto spazientito con la mano e si grattò un ginocchio pieno di graffi procuratasi chissà come. «Sì, ma sei sempre così isterico. I gay con cui sono andata a letto io erano divertenti, cristo santo!», cercò di spiegarsi lei.

Adam in quel momento avrebbe voluto mettere la testa nel freezer di Juno e fare compagnia ai suoi waffles surgelati, alla sua copia di 1984 e al suo bagnoschiuma ghiacciato.

«Ti rendi conto di cosa dici? Tu sei una donna, per quanto a volte risulti difficile crederlo, e se ci stanno vuol dire che non sono gay. E pensare che Juno dice che sei la persona più intelligente che lei conosca. Deve conoscere veramente brutta gente…»

«Te, ad esempio?», gli domandò Lea, gettando a terra la confezione argentata ormai vuota dei dolcetti.

Adam si affrettò a raccoglierla. Ormai era una battaglia persa, Jack era la persona più disordinata e amica della sporcizia che abitasse sul globo terrestre, secondo forse solo a Ms. Lea, eppure lui non smetteva di combattere e tentare per lo meno che la casa non venisse invasa dagli scarafaggi e che degli strani funghi non iniziassero a crescere sugli indumenti del fratello.

«Ricordami perché sei qui, per favore», chiese con la voce carica di finta cordialità.

Adam aveva una memoria infallibile ed era una di quelle persone che non si facevano mai sfuggire nulla, sempre attenti e fin troppo interessati anche alle conversazioni altrui. Si ricordava benissimo di una frase di Juno gettata quasi per caso nel bel mezzo di una chiacchierata, la quale aveva raccontato come quella squilibrata della sua migliore amica fosse scomparsa in qualche posto in Oriente alla ricerca forse del suo senno perduto.

Eccola lì invece, shorts strappati nonostante fosse ottobre inoltrato, anfibi distrutti e tre centimetri di ricrescita. Il ragazzo trovava veramente uno spreco che un corpo così bello venisse bistrattato a quel modo, ricoperto da straccetti simil punk pulciosi e da una tinta nera di una marca scadente. Il suo senso estetico ne era profondamente addolorato ma, dopo aver ricevuto molteplici calci negli stinchi come conseguenza della sua generosa offerta di rifarle il look, Adam aveva rinunciato e si era rassegnato alla visione di quegli orrori che lei chiamava vestiti con cui andava in giro senza vergogna.

«Dovevo aggiornare J. e chiederle di ospitarmi. A quanto pare prima di partire mi sono scordata di chiudere a chiave la porta e ora una famiglia messicana se n’è impossessata. Mi sembrava scortese cacciarli, mi hanno anche offerto dei tacos…». Alzatasi dai cuscini si aggirava come un’anima in pena, dio solo sa in cerca di che cosa. Probabilmente cibo.

Solitamente di giorno Lea dormiva, dopo una devastante notte a preparare mille cocktails e a trangugiarne altrettanti, ed era perciò innocua, nonostante avesse un sacco di nemici e gente a cui non piacesse, gentilmente offerti dal suo caratterino, che talvolta venivano a cercarla e a minacciare di far saltare in aria il palazzo in cui viveva. Monito che però non sortiva alcun effetto sulla ragazza che odiava tutti i suoi vicini e probabilmente sarebbe stata capace di dare una mano nel piazzare la carica esplosiva. Non era certo una novità: Lea odiava il mondo intero.

«Speravo tanto che saresti tornata dal Congo solo dopo aver fatto voto di silenzio…», esclamò contrariato Adam, preferendo non infierire sulla faccenda degli abusivi che in pratica l’avevano sfrattata e vivevano del suo affitto.

Lea nel frattempo si era arrampicata su una sedia della cucina e stava esplorando l’interno degli sportelli sopra il ripiano dei fornelli a gas. Ovviamente senza chiedere il permesso per farlo.

«Ero in Tibet! E comunque lo avevo fatto ma l’ho infranto tre ore più tardi perché dovevo insultare a dovere il tassista che mi ha portato all’aeroporto chiedendomi una quantità folle di bigliettoni. Ladro di merda!», la sua voce proveniva amplificata dal vuoto dello stipetto in cui aveva infilato la testa.

Adam, sistematosi sulla vecchia poltrona sfondata vicino alla porta, recuperata da Juno accanto ad un cassonetto della spazzatura, si chiese cosa mai sperasse di trovare nella loro cucina. L’ultimo ricordo di un supermercato che aveva risaliva all’estate e alla confezione di sorbetto al melone che si era comprato. Sorbetto che poi non era riuscito a mangiarsi, anticipato sul tempo da suo fratello e da una tizia canadese che stava frequentando al tempo.

«Ti sta telefonando un certo Nando Procura Roba. Ora ti droghi anche? Non c’è mai fine al peggio…», la informò il ragazzo, dopo aver lanciato un’occhiata curiosa allo schermo luminoso del telefono che stava vibrando insistentemente sul bordo del tavolino.

Lea, scocciata dalla sua ricerca di cibo finita male e dal fatto che Nando la stesse chiamando di già, abbandonò il suo intento e tornò verso il ragazzo, allungando una mano giusto in tempo per afferrare il cellulare prima che questo cadesse sul pavimento.

«Nando è il mio Big Boss. Questa sera si lavora. Sono tornata solo ieri e lui sa già che sono in città. Lui e i suoi maledetti segugi! Io vado. Riferisci a J. che sono passata», spiegò velocemente, recuperando il suo zainetto di tela e la sua giacca militare. Spalancò la porta, senza accennare alcun saluto, prima di tornare sui suoi passi e aggiungere: «È sempre un piacere vederti tesoro del mio cuore e come sempre sei un padrone di casa del cazzo, avaro e nascondi cibo! Adieu!»

Il vaffanculo strillato dal ragazzo si perse per la tromba delle scale, mentre la ragazza trotterellava verso il piano terra e Mrs. Hoffmann si chiedeva cosa facessero mai i genitori al giorno d’oggi invece di insegnare l’educazione ai propri figli. Cafoni.

 

 

***

 

 

 

La mattina seguente il tempo era tornato ad essere grigio e freddo come al suo solito, archiviando rapidamente la parentesi primaverile che aveva caratterizzato le ventiquattro ore precedenti.

Mrs. Seymour si rigirava tra le lenzuola di seta color rosa antico da più di un quarto d’ora, una mascherina di raso a coprirle gli occhi e un paio di tappi infilati nelle orecchie. Aveva fatto insonorizzare tutte le stanze di quella casa sperando di uscire vincitrice nella sua eterna battaglia con la propria difficoltà nel dormire.

Le aveva provate tutte. Aveva cacciato suo marito dal letto matrimoniale comune sentenziando che russasse e le impedisse di fare il suo sonno di bellezza, solo per poi richiamarlo indietro, una volta accortasi che senza lui al suo fianco dormiva persino peggio. Aveva fatto cambiare le persiane della stanza, convinta che i piccoli spiragli di luce che penetravano attentassero al suo riposo. Si scolava litri dei peggio intrugli omeopatici a base di camomilla e valeriana. Niente. L’unica cosa che le donasse un po’ di pace era il Valium e un’ampia gamma di sonniferi, che però il suo medico curante da strapazzo le aveva vietato di assumere dopo averne abusato in gran segreto per anni. Aveva provato a fare la furbetta ma Adele, così dolce e cara all’apparenza, era una sorta di mastino messo di guardia all’armadietto dei medicinali e così ogni volta i suoi tentativi erano stati fallaci.

Le uniche ore in cui riusciva a farsi una bella dormita solitamente erano quelle tra le quattro e le dieci e per questo motivo quella mattina, quando aveva aperto gli occhi e aveva scoperto che erano solo le sette, si era infuriata.

Sentiva la stanchezza pesarle addosso come uno di quei pesanti ed orribili pochi peruviani fatti a mano e le tempie le pulsavano di già. Se solo avesse potuto prendere un paio di aspirine…

Rassegnatasi all’idea di concludere quella notte con il meraviglioso record di due ore scarse di sonno alle spalle, si alzò e si infilò la sua vestaglia ricamata. Fuori il cielo era plumbeo e lei si sentì tutto ad un tratto terribilmente nostalgica.

Una vocina acuta intenta a strillare la distolse dal baratro di ricordi in cui rischiava di cadere ogni volta che si ritrovava con lo stomaco vuoto e la mente e il corpo spossati.

«Nooo! Non vogliooo! Adele è una strega, aiutooo!»

Ecco, ci eravamo di nuovo! Ogni volta che all’orizzonte si affacciava una novità Marlowe impazziva, diventando semplicemente insopportabile. Mrs. Seymour sapeva benissimo che sarebbe bastato un giorno per stabilire se quella Juno Morrison era o meno adatta al ruolo per cui l’aveva assunta. A volte era bastato anche meno, il record era detenuto da una giovane tata asiatica fuggita a gambe levate un’ora e dieci minuti dopo il suo arrivo e le presentazioni con il bambino. Era quasi certa del fatto che Felix e Tobias avessero scommesso sul tempo di permanenza di quella ragazza bionda.

A volte si domandava come fosse possibile che avesse dato vita a due creature tanto complesse ed esasperanti. Dopo essersi arresa con Felix aveva riposto tutte le sue speranze in quel bebè, arrivato alla soglia dei quarant’anni, quando ormai pensava di non riuscire più a restare incinta. Aveva segretamente parteggiato per l’idea di una femminuccia a cui trasmettere il suo senso estetico e il suo guardaroba. Quando però aveva visto gli occhioni grigi di Marlowe aveva avuto una sorta di deja-vù: lei, venti anni di meno, in un letto d’ospedale della California meridionale, da sola perché il suo ex-marito era dovuto scappare a causa dell’alzarsi di un vento favorevole per eseguire le sue prodezze tra le onde.

In cuor suo sapeva già che con Marlowe avrebbe dovuto rivivere tutto quello che aveva già sperimentato con il suo primogenito. I suoi figli non volevano seguire la strada più breve e semplice, no, loro volevano sbattere la testa, fallire, metterci l’anima e ottenere quello che il loro cuore desiderava. In barba a lei e a suo marito. Cambridge quasi certamente non avrebbe visto un altro Seymour tra i suoi banchi, per lo meno non in questa generazione.

«Mamma! Salvami tuuu!», la vocetta imperiosa continuava a riempire la casa, riuscendo a trapassare le pareti insonorizzate e facendo nascere un sorriso stanco sulle labbra della donna bionda. Quel carattere dispotico e tendente alla tirannia lo aveva ereditato da lei ed ora era proprio compito suo disperarsi ogni volta che doveva averci a che fare. Quasi quattro anni e già dettava legge il piccolo principino.

Aprì la porta che si affacciava sul corridoio e proprio in quel momento spuntò il suo bambino, intento a scappare dall’anziana domestica, vestito solo di un paio di slip di Batman. Le si gettò letteralmente addosso, senza rallentare, finendo per schiantarsi contro le gambe della madre, la quale dovette reggersi alla parete per non cadere a causa del contraccolpo, leggera com’era.

«Tesoro, Adele è anziana e non può più tenere il tuo passo...». A questa affermazione seguì un’occhiata di traverso della governante diretta alla sua datrice di lavoro.

Il bambino si aggrappò alla cintura della vestaglia di sua madre, tirandoli con forza e urlando disperato: «I patatoni no! No!».

Mrs. Seymour si domandò da dove provenisse questa vena nudista del figlio, sempre pronto a strapparsi di dosso calze, berretti e magliette. Le scarpe quelle no, era già un’impresa riuscire ad infilargliele senza ricevere un calcio sui denti perciò, approfittando della sua età che ancora gli permetteva di andarsene a passeggio comodamente adagiato nel passeggino, non le indossava quasi mai. L’unica eccezione era rappresentata dalle sua pantafole a forma di pipistrello.

«Signorino, vuole davvero farsi vedere in mutande dalla sua nuova tata?», lo rimproverò Adele, la voce ancora affatticata dallo sforzo ginnico di poco prima.

Quella santa donna era al loro fianco fin da quando si erano trasferiti dopo il matrimonio con un piccolo Felix che aveva all’incirca la stessa età di Marlowe. E anche con lui non aveva avuto vita facile, però aveva avuto pur sempre vent’anni di meno sulle spalle. Ora invece doveva fermarsi sempre più spesso a prendere fiato, la schiena le doleva quasi costantemente e non riusciva più a salire i gradini due alla volta come era solita fare in passato. O meglio, ci aveva provato ma era finita al pronto soccorso con una clavicola rotta e da allora Mr. Seymour la osservava a vista e la rimbrottava in continuazione ogni qual volta avesse il presentimento che si stesse stancando troppo.

«Tata puah!», strillò con tutto il fiato che aveva in gola il bambino, prima di mollare la presa sulla stoffa della vestaglia della madre e riprendere la sua folle corsa seza meta.

«Sarà l’ennesimo disastro», sospirò sconfitta Mrs. Seymour.

 

 

***

 

 

Gli Strokes le stavano trapanando le orecchie ad un volume troppo elevato ricordandole che You Only Live Once. L'impermeabile verde militare scolorito ad avvolgerla e proteggerla contro le raffiche di vento gelido che spiravano da nord. L'inverno si stava già palesando nonostante fosse appena la fine di ottobre. Gli alberi scheletrici costeggiavano il lungo viale vicino alla stazione della metropolitana, mentre tutto intorno le poche foglie secche superstiti turbinavano disordinate.

Juno si consolò pensando che perlomeno avrebbe lavorato in un ambiente ricco di comfort e non avrebbe patito il freddo e l'umidità che regnavano invece perpetui nella sala giochi a causa della taccagneria del proprietario.

La sera precedente aveva riflettuto su quel bizzarro personaggio che aveva scoperto essere il figlio del primo matrimonio di Mrs. Seymour, per poi dimenticarsene impegnata in una sessione intensiva di binge watching. Aveva decine e decine di episodi di serie tv da recuperare e non poteva certo perdere tempo sprecando minuti preziosi a psicoanalizzare un uomo qualunque conosciuto in un giorno qualunque in modo del tutto casuale.

Quella mattina Jack le aveva quasi calpestato i piedi nella fretta di correre a prendere la metropolitana e non l'aveva neanche aspettata. Ms. Hoffmann le aveva fatto presente che la sua cassetta della posta stava per collassare tanto era piena di dépliant e volantini pubblicitari e Mr. Ono le aveva sorriso dal balcone. Nell'alzarsi poi aveva rischiato un infarto, trovando un corpo addormentato accanto al suo che era certa non ci fosse quando era andata a dormire la sera precedente. I capelli malamente tinti di scuro, le calze a rete strappate e la pelle tatuata le avevano fatto tirare un sospiro di sollievo e così aveva lasciato una carezza lieve sulla spalla dell'amica prima di uscire in punta di piedi per non svegliarla.

Lea era tornata e ovviamente lo aveva fatto senza preavviso, dopo settimane di silenzio stampa. Tutto nella norma quindi.

Non aveva nessuna intenzione di arrivare tardi già il primo giorno e così si era alzata presto, indossando i vestiti sistemati sulla sedia la sera precedente. Questa volta aveva optato per un paio di semplici jeans scuri e un vecchio maglioncino color giallo canarino, reperto risalente ai suoi anni del liceo.

Era sempre stata un’accumulatrice seriale, conservava tutto, sia che si trattasse di una maglietta ormai lisa e scolorita dai troppi lavaggi o di una vecchia palla con la neve presa come souvenir in una squallida stazione di rifornimento lungo la super strada. Era arrivata così, poco più che ventenne, ad avere la casa letteralmente piena fino a scoppiare e il suo guardaroba non faceva certo eccezione. Abiti della sua adolescenza convivevano con colleghi freschi di grandi magazzini, maglioncini in pura lana vergine sferruzzati anni prima da nonne e prozie varie se ne stavano strettamente affiancati a felpe composte principalmente di poliestere e acrilico.

La metro era piena come sempre e così si preparò sospirando ad aspettare la sua fermata pigiata tra una parete divisoria in vetro e un uomo che aveva esagerato con l’acqua di colonia.

Arrivata nei pressi della villa si concesse di rallentare il passo per poter dare un’occhiata più approfondita a quella maestosa villa che pareva ergersi protettiva nel bel mezzo di quel quartiere di lusso. Il marmo bianco le conferiva un’aria di sobria eleganza, sottolineata dall’essenzialità e dall’ordine dell’ampio giardino all’inglese. Un ragazzo, in lontananza non avrebbe saputo dire se fosse Tobias o meno, era chino su un basso arbusto quasi completamente spoglio, un paio di cesoie tra le mani. Alcune finestre al secondo piano erano spalancate e il vento faceva danzare gli spessi tendaggi chiari delle stanze. Vista da quella prospettiva pareva una perfetta scenografia per un romanzo ottocentesco, con i suoi viottoli di ghiaia, gli ampi vasi in pietra contenenti cespugli potati secondo precise forme geometriche e i busti perlacei delle statue che si trovavano accanto alle basse panchine in ferro battuto.

Un’occhiata all’orologio bastò a spezzare l’incantesimo e a ricordarle che aveva un minuto esatto per trovarsi al cospetto di Mrs. Seymour e di suo figlio.

Ancora prima di giungere in prossimità del cancello tramite cui si accedeva alla porta sul retro, Juno scorse i capelli bianchi di Arthur, impegnato nel tentativo di versare dell’acqua in un’ampia ciotola cromata senza essere travolto dall’entusiasmo dei due piccoli cagnolini che abbaiavano al settimo cielo e continuavano a scorrazzare in cerchio attorno ai suoi piedi.

«Buongiorno!», trillò la ragazza nel richiudersi alle spalle il pesante cancello in ferro verniciato. Al suono della sua voce le due bestioline spostarono la loro attenzione dalla loro ciotola colma di acqua fresca ai piedi della nuova arrivata. Juno, del tutto impreparata, si ritrovò così a dover difendere il suo già malmesso paio di sneakers dall’attacco incrociato di quei vispi animaletti saltellanti.

Al riparo all’interno della cucina, con la zanzariera a dividerla e proteggerla dall’abbaiare frustrato dei cani a cui era sfuggito un ricco bottino di stringhe per scarpe da mordicchiare e sfilacciare, Juno tirò un sospiro e rivolse uno sguardo dubbioso all’anziano maggiordomo che se ne stava sereno tra quelle piccole pesti pelose.

«Mascalzoni che non siete altro!», li sgridò affettuosamente Arthur, chinandosi ad accarezzarli gentilmente tra le orecchie. «Loro, Ms. Morrison, sono Shelley e Keats, il primo è un Bulldog Francese, come si può intuire dal fatto che pare grugnire più che abbaiare, mentre l’altro è un Jack Russel fin troppo vivace. Sono i due principini di Casa Seymour questi due birbantelli, altroché!».

Juno lanciò un’ulteriore occhiata ai due animali, ora intenti a mordicchiarsi la coda l’un l’altro con fare dispettoso, e si chiese perché mai quei due piccoli saltimbanco portassero il nome di due dei più grandi poeti romantici inglesi.

«Approfondirò la conoscenza un’altra volta, ora devo davvero scappare. Buona giornata, Mr. Arthur!», e con questo si congedò e si diresse senza ulteriori incontri imprevisti verso il piano superiore, sorpresa di non trovare la materna figura di Adele davanti ai fornelli o china sull’ampia vasca nella lavanderia.

A due a due salì i gradini lucidi della scalinata e, cercando di riportare alla mente le precise indicazioni ricevute, si ritrovò alla fine in un’ampia sala color azzurro pastello. Comprese di essere nel posto giusto dal fatto che più che in un’abitazione privata pareva di essere in un parco giochi a causa dell’immenso scivolo che torreggiava in un angolo della stanza, della piscina rotonda colma di palline colorate e della quantità indescrivibile di giocattoli che costellavano scaffali, cassettoni e pavimento.

Uno strillo acuto la raggiunse subito seguito da una risatina e da uno scalpicciare maldestro che dal rumore pareva indicare che qualcuno si stesse avvicinando. La porta dal lato opposto della stanza venne spalancata in modo brusco ed improvviso e richiusa con altrettanta velocità. Una piccola figura intenta a correre si bloccò di colpo nel vedere Juno impalata nei pressi delle vetrate con una macchinina rosso fuoco tra le mani.

Dopo un momento di indecisione il bambino si riscosse e a passo di marcia si diresse verso la ragazza e le strappò di mano il giocattolo. «Mia!», esclamò imperioso nel riappropriarsi della sua piccola autina.

Juno osservò attenta quel piccolo soldo di cacio che si trovava esattamente di fronte a lei e che, nonostante i vari centimetri di differenza, pareva volerla incenerire con lo sguardo. Sospirò piano: era stata avvertita che non sarebbe stato facile. La cosa incredibile era l’aspetto angelico di quel bambino che pareva uscito da una di quelle deliziose pubblicità a sfondo familiare, con quella testa di capelli così chiari da apparire quasi argentati e i giganteschi occhi grigi, esatta copia di quelli di quello scapestrato di suo fratello.

La ragazza sorrise benevola e si piegò sulle ginocchia, in modo da avere il viso alla stessa altezza di quello del bambino.

«Ciao!», esclamò con tono squillante, nonostante segretamente fosse terrorizzata dall’idea che quel piccoletto potesse picchiarla con la macchinina e rimettersi a gridare fino a perdere la voce.

«Ciao?», le rispose lui con fare interrogativo. Piegò la testa di lato e strinse gli occhi, come se si stesse sforzando di metterla a fuoco.

Non era mai stata una di quelle persone materne, una di quelle ragazze che con i bambini ci sanno fare alla grande. No, lei solitamente li evitava, associandoli sempre a capricci, pannolini ed altre immagini spiacevoli.

«Io sono Juno e passerò con te la giornata. Tu come ti chiami?», provò comunque. In fondo il fatto che non fosse stata ancora aggredita e che lui fosse ancora lì di fronte a lei poteva essere preso come un buon segno, no?

«Non te lo dico!», strillò lui.

Ecco come non detto.

«Oh ma io posso indovinarlo, sai?», lo prese in giro lei. Aveva capito che la cosa sarebbe andata per le lunghe e così si decise ad adottare una posizione più comoda e si sedette a gambe incrociate.

Lui la imitò, leggermente goffi nei movimenti, e la fissò ancora più attentamente. «No vero», sancì incredulo, gli occhietti grigi che luccicavano.

«Mmh, ti chiami BatMan?»

Lui rise e poi abbassò lo sguardo sull’iimagine ritratta sulle sue mutandine. «No! BaMa è lui!», le indicò sdegnato. Insomma! Come poteva fare questo errore così grossolano?

Juno finse di grattarsi il mento e di guardarsi intorno come alla ricerca di un’ispirazione. «Ci sono! Il tuo nome è Nemo! Ho indovinato, vero?».

Lui scosse la testa con forza. «Io bambino, no pesce», le fece giustamente presente lui.

«Allora direi che ti chiam-»

«MARLOWE!», una voce maschile decisamente alterata interruppe il loro gioco.

«Ma Pino! Hai rovinato il nostro gioco!», protestò il piccolo, per nulla preoccupato di fronte al cipiglio scuro di quello che la ragazza immaginò dover essere il padre.

Mr. Seymour pareva tutto tranne che...Mr. Seymour. Nella sua mente Juno si era immaginata l’uomo come una versione maschile di Mrs. Seymour e invece la figura che si trovava davanti a lei pareva piuttosto un Hercule Poirot in chiave moderna. Piuttosto basso, anche se probabilmente comunque pià alto di lei, Mr. Seymour portava un paio di buffi baffi a manubrio, ordinatamente pettinati all’insù, aveva la testa completamente calva e dei vispi occhietti scuri.

«Oh salve!», esclamò sorpreso quando la sua attenzione si spostò da quel dispettoso del figlio alla ragazza bionda che stava seduta sul pavimento di casa sua.

Juno si alzò piuttosto agilmente e gli porse cordialmente la mano destra: «Buongiorno, io sono Juno Morrison. Lei deve essere -»

«Pino!», si intromise il piccoletto che, alzatosi a sua volta, ora stava tentando senza molto successo di inerpicarsi su per gamba di Mr. Seymour.

Quest’ultimo sospirò sconfitto e le strinse la mano. «Maldetto il giorno in cui mia moglie gli disse di andare da papino e lui capì che il mio nome era Pino. È un piacere conoscerla, la sta già facendo disperare questa piccola scimmietta qua?», domandò chiandosi a prendere in braccio il figlio, il quale, tutto contento per aver raggiunto il suo scopo, iniziò a far scorrere le ditina sulla testa lucida del proprio genitore.

«Ah che pazienza! È così sa che ho perso tutti i capelli?»

«Kit! Cosa stai facendo?»

Senza che nessuno se ne accorgesse la porta da cui era entrato il bambino tempo prima si era aperta nuovamente e da essa avevano fatto capolino le figure di Mrs. Seymour e di Adele. La prima era ancora avvolta nella sua vestaglia da camera ma, nonostante ciò, pareva bella e perfetta come il giorno precedente. La governante invece aveva il viso arrossato e si teneva la mano premuta sul petto, come se si dovesse riprendere da uno sforzo improvviso.

«Oh cara, come mai già sveglia? Stavo cercando il nanerottolo qui presente per salutarlo prima di uscire e mi sono imbattuto in Miss Juno...», spiegò tutto allegro l’uomo, stamapando un bacio in fronte al figlio e rimettendolo a terra.

«Non riuscivo a dormire e Marlowe faceva i capricci perché non voleva vestirsi».

«Quale novità...», borbottò il marito, prima di sferrare una poderosa pacca di incoraggiamento sulla povera spalla di Juno, lasciare un bacio sulla guancia della consorte, salutare tutti quanti e sparire dietro la porta.

Juno si chiese se ogni mattina avvenisse questa maratona di inseguimenti e corse sfrenate.

«Bene, quindi hai già fatto conoscenza con Marlowe...», ruppe il silenzio Mrs. Seymour, avvicinandosi al suo bambino e allungando una mano per sistemargli i capelli lisci che sparavano in tutte le direzioni.

Marlowe però, per nulla intenzionato a lasciarsi pettinare dalla madre, fece un balzo in avanti e sfuggì alla sua prese. «Sì, sì, Mammina, conosco Uno», confermò il piccolo, prima di dirigersi verso il basso scaffale che ospitava le costruzioni, la sua attenzione catturata da una gru gialla di mattoncini.

«Come mai riesce a dire Mammina ma non Papino?», si informò curiosa Juno.

Mrs. Seymour sospirò sconfitta, «Se lo scopri fammelo sapere».

 

 

 

 

 

 

Ed eccovi il secondo capitolo e altri nuovi personaggi. So che sto andando alquanto a rilento ma considerate l’estate, la sessione d’esami, il caldo, la voglia di dormire e mangiare gelati e basta. Insomma volevo riposarmi anche io e a scrivere questo capitolo ho impiegato più tempo del previsto. Anche perché l’incontro Juno-Felix l’ho riscritto completamente perché la prima stesura mi aveva fatto cadere in tutta una serie di clichè che non mi soddisfavano per nulla. Lascio a voi la parole J

S.

 

  
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