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Autore: EmilyW14A    18/09/2016    4 recensioni
Succede spesso di convincerci che le persone ci guardano e critichino ogni singola cosa che facciamo, ma non è così. La verità è che gli esseri umani sono tutti perfettamente egoisti e non hanno tempo da dedicare agli altri, anche se si tratta di uno sconosciuto seduto nel sedile davanti sul treno. Noi ci convinciamo che gli altri passino il loro tempo a commentare i nostri abiti, i nostri capelli, i piercings, i tatuaggi, i nostri lineamenti, il nostro fisico; in realtà nessuno si sofferma veramente a giudicare cosa fanno gli altri. Nonostante ciò, in questo momento non riesco a togliermi di dosso la sensazione che tutti i passeggeri della metropolitana si siano accorti di quello che ho appena fatto e mi stiano fissando con sguardo indagatore. Cerco di darmi velocemente un contegno, sistemo la camicia e la giacca, e proseguo nel mio cammino. Controllo l'orologio e mi accorgo che tra meno di due ore devo iniziare il turno a lavoro. Decido di fermarmi qualche fermata prima per pranzare in un posto tranquillo. Ho bisogno di riflettere da solo su tutto quello che è appena successo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, Reita, Ruki, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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V.










Mi sveglio di soprassalto e lancio velocemente un'occhiata alla sveglia: sono le 8.37, i numeri rosso fuoco si imprimono sulla mia retina come a volermi avvisare di essere in tremendo ritardo per i miei impegni quotidiani. Mi alzo di scatto e decido di buttarmi velocemente sotto la doccia. Mentre mi insapono ripenso immediatamente alla notte passata...era da tante settimane ormai che non facevo un sogno del genere. Quell'incubo era così vivido che ne sento ancora la sensazione addosso. Recupero una spugna e cerco di grattare via quella spiacevole sensazione che si è attaccata irrimediabilmente al mio corpo come fango umido e appiccicoso.
Esco dalla doccia e senza preoccuparmi di avvolgermi in un asciugamano, raggiungo completamente nudo la cucina, preparandomi un caffè. L'aria fresca di aprile che entra dalla finestra mi provoca dei leggeri brividi su tutto il corpo e così decido di asciugarmi con un telo pulito. Qualche goccia di acqua segna il percorso che divide la cucina dal resto delle stanze, passando per un piccolo corridoio. Mi vesto velocemente cercando di recuperare più cose possibili. Oggi il mio turno di lavoro inizia dopo pranzo ma non posso farmi sfuggire l'occasione di passare in ospedale a chiedere informazioni. Recupero tutti i fogli medici necessari e li ripongo con cura in una cartella trasparente. Infilo il mio fedele iPhone nella tasca della giacca, controllo che Keiji e Oscar stiano bene nella loro gabbietta e finalmente esco di casa. Sono abbastanza nervoso, infatti mi rendo conto di aver preso la strada sbagliata solo quando ormai sono già seduto su un sedile del treno. Questa linea impiega il doppio del tempo a raggiungere l'ospedale in cui fui operato, mentre se avessi preso la linea blu sarei arrivato con un quarto d'ora di anticipo. Ormai mi rassegno all'idea di aver iniziato malissimo la giornata e così apro la casella di posta elettronica sul mio telefono: un nuovo messaggio.
Da: Kouyou

Ehi bellimbusto! Ci sei questa domenica? Io propongo di farci un bel
giretto in moto e di spassarcela in riva al mare.
Non accetto risposte negative.
8 di mattina in punto sono sotto casa tua.
A domenica!

Sempre il solito. È inutile tentare di proporre cose diverse. Kouyou è quel tipo di persona molto decisa in quello che fa e anche tremendamente testona; un bel connubio non c'è che dire. Kouyou è il mio migliore amico. Io e lui ci conosciamo da una vita; mi sembra impossibile pensare ad un momento della mia esistenza in cui lui non era presente. È stato come un fratello per me e io mi fido ciecamente di lui. L'ho sempre considerato un bellissimo ragazzo. Da quando lo conosco ha tinto i suoi capelli di ogni sorta di colore possibile, persino bianchi. Ora che ha 37 anni, ha optato per un castano molto scuro, un colore che si sposa perfetto con i lineamenti delicati del volto. Quando avevamo venti anni e amavamo truccarci e acconciarci i capelli, Kouyou veniva spesso scambiato per una ragazza. Ha degli occhi con un taglio molto particolare e delle labbra curve e molto femminili. E anche ora, che è un lavoratore a tempo pieno e si lascia crescere ogni tanto un po' di barba, devo ammettere che ha conservato tutta la bellezza dei suoi lineamenti delicati.
Kouyou vuole trascinarmi sempre in ogni pazza idea che gli passa per la testa. Tuttavia questa volta penso proprio che abbia ragione; sento di aver bisogno di una bella gita al mare in sella alla mia moto. Adoro guidare la motocicletta, non solo in città, ma anche in aperta campagna. Adoro perdermi nelle curve della strada, nel paesaggio che sfreccia veloce ai lati del mio corpo come fosse un velo di tulle che mi accarezza. Amo il vento che mi sfrega la faccia e le maniche della giacca di pelle quasi come delle lame invisibili che vorrebbero farmi a pezzetti. Non vedo l'ora che sia domenica.
Quando alzo gli occhi dal telefono capisco di essere vicino alla mia fermata. Appena scendo aumento il passo, sono impaziente. Sto giocando la mia ultima carta e non posso fallire, non devo fallire. Mi sono imposto questo obbiettivo, perchè mai non dovrei riuscirci? Le persone fanno cose illegali tutti i giorni: si drogano, vendono armi pericolose, hackerano i siti più segreti. Perchè mai io non potrei riuscire ad arrivare al nome che sto cercando?
Svolto l'angolo e cammino per altri dieci minuti buoni fino a quando non mi ritrovo davanti un'insegna gigante che recita: JIKEI UNIVERISTY HOSPITAL. Lo stabile è altissimo, è un grattacielo gigante con le finestre a specchio che riflettono prepotentemente la luce del sole. Osservo quell'edificio e sento i ricordi affiorare alla mia mente. Il me stesso ventinovenne che se ne fregava di tutto, che viveva la vita come capitava un giorno si ritrovò a dover varcare la stessa soglia che sto attraversando in quel momento. A quei tempi, nonostante avessi quasi trent'anni, mi sentivo ancora un ragazzo. Ero inesperto, non sapevo cosa significasse vivere, ma non sapevo nemmeno cosa significasse morire. Tantissimi ricordi mi tornano in mente in quel momento, le parole, i volti delle persone, la presenza di mia madre, il rumore sordo dei sogni che si ruppero in meno di un secondo. Sembra tutto terribilmente reale.
Prima di perdere totalmente la lucidità, mi dirigo al banco informazioni. In verità conosco questo posto come le mie tasche ma non voglio aggirarmi nei corridoi in maniera troppo svelta per non dare nell'occhio. Il ragazzo dall'altra parte del bancone sembra molto annoiato. Mi avvicino e lo saluto cordialmente inchinandomi.
“Buongiorno. Vorrei sapere dove si trova l'ufficio del centro donazioni”
“Da quella parte” mi risponde senza neanche rivolgermi un sorriso. Non sono l'unico ad avere una terribile giornata allora. Questo mi rassicura almeno un po'.
Percorro il lungo corridoio, salgo qualche paia di scalini, continuo a diritto, poi giro a destra e trovo gli ascensori. Tutto come otto anni fa. Schiaccio il pulsante e aspetto con ansia. Salgo, schiaccio il numero. Compio questi gesti in maniera così meccanica che qualcuno potrebbe scambiarmi per un dipendente o uno studente di medicina appena laureato. Beh meglio così.
Arrivo finalmente davanti alla porta dell'ufficio donazioni: busso e attendo risposta. Entro. Una signora grassa e con i capelli riccioli mi attende ad un tavolo bianco e disordinato.
“Lei è qui per...?”
“Ho bisogno di un'informazione”
“Non ha nessun appuntamento quindi? Non deve donare il sangue?”
“No no”
“Capisco”
La signora emette un urlo voltandosi alla sua sinistra, chiamando un infermiere che si trova dall'altra parte della stanza. Non ricordavo di essere entrato mai in contatto con una persona così cafona quando frequentavo l'ospedale anni fa. Sicuramente quell'impiegata non avrei mai potuto dimenticarmela. Mi fa cenno di accomodarmi mentre lei si alza e va nell'altra stanza brontolando a gran voce il povero malcapitato.
Quando torna da me sembra molto infuriata. Ha il volto paonazzo come un peperone e i capelli castano ramato sembrano delle lingue di fuoco che contornano la sua faccia irritata. Fa davvero paura.
“Senta” dico io cercando di mostrarmi il più calmo possibile “Ho bisogno del suo aiuto. So che lei può aiutarmi. Mi faccia parlare. Ho bisogno che lei ascolti tutto quello che ho da dirle.”
“La sto ascoltando” dice lei sventolando vicino al suo viso un piccolo depliant, riprendendo finalmente un colorito normale.
“Mi presento. Sono Akira Suzuki, ho 37 anni e lavoro come pasticciere. Sono stato malato di leucemia. Sono stato ricoverato e curato in questo ospedale. Precisamente otto anni fa. Dopo mesi e mesi di cure sono finalmente guarito ma i dottori mi hanno obbligato a compiere un trapianto di midollo osseo. La mia famiglia non ha potuto aiutarmi così un donatore mi ha salvato la vita. Non so nulla di lui o lei, non so nemmeno se è un uomo o una donna. Quello che le chiedo è solo un nome. La prego.”
La signora aspetta che finisca di parlare. Mi guarda fissa negli occhi senza aprire bocca. Rimane così tanto in silenzio che per un attimo penso che si sia addormentata in piedi e con gli occhi aperti. Il suo sguardo è fisso su di me come quello di un leone che guarda da lontano la sua preda. Mi sento in leggero imbarazzo, forse non mi ha nemmeno ascoltato.
La vedo compiere un piccolo movimento. Un leggero vento primaverile entra dalla finestra rinfrescando l'aria angosciante di quel silenzio.
“Ma le pare il caso di presentarsi qui con questa faccia tosta e chiedere una cosa del genere?” sbraita la signora con i capelli riccioli. Urla così tanto che sono sicuro l'avranno sentita fino in strada. Sembra totalmente impazzita e non accenna ad abbassare il volume della voce. Cerco di mostrarmi il meno nervoso possibile; quella donna grassa mi ricorda quei mostri protagonisti dei libri per bambini che si nutrono della paura e del terrore dei ragazzini. Non devo mostrarmi spaventato o per me sarà la fine. Quella donna sembra poter fare peggio di così. Cerco di mantenere la calma.
“Mi ascolti mi serve solo un nome. E poi la lascerò perdere. Me ne andrò in silenzio e non ci vedremo mai più. Io avrò quel nome e lei tornerà finalmente al suo lavoro e nessuno saprà nulla di questa faccenda. Rimarrà una cosa tra me e lei. E poi-”
“E poi un bel niente! Lei non sa in che guai si sta cacciando? Ma per chi mi ha preso? Ma io chiamo la polizia!” la signora urla e urla così forte che per un attimo mi sento spacciato. Mi raffiguro una vignetta mentale in cui due uomini della sicurezza mi strattonano fuori dell'edificio e mi minacciano di denuncia. Scaccio immediatamente via il brutto pensiero e torno a concentrarmi su quella matrona seduta davanti a me.
“La prego”
“Non se ne parla.”
“Si tratta di una cosa velocissima. Sarà come il nostro segreto. Mi creda, ne ho davvero bisogno. Controlli la mia cartella clinica. Mi chiamo Akira Suzuki. Non è possibile che non ci sia nessuna informazione. Deve esserci. La imploro.”
La signora sbatte così forte la mano sulla scrivania che tutti gli oggetti che si trovano sopra vengono spostati di qualche centimetro. Il piccolo calendario cartaceo cade in terra mentre alcune penne rotolano tristemente verso l'orlo del tavolo e cadono nel cestino.
“Signor Suzuki...Lei è un gran farabutto, ecco cosa! Vuole farmi licenziare! Ma io la caccio fuori a pugni se osa ripresentarsi qui! Ma cosa crede che tutto è lecito nella vita? Che tutte le volte che si chiede qualcosa la si riceve in cambio? Eh ragazzo mio non è così che funziona. Se lo lasci dire da chi ne sa più di lei. Questo non è uno scherzo. Si tratta di documenti seri e protetti da leggi e leggi sulla privacy del singolo utente. Se io esaudissi la sua richiesta, violerei come minimo cinque leggi. Io sono una cittadina onesta! Nella sua cartella clinica non c'è nulla, se ne vada! ” la signora non demorde e a quel punto la vedo alzarsi dalla sedia. La faccia nuovamente paonazza dallo sforzo. Ha urlato così tanto che sicuramente ha perso la voce. “Se ne vada” ripete con voce seria e con un tono duro.
Mi alzo dalla sedia guardando fisso un punto impreciso della stanza. Tossisco forte, ingoio nervosamente e poi la guardo fissa negli occhi.
“Sa cosa le dico? Vaffanculo. Vaffanculo a tutto questo. Ma che cazzo ne sa lei di cosa significa avere una malattia. Cosa ne sa lei della morte. Lei che passa le sue giornate seduta alla sua scrivania con il suo culone appiccicato a quella sedia girevole. Lei non sa niente. E pretende di fare la predica a me? Io le ho chiesto solo un nome, un solo fottuto nome.” dico con un tono di voce decisamente alto. Non mi aspettavo che la mia voce uscisse così decisa ma anche così squillante. Sento di aver parlato in maniera automatica. Ho semplicemente tradotto i miei pensieri in parole. Non ho riflettuto. Ho fatto compiere alle mie frasi un percorso cervello – bocca senza passare dalla coscienza. Probabilmente ho sbagliato e ho solo aggravato la mia situazione ma almeno ora posso ritenermi soddisfatto. Ho speso tutte le mie forze in questa impresa e anche se sto fallendo voglio almeno sapere che ci ho provato fino alla fine.
Mi volto verso la porta e torno sui miei passi. Apro la porta e la chiudo alle mie spalle sbattendola così forte che sento i quadri appesi alle pareti vibrare e inclinarsi dietro di me. Ripercorro il corridoio e mi fermo davanti all'ascensore. Aspetto pazientemente pensando che ormai il mio gioco è finito. Ho provato tutto quello che potevo provare e sono uscito sconfitto. Devo rassegnarmi. In fondo non si può vincere sempre, no? La vita è come un gioco da tavolo: la maggior parte delle volte vinci solo se hai fortuna. Se ti capitano le carte sbagliate, le tessere peggiori del gioco, puoi sforzarti quanto vuoi ma sei destinato a perdere. Io ero destinato a perdere fin dall'inizio. Non dovevo venire qui. Entro in ascensore nella maniera più rapida possibile e tiro fuori il mio iPhone dalla giacca controllando l'orario. Sono le 11.45. Schiaccio il tasto 'zero' alla mia destra. Osservo rassegnato le porte chiudersi, ma in quel momento un piede grosso e appesantito si staglia nel mezzo delle due ante di acciaio riaprendole velocemente.
È la signora grassa con i riccioli. Mi fissa negli occhi. Ha la mente imperlata di sudore e il rossetto sulle labbra leggermente sciolto ai lati della bocca. Sembra aver fatto un grosso sforzo fisico.
“Signor Akira Suzuki aspetti un attimo!” mi dice strattonandomi fuori dall'ascensore. Io la guardo spaesato e cerco di mantenere la calma. Avrei voluto essere fuori dall'edificio in quel momento.
“Vuole denunciarmi? Oppure vuole solo tirarmi un pugno? Preferirei il pugno sinceramente”
“Mi ascolti. Ho dato un'occhiata veloce alla sua cartella clinica. Come previsto non ci sono informazioni dettagliate sul suo donatore. È un maschio, alto 1.62 cm, età compresa tra i 30 e i 35 anni. Non c'è un nome né un indirizzo. Ho solo trovato questa” dice la signora grassa porgendomi una piccola fototessera sciupata e poco nitida. “E' tutto ciò che c'era nella busta della sua cartella.”
Prendo la piccola fototessera e me la infilo nella tasca della giacca assicurandomi che nessuno ci abbia visti. La guardo negli occhi confuso e imbarazzato.
“La ringrazio infinitamente.” dico girandomi verso la rampa di scale.
“Prego signor Suzuki. Ho deciso di aiutarla perchè...ho capito che lei è diverso. In qualche modo mi è simpatico. Mi sono sempre piaciute le persone che lottano per i loro obbiettivi. Lei mi ricorda in qualche modo il mio defunto marito. Era un uomo deciso: aveva dei sogni ed era disposto a tutto pur di realizzarsi. In fondo è così che si dovrebbe vivere no? Non se ne trovano molti come lei.” dice accennando un piccolo sorriso. Ora che si è tranquillizzata non sembra affatto la pazza scatenata di qualche minuto prima. Sembra una nonna o una zia dolce e amorevole che prepara accuratamente il bento per i suoi nipoti. “Ma ora sparisca. Su su, se ne vada il più presto possibile. Non si faccia mai più vedere qui e non ne parli con nessuno. Io e lei non ci siamo mai visti. Addio e buona fortuna con la sua ricerca”
La saluto con un gesto della mano e mi volto percorrendo a velocità sostenuta la rampa di scala in discesa. Scendo velocemente. Percorro le ultime due rampe di scale correndo, passo dalla hall, esco dall'edificio e continuo a correre a perdifiato anche quando mi ritrovo nella strada trafficata della città. Continuo a correre fino alla fermata della metro. Scendo nel sottosuolo e mi guardo intorno. Mi sento come un topo in gabbia. Tuttavia nessuno sa nulla. Non devo tradire le mie emozioni. Eppure sembra che tutti mi stiano fissando e scrutando da capo a piedi. Probabilmente perchè ho i capelli in disordine, così come anche la giacca e la camicia. Mi ricorda quando ero bambino e rubavo qualche pesca al venditore ambulante vicino alla mia scuola elementare. Ero così bravo che nessuno se ne accorgeva, eppure mi sembrava in quel momento che tutte le persone intorno a me mi stessero giudicando e volessero farmi sentire colpevole. Succede spesso di convincerci che le persone ci guardano e critichino ogni singola cosa che facciamo, ma non è così. La verità è che gli esseri umani sono tutti perfettamente egoisti e non hanno tempo da dedicare agli altri, anche se si tratta di uno sconosciuto seduto nel sedile davanti sul treno. Noi ci convinciamo che gli altri passino il loro tempo a commentare i nostri abiti, i nostri capelli, i piercings, i tatuaggi, i nostri lineamenti, il nostro fisico; in realtà nessuno si sofferma veramente a giudicare cosa fanno gli altri.
Nonostante ciò, in questo momento non riesco a togliermi di dosso la sensazione che tutti i passeggeri della metropolitana si siano accorti di quello che ho appena fatto e mi stiano fissando con sguardo indagatore. Cerco di darmi velocemente un contegno, sistemo la camicia e la giacca, e proseguo nel mio cammino. Controllo l'orologio e mi accorgo che tra meno di due ore devo iniziare il turno a lavoro. Decido di fermarmi qualche fermata prima per pranzare in un posto tranquillo. Ho bisogno di riflettere da solo su tutto quello che è appena successo.








 
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Oggi è andato tutto storto. A lavoro mi sono distratto così tante volte che ho rischiato di mandare a fuoco la cucina, ho servito malissimo i clienti e come se non bastasse ho risposto malissimo a Yuu, che in realtà stava solo cercando di aiutarmi. Forse ho davvero bisogno di prendermi una pausa e spacciarmi per malato, così posso chiudermi in casa per un bel po' e smettere di creare problemi alle persone. Non capisco cosa mi è preso. Sono diventato nervoso e irascibile nonostante non siano caratteristiche proprie del mio carattere. Sono una persona molto tranquilla e taciturna, ma oggi avevo davvero i nervi a fior di pelle. Mentre percorro la strada che mi riporta a casa la mia attenzione viene catturata da un insegna rossa che indica un piccolo pizza take away. Mi accorgo di avere una gran fame e di avere tanta voglia di pizza e così entro e ne ordino una da portare via. Non mi ero mai soffermato prima d'ora in un posto simile. Eppure il commesso sembra un tizio gentile, nonostante all'apparenza mi ricordi un otaku. Occhiali da visti spessissimi, capelli neri con un taglio indefinito, un leggero strato di barba, poco curato e con i denti un po' storti. Sembra un ragazzo simpatico e sembra che anche io gli stia simpatico, visto che si sofferma a parlarmi per un buon quarto d'ora. Mi racconta che è strano vedere un uomo in giacca e pantaloni frequentare il piccolo take away, visto che generalmente è frequentato da ragazzi o persone più alla mano. Mi racconta anche che oggi la sua squadra di baseball preferita ha vinto il campionato nazionale. Lo ascolto tutto il tempo, impaziente di ricevere la mia pizza. Alla fine pago e esco. Sono esausto, però parlare con quel ragazzo mi ha aiutato a rilassare i nervi. È molto probabile che abbia bisogno di parlare più spesso di cose così futili. Mia madre me lo ripete spesso. Da quando mi sono ammalato ho messo da parte tutto, sia gli amici che i miei passatempi. Ho abbandonato il calcio, la mia più grande passione, dopo la cucina. Quando avevo vent'anni sapevo anche suonare il basso e se non sbaglio, nel garage della casa di mia sorella dovrei averne ancora uno vecchio e un po' scassato. Quando sono molto nervoso o annoiato recupero il mio basso elettrico personale, acquistato pochi anni fa, con cui mi alleno occasionalmente. Fin da giovanissimi io e Kouyou siamo stati dei grandi appassionati di musica rock e metal. Passavamo le ore nei negozi di dischi a provare ogni tipo di strumento e a sfogliare l'enorme catalogo di vinili di musica progressive rock anni '70. Mi piaceva la musica occidentale, in particolare europea e inglese. Amavo i Sex Pistols e i Ramones, ma non disprezzavo nemmeno qualcosa di più leggero. Per non parlare dei concerti. Io e i miei amici andavamo ogni sabato sera ad un concerto diverso. Nel quartiere dove sono nato e cresciuto c'era un locale, si chiamava 'Bloody Mary', in cui passavo tutti i fine settimane a bere birra e ascoltare band locali suonare. Era piacevole. Fu in quel periodo che scoprii e ampliai i miei gusti sessuali. Mi accorsi di non essere attratto dalle ragazze, o meglio, non solo da esse. Ho avuto qualche cotta ai tempi del liceo per qualche ragazza nella mia stessa classe. Ma tutto cambiò quando incontrai Ryoga. Non sapevo il suo vero nome, non me lo disse mai, ma ricordo tutto di lui. Era un ragazzo bellissimo: portava i capelli rosso fuoco e vestiva sempre in maniera strana e bizzarra. Era molto eccentrico ma se ne fregava dei commenti degli altri. Lo incontrai una volta al Bloody Mary, entrò con un gruppo di suoi amici, anch'essi con i capelli colorati e truccati pesantemente. Io rimasi totalmente colpito da lui. Era bellissimo, alto e con un fisico a dir poco perfetto. Portava dei pantaloni strettissimi che fasciavano il suo fondoschiena. Fu in quel momento che Kouyou mi fece notare che non avevo staccato gli occhi un secondo dalla patta dei suoi pantaloni. Me ne vergognai moltissimo e quando tornai a casa, sulla via del ritorno, mi fermai a comprare una videocassetta ad un distributore di film porno. A casa, nel silenzio e nel buio della mia cameretta accesi la tv e il videoregistratore e mi guardai il film tutto per intero. Alla fine della proiezione capii che ero bisessuale e che avevo perso quasi totalmente l'attrazione verso il gentil sesso. Kouyou mi prendeva in giro dicendomi che ero l'unico essere umano a non essersi eccitato guardando un film porno etero; ma sapevo che sotto sotto anche lui non si sentiva completamente eterosessuale. Un giorno lo scoprii nel retro del locale abbracciato al cantante della band che aveva appena suonato, sembrava molto...contento e non volli disturbarlo, ma nei giorni seguenti fu il mio soggetto preferito su cui scherzare. Alla fine decidemmo di confessarci l'un l'altro: siamo entrambi bisessuali. Ci sentimmo bene in quel momento, come quando si rientra in casa e si appoggiano sul pavimento le valigie pesanti risultato di una lunga vacanza. Fu un grande sollievo per entrambi.
Ryoga è stato il primo uomo della mia vita. Non siamo mai stati fidanzati, anche se io lo desideravo con tutto me stesso. Lui però era una persona vagabonda, passava la maggior parte del suo tempo fuori casa e nei locali. Ogni volta che ci incontravamo lui aveva sempre una birra in mano e un pacchetto pieno di sigarette in tasca. La maggior parte delle cose illegali lui le aveva provate tutte. Una sera mi invitò ad una festa sulla spiaggia insieme ai suoi amici. Ci facemmo una canna insieme e finimmo a baciarci in un luogo appartato. Da quel giorno la cosa si ripeteva normalmente. Ci incontravamo in qualche locale, lui mi portava in bagno e per una ventina di minuti tutto il resto del mondo spariva: eravamo solo io e lui. Lui, tuttavia, era sempre così distante. Appariva nelle mie giornate buie per strapparmi dai miei problemi e scompariva poco dopo nella sua aurea misteriosa. Sapevo pochissimo di lui, eppure lo amavo. Amavo il suo carattere temerario e coraggioso, il suo fregarsene di ogni cosa. Amavo il suo viso dai lineamenti duri e rassicuranti, il suo corpo grosso e tornito. Amavo ogni cosa di lui. Fu il mio primo amore, ma fu anche il primo uomo che mi spezzò il cuore. Successe una domenica sera. Io e Kouyou eravamo arrivati un po' in ritardo al Bloody Mary e la band di supporto aveva già iniziato a suonare. Cercai Ryoga con lo sguardo ma non lo trovai. Decisi di andare in bagno a fare pipì e lo trovai mezzo nudo mentre stringeva tra le braccia un altro ragazzo mingherlino e con i capelli lunghi e pieni di lacca. Sentii lo stomaco rivoltarsi e un grosso senso di nausea si impossessò di me. Tornai nel locale e mi scolai tutte le pinte di birra disponibili. Kouyou dovette portarmi a casa sua perchè aveva paura che avessi fatto qualcosa di strano se mi avesse lasciato da solo. Dopo pochi mesi in cui rinunciai di frequentare quel locale, mi dimenticai completamente di lui. Ripensando a quegli anni, mi sembra come di star raccontando una storia che non mi appartiene, sembra tutto così lontano. Ho sbagliato a mettere tutto da parte quando scoprii di essere malato. Ho sbagliato a dimenticarmi di tutti, persino di me stesso. Forse devo riniziare dalle cose più semplici. Concentrarmi su cose futili e più superficiali.
Salgo veloce le scale di casa mentre ripenso a quello che mi ha detto il commesso della pizzeria. Improvvisamente ho voglia di guardarmi una partita di calcio. Apro la porta di casa. Appoggio la pizza sul tavolo vicino al divano e accendo veloce la televisione mentre mi spoglio. Cerco un canale sportivo e aspetto la fine della pubblicità. Trasmettono una partita di basket, mi accontento. Controllo Keiji e Oscar e rifornisco le loro scorte di cibo.

A fine serata mi accorgo di aver finalmente fatto una cosa normale. Ho mangiato una pizza, mi sono scolato una birra ghiacciata e ho guardato una partita di basket, finendo per addormentarmi sul divano. Forse è così che si sentono le persone normali con una vita normale. Mi alzo svogliatamente per raggiungere la camera da letto. Ma prima di spegnere le luci recupero dal taschino della mia giacca la piccola fototessera che mi ha dato la signora grassa all'ospedale. La osservo. Allora non è stato un sogno. È successo veramente. La ripongo al suo posto senza gettargli nemmeno un'occhiata. Faccio un bel respiro e mi dirigo verso il letto.

















Buona domenica lettori e lettrici  ~ Finalmente siamo entrati nel vivo della storia. Stanno succedendo sempre più cose che scombussolano la quotidianità di Akira. Il nostro protagonista ha raggiunto un obbiettivo importante...ma sarà davvero questa la strada giusta da seguire? E ci riuscirà davvero? Tutto sommato se ci pensate non ha ancora abbastanza informazioni in mano e quindi è ancora tutto in gioco. Inoltre sta facendo una cosa illegale...cosa succederebbe se qualcuno lo scoprisse? Mi piace un sacco mettervi queste pulci nell'orecchio così passate le giornate(?) a pensare a cosa potrà succedere <: Inoltre stiamo scoprendo sempre più cose sul passato di Akira e su come era la sua vita da ragazzo e prima della malattia. Nella mia mente Ryoga è un ragazzo bellissimo ;; con i capelli coloratissimi e vestito con abiti di pelle nera...l'uomo perfetto insomma. Tra pochi capitoli avremo l'occasione di conoscere anche Kouyou, visto che ormai è una presenza fissa nella vita del nostro protagonista.
Off topic: questa mattina mi sono svegliata alle 5 perchè il mio telefono non la smetteva di vibrare e---> erano le notifiche dei post dei the gazette perchè uscito il nuovo look e io tipo sono quasi caduta dal letto. Le nuove foto sono bellissime e non so se avete notato che anche Reita sta iniziando a disegnarsi le linee sul collo, come Ruki....non voglio dire Reituki, ma...REITUKI!!!! E quanto è bello il nuovo selfie di Ruki? Ruki è troppo bello per noi esseri umani. Non ce lo meritiamo. Chiudo qui con le mie fangirlate....btw fatemi sapere tutti i vostri dubbi e commenti sul capitolo *_*
   
 
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