«Quest'idiota
si chiama Juno ed ha appena rischiarato di frantumarsi
l'osso sacro a causa del vero idiota che ha
lasciato i suoi libri
sparpagliati in ogni dove! E immagino che il nome di questo vero idiota
sia
Felix!», strillò la ragazza cercando di
raddrizzarsi senza provocare la caduta
delle torri pericolanti di libri che la circondavano.
Il
ragazzo non parve fare caso ai suoi insulti, più interessato
al
fatto che quella piccola donna bionda, che si era appena introdotta nel
suo
appartamento facendo un tuffo di testa tra i suoi libri, pareva
conoscerlo.
La
studiò attentamente, osservandone i goffi tentativi nel
rimettersi
in piedi senza inciampare nuovamente. Aveva fatto uno sforzo per
vestirsi bene,
il ragazzo riusciva a percepire quanto poco si sentisse a suo agio in
quegli
indumenti neutri e sobri. Privi di personalità. Mentre lei,
con quel mare di
lentiggini e i polsi carichi di braccialetti tintinnanti, pareva essere
sembra
ombra di dubbio un bel peperino.
Juno
riuscì, dopo vari tentativi, a ritrovare l'equilibrio e a
rimettere i piedi per terra. Si chinò per risistemare
approssimativamente i
volumi che aveva fatto crollare e nel rialzarsi recuperò
l'ampia borsa di
pelle, caduta
alla sua destra. Quando
sollevò
lo sguardo si ritrovò un paio di glaciali occhi grigi
intenti a fissarla
intensamente. Era un ragazzo alto, aveva le spalle larghe e una matassa
di
capelli biondi rossicci a ricoprirgli la fronte. Sembrava che non
vedesse un
parrucchiere da anni. Probabilmente si
tagliava i capelli da solo. E non pareva affatto imbarazzato dalla sua
quasi nudità di
fronte ad un'estranea.
«Dove
hai preso quella borsa? Da mia madre ovviamente. Che sciocco! Ti
ha mandato lei? Ti ha dato istruzioni del tipo: prendilo in braccio,
cullalo,
cambiagli il pannolino ogni tre ore e ricordati di dargli
l'antibiotico? Che
cara donna!», biascicò, la voce intrisa di acido
sarcasmo.
Persino
Juno, che non era mai stata brava a decifrare i sentimenti
delle persone, riuscì a comprendere che tra Mrs. Seymour e
quello che si era
appena scoperto essere suo figlio i rapporti non dovevano di certo
essere
idilliaci.
Lungi
dal volersi far mettere i piedi in testa fin dal primo giorno
del suo nuovo lavoro decise che avrebbe fatto semplicemente
ciò che le era
stato chiesto dalla sua datrice di lavoro, senza badare ai capricci del
figlio
maggiore di quest'ultima.
«No.
Mi occuperò di Marlowe da domani e nel frattempo mi
è stato detto
di portarti questa e di prepararti il pranzo. Nessun antibiotico e,
grazie al
cielo, nessun pannolino da cambiarti. Per quello dovrai arrangiarti
temo...»,
ribatté energicamente.
Doveva
avere al massimo un
paio di anni più di lei, nonostante avesse un viso quasi
fanciullesco.
Espressione imbronciata compresa.
Lui
non parve apprezzare
quella sua affermazione ma si limitò a storcere il naso e ad
indicarle la
strada per la cucina. Cucina che si rivelò essere tanto
infarcita di libri
quanto il soggiorno e totalmente sprovvista di qualsiasi genere
alimentare
universalmente considerato commestibile.
Probabilmente
il suo
fisico magro lo si spiegava così: si cibava delle pagine dei
suoi libri.
«Bene.
Juno, giusto?», le
chiese dopo un attimo di pausa, il tono questa volta più
cordiale e una mano
tesa quasi in segno di scusa. «Io sono Felix come
già sai. Non volevo apparire
maleducato, solo che sono un tipo abbastanza solitario e non sono molto
bravo
con le persone…».
Juno
osservò le lunghe
dita che gli venivano offerte, prima di alzare lo sguardo ed
inchiodarlo in
quegli occhi color acciaio che le stavano di fronte. Non aveva mai
sopportato
le persone ostili, subito pronte a diventare verbalmente aggressive, ma
non
credeva neanche che fosse giusto etichettare un uomo dopo una prima
erronea
impressione. Orgoglio e Pregiudizio e Miss Jane Austen lo avevano
ampiamente
dimostrato. Dubitava di trovarsi di fronte ad un Mr. Darcy ma in ogni
caso non
voleva sbagliare nel giudicare severamente ed in modo avventato quel
ragazzo
trasandato che con i suoi troppi centimetri di altezza torreggiava
vicino a
lei.
Fu
principalmente per
questo che evitò di mandarlo al diavolo e gli strinse la
mano, o meglio lasciò
che la sua piccola mano venisse inghiottita dal palmo gelato di lui.
Quanto
accidenti era alto?
«Ok,
ripartiamo da qui. In
ogni caso neanche io ci capisco molto in generale del genere
umano…», aggiunse
Juno con un sorriso accennato sulle labbra.
Felix
lasciò le sue dita
libere dopo quella che sembrò
un’infinità di tempo ma probabilmente non si
trattò che di una decina scarsa di secondi. Sempre
continuando a fissarla fece
due passi indietro e si accomodò al tavolo da pranzo, la
testa sorretta da una
mano e uno sguardo carico di sfida. La osservava, come impaziente di
sapere
quale sarebbe stata la prossima mossa di quella piccola e stramba
ragazzina.
Non
era la prima volta che
sua madre provava a stanarlo da quel suo appartamento polveroso grazie
a
mezzucci del genere. Solo che prima d’allora si era sempre
trattato di stangone
che salutavano il metro e ottanta dall’alto, con uno stacco
di coscia lungo
quanto questa Juno e modi di fare da grande
dame.
In
quel momento Juno si
stava guardando curiosa attorno, la testa lievemente inclinata mentre
leggeva la
frase di scarabocchiata sulla lavagnetta magnetica attaccata sullo
sportello
del frigorifero: Non dovete biasimarmi se
parlo alle stelle.
«È-»
«Thoreau,
lo so. Anni fa
scrissi quella precisa frase sul muro esterno del mio liceo, di notte,
con il
cappuccio calato sulla testa», confessò
sovrappensiero. «È curioso ritrovarla
proprio qui, proprio adesso».
«Se
credi nelle coincidenze
allora probabilmente potrebbe essere un tentativo di riportarti alle
radici,
all’origine. Ti dice qualcosa tutto
ciò?», chiese lui sempre più
interessato.
Era
da sempre che tentava
di esplorare come lavorasse il destino nelle vite dell’intera
umanità,
intessendo tele, strappando fili, incrociando strade, causando
collisioni e
ridendo della stupidità di quei piccoli e stupidi uomini,
inconsapevoli
marionette, attori di una tragedia di cui non conoscevano il copione.
Era un
tarlo che da sempre lo divorava ed era anche ciò che lo
aveva portato a
rifiutare tutto ciò che i suoi genitori si aspettavano da
lui. Scrollandosi di
dosso le aspettative di tutti, scegliendo la strada più
difficile e meno
prevedibile, sbagliando e riprovando, così cercava e aveva
cercato di ingannare
il fato, di prenderlo di sorpresa. Perché la sola idea che
la sua vita potesse
essere già stata pianificata da qualcun altro lo faceva
semplicemente
impazzire. Lo faceva sentire privo di controllo e aumentava
esponenzialmente il
suo già consistente disorientamento.
«Un
ritorno alle origini…»,
mormorò Juno, gli occhi spalancati e l’espressione
assorta, «Ma certo! Ecco
quale era il pezzo mancante! Devo fare un passo indietro e lasciare che
quella
ragazzina di quindici anni che imbrattava i muri della scuola riemerga.
Grazie
mille! Davvero, non so come potrò mai ringraziarti.
È da mesi che mi
arrovellavo sul problema che mi bloccava e ora ecco
l’illuminazione. Questo è
del tutto imprevisto ma assolutamente illuminante!».
Felix
provava un’inspiegabile
senso di intesa con quella ragazza atterrata senza preavviso tra i suoi
libri e
nella sua vita.
All’improvviso
la ragazza
parve riscuotersi e ricordarsi il motivo della sua presenza in quella
casa.
«Allora
c’è qualcosa che
posso fare per te? Posso?», nel frattempo aveva aperto il
frigorifero e aveva
preso tra le mani un vasetto di marmellata che recava come data di
scadenza il
marzo di tre anni prima. Insieme a questo abitavano quella fredda landa
desolata un limone ammuffito e una bottiglia di vino bianco mezza vuota.
«Sai
cucinare? Inizio ad
avere fame e non ho ancora pranzato…»
«Dovrò
fare un salto al
supermercato prima. L’unica cosa che potrei combinare con
questi tre
ingredienti è un tentativo di avvelenamento a tue
spese», gli fece notare lei,
sventolando il frutto giallo ormai invaso da vari esemplari di muffe e
funghi.
Lui
sogghignò, «Incidente
non auspicabile durante il proprio primo giorno di lavoro,
no?»
Juno
scrollò le spalle, un
sorrisetto irriverente a dipingerle le labbra, «Che ne sai?
Magari tua madre mi
aumenterebbe il salario venendo a conoscenza del mio
crimine…»
Lui
rise divertito e un
paio di splendide fossette apparirono ai lati della sua bocca.
Juno
gettò gli ingredienti
scaduti nella pattumiera piena fino all’orlo che
trovò sotto al lavello e ne
approfittò per toglierne il sacchetto, annodarlo e posarlo
accanto alla porta,
in attesa di essere buttato.
«Io
vado allora. Hai
qualche preferenza? Anticipo io i soldi?», gli chiese mentre
apriva i vari
stipetti del mobile della cucina per vedere se fosse rimasto qualcosa.
Nel
constatare che il nulla più assoluto regnava incontrastato
si appuntò
mentalmente di fare la scorta di ogni genere alimentare di prima
necessità. Ai
suoi occhi vivere in una cosa sfornita persino delle cose
più elementari quali
pasta, cibo in scatola a lunga conservazione, biscotti, surgelati le
pareva una
vera follia.
Lui
allungò una mano, come
se volesse afferrare qualcosa posto nella tasca posteriore di un paio
di
fantomatici pantaloni, per poi ricordarsi di esserne sprovvisto e fare
così
dietrofront e sparire dietro la porta scura.
Ne
rispuntò poco dopo, un
paio di banconote stropicciate tra le mani e una lista scarabocchiata
sul retro
di un post-it usato.
Lei
prese il tutto in
consegna e, non resistendo alla tentazione, sbirciò il breve
elenco da lui
stilato.
Sbuffò
esasperata, «Quanti
anni credi di avere? Ho letto male io o qui c’è
davvero scritto biscotti Plasmon?»
Lui
si strinse nelle
spalle e disse semplicemente, «Sono buoni».
Aveva
degli occhi intelligenti
quella Juno, nonostante l’aria un po’ svagata. E
poteva percepire persino da
quella distanza la miriade di domande che le affollavano la mente. Non
poteva
non ammettere che il suo modo di vivere era alquanto inusuale. Da selvaggi lo definiva sua madre ormai da
quando aveva raggiunto la maggiore età ed era sfuggito al
suo controllo
opprimente. A volte osservava il piccolo Marlowe, e vedeva nei suoi
strambi
modi di fare una premonizione di ciò che sarebbe diventato:
un adulto pieno di
rancore ed odio nei confronti di tutti e di nessuno. Una perfetta copia
del suo
fratellastro più grande.
La
bionda raccolse allora
la sua borsa e si incamminò verso la porta principale,
borbottando un saluto.
Lui
non le rispose, ma
quando lei stava già per richiudersi la porta alle spalle la
richiamò indietro.
«Juno!»
Il
suo visino lentigginoso
fece nuovamente capolino, negli occhi uno sguardo interrogativo.
Poteva
chiamarla Juno? O
doveva usare il freddo e formale appellativo di Miss?
Accantonò momentaneamente
quel dubbio, affrettandosi a dare una spiegazione alla ragazza ma
soprattutto a
sé stesso per quel suo comportamento.
«Se
aspetti due secondi ti
accompagno. È passato così tanto tempo
dall’ultima volta che sono stata io di persona
al supermercato che a malapena ricordo dove si
trovi…».
Non
le diede il tempo di
ribattere, sparendo alla velocità della luce al di
là della porta che portava
alla sua stanza.
Juno,
rimasta con la bocca
aperta pronta a rispondere che poteva cavarsela benissimo da sola, si
rassegnò
a rientrare nell’appartamento lasciando la porta socchiusa.
Per ammazzare il
tempo d’attesa decise di dare un’occhiata
più approfondita a quei libri
malefici che poco prima al suo arrivo avevano attentato
all’integrità del suo
coccige.
Pescò
il primo volume
della pila a lei più vicina e lo studiò scettica.
De Amicitia. Nessun testo a fronte.
Si domandò se davvero quel
ragazzo fosse in grado di leggere senza aiuto uno scritto di Cicerone.
Lei
aveva seguito un corso di latino ai tempi del liceo, giusto per avere
dei
crediti in più, ma lo aveva abbandonata esasperata dopo tre
lezioni confusa da
tutti quei casi e quelle declinazioni, optando per un più
accessibile corso di
spagnolo. A posteriori si era domandata se fosse stata una scelta
saggia cedere
allo sconforto iniziale immediatamente e sventolare bandiera bianca
così
presto. Certo, ora parlava uno spagnolo fluente e non sarebbe mai
riuscita a
rimorchiare quello gnocco di Ramòn durante quel viaggio a
Valencia, ma magari
il latino aveva effettivamente qualcosa di prezioso da offrire. Chiuse
il libro
con decisione e lo ripose al suo posto, ormai era troppo tardi per
riprendere i
panni della studentessa. O perlomeno della studentessa di latino.
«Ti
piace la letteratura
latina classica?»
Nel
sentire quella voce
alle proprie spalle Juno allontanò rapidamente la mano dalla
copertina del
libro che aveva appena posato in cima alla torre di volumi alla sua
destra.
«Sono
una ignorante al
riguardo», mormorò con aria colpevole,
stringendosi nelle spalle.
Oh,
accidenti! Quanto
avrebbe voluto aver finito quel maledetto corso e poter ora strabiliare
con una
citazione di…di…di Seneca - perché
Seneca era latino, no?- quel sapientone di
uno spilungone.
«Peccato.
Gli Antichi
Romani erano un popolo veramente spassoso sotto certi punti di vista, e
ovviamente terribilmente geniale», ribatté
raggiungendola e sventolando in aria
un mazzo di chiavi.
Lui
chiuse la porta con
fare distratto e la seguì dentro l’abitacolo
dell’ascensore.
«Questo
trabiccolo è terribile.
Come fai a farti 23 piani quotidianamente sempre con l’ansia
di non sapere se
ti porterà mai a destinazione?», soffiò
nervosa Juno.
Tutto
intorno a loro
pareva cigolare in modo sinistro e ciò non faceva altro che
mettere in dubbio
la sicurezza di quella scatoletta metallica che pigramente correva nel
cuore di
quel vecchio palazzo fatiscente.
«Oh,
ma io esco solo una
volta a settimana di solito. Questa è
un’eccezione, se mia madre ne venisse a
conoscenza potrebbe addirittura sciogliersi in lacrime. Sempre se il
suo trucco
è waterproof», borbottò ironico lui.
Giunti
miracolosamente al
piano terra si incamminarono verso il grande ipermercato che si trovava
tre
isolati a sud e che Juno non aveva potuto non notare, grazie alla sua
insegna
fluorescente e ai cartelloni pubblicitari che tappezzavano ogni angolo
della
strada, nell’arrivare quel pomeriggio.
Una
volta passati oltre le
porte scorrevoli in vetro opaco, Juno si diresse prontamente verso i
carrelli,
una mano nella borsa di tela alla ricerca di qualche spicciolo
vagabondo.
«Un cestello non
basterà?», chiese speranzoso
il ragazzo. «In fondo mi servono solo du-»
Lei
lo liquidò con un
gesto annoiato della mano, «Assolutamente no!».
Dieci
minuti più tardi si
trovavano ancora bloccati al primo reparto, quello della frutta e della
verdura, intenti a litigare riguardo alla vera utilità dei
broccoli.
Le
persone li superavano,
osservando, chi con tenerezza, chi con stizza, quella coppietta intenta
a
discutere su cosa comprare e cosa no. La scenetta che stava avendo
luogo vedeva
Juno acciuffare una confezione di broccoli e posarla
all’interno del carrello
cercando poi di proseguire oltre e Felix che prontamente ne bloccava la
fuga,
riagguantava il pacchetto contenente gli odiati ortaggi verdi e li
riposizionava
nel loro espositore.
«Non
fare il bambino! I
broccoli sono salutari e pieni di vitamine!»,
protestò lei dopo l’ennesima
sottrazione dal carrello da parte di lui.
«Grazie
mamma. Stiamo
facendo la spesa per ME, non per te! Tu potrai comprare quindici kg di
broccoli
quando vai al supermercato ma io non li voglio insomma!»,
sbottò lui, prendendo
possesso del carrello e lasciandola da sola davanti alle cassette di
broccoli.
Juno
decise che non valeva
la pena prendersela per qualcosa di così insignificante e
soprattutto non aveva
senso concedergli la soddisfazione di mostrarsi infastidita.
Fischiettando lo
raggiunse nel reparto colazione e come se nulla fosse
agguantò una confezione
formato famiglia di biscotti Plasmon e li fece cadere nel carrello,
davanti allo
sguardo sospettoso di Felix.
Lui
d’altro canto si
sentiva un completo imbecille. Passava decisamente troppo tempo chiuso
in
completa solitudine tra quelle quattro pareti ammuffite del suo
appartamento e
le poche ore fuori da esse le trascorreva in compagnia di sua madre, il
che non
faceva altro che peggiorare i suoi già gravi problemi
relazionali.
Il
supermercato a
quell’ora di pomeriggio non era particolarmente pieno eppure
non poteva
impedirsi di osservare quell’anziana signora che, occhiali
sulla punta del
naso, stava leggendo attentamente la lista degli ingredienti riportata
sul
retro di una scatola di polpa di pomodoro, la mano stretta intorno al
suo fido
carrellino in stoffa a quadretti. Oppure quel padre di famiglia che
stava
facendo scorta di cereali al cioccolato e che, nonostante fosse solo
alla
seconda corsia, aveva già il carrello strabordante.
Evidentemente doveva avere
una famiglia molto numerosa o molto affamata. Fare la spesa faceva
parte di una
quotidianità che gli era sempre mancata da quando aveva
intrapreso quella
carriera che di conseguenza lo aveva portato ad avere una vita alquanto
sregolata. Il susseguirsi del giorno e della notte aveva perso senso ai
suoi
occhi, dormiva poco e quando capitava, digiunava per due giorni per poi
spazzolarsi
tre pizze di seguito alle sei di mattina. Quando mai gli era successo
di
trovarsi alle quattro di pomeriggio a litigare per dei broccoli in un
supermarket?
«Ti
spiace se compro un
paio di cose anche io? Una mia amica è tornata da un viaggio
e ho la sensazione
che resterà per un po’ da
me…», domandò lei, lanciandogli una
rapida occhiata
per assicurarsi che, nonostante lo sguardo perso a fissare
chissà cosa,
l’avesse ascoltata.
Lui
annuì semplicemente.
Nel
giro di un’oretta
riuscirono a concludere il loro giro esplorativo e la lasciare la cassa
carichi
di sporte e buste e con il portafogli più leggero.
Fecero
ritorno a casa
restando in silenzio finché Juno lo implorò di
fare una pausa perché non ce la
faceva a portare tutto quel peso senza fermarsi un attimo a riprendere
fiato.
Felix
si diede dello
sciocco, dopotutto era così piccola ed esile, era ovvio che
facesse fatica a
sobbarcarsi tutto quel peso e così, senza proferire parola,
le sfilò dalle mani
un paio di buste e le depositò tra le braccia la confezione
di carta igienica e
un fustone di detersivo in polvere per la lavatrice. Lei per tutta
risposta gli
dedicò un sorriso riconoscente prima di riprendere a
camminare in direzione
dell’appartamento.
Juno
oltre ad una paura
infondata di poter restare senza scorte e morire di fame era anche
dotata di
molta inventiva culinaria e adorava sperimentare piatti sempre nuovi.
Non amava
le preparazioni elaborate e che richiedevano l’utilizzo di
quindici pentole,
ciotole, pirofile e frullatori e si limitava perciò a
ricette semplici, spesso
primi e dolci, che però erano sempre state apprezzate dai
suoi commensali.
Ovvero Jack e Adam che si sarebbero mangiati persino la corteccia degli
alberi
se avessero avuto davvero fame e Lea che solitamente si cibava solo di
gomme da
masticare, caramelle alla liquirizia e Coca Cola Zero.
Aveva
una vena casalinga,
ereditata da chissà chi, che le faceva adorare il prendersi
cura della sua casa
e delle persone che attorno ad essa orbitavano. Le piaceva spolverare,
lucidare
i rubinetti, far brillare i vetri della doccia. Le calmava i nervi
tutto ciò ed
era senza dubbio più semplice sbrinare il freezer rispetto
al consolare
un’amica dal cuore infranto. Fortunatamente l’unica
amica che aveva conservato
per tutta la durata della sua vita pareva essere sprovvista di un
cuore. Eppure
poi si ritrovava sempre a dipingere uomini e donne. Perché
con una pennellata
riusciva a capirli e a ritrarli mille volte meglio di quanto avrebbe
mai potuto
fare ascoltandoli. Tutte quelle emozioni con le loro mille
sfaccettature ed
interpretazioni, tutta quella sofferenza, tutta quella solitudine la
spaventavano. Ne era terrorizzata eppure finiva sempre per imbrattare
le sue
tele con quei volti scavati da profonde rughe, con gli occhi stanchi e
le mani
macchiate.
Non
conoscendo le
preferenze di Felix decise di andare sul classico e proporre uno dei
suoi
cavalli di battaglia, nonché regina delle ricette salvacena.
Mentre faceva
rosolare per bene le zucchine tagliate a rondelle sottili,
iniziò a tagliare a
cubetti un pezzo di formaggio morbido trovato in offerta al banco dei
prodotti
freschi. Si sentiva osservata ma si sforzò di non pensarci e
continuare con il
suo lavoro.
Felix
dal canto suo si
stava chiedendo perché l’immagine di una donna con
il grembiule annodato in
vita, grembiule che neanche sapeva di possedere, intenta a cucinare ai
fornelli
di casa sua un pasto per lui lo facesse sentire così sereno.
Non si era più
sentito così rilassato da troppi mesi oramai, probabilmente
da quando Terry Lo
Stronzo aveva deciso di stargli costantemente con il fiato sul collo,
inviandogli una media di quindici email all’ora. Alcune
puntavano sulla
persuasione, altre sul vittimismo, altre ancora erano pure minacce di
morte.
Quell’uomo avrebbe dovuto darsi una calmata se non voleva che
gli scoppiasse
una coronaria prima dei cinquant’anni.
«Cosa
fai nella vita?», le
chiese lui, il tono distratto e le mani occupate a costruire una torre
con le
scatole di legumi e tonno.
«La
tua balia», lo
apostrofò lei prendendolo in giro, per poi abbandonare
tagliere e coltello per strappargli
dalle mani una confezione di piselli e una di ceci e iniziare a
smontare la sua
costruzione per poter riporre ordinatamente le scatolette.
Lui
ridacchiò divertito.
«Oltre a questo?», riprovò.
Lei
gli rivolse uno
sguardo infastidito, soffermandosi per un attimo ad osservare i suoi
occhi
chiari.
«Dipingo»,
sentenziò
tagliando corto.
«Interessante!
Cosa
dipingi?»
Juno
non gradì di essersi
già scoperta così tanto. Lei di lui sapeva solo
il nome e che possedeva troppi
libri e zero alimenti, mentre lui stava già cercando di
scoprire più cose del
dovute su di lei. Con pochissime persone parlava della sua passione e
ad ancora
meno aveva mai mostrato le sue opere, e principalmente lo aveva fatto
perché si
erano prestati come modelli e pretendevano di vedere se erano usciti
bene.
Alcuni erano rimasti delusi, forse aspettandosi un classico dipinto ad
olio
come quelli che in passato i regnanti più importanti
commissionavano ai pittori
di corte, altri non aveva capito l’opera, pochi avevano
sorriso e si erano
complimentati.
«Tu
invece cosa fai?»,
rigirò la questione lei, stanca dell’attenzione di
lui sulle sue vicende più
private.
Mentre
ripiegava le borse
in plastica vide un lampo di sorpresa attraversare lo sguardo del
ragazzo e si
chiese se avesse appena fatto una domanda in qualche modo sbagliata.
Felix
dal canto suo si
sentì immediatamente più a suo agio in compagnia
di quella ragazza che aveva
confermato i suoi sospetti, chiedendo cosa facesse lui nella vita. Era
sempre
piacevole accompagnarsi ancora con quelle poche persone che, ignorando
la sua
vera identità, lo trattavano come tutti gli altri. Nessun
artificio.
Desideroso
di godersi
finché fosse durato quella sorta di anonimato, decise che
avrebbe vietato alla madre
di accennare qualsiasi cosa alla ragazza. «Talvolta
scrivo…»
Lei
accolse di buon grado
quella risposta vaga e non volle indagare oltre. Anche se doveva
ammettere che
lo scoprire che anche lui faceva parte in qualche modo del meraviglioso
e
mutevole mondo degli artisti la rallegrò. Erano dappertutto
e tutti ricercavano
la bellezza, musa scostante e sfuggente, per poi farne dono al mondo.
Nella
mezz’ora seguente
Juno finì di preparare il suo modesto pranzo e
osservò il ragazzo divorarlo. Le
aveva chiesto se voleva fargli compagnia ma lei aveva gentilmente
declinato.
Erano già le cinque inoltrate del pomeriggio e lei aveva
più voglia di fare
merenda con qualcosa di molto calorico e zuccherino piuttosto che di
pranzare.
«Era
molto buono», osservò
quasi incredulo Felix, mentre raccoglieva dal piatto con del pane le
ultime
tracce di formaggio fuso.
Lei
sorrise compiaciuta ed
evitò di fargli notare quanto fosse semplice da preparare
ciò che gli aveva
servito per pranzo, così semplice che avrebbe potuto farselo
da solo.
«Non
assomigli a tua
madre…», osservò lei sovrappensiero.
Stava addentando una delle pesche che aveva
tanto criticato quando lei le aveva comperate al supermercato, i
capelli che
gli coprivano gli occhi e una goccia di succo che gli colava lungo il
mento.
Immagine che faceva a pugni con quella di Mrs. Seymour, una nuvola di
seta e
lacca al profumo di Chanel.
Lui
rischiò di soffocare
nel sentire ciò e dovette bersi un paio di bicchieri
d’acqua per riprendersi.
«Lo spero bene! Quella donna pare essere stata progettata in
laboratorio per
rendermi la vita un inferno!», strillò una volta
di nuovo in grado di parlare.
Mrs.
Seymour aveva avuto
Felix poco più che ventenne, pochi mesi dopo il suo
frettoloso primo
matrimonio. Il padre era un surfista per metà australiano e
per l’altra metà
irlandese, più dedito alle onde e alle belle bionde
californiane che a suo
figlio neonato. Ovviamente questo sua madre non aveva potuto prevederlo
nel
momento in cui aveva perso la testa per i suoi pettorali scolpiti e il
suo
stile di vita gipsy.
Dopo
il divorzio, arrivato
prima che il bambino spegnesse la sua prima candelina, sua madre aveva
deciso
che si sarebbe sposata solo con un uomo ricco come Creso. Mr. Seymour
era stato
felice di accontentarla e così quando Felix compì
quattro anni venne
formalmente adottato dal nuovo marito della moglie, certamente migliore
del suo
predecessore.
Cresciuto
tra collegi
privati e scuole maschili, Felix si era sentito sempre a disagio,
incapace di
adattarsi alle convenzioni sociali e di accontentarsi della vita che i
suoi
genitori avevano già preconfezionato per lui. A sedici anni
era scappato e per
nove mesi aveva girato l’Europa con lo zaino in spalla e la
cartina tra le
mani. Quando era tornato a casa nessuno aveva commentato e lui aveva
ripreso la
sua vita dal punto in cui l’aveva lasciata. Come se nulla
fosse successo. In
verità tutto era cambiato e quando si diplomò
Felix disertò Cambridge e la
facoltà di legge e si iscrisse ad un corso di scrittura
creativa. Questa volta
i commenti dei suoi genitori si erano fatti sentire eccome. Il
più pesante di
tutti era stato quello: ingrato.
Era
come se lo dovesse
loro, il laurearsi in legge, il diventare un avvocato di successo, il
portare
aventi la stirpe gloriosa dei Seymour. Lo doveva a sua madre, rimasta
incinta
quando era ancora una ragazzina inesperta, costretta a tentare di
tenere
insieme la famiglia sposando quel farfallone di un surfista ed infine
salvatrice del suo futuro grazie all’arrivo di Seymour. Lo
doveva a quel suo
padre adottivo, pronto ad aprire il portafogli per garantire che lui
avesse
sempre il meglio, disposto a sopportare i suoi colpi di testa da
ragazzo ed
unica figura paterna presente nella sua vita. La verità
però era che l’unica
persona nei confronti della quale sentiva davvero di dovere qualcosa
era lui
stesso. Si meritava la possibilità di provare a percorrere
una strada meno
battuta, ripida e piena di ostacoli. E così se
l’era presa quella possibilità,
senza aspettare che fosse qualcun altro ad offrirgliela. Aveva
allungato una
mano e l’aveva afferrata e da allora non aveva mai allentato
la presa. Quando
poi tutto si era risolto per il meglio ed era riuscito ad ottenere ben
più di
quello che si sarebbe mai aspettato grazie alla sua arte suo padre si
era
complimentato e si era concentrato sul piccolo Marlowe, che al tempo
non era
nient’altro che un’ombra in bianco e nero sullo
schermo dell’ecografo e già si
ritrovava il posto riservato all’università, ma
sua madre no. Lei non aveva
mollato l’osso, se non poteva più criticare cosa
facesse nella vita poteva però
mettere in discussione come avesse deciso di viverla quella vita.
Troppo
disordinato, troppo asociale, troppo scontroso, troppo cinico. Non
c’era
aspetto della sua esistenza, delle sue azioni o del suo aspetto che non
venisse
analizzato ai raggi x da Mrs. Seymour. Andare ad abitare lontano dalla
sua
safety zone, fatta di viali fioriti e persone che gettavano i rifiuti
nei
cestini dell’immondizia, optando per un quartiere malfamato,
lercio e
pullulante di delinquenti non aveva funzionato. All’inizio
cercava di attirarlo
al suo cospetto inventandosi le scuse più disparate:
fantomatici compleanni di
parenti sconosciuti, carte da firmare, Marlowe da sorvegliare, malattie
immaginarie. Una volta recepita l’antifona Felix aveva smesso
di crederle e
aveva iniziato ad ignorare le sue chiamate e i suoi messaggi. Per un
po’ tutto
era filato liscio e lui aveva trascorso i dieci giorni più
pacifici della sua
vita. Poi un bel dì qualcuno aveva suonato alla porta e
aveva decretato la fine
della pacchia. Il ragazzo sapeva benissimo che quella non era altro che
una
prova d’amore e che se non fosse stato per
l’affetto incondizionato che provava
nei confronti di quel primo ed imperscrutabile figlio che faticava a
comprendere sua madre avrebbe rivelato al mondo di essere una bionda
tinta
piuttosto che mettere piede in quella zona della città. Da
allora era tornata
qualche volta, sempre attenta a non toccare niente e a farsi scortare
da
Tobias, ed ad ogni visita non faceva altro che guardarsi attorno e
criticare il
modo in cui il figlio teneva l’appartamento.
L’eccessiva polvere, l’assenza di
luce, l’aria viziata. Dopo un po’ il ragazzo si era
arreso e aveva stipulato
con lei una tregua: Mrs. Seymour non sarebbe più andata a
casa sua se lui fosse
andato a pranzo da lei tutte le domeniche. E da allora così
era sempre stato.
Juno,
una volta che lui
ebbe finito di mangiare, gli sottrasse piatto e posate e le
sciacquò per bene
nel lavandino. L’acqua non era troppo calda ma se la fece
andare bene lo
stesso. Una volta terminato di lavare l’ultima pentola,
sollevò le braccia e
spalancò le ante chiare dello scolapiatti sopra la sua
testa. Rimase così: mani
per aria, una fondina da un lato e un bicchiere nell’altra.
Le goccioline delle
stoviglie appena pulite le scorrevano lungo le braccia e
così si riscosse e le
posò sul ripiano in marmo accanto ali fornelli.
«Ora
spiegami perché nello
scolapiatti ci sono infilati dei libri…»,
esclamò esasperata.
Un
po’ era sorpresa ma una
parte di lei in verità stava segretamente progettando di
trasformare anche il
proprio scolatoio in una nuova piccola dispensa per la sua riserva
infinita di
cibarie.
Lui
ridacchiò divertito,
«Lì custodisco i miei preferiti o quelli a cui
sono legato in qualche modo
particolare. Così impiego meno nel recuperarli...»
Su
quell’ultima
affermazione lei non poté obiettare. Senza dubbio se
qualcuno avesse voluto
recuperare un libro avrebbe impiegato un giorno solo per cercare tra
quelli
sparsi tra cucina e soggiorno. E non aveva neanche visto il resto della
casa!
«Nella
sua insensatezza ha
senso», gli concesse lei, prima di rassegnarsi
all’idea che quei piatti
andavano asciugati a mano da lei. Recuperò un panno giallo
lavorato a nido
d’ape dal piccolo gancio accanto al frigorifero e
iniziò a passarlo sul bordo
della fondina. «Raccontami qualcosa di tuo
fratello...», gli chiese, un po’ per
curiosità, un po’ perché non amava i
silenzi imbarazzati.
Lui
ridacchiò,
probabilmente divertito dal pensiero di quel suo piccolo fratello tanto
dispettoso quanto adorabile. «Marlowe è allo
stesso tempo la creatura più
tenera e più ingestibile del mondo. Un attimo prima sta
giocando con le sue
costruzioni tutto contento e un secondo dopo sta emulando Tarzan
arrampicandosi
sulle tende del salotto. È assolutamente imprevedibile e
terribilmente sveglio.
Non pensare mai, neanche per una volta, che lui non capisca quello che
dici
agli altri. È un gran chiacchierone ma purtroppo ha la
piccola caratteristica
di essere sempre fin troppo onesto...»
«Ho
sempre pensato che ai
bambini come a dei bambolotti ottusi e lagnosi...»,
rifletté lei, leggermente
spaventata dalla descrizione che lui le aveva appena fatto. Magari si
sarebbe
trovata di fronte ad un bambino prodigio e lei non voleva assumersi la
responsabilità di rovinare la crescita di una creatura tanto
promettente. Se
Mozart avesse avuto lei come balia probabilmente avrebbe finito per
fare lo
spazzacamino e morire di cirrosi epatica a vent’anni.
Ovviamente non avrebbe
mai rivelato tutto ciò a Mrs. Seymour.
«Lo
credevo anche io prima
della sua nascita. Credo che sia diventato così di riflesso,
per il fatto di
avere una madre del genere, quasi per farle un dispetto. È
terribilmente
spassoso vederli insieme. Ti renderà la vita un inferno e
non so perché ma la
cosa mi diverte infinitamente...», concluse perfidamente lui,
mentre lei
riponeva le ultime stoviglie nello stipetto vicino al forno.
Juno
segretamente
terrorizzata da quella sua ultima affermazione, lanciata
un’occhiata
all’orologio, decise che era ora di levare le tende e mettere
fine a
quell’incontro. Aveva voglia di un gelato e voleva riflettere
in solitudine su
quei due membri della Famiglia Seymour che aveva conosciuto quel
giorno. Le
sarebbe piaciuto ritrarli ma non era qualcosa che poteva chiedere ad
una persona
che aveva conosciuto da due orette scarse.
Ripose
lo strofinaccio, si
lisciò quasi per abitudine i pantaloni e
controllò che la crocchia fosse ancora
al proprio posto, per quanto spettinata e precaria.
«Io
vado...»
Lui
l’accompagnò verso la
porta, una corsa ad ostacoli tra quelle centinaia di volumi disseminati
in ogni
dove, e la salutò in silenzio prima di chiuderle la porta
alle spalle.
***
«Ti
ho già detto quanto io
trovi il tuo comportamento estremamente scortese, vero?»
Una
pernacchia, subito
prontamente seguita da un bel dito medio sventolato per aria, lo
raggiunse da
dietro i cuscini del vecchio divano grigio.
Per
tutta risposta lui si
premurò di pigiare con forza maggiore sui tasti del
pianoforte, con l’unico
scopo di arrecarle il maggior disturbo possibile.
Quella
mattina Adam si era
svegliato pieno di energia e di inventiva e si era subito seduto al
piano,
sperando di poter finalmente trovare una degna conclusione alla sua
ultima
composizione sinfonica. Jack non era parso d’accordo
però e così, dopo la sua
solita dose di improperi nei suoi confronti, si era dileguato,
probabilmente
diretto verso quel porto sicuro che era la casa di Juno.
Dopo
averli raggiunti e
aver riempito a dovere il suo stomaco, approfittando della dispensa
sempre piena
della vicina, quest’ultima era corsa al suo colloquio di
lavoro mentre il
fratello era partito alla volta di quella sgangherata compagnia di
‘attori’ che
si ostinava a frequentare.
Avere
la casa tutta per sé
era un lusso troppo grande per non essere opportunamente sfruttato e
così,
nonostante la voglia di un bel pisolino, si era rimesso
all’opera.
Non
aveva fatto in tempo a
sgranchirsi le dita con un paio di scale e a recuperare una penna nuova
che la
porta di casa si era spalancata rivelando una figura ben nota. Il suo
peggior
incubo.
Lea,
migliore amica da
sempre e per sempre di quella scervellata di Juno, era, se possibile,
ancora
più folle della sua vicina di casa e in più non
offriva un inventario di cibo
così vario. Anzi, quando si palesava e, per somma disgrazia
dei due fratelli,
non trovava l’amica in casa, finiva per ammazzare
l’attesa da loro e per fare
una sorta di caccia al tesoro volta a scovare quei pochi alimenti che
Adam
nascondeva e custodiva gelosamente.
Molto
più alta di Juno -
non che ci volesse molto per superare in altezza la bionda - Lea aveva
un corpo
snello e flessuoso, quasi da ballerina, caratteristica che faceva a
pugni con i
suoi mille tatuaggi e i suoi modi di fare tutt’altro che
raffinati. Nella vita
faceva la barista nei locali notturni anche se sulla carta
d’identità alla voce
professione figurava che lei fosse un’imprenditrice, promozione dovuta al fatto che aveva
sedotto l’impiegato comunale
all’anagrafe.
Lea
aveva un carattere
difficile, non chiedeva mai il permesso, no, lei si prendeva quello che
voleva,
incurante dei divieti e del buonsenso. Sapeva essere terribilmente
spassosa a
volte, nonostante per la maggior parte del tempo fosse semplicemente
dolce
quanto una spremuta di puro limone.
In
quel momento se ne
stava stravaccata sul loro divano, una gamba gettata in modo scomposto
oltre lo
schienale, la bocca piena degli Oreo che Adam aveva nascosto - con
scarso
successo a quanto pareva - sotto il lavabo del bagno, tra un fustone di
detersivo per lavatrice e una confezione formato famiglia di carta
igienica
profumata alla violetta.
«Ogni
volta che ti vedo
sei sempre più insopportabile e gay, che palle!»,
borbottò la ragazza, la bocca
impastata di biscotti.
Adam,
all’ennesimo errore
commesso a causa del fastidio e dell’assenza di calma, si
arrese a lasciò
perdere la tastiera e si alzò dalla sua postazione accanto
alla finestra.
«Io
sono gay!», sbottò.
Lei
fece un gesto
spazientito con la mano e si grattò un ginocchio pieno di
graffi procuratasi
chissà come. «Sì, ma sei sempre
così isterico. I gay con cui sono andata a
letto io erano divertenti, cristo santo!», cercò
di spiegarsi lei.
Adam
in quel momento
avrebbe voluto mettere la testa nel freezer di Juno e fare compagnia ai
suoi
waffles surgelati, alla sua copia di 1984 e al suo bagnoschiuma
ghiacciato.
«Ti
rendi conto di cosa
dici? Tu sei una donna, per quanto a volte risulti difficile crederlo,
e se ci
stanno vuol dire che non sono gay. E pensare che Juno dice che sei la
persona
più intelligente che lei conosca. Deve conoscere veramente
brutta gente…»
«Te,
ad esempio?», gli
domandò Lea, gettando a terra la confezione argentata ormai
vuota dei dolcetti.
Adam
si affrettò a
raccoglierla. Ormai era una battaglia persa, Jack era la persona
più
disordinata e amica della sporcizia che abitasse sul globo terrestre,
secondo
forse solo a Ms. Lea, eppure lui non smetteva di combattere e tentare
per lo
meno che la casa non venisse invasa dagli scarafaggi e che degli strani
funghi
non iniziassero a crescere sugli indumenti del fratello.
«Ricordami
perché sei qui,
per favore», chiese con la voce carica di finta
cordialità.
Adam
aveva una memoria
infallibile ed era una di quelle persone che non si facevano mai
sfuggire
nulla, sempre attenti e fin troppo interessati anche alle conversazioni
altrui.
Si ricordava benissimo di una frase di Juno gettata quasi per caso nel
bel
mezzo di una chiacchierata, la quale aveva raccontato come quella
squilibrata
della sua migliore amica fosse scomparsa in qualche posto in Oriente
alla
ricerca forse del suo senno perduto.
Eccola
lì invece, shorts
strappati nonostante fosse ottobre inoltrato, anfibi distrutti e tre
centimetri
di ricrescita. Il ragazzo trovava veramente uno spreco che un corpo
così bello
venisse bistrattato a quel modo, ricoperto da straccetti simil punk
pulciosi e
da una tinta nera di una marca scadente. Il suo senso estetico ne era
profondamente addolorato ma, dopo aver ricevuto molteplici calci negli
stinchi
come conseguenza della sua generosa offerta di rifarle il look, Adam
aveva
rinunciato e si era rassegnato alla visione di quegli orrori che lei
chiamava
vestiti con cui andava in giro senza vergogna.
«Dovevo
aggiornare J. e
chiederle di ospitarmi. A quanto pare prima di partire mi sono scordata
di
chiudere a chiave la porta e ora una famiglia messicana se
n’è impossessata. Mi
sembrava scortese cacciarli, mi hanno anche offerto dei
tacos…». Alzatasi dai
cuscini si aggirava come un’anima in pena, dio solo sa in
cerca di che cosa.
Probabilmente cibo.
Solitamente
di giorno Lea
dormiva, dopo una devastante notte a preparare mille cocktails e a
trangugiarne
altrettanti, ed era perciò innocua, nonostante avesse un
sacco di nemici e
gente a cui non piacesse, gentilmente offerti dal suo caratterino, che
talvolta
venivano a cercarla e a minacciare di far saltare in aria il palazzo in
cui
viveva. Monito che però non sortiva alcun effetto sulla
ragazza che odiava
tutti i suoi vicini e probabilmente sarebbe stata capace di dare una
mano nel
piazzare la carica esplosiva. Non era certo una novità: Lea
odiava il mondo
intero.
«Speravo
tanto che saresti
tornata dal Congo solo dopo aver fatto voto di
silenzio…», esclamò contrariato
Adam, preferendo non infierire sulla faccenda degli abusivi che in
pratica
l’avevano sfrattata e vivevano del suo affitto.
Lea
nel frattempo si era
arrampicata su una sedia della cucina e stava esplorando
l’interno degli
sportelli sopra il ripiano dei fornelli a gas. Ovviamente senza
chiedere il
permesso per farlo.
«Ero
in Tibet! E comunque
lo avevo fatto ma l’ho infranto tre ore più tardi
perché dovevo insultare a
dovere il tassista che mi ha portato all’aeroporto
chiedendomi una quantità
folle di bigliettoni. Ladro di merda!», la sua voce proveniva
amplificata dal
vuoto dello stipetto in cui aveva infilato la testa.
Adam,
sistematosi sulla
vecchia poltrona sfondata vicino alla porta, recuperata da Juno accanto
ad un
cassonetto della spazzatura, si chiese cosa mai sperasse di trovare
nella loro
cucina. L’ultimo ricordo di un supermercato che aveva
risaliva all’estate e
alla confezione di sorbetto al melone che si era comprato. Sorbetto che
poi non
era riuscito a mangiarsi, anticipato sul tempo da suo fratello e da una
tizia
canadese che stava frequentando al tempo.
«Ti
sta telefonando un
certo Nando Procura Roba. Ora ti
droghi anche? Non c’è mai fine al
peggio…», la informò il ragazzo, dopo
aver
lanciato un’occhiata curiosa allo schermo luminoso del
telefono che stava
vibrando insistentemente sul bordo del tavolino.
Lea,
scocciata dalla sua
ricerca di cibo finita male e dal fatto che Nando la stesse chiamando
di già,
abbandonò il suo intento e tornò verso il
ragazzo, allungando una mano giusto
in tempo per afferrare il cellulare prima che questo cadesse sul
pavimento.
«Nando
è il mio Big Boss.
Questa sera si lavora. Sono tornata solo ieri e lui sa già
che sono in città.
Lui e i suoi maledetti segugi! Io vado. Riferisci a J. che sono
passata»,
spiegò velocemente, recuperando il suo zainetto di tela e la
sua giacca
militare. Spalancò la porta, senza accennare alcun saluto,
prima di tornare sui
suoi passi e aggiungere: «È sempre un piacere
vederti tesoro del mio cuore e
come sempre sei un padrone di casa del cazzo, avaro e nascondi cibo!
Adieu!»
Il
vaffanculo strillato
dal ragazzo si perse per la tromba delle scale, mentre la ragazza
trotterellava
verso il piano terra e Mrs. Hoffmann si chiedeva cosa facessero mai i
genitori
al giorno d’oggi invece di insegnare l’educazione
ai propri figli. Cafoni.
***
La
mattina seguente il
tempo era tornato ad essere grigio e freddo come al suo solito,
archiviando
rapidamente la parentesi primaverile che aveva caratterizzato le
ventiquattro
ore precedenti.
Mrs.
Seymour si rigirava
tra le lenzuola di seta color rosa antico da più di un
quarto d’ora, una
mascherina di raso a coprirle gli occhi e un paio di tappi infilati
nelle
orecchie. Aveva fatto insonorizzare tutte le stanze di quella casa
sperando di
uscire vincitrice nella sua eterna battaglia con la propria
difficoltà nel dormire.
Le
aveva provate tutte.
Aveva cacciato suo marito dal letto matrimoniale comune sentenziando
che
russasse e le impedisse di fare il suo sonno di bellezza, solo per poi
richiamarlo indietro, una volta accortasi che senza lui al suo fianco
dormiva
persino peggio. Aveva fatto cambiare le persiane della stanza, convinta
che i
piccoli spiragli di luce che penetravano attentassero al suo riposo. Si
scolava
litri dei peggio intrugli omeopatici a base di camomilla e valeriana.
Niente.
L’unica cosa che le donasse un po’ di pace era il
Valium e un’ampia gamma di
sonniferi, che però il suo medico curante da strapazzo le
aveva vietato di assumere
dopo averne abusato in gran segreto per anni. Aveva provato a fare la
furbetta
ma Adele, così dolce e cara all’apparenza, era una
sorta di mastino messo di
guardia all’armadietto dei medicinali e così ogni
volta i suoi tentativi erano
stati fallaci.
Le
uniche ore in cui
riusciva a farsi una bella dormita solitamente erano quelle tra le
quattro e le
dieci e per questo motivo quella mattina, quando aveva aperto gli occhi
e aveva
scoperto che erano solo le sette, si era infuriata.
Sentiva
la stanchezza
pesarle addosso come uno di quei pesanti ed orribili pochi peruviani
fatti a
mano e le tempie le pulsavano di già. Se solo avesse potuto
prendere un paio di
aspirine…
Rassegnatasi
all’idea di
concludere quella notte con il meraviglioso record di due ore scarse di
sonno
alle spalle, si alzò e si infilò la sua vestaglia
ricamata. Fuori il cielo era
plumbeo e lei si sentì tutto ad un tratto terribilmente
nostalgica.
Una
vocina acuta intenta a
strillare la distolse dal baratro di ricordi in cui rischiava di cadere
ogni
volta che si ritrovava con lo stomaco vuoto e la mente e il corpo
spossati.
«Nooo! Non vogliooo! Adele è
una strega, aiutooo!»
Ecco, ci eravamo di nuovo! Ogni volta che
all’orizzonte si affacciava una
novità Marlowe impazziva, diventando semplicemente
insopportabile. Mrs. Seymour
sapeva benissimo che sarebbe bastato un giorno per stabilire se quella
Juno
Morrison era o meno adatta al ruolo per cui l’aveva assunta.
A volte era
bastato anche meno, il record era detenuto da una giovane tata asiatica
fuggita
a gambe levate un’ora e dieci minuti dopo il suo arrivo e le
presentazioni con
il bambino. Era quasi certa del fatto che Felix e Tobias avessero
scommesso sul
tempo di permanenza di quella ragazza bionda.
A volte si domandava come fosse possibile che
avesse dato vita a due
creature tanto complesse ed esasperanti. Dopo essersi arresa con Felix
aveva
riposto tutte le sue speranze in quel bebè, arrivato alla
soglia dei
quarant’anni, quando ormai pensava di non riuscire
più a restare incinta. Aveva
segretamente parteggiato per l’idea di una femminuccia a cui
trasmettere il suo
senso estetico e il suo guardaroba. Quando però aveva visto
gli occhioni grigi
di Marlowe aveva avuto una sorta di deja-vù: lei, venti anni
di meno, in un
letto d’ospedale della California meridionale, da sola
perché il suo ex-marito
era dovuto scappare a causa dell’alzarsi di un vento
favorevole per eseguire le
sue prodezze tra le onde.
In cuor suo sapeva già che con Marlowe
avrebbe dovuto rivivere tutto quello
che aveva già sperimentato con il suo primogenito. I suoi
figli non volevano
seguire la strada più breve e semplice, no, loro volevano
sbattere la testa,
fallire, metterci l’anima e ottenere quello che il loro cuore
desiderava. In
barba a lei e a suo marito. Cambridge quasi certamente non avrebbe
visto un altro
Seymour tra i suoi banchi, per lo meno non in questa generazione.
«Mamma! Salvami tuuu!», la
vocetta imperiosa continuava a riempire la casa,
riuscendo a trapassare le pareti insonorizzate e facendo nascere un
sorriso
stanco sulle labbra della donna bionda. Quel carattere dispotico e
tendente
alla tirannia lo aveva ereditato da lei ed ora era proprio compito suo
disperarsi ogni volta che doveva averci a che fare. Quasi quattro anni
e già
dettava legge il piccolo principino.
Aprì la porta che si affacciava sul
corridoio e proprio in quel momento
spuntò il suo bambino, intento a scappare
dall’anziana domestica, vestito solo
di un paio di slip di Batman. Le si gettò letteralmente
addosso, senza
rallentare, finendo per schiantarsi contro le gambe della madre, la
quale
dovette reggersi alla parete per non cadere a causa del contraccolpo,
leggera
com’era.
«Tesoro, Adele è anziana e
non può più tenere il tuo passo...». A
questa
affermazione seguì un’occhiata di traverso della
governante diretta alla sua
datrice di lavoro.
Il bambino si aggrappò alla cintura
della vestaglia di sua madre, tirandoli
con forza e urlando disperato: «I patatoni no! No!».
Mrs. Seymour si domandò da dove
provenisse questa vena nudista del figlio,
sempre pronto a strapparsi di dosso calze, berretti e magliette. Le
scarpe
quelle no, era già un’impresa riuscire ad
infilargliele senza ricevere un
calcio sui denti perciò, approfittando della sua
età che ancora gli permetteva
di andarsene a passeggio comodamente adagiato nel passeggino, non le
indossava
quasi mai. L’unica eccezione era rappresentata dalle sua
pantafole a forma di
pipistrello.
«Signorino, vuole davvero farsi vedere
in mutande dalla sua nuova tata?»,
lo rimproverò Adele, la voce ancora affatticata dallo sforzo
ginnico di poco
prima.
Quella santa donna era al loro fianco fin da
quando si erano trasferiti
dopo il matrimonio con un piccolo Felix che aveva all’incirca
la stessa età di
Marlowe. E anche con lui non aveva avuto vita facile, però
aveva avuto pur
sempre vent’anni di meno sulle spalle. Ora invece doveva
fermarsi sempre più
spesso a prendere fiato, la schiena le doleva quasi costantemente e non
riusciva più a salire i gradini due alla volta come era
solita fare in passato.
O meglio, ci aveva provato ma era finita al pronto soccorso con una
clavicola
rotta e da allora Mr. Seymour la osservava a vista e la rimbrottava in
continuazione ogni qual volta avesse il presentimento che si stesse
stancando
troppo.
«Tata puah!»,
strillò con tutto il fiato che aveva in gola il bambino,
prima di mollare la presa sulla stoffa della vestaglia della madre e
riprendere
la sua folle corsa seza meta.
«Sarà l’ennesimo
disastro», sospirò sconfitta Mrs. Seymour.
***
Gli
Strokes le stavano
trapanando le orecchie ad un volume troppo elevato ricordandole che You
Only
Live Once. L'impermeabile verde militare scolorito ad
avvolgerla e
proteggerla contro le raffiche di vento gelido che spiravano da nord.
L'inverno
si stava già palesando nonostante fosse appena la fine di
ottobre. Gli alberi
scheletrici costeggiavano il lungo viale vicino alla stazione della
metropolitana, mentre tutto intorno le poche foglie secche superstiti
turbinavano disordinate.
Juno
si consolò pensando
che perlomeno avrebbe lavorato in un ambiente ricco di comfort e non
avrebbe
patito il freddo e l'umidità che regnavano invece perpetui
nella sala giochi a
causa della taccagneria del proprietario.
La
sera precedente aveva
riflettuto su quel bizzarro personaggio che aveva scoperto essere il
figlio del
primo matrimonio di Mrs. Seymour, per poi dimenticarsene impegnata in
una
sessione intensiva di binge watching. Aveva decine e decine di episodi
di serie
tv da recuperare e non poteva certo perdere tempo sprecando minuti
preziosi a
psicoanalizzare un uomo qualunque conosciuto in un giorno qualunque in
modo del
tutto casuale.
Quella
mattina Jack le
aveva quasi calpestato i piedi nella fretta di correre a prendere la
metropolitana e non l'aveva neanche aspettata. Ms. Hoffmann le aveva
fatto
presente che la sua cassetta della posta stava per collassare tanto era
piena
di dépliant e volantini pubblicitari e Mr. Ono le aveva
sorriso dal balcone.
Nell'alzarsi poi aveva rischiato un infarto, trovando un corpo
addormentato
accanto al suo che era certa non ci fosse quando era andata a dormire
la sera
precedente. I capelli malamente tinti di scuro, le calze a rete
strappate e la
pelle tatuata le avevano fatto tirare un sospiro di sollievo e
così aveva
lasciato una carezza lieve sulla spalla dell'amica prima di uscire in
punta di piedi
per non svegliarla.
Lea
era tornata e
ovviamente lo aveva fatto senza preavviso, dopo settimane di silenzio
stampa.
Tutto nella norma quindi.
Non
aveva nessuna
intenzione di arrivare tardi già il primo giorno e
così si era alzata presto,
indossando i vestiti sistemati sulla sedia la sera precedente. Questa
volta
aveva optato per un paio di semplici jeans scuri e un vecchio
maglioncino color
giallo canarino, reperto risalente ai suoi anni del liceo.
Era
sempre stata
un’accumulatrice seriale, conservava tutto, sia che si
trattasse di una
maglietta ormai lisa e scolorita dai troppi lavaggi o di una vecchia
palla con
la neve presa come souvenir in una squallida stazione di rifornimento
lungo la
super strada. Era arrivata così, poco più che
ventenne, ad avere la casa
letteralmente piena fino a scoppiare e il suo guardaroba non faceva
certo
eccezione. Abiti della sua adolescenza convivevano con colleghi freschi
di
grandi magazzini, maglioncini in pura lana vergine sferruzzati anni
prima da
nonne e prozie varie se ne stavano strettamente affiancati a felpe
composte
principalmente di poliestere e acrilico.
La
metro era piena come
sempre e così si preparò sospirando ad aspettare
la sua fermata pigiata tra una
parete divisoria in vetro e un uomo che aveva esagerato con
l’acqua di colonia.
Arrivata
nei pressi della
villa si concesse di rallentare il passo per poter dare
un’occhiata più
approfondita a quella maestosa villa che pareva ergersi protettiva nel
bel
mezzo di quel quartiere di lusso. Il marmo bianco le conferiva
un’aria di
sobria eleganza, sottolineata dall’essenzialità e
dall’ordine dell’ampio
giardino all’inglese. Un ragazzo, in lontananza non avrebbe
saputo dire se
fosse Tobias o meno, era chino su un basso arbusto quasi completamente
spoglio,
un paio di cesoie tra le mani. Alcune finestre al secondo piano erano
spalancate e il vento faceva danzare gli spessi tendaggi chiari delle
stanze.
Vista da quella prospettiva pareva una perfetta scenografia per un
romanzo
ottocentesco, con i suoi viottoli di ghiaia, gli ampi vasi in pietra
contenenti
cespugli potati secondo precise forme geometriche e i busti perlacei
delle
statue che si trovavano accanto alle basse panchine in ferro battuto.
Un’occhiata
all’orologio
bastò a spezzare l’incantesimo e a ricordarle che
aveva un minuto esatto per
trovarsi al cospetto di Mrs. Seymour e di suo figlio.
Ancora
prima di giungere
in prossimità del cancello tramite cui si accedeva alla
porta sul retro, Juno
scorse i capelli bianchi di Arthur, impegnato nel tentativo di versare
dell’acqua in un’ampia ciotola cromata senza essere
travolto dall’entusiasmo
dei due piccoli cagnolini che abbaiavano al settimo cielo e
continuavano a
scorrazzare in cerchio attorno ai suoi piedi.
«Buongiorno!»,
trillò la
ragazza nel richiudersi alle spalle il pesante cancello in ferro
verniciato. Al
suono della sua voce le due bestioline spostarono la loro attenzione
dalla loro
ciotola colma di acqua fresca ai piedi della nuova arrivata. Juno, del
tutto
impreparata, si ritrovò così a dover difendere il
suo già malmesso paio di
sneakers dall’attacco incrociato di quei vispi animaletti
saltellanti.
Al
riparo all’interno
della cucina, con la zanzariera a dividerla e proteggerla
dall’abbaiare
frustrato dei cani a cui era sfuggito un ricco bottino di stringhe per
scarpe
da mordicchiare e sfilacciare, Juno tirò un sospiro e
rivolse uno sguardo
dubbioso all’anziano maggiordomo che se ne stava sereno tra
quelle piccole
pesti pelose.
«Mascalzoni
che non siete
altro!», li sgridò affettuosamente Arthur,
chinandosi ad accarezzarli
gentilmente tra le orecchie. «Loro, Ms. Morrison, sono
Shelley e Keats, il
primo è un Bulldog Francese, come si può intuire
dal fatto che pare grugnire
più che abbaiare, mentre l’altro è un
Jack Russel fin troppo vivace. Sono i due
principini di Casa Seymour questi due birbantelli,
altroché!».
Juno
lanciò un’ulteriore
occhiata ai due animali, ora intenti a mordicchiarsi la coda
l’un l’altro con
fare dispettoso, e si chiese perché mai quei due piccoli
saltimbanco portassero
il nome di due dei più grandi poeti romantici inglesi.
«Approfondirò
la conoscenza
un’altra volta, ora devo davvero scappare. Buona giornata,
Mr. Arthur!», e con
questo si congedò e si diresse senza ulteriori incontri
imprevisti verso il
piano superiore, sorpresa di non trovare la materna figura di Adele
davanti ai
fornelli o china sull’ampia vasca nella lavanderia.
A
due a due salì i gradini
lucidi della scalinata e, cercando di riportare alla mente le precise
indicazioni ricevute, si ritrovò alla fine in
un’ampia sala color azzurro
pastello. Comprese di essere nel posto giusto dal fatto che
più che in
un’abitazione privata pareva di essere in un parco giochi a
causa dell’immenso
scivolo che torreggiava in un angolo della stanza, della piscina
rotonda colma
di palline colorate e della quantità indescrivibile di
giocattoli che costellavano
scaffali, cassettoni e pavimento.
Uno
strillo acuto la
raggiunse subito seguito da una risatina e da uno scalpicciare
maldestro che
dal rumore pareva indicare che qualcuno si stesse avvicinando. La porta
dal
lato opposto della stanza venne spalancata in modo brusco ed improvviso
e
richiusa con altrettanta velocità. Una piccola figura
intenta a correre si
bloccò di colpo nel vedere Juno impalata nei pressi delle
vetrate con una
macchinina rosso fuoco tra le mani.
Dopo
un momento di
indecisione il bambino si riscosse e a passo di marcia si diresse verso
la
ragazza e le strappò di mano il giocattolo.
«Mia!», esclamò imperioso nel
riappropriarsi della sua piccola autina.
Juno
osservò attenta quel
piccolo soldo di cacio che si trovava esattamente di fronte a lei e
che,
nonostante i vari centimetri di differenza, pareva volerla incenerire
con lo
sguardo. Sospirò piano: era stata avvertita che non sarebbe
stato facile. La
cosa incredibile era l’aspetto angelico di quel bambino che
pareva uscito da
una di quelle deliziose pubblicità a sfondo familiare, con
quella testa di
capelli così chiari da apparire quasi argentati e i
giganteschi occhi grigi,
esatta copia di quelli di quello scapestrato di suo fratello.
La
ragazza sorrise
benevola e si piegò sulle ginocchia, in modo da avere il
viso alla stessa
altezza di quello del bambino.
«Ciao!», esclamò
con tono squillante, nonostante segretamente fosse
terrorizzata dall’idea che quel piccoletto potesse picchiarla
con la macchinina
e rimettersi a gridare fino a perdere la voce.
«Ciao?», le rispose lui con
fare interrogativo. Piegò la testa di lato e
strinse gli occhi, come se si stesse sforzando di metterla a fuoco.
Non era mai stata una di quelle persone materne,
una di quelle ragazze che
con i bambini ci sanno fare alla grande. No, lei solitamente li
evitava,
associandoli sempre a capricci, pannolini ed altre immagini spiacevoli.
«Io sono Juno e passerò con
te la giornata. Tu come ti chiami?», provò
comunque. In fondo il fatto che non fosse stata ancora aggredita e che
lui
fosse ancora lì di fronte a lei poteva essere preso come un
buon segno, no?
«Non te lo dico!»,
strillò lui.
Ecco come non detto.
«Oh ma io posso indovinarlo,
sai?», lo prese in giro lei. Aveva capito che
la cosa sarebbe andata per le lunghe e così si decise ad
adottare una posizione
più comoda e si sedette a gambe incrociate.
Lui la imitò, leggermente goffi nei
movimenti, e la fissò ancora più
attentamente. «No vero», sancì
incredulo, gli occhietti grigi che luccicavano.
«Mmh, ti chiami BatMan?»
Lui rise e poi abbassò lo sguardo
sull’iimagine ritratta sulle sue
mutandine. «No! BaMa è lui!», le
indicò sdegnato. Insomma! Come poteva fare
questo errore così grossolano?
Juno finse di grattarsi il mento e di guardarsi
intorno come alla ricerca
di un’ispirazione. «Ci sono! Il tuo nome
è Nemo! Ho indovinato, vero?».
Lui scosse la testa con forza. «Io
bambino, no pesce», le fece giustamente
presente lui.
«Allora direi che ti chiam-»
«MARLOWE!», una voce maschile
decisamente alterata interruppe il loro gioco.
«Ma Pino! Hai rovinato il nostro
gioco!», protestò il piccolo, per nulla
preoccupato di fronte al cipiglio scuro di quello che la ragazza
immaginò dover
essere il padre.
Mr. Seymour pareva tutto tranne che...Mr. Seymour.
Nella sua mente Juno si
era immaginata l’uomo come una versione maschile di Mrs.
Seymour e invece la
figura che si trovava davanti a lei pareva piuttosto un Hercule Poirot
in
chiave moderna. Piuttosto basso, anche se probabilmente comunque
pià alto di
lei, Mr. Seymour portava un paio di buffi baffi a manubrio,
ordinatamente
pettinati all’insù, aveva la testa completamente
calva e dei vispi occhietti
scuri.
«Oh salve!»,
esclamò sorpreso quando la sua attenzione si
spostò da quel
dispettoso del figlio alla ragazza bionda che stava seduta sul
pavimento di
casa sua.
Juno si alzò piuttosto agilmente e gli
porse cordialmente la mano destra: «Buongiorno,
io sono Juno Morrison. Lei deve essere -»
«Pino!», si intromise il
piccoletto che, alzatosi a sua volta, ora stava
tentando senza molto successo di inerpicarsi su per gamba di Mr.
Seymour.
Quest’ultimo sospirò
sconfitto e le strinse la mano. «Maldetto il giorno in
cui mia moglie gli disse di andare da papino e lui capì che
il mio nome era
Pino. È un piacere conoscerla, la sta già facendo
disperare questa piccola
scimmietta qua?», domandò chiandosi a prendere in
braccio il figlio, il quale,
tutto contento per aver raggiunto il suo scopo, iniziò a far
scorrere le ditina
sulla testa lucida del proprio genitore.
«Ah che pazienza! È
così sa che ho perso tutti i capelli?»
«Kit! Cosa stai facendo?»
Senza che nessuno se ne accorgesse la porta da cui
era entrato il bambino
tempo prima si era aperta nuovamente e da essa avevano fatto capolino
le figure
di Mrs. Seymour e di Adele. La prima era ancora avvolta nella sua
vestaglia da
camera ma, nonostante ciò, pareva bella e perfetta come il
giorno precedente. La
governante invece aveva il viso arrossato e si teneva la mano premuta
sul
petto, come se si dovesse riprendere da uno sforzo improvviso.
«Oh cara, come mai già
sveglia? Stavo cercando il nanerottolo qui presente
per salutarlo prima di uscire e mi sono imbattuto in Miss
Juno...», spiegò
tutto allegro l’uomo, stamapando un bacio in fronte al figlio
e rimettendolo a
terra.
«Non riuscivo a dormire e Marlowe faceva
i capricci perché non voleva
vestirsi».
«Quale novità...»,
borbottò il marito, prima di sferrare una poderosa pacca
di incoraggiamento sulla povera spalla di Juno, lasciare un bacio sulla
guancia
della consorte, salutare tutti quanti e sparire dietro la porta.
Juno si chiese se ogni mattina avvenisse questa
maratona di inseguimenti e
corse sfrenate.
«Bene, quindi hai già fatto
conoscenza con Marlowe...», ruppe il silenzio
Mrs. Seymour, avvicinandosi al suo bambino e allungando una mano per
sistemargli i capelli lisci che sparavano in tutte le direzioni.
Marlowe però, per nulla intenzionato a
lasciarsi pettinare dalla madre,
fece un balzo in avanti e sfuggì alla sua prese.
«Sì, sì, Mammina, conosco
Uno»,
confermò il piccolo, prima di dirigersi verso il basso
scaffale che ospitava le
costruzioni, la sua attenzione catturata da una gru gialla di
mattoncini.
«Come mai riesce a dire Mammina ma non
Papino?», si informò curiosa Juno.
Mrs. Seymour sospirò sconfitta,
«Se lo scopri fammelo sapere».
Ed
eccovi il secondo capitolo e altri nuovi
personaggi. So che sto andando alquanto a rilento ma considerate
l’estate, la
sessione d’esami, il caldo, la voglia di dormire e mangiare
gelati e basta. Insomma
volevo riposarmi anche io e a scrivere questo capitolo ho impiegato
più tempo
del previsto. Anche perché l’incontro Juno-Felix
l’ho riscritto completamente
perché la prima stesura mi aveva fatto cadere in tutta una
serie di clichè che
non mi soddisfavano per nulla. Lascio a voi la parole J
S.