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Autore: keska    27/09/2016    2 recensioni
Capitoli EXTRA della storia "CULLEN'S LOVE".
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE '
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15 Luglio 2010. Il giorno inizia così…

 

«Bella, tesoro? Anne si è svegliata, e ha svegliato anche Kate. Fortunatamente sono riuscito a salvare Juliet, che dorme ancora beatamente. Ma Anne vorrebbe davvero mangiare». Sbirciai meglio sul letto e mi resi conto che mia moglie non era fra le lenzuola. Mi volsi verso la porta del bagno, accostata.

Era lì, a fissare lo specchio. I capelli erano arruffati sul viso pallido e segnato dalle occhiaie. Le bambine ci davano ancora notevoli preoccupazioni, soprattutto la notte, e no, crescere dei gemelli insieme a due fratellini così piccoli non era la cosa più semplice del mondo. Quello che mi colpì fu il suo sguardo, liquido, quasi lucido, a fissare il suo corpo nudo. Il seno gonfio e le pelle morbida e lievitata, come pasta di pane avvolta da una tiepida coperta, sui fianchi e la pancia.

«Bella» la richiamai, aprendo la porta.

Si volse di scatto, sussultando. «Sì, scusa, scusami. Umh… io… stavo per fare una doccia, ti serve qualcosa?» fece velocemente, prendendo un accappatoio per coprirsi.

Sorrisi, avvicinandomi e baciandole le labbra. Forse si sarebbe sentita meglio se le avessi detto qualcosa? Anche se forse era una bugia? Era vero, prima era più magra e soda, ma non era la bellezza fisica quella che donava luce all’amore per mia moglie, non quando eravamo andati così oltre da imparare a conoscere la nostra anima. «Anne ha bisogno di mangiare. Ma fai pure, vieni quando finisci. Ce la caveremo io e Kate insieme».

Annuì, entrando velocemente nel box doccia. «Faccio presto» cincischiò velocemente sulle labbra.

Abbassai le spalle, chiedendomi per un attimo se dovessi aggiungere altro. Mi voltai, uscendo dalla stanza, e proprio quando avevo una mano sulla porta rimasi fulminato dal suono di un singhiozzo. Era mia moglie?

Tre istanti più tardi iniziò a piangere Juliet. E poi Mark. E Anne. E Kate si mise ad urlare.

 

«Shh… va bene, va bene. Mangiate, su, no, non vi agitate» mormorò velocemente Bella, tenendo entrambe le bambine con le braccia per allattarle al seno.

«Mark, quale colore vuoi?» domandai al bambino, non smettendo di dare un occhio a mia moglie e di preparare il pranzo.

«Bu!».

«No, il blu lo ‘oglio io» ribatté perentoria Kate, usando il braccio non steccato per rivendicare i suoi diritti sul colore.

«E io non voglio litigi. Lo usate un po’ per uno e pure poco, che fra un po’ si mangia» li rabbonii, mescolando il sugo.

«Oddio!» esclamò Bella improvvisamente, singhiozzando forte. «Oddio ti prego Edward, toglile, toglile!».

I bambini si voltarono spaventati nella sua direzione. Non avevano mai visto la madre piangere. Anche le due piccole che teneva in braccio, all’apparenza perfettamente sane, scoppiarono in un pianto disperato sentendo la tensione della madre. Aveva il volto tirato, pallido, preda della paura. Non l’avevo mai vista così.

Mi avvicinai velocemente, prendendo le piccole in braccio, ma non feci in tempo a capire cosa fosse accaduto che si alzò, sgattaiolando velocemente nella sua stanza.

«Mamma» balbettò Mark, sollevandosi sulle gambine per andarle dietro. La porta della nostra stanza sbatté con forza, facendolo bloccare al centro del salone, spaventato, e cadere indietro sul sedere.

Suonarono alla porta.

 

«E menomale che sono arrivati i rinforzi, Edward! Il sugo stava per bruciarsi. Oh, ma guarda! La vostra casa è un vero macello. Cosa fareste senza di noi?» esclamò Alice sollevando gli occhi al cielo.

Rosalie mi sventolò una tutina rosa davanti al viso. «Dove sono i pannolini? Lo sai che Juliet va cambiata? Puzza».

«Mark, Kate! Ho portato una nuova mazza da baseball, che dite se la proviamo?».

«Sììì, zio Emm!».

«Edward» mi richiamò Jasper, osservandomi attentamente. «Edward, che ti succede? Sembri pensieroso».

Scossi il capo, deglutendo. Posai la piccola Anne nella sua culletta. Quelle due piccole gocce d’acqua delle nostre figlie erano incantevoli. Vagì, dimenandosi appena. Era minuscola, una neonata di due settimane.

«È per via di Bella?» domandò ancora Jasper. «Non sembra stare bene» constatò, corrugando la fronte al sentire le sue emozioni.

«Già» sospirai appena con un fremito. Ero stato io ad insistere per volere tutto quello. Avevo forse sbagliato? Ero stato egoista a desiderare una famiglia, la più grande che potessi avere, anche a costo di mettere a repentaglio la salute fisica e psichica di mia moglie? Forse… Forse avrei davvero dovuto dire basta. Non appena avesse voluto smetterla con l’allattamento l’avrei trasformata, così non si sarebbe più preoccupata del suo corpo e sarebbe stata abbastanza forte per non preoccuparsi di badare al meglio ai suoi figli.

Ma potevo davvero essere così codardo?

«Dovrei andare da lei» mormorai esitante.

Gli occhi profondi di mio fratello scavarono nella mia anima. «Ma hai paura. È comprensibile. E ti senti in colpa».

Sospirai. Parlare con Jasper mi causava sempre una certa emicrania. «È a causa mia se non si piace più. Ed è colpa mia che ho insistito…».

«Edward, non fare lo stupido, non lo sei» mi riprese pacatamente Jasper. «Va da lei, dille una bugia. Anche più di una, se servirà. Falla sentire bella, brava, capace e amata. Credo che ne abbia bisogno».

Sospirai, poi annuii. Probabilmente avevo fatto un errore di valutazione: non bastava sapere di amarla, se non glielo ricordavo ogni giorno, specialmente nei momenti più difficili.

Andai in camera, e la trovai che fissava la porta, gli occhi fissi e rossi, gonfi, un fazzolettino piegato premuto sulle labbra. Smisi inconsciamente di respirare, e andai a sedermi sul materasso, accanto a lei. La circondai con le braccia, e automaticamente riprese a piangere. Le baciai il capo. «Bella, amore, cosa c’è che non va?».

Scosse la testa, nascondendo il volto sul mio petto e singhiozzando. Questo non mi avrebbe portato a nulla.

«I bambini sono di là» provai, incerto, tentando di misurare le parole «ci sono Alice, Emmett, Rosalie e Jasper. Ci stanno pensando loro».

Scattò in alto con la testa, allontanandosi dal mio corpo e nascondendo il capo fra le ginocchia, piegate al petto. «Vai da loro. Non devi restare a consolarmi. Vattene» singhiozzò, la voce ovattata.

Deglutii. Era peggio di quanto credessi. Provai ad abbracciarla ancora, con cautela, sperando che non mi allontanasse. Sfregai la guancia contro la sua. «Voglio rimanere qui con te. Abbiamo avuto così poco tempo insieme, ultimamente».

Sollevò il viso sul mio. Era completamente bagnato di lacrime, pallido, e striato di rosso. Le ciocche di capelli scendevano sul viso in ogni direzione. Era straziata. «Sono pessima, Edward. Non ce la faccio» fece, ricominciando a piangere «non posso crescere quattro figli. Non ho che cominciato a mettere al mondo le ultime due, e già Kate si era rotta un braccio. Loro mi chiamano, dicono che hanno bisogno di me, vogliono giocare con la mamma, vogliono allattare, mangiare, essere puliti, lavati, vogliono parlarmi… e io non posso accontentarli tutti! Non posso!» urlò, stringendo con i pugni la mia maglietta.

Le accarezzai una guancia, colpito dalla sua veemenza. «Ma ci sono io, tesoro. E i bambini stanno bene. E sai anche che possiamo contare sulla mia famiglia, su tuo padre…».

«Che razza di madre sarei, allora? Sono i miei figli. E se sono miei non significa solo che devo limitarmi a metterli al mondo… e che devo, devo…» singhiozzò, tanto da farsi mancare il fiato.

«Shh, vieni qui» mormorai, stringendola facilmente a me e portandola contro il mio corpo. La lasciai piangere, la accarezzai, la cullai, perché non sapevo cos’altro fare. Parlando avrei potuto farla acquietare o urlare ancora.

«Sono una pessima madre…» mormorò dopo parecchi minuti contro la mia camicia zuppa.

Le sorrisi. «Abbiamo già avuto questa discussione, ricordi? Sei brava. I bambini ti amano, e farti aiutare non sminuisce di certo il tuo ruolo. Ti dedichi anima e corpo a loro, te l’ho sempre visto fare. Non ti addormenti se non sei stremata, con la mano di Mark nella tua o Anne che ancora ti succhia il seno».

Mossa perfetta. Mi lanciò una breve occhiata, appena sconsolata, prima di abbassare ancora il viso. Sussurrò con voce bassissima: «Sono brutta».

Le presi il viso in una mano, costringendola a guardarmi. «Non lo sei affatto. Conosco il tuo cuore, ed è bellissimo». Mossa sbagliata.

Allontanò la mia mano con uno schiaffetto, riprendendo a singhiozzare. «Non è nel cuore che voglio essere bella, voglio esserlo davvero!» esclamò, sollevandosi velocemente in piedi «Voglio essere magra come prima, senza la pelle floscia, senza le smagliature, senza le cicatrici… invece sono orrenda» singhiozzò, nascondendosi il volto con le mani.

Annaspai, sconcertato dal suo grado di incontentabile disperazione. Mi sollevai, ad andai a stringerla fra le braccia, ancora. La baciai con forza. «I bambini ti amano, io ti amo. E sei bellissima» le sussurrai contro il viso, baciandola ancora.

Si staccò dopo pochi secondi, restituendomi la stretta sul corpo. «È per me che voglio essere bella, non capisci?» mormorò contro il mio torace. «Sono una moglie, una madre, ma voglio essere anche una donna» confessò, come se si sentisse infinitamente in colpa.

E i cocci si ricongiunsero nella mia mente. Si odiava per non potersi dedicare completamente ai figli, e contemporaneamente, ancor di più per voler avere del tempo da destinare a sé stessa.

La strinsi, la baciai. Dalla tempia, alla guancia, alla bocca. La feci stendere sul letto. Le accarezzai la pelle morbida e feci vibrare le palpebre, colto da un brivido. «Non esiste niente di più soffice» le soffiai sulla pancia, la maglietta sollevata.

I suoi occhi, ancora rossi e gonfi, mi fissarono stupiti e lucidi. «Edward…» balbettò.

Le accarezzai i fianchi scoperti, con entrambe le mani, e poi le cosce, baciandole ancora la pancia, attento ad essere estremamente delicato, più del solito. Le sfilai la maglietta, osservando il seno morbido e gonfio trattenuto dal reggiseno da allattamento. Le sorrisi. «Sei la mia donna preferita. Molto, molto sensuale. Perché mi piace quello che vedo» mormorai, abbassando lo sguardo sul suo petto.

Sorrise, un piccolo e breve sorriso timido. Poi strinse le mani nei miei capelli. «Non possiamo, Edward. È troppo presto» mormorò, arrossendo appena e dandomi un piccolo sorriso triste e incerto, asciugandosi le lacrime dagli occhi.

Annuii. «Lo so, anche se vorrei tanto» sussurrai, sfregando il mio inguine contro il suo. «Ma voglio stare con te ugualmente» continuai, intenzionato ad accarezzarla, baciarla, amarla, abbracciarla, e poi di nuovo baciarla e accarezzarla, finché tutti i suoi brutti pensieri non fossero scomparsi.

 

27 Agosto 2010. In cortile.

 

Bella aveva auto una forma di depressione abbastanza grave da essere diagnosticata, dopo la nascita delle gemelline. Era stata triste, sconfortata, angosciata. Era normale, dopotutto, dopo l’orda di ormoni che negli ultimi anni aveva tempestato il suo corpo e dopo che le due piccine le erano state in grembo per tutto quel tempo.

Adesso, a due mesi dalla nascita delle gemelle, aveva ormai recuperato. Cullai Juliet con un braccio, pulendole le bavette dalla bocca. Identica alla gemella aveva gli occhi verdi, com’erano stati i miei. Le accarezzai i capelli e fece una smorfia simile ad un sorriso, accompagnata da un gorgoglio contento. Sollevai lo sguardo, tenendo d’occhio Mark che giocava nella sabbietta del parco, a pochi metri di distanza dalla panchina dove mi ero sistemato. Aveva un anno e otto mesi, ma ne dimostrava un po’ meno, così che dovevo ben guardarmi dall’essere chiamato padre degenere per lasciarlo così autonomo.

Sorrisi a Juliet, riponendola nella carrozzina accanto alla gemella. «Non mettere la sabbia in bocca, Mark!» lo ammonii, quando vidi che la sollevava con un pugno e la osservava incuriosito.

Sospirai, lasciando andare il capo all’indietro. Mi ero trovato costretto a chiedere un consiglio a Carlisle su mia moglie, ma quello che mi aveva suggerito andava ben oltre l’aspetto medico. Appena potevo le donavo piccoli regalini, cose molto femminili, la esortavo a uscire, con Alice e Rosalie, con la scusa di fare qualcosa per i bambini per farle dedicare un po’ di tempo per sé stessa. La adoravo, la baciavo. Il suo corpo stava cominciando a recuperare, tornando quello di una volta, anche grazie all’allattamento. E un mese prima, avevamo ripreso a fare sesso. Vero sesso. Protetto, perché non mi sarei mai perdonato un’altra gravidanza in quelle circostanze. Fu da quel momento che, piano a piano, notai sensibili miglioramenti.

Ero quindi, ormai, perfettamente tranquillo e più che felice. Sorrisi. L’avevo lasciata a casa con Kate, mentre giocavano nella piscinetta per liberarsi dalla cappa di calura e umidità tipica di Forks nei mesi estivi.

Vibrò il telefono nella tasca. Mi affrettai ad osservare il display, non senza prima lanciare un’occhiata a Mark e le gemelline. Era da casa, osservai con un cipiglio.

«Bella?».

«Edward. Credo che tu debba tornare, è urgente».

 

Bella

 

Mi sventolai con la rigida copertina della rivista che mi aveva portato Edward. La temperatura non era poi tanto alta, al massimo una ventina di gradi, ma l’umidità rendeva l’aria così satura da essere quasi irrespirabile. Mi allungai sulla sdraio, sbadigliando. Era da circa una settimana che le gemelle avevano smesso di darci il tormento, di notte. Abbassai lo sguardo sul seno gonfio, trattenuto a stento dal costume e nascosto sotto il sottile prendisole.

Sospirai, socchiudendo gli occhi e sfiorando le gambe e la pancia. La pelle era ancora tesa e dilatata, ma intanto stava riacquisendo tono, e la pancia era tornata piatta come una volta. Sorrisi appena, pensando a Edward e quello che mi aveva promesso per quella serata. Arrossii appena, più che per il pudore per l’eccitazione, lasciando istintivamente dischiudere le labbra.

Era uscito con i bambini, portandoli al parco, per lasciarmi un po’ di tempo per riposarmi, visto che la notte ero l’unica capace di nutrire le bambine. Più tardi magari avrei potuto usare un po’ il tiralatte, anche perché in quelle condizioni il seno - per quanto era gonfio - non sarebbe potuto nemmeno essere sfiorato, pensai con una smorfia. Kate, stranamente, non era voluta andare con il padre a giocare. Lui aveva cercato di convincerla, invogliandola con il miraggio di un pomeriggio all’aperto, ma la bambina non aveva desistito.

«Lasciala stare con me» avevo detto ad Edward, desiderosa di trascorrere un po’ di tempo sola con la mia bimba più grande «possiamo giocare con la piscinetta, che ne dici?» le avevo chiesto, accarezzandole i capelli mori, come i miei.

La bambina aveva annuito, stringendosi alla mia gamba. Avevo sempre paura di trascurarla, considerandola già grande ed autonoma. Ma, dopotutto, aveva poco più che tre anni. Edward provava a leggerle i pensieri, ma più cresceva più imparava a nasconderli, rendendo più arduo il nostro compito.

Mi feci ancora aria, sistemandomi il cappello sulla testa per ripararmi dal sole, e mi chinai sul tavolino a prendere la limonata ghiacciata.

Un urlo mi fece trasalire, costringendomi ad alzarmi con un balzo dalla sedia, gli occhi sgranati. Mi guardai velocemente attorno, in cerca della bambina. Il cuore mi pompava velocemente nel petto. No, no, no. Le avevamo appena tolto il gesso. No.

«Kate? Katherine?» la chiamai agitata, guardandomi attorno nel cortile.

Dopo pochi secondi la vidi sgambettare verso di me, in direzione opposta a quella della piscinetta, con le mani e il viso sporche di sangue. Piangeva, disperata, il viso rosso. Le corsi incontro afferrandole immediatamente le piccole mani e osservandole, in cerca di tagli e lesioni, per poi passare al viso, le labbra, la bocca e i denti, ignorando i crampi allo stomaco.

Raggelai quando mi resi conto che non era il suo sangue. Un piccolo ciuffetto bianco era vicino all’angolo della bocca.

Presi alcuni abbondanti respiri, metabolizzando la cosa. Kate continuava ad urlare, sconvolta, tremando. Me la strinsi al petto, prendendola fra le braccia e sollevandola. Si strinse forte a me, estendendo immediatamente il suo scudo attorno a noi.

Le accarezzai la testa, dirigendomi all’interno della casa. Scoccai una veloce occhiata alla mia destra, dove giaceva la piccola palla di pelo bianco che era stato il nostro coniglietto domestico. «Shh, amore, non è successo niente» la rassicurai, cullandola.

Prima lavarla o chiamare Edward? Presi la decisione un secondo dopo, spinta dal pianto interminabile della bambina. Prima lavarla. Non volevo che rimanesse con il sangue appiccicato sulla faccia, o che si allarmasse vedendomi allontanare da lei, anche se per poco.

La posai sul fasciatoio per spogliarla. Convincerla a separarsi da me, anche solo per pochi secondi, fu davvero difficile. «Su, amore, solo un attimo» la consolai, «ci togliamo questi brutti vestiti sporchi e ci facciamo un bel bagnetto. Solo un attimo Katie, te lo prometto».

Quando la immersi nell’acqua tiepida e profumata tremava, gli occhi ampi. La tenni stretta con un braccio al mio petto, non curandomi affatto di bagnare il prendisole. Con una mano a coppa portai l’acqua a sciacquarle il volto più e più volte, dolcemente, accarezzandola, finché non fu perfettamente pulita. La avvolsi in un telo morbido di bucato, strofinandola per infonderle calore, mentre intanto tremava.

Decisi che quello era il momento di chiamare Edward. Tenendomela stretta al petto mi avviai in soggiorno, presi il cordless e composi il suo numero. Mentre aspettavo che rispondesse ondeggiai dolcemente sul posto, cullando la bambina.

«Bella?».

«Edward. Credo che tu debba tornare, è urgente» risposi immediatamente, pur senza mettere paura o allarmismo nella voce. Non volevo che Kate ne fosse turbata.

«Cos’è successo?» rispose Edward, evidentemente agitato. «Kate si è fatta male? Tu stai male? C’è qualcuno lì con te?».

La piccola si lamentò e gemette fra le mie braccia, rivolgendomi l’ennesimo sguardo angosciato che mai un bambino dovrebbe avere. «Shh, è tutto okay, tesoro» la tranquillizzai, cullandola, prima di rivolgermi di nuovo a Edward «non è niente di così grave. Devi solo tornare presto, va bene? Ti spiegherò quando sarai qui» sottolineai piano, sperando che capisse che non avevo intenzione di parlarne e che avessi dei buoni motivi per farlo.

«Sarò lì fra un quarto d’ora al massimo. Sono già in auto».

Sospirai, richiudendo la chiamata e avviandomi verso la nursery. Posai Kate sul fasciatoio, dove rimase sempre avvinghiata a me. A fatica le infilai un body pulito e un pigiamino, poi la misi seduta con le gambine penzoloni sul fasciatoio. «Così, abbraccia forte la mamma. Posa la testolina qui e chiudi gli occhi» feci, guidandole il capo sul mio petto. Accesi il phon ad una temperatura che non fosse troppo alta e cominciai ad asciugarle ed accarezzarle i capelli morbidissimi di bambina.

Quando Edward arrivò, dieci minuti più tardi, Kate aveva gli occhi socchiusi e mi stava attaccata, stesa su di me, sul divano. Ancora non dormiva. Avevamo preso in considerazione che un momento del genere arrivasse, ma non per questo mi sentivo più preparata. Come spiegare a mia figlia che era normale che le potesse venire voglia di succhiare il sangue al nostro animaletto domestico? Povera piccina, chissà quanto era turbata.

«Bella?» mi chiamò Edward entrando nella stanza, gli occhi ampi. «Che succede?».

Mi portai l’indice sulle labbra, invitandolo al silenzio. Abbassai lo sguardo sulla bambina, poi picchettai col palmo sul posto accanto al mio. Sospirò, turbato, venendo a sedersi accanto a me. «Dove sono i bambini?» domandai con calma.

«Le gemelle dormono, Mark è nel seggiolone, in auto. Cosa succede?» incalzò, impaziente.

«E l’hai lasciato lì? Edward!» protestai.

Mi liquidò con un gesto della mano. «Starà bene per cinque minuti. Bella».

Sospirai, scuotendo appena il capo e continuando ad accarezzare la bambina. «C’è stato un piccolo incidente con Barnie» mormorai pianissimo, guardandolo negli occhi.

Aggrottò le sopracciglia, perplesso. «Barnie?».

Annuii. «Il coniglio, Edward» sottolineai eloquentemente, passandomi la lingua sui denti.

Batté le palpebre, confuso, osservandomi. Poi spostò lo sguardo sulla bambina, che non si era ancora addormentata. Speravo che fra i suoi pensieri potesse trovare la soluzione che gli avrebbe fatto comprendere. Cacciò un respiro secco, poi rilassò le spalle. «Capisco» mormorò, chinandosi a raccoglierla fra le braccia. Protestò debolmente, poi si avvinghiò al padre come aveva fatto con me pochi secondi prima. La sostenne con un braccio sotto il sederino e uno sulla testa. «Vieni, amore di papà. Vuoi vedere una cosa?» le domandò, sfregando il viso contro il suo per costringerla a guardarlo.

Kate cominciò a singhiozzare, ancora.

«Shh, è tutto passato. Vieni qui» mormorò, cullandola fino a portarla in camera.

«Ti raggiungo subito, vado a prendere i bambini» feci velocemente, sollevandomi in piedi.

Fece un cenno, chiudendosi la porta della nostra stanza alle spalle.

 

«Papà va nei boschi a mangiare, lo sai, vero? È normale, piccolina, siamo tutti diversi» le spiegai, guardandola negli occhi ampi e rossi.

«A te piacciono le caramelle al limone e a Mark piacciono quelle alla fragola. Se a tutti piacessero le stesse caramelle si finirebbero subito e non ci sarebbero più caramelle».

Sollevai un sopracciglio, voltandomi a guardare Edward. Scrollò le spalle, indifferente. Avevo messo a dormire le gemelline nella loro culletta, ed ero rimasta con Mark per mezz’ora finché non era crollato addormentato anche lui. Ero entrata in camera che mio marito aveva appena finito di calmare la bambina.

Kate tirò su con il naso, tremando.

Scoccai un’occhiata preoccupata a Edward. Sospirò. «Amore» la chiamò, accarezzandole i capelli e facendola voltare nella sua direzione. «Vuoi venire con papà stasera? Facciamo un giro nei boschi insieme, vuoi? Ci divertiamo. Giochiamo a chi prende più animali, va bene?».

Gli strofinai il braccio. «Ce la fai?» domandai a bassa voce, incerta, «Porta qualcuno con te».

Annuì, riportando l’attenzione sulla bambina. «Viene anche zio Emm e forse zia Alice. Possiamo formare due squadre e vedere chi vince, vuoi Katie?».

Ci guardò silenziosa. «Posso stare con te?» domandò piano a Edward.

Le sorrise. «Certo, Katie. Vedrai, non ci batterà nessuno».

La bambina annuì, piano, stringendosi al collo del padre.

Sospirai, lasciandomi andare sul letto, un secondo prima che dal ricevitore si alzassero dei vagiti. «È l’ora della poppata di Anne, vado io. Tu… emhoccupati  del cortile» feci con una smorfia.

Edward scoppiò a ridere. «Schizzinosa come sempre» sussurrò al mio orecchio, evitando di poco una meritata pacca scherzosa.

 

 

Ciao a tutti!

Mi dispiaceva troppo lasciare questi extra a metà, quindi anche se dopo tanto tempo termino con la pubblicazione. Mancano ancora un paio di extra.

Un abbraccio affettuoso e nostalgico.

Francesca

   
 
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