15
Luglio
2010. Il giorno inizia così…
«Bella, tesoro? Anne si
è svegliata, e ha svegliato
anche Kate. Fortunatamente sono riuscito a salvare Juliet,
che dorme ancora beatamente. Ma Anne vorrebbe davvero
mangiare». Sbirciai
meglio sul letto e mi resi conto che mia moglie non era fra le
lenzuola. Mi
volsi verso la porta del bagno, accostata.
Era lì, a fissare lo
specchio. I capelli erano
arruffati sul viso pallido e segnato dalle occhiaie. Le bambine ci
davano
ancora notevoli preoccupazioni, soprattutto la notte, e no, crescere
dei
gemelli insieme a due fratellini così piccoli non era la
cosa più semplice del
mondo. Quello che mi colpì fu il suo sguardo, liquido, quasi
lucido, a fissare
il suo corpo nudo. Il seno gonfio e le pelle morbida e lievitata, come
pasta di
pane avvolta da una tiepida coperta, sui fianchi e la pancia.
«Bella» la
richiamai, aprendo la porta.
Si volse di scatto, sussultando.
«Sì, scusa, scusami. Umh…
io… stavo per fare una doccia, ti serve qualcosa?»
fece velocemente, prendendo un accappatoio per coprirsi.
Sorrisi, avvicinandomi e baciandole
le labbra. Forse
si sarebbe sentita meglio se le avessi detto qualcosa? Anche se forse
era una
bugia? Era vero, prima era più magra e soda, ma non era la
bellezza fisica
quella che donava luce all’amore per mia moglie, non quando
eravamo andati così
oltre da imparare a conoscere la nostra anima. «Anne ha
bisogno di mangiare. Ma
fai pure, vieni quando finisci. Ce la caveremo io e Kate
insieme».
Annuì, entrando
velocemente nel box doccia. «Faccio
presto» cincischiò velocemente sulle labbra.
Abbassai le spalle, chiedendomi per
un attimo se
dovessi aggiungere altro. Mi voltai, uscendo dalla stanza, e proprio
quando
avevo una mano sulla porta rimasi fulminato dal suono di un singhiozzo.
Era mia
moglie?
Tre istanti più tardi
iniziò a piangere Juliet.
E poi Mark. E Anne. E Kate si mise ad urlare.
«Shh…
va bene, va bene.
Mangiate, su, no, non vi agitate» mormorò
velocemente Bella, tenendo entrambe
le bambine con le braccia per allattarle al seno.
«Mark, quale colore
vuoi?» domandai al bambino, non
smettendo di dare un occhio a mia moglie e di preparare il pranzo.
«Bu!».
«No, il blu lo ‘oglio io»
ribatté
perentoria Kate, usando il braccio non steccato per rivendicare i suoi
diritti
sul colore.
«E io non voglio litigi.
Lo usate un po’ per uno e
pure poco, che fra un po’ si mangia» li rabbonii,
mescolando il sugo.
«Oddio!»
esclamò Bella improvvisamente, singhiozzando
forte. «Oddio ti prego Edward, toglile, toglile!».
I bambini si voltarono spaventati
nella sua direzione.
Non avevano mai visto la madre piangere. Anche le due piccole che
teneva in
braccio, all’apparenza perfettamente sane, scoppiarono in un
pianto disperato
sentendo la tensione della madre. Aveva il volto tirato, pallido, preda
della
paura. Non l’avevo mai vista così.
Mi avvicinai velocemente, prendendo
le piccole in
braccio, ma non feci in tempo a capire cosa fosse accaduto che si
alzò,
sgattaiolando velocemente nella sua stanza.
«Mamma»
balbettò Mark, sollevandosi sulle gambine per
andarle dietro. La porta della nostra stanza sbatté con
forza, facendolo
bloccare al centro del salone, spaventato, e cadere indietro sul
sedere.
Suonarono alla porta.
«E menomale che sono
arrivati i rinforzi, Edward! Il
sugo stava per bruciarsi. Oh, ma guarda! La vostra casa è un
vero macello. Cosa
fareste senza di noi?» esclamò Alice sollevando
gli occhi al cielo.
Rosalie mi sventolò una
tutina rosa davanti al viso.
«Dove sono i pannolini? Lo sai che Juliet
va
cambiata? Puzza».
«Mark, Kate! Ho portato
una nuova mazza da baseball,
che dite se la proviamo?».
«Sììì,
zio Emm!».
«Edward» mi
richiamò Jasper, osservandomi
attentamente. «Edward, che ti
succede?
Sembri pensieroso».
Scossi il capo, deglutendo. Posai
la piccola Anne
nella sua culletta. Quelle due piccole gocce d’acqua delle
nostre figlie erano
incantevoli. Vagì, dimenandosi appena. Era minuscola, una
neonata di due
settimane.
«È
per via di
Bella?» domandò ancora Jasper.
«Non
sembra stare bene» constatò, corrugando
la fronte al sentire le sue
emozioni.
«Già»
sospirai appena con un fremito. Ero stato io ad
insistere per volere tutto quello. Avevo forse sbagliato? Ero stato
egoista a
desiderare una famiglia, la più grande che potessi avere,
anche a costo di
mettere a repentaglio la salute fisica e psichica di mia moglie?
Forse… Forse
avrei davvero dovuto dire basta. Non appena avesse voluto smetterla con
l’allattamento l’avrei trasformata, così
non si sarebbe più preoccupata del suo
corpo e sarebbe stata abbastanza forte per non preoccuparsi di badare
al meglio
ai suoi figli.
Ma potevo davvero essere
così codardo?
«Dovrei andare da
lei» mormorai esitante.
Gli occhi profondi di mio fratello
scavarono nella mia
anima. «Ma hai paura. È
comprensibile. E
ti senti in colpa».
Sospirai. Parlare con Jasper mi
causava sempre una
certa emicrania. «È a causa mia se non si piace
più. Ed è colpa mia che ho
insistito…».
«Edward, non fare lo
stupido, non lo sei» mi riprese
pacatamente Jasper. «Va da lei, dille una bugia. Anche
più di una, se servirà.
Falla sentire bella, brava, capace e amata. Credo che ne abbia
bisogno».
Sospirai, poi annuii. Probabilmente
avevo fatto un
errore di valutazione: non bastava sapere di amarla, se non glielo
ricordavo
ogni giorno, specialmente nei momenti più difficili.
Andai in camera, e la trovai che
fissava la porta, gli
occhi fissi e rossi, gonfi, un fazzolettino piegato premuto sulle
labbra. Smisi
inconsciamente di respirare, e andai a sedermi sul materasso, accanto a
lei. La
circondai con le braccia, e automaticamente riprese a piangere. Le
baciai il
capo. «Bella, amore, cosa c’è che non
va?».
Scosse la testa, nascondendo il
volto sul mio petto e
singhiozzando. Questo non mi avrebbe portato a nulla.
«I bambini sono di
là» provai, incerto, tentando di
misurare le parole «ci sono Alice, Emmett,
Rosalie e
Jasper. Ci stanno pensando loro».
Scattò in alto con la
testa, allontanandosi dal mio
corpo e nascondendo il capo fra le ginocchia, piegate al petto.
«Vai da loro.
Non devi restare a consolarmi. Vattene»
singhiozzò, la voce ovattata.
Deglutii. Era peggio di quanto
credessi. Provai ad
abbracciarla ancora, con cautela, sperando che non mi allontanasse.
Sfregai la
guancia contro la sua. «Voglio rimanere qui con te. Abbiamo
avuto così poco
tempo insieme, ultimamente».
Sollevò il viso sul mio.
Era completamente bagnato di
lacrime, pallido, e striato di rosso. Le ciocche di capelli scendevano
sul viso
in ogni direzione. Era straziata. «Sono pessima, Edward. Non
ce la faccio»
fece, ricominciando a piangere «non posso crescere quattro
figli. Non ho che
cominciato a mettere al mondo le ultime due, e già Kate si
era rotta un
braccio. Loro mi chiamano, dicono che hanno bisogno di me, vogliono
giocare con
la mamma, vogliono allattare, mangiare, essere puliti, lavati, vogliono
parlarmi… e io non posso accontentarli tutti! Non
posso!» urlò, stringendo con
i pugni la mia maglietta.
Le accarezzai una guancia, colpito
dalla sua veemenza.
«Ma ci sono io, tesoro. E i bambini stanno bene. E sai anche
che possiamo
contare sulla mia famiglia, su tuo padre…».
«Che razza di madre
sarei, allora? Sono i miei figli.
E se sono miei non significa solo
che
devo limitarmi a metterli al mondo… e che devo,
devo…» singhiozzò, tanto da
farsi mancare il fiato.
«Shh,
vieni qui» mormorai,
stringendola facilmente a me e portandola contro il mio corpo. La
lasciai
piangere, la accarezzai, la cullai, perché non sapevo
cos’altro fare. Parlando
avrei potuto farla acquietare o urlare ancora.
«Sono una pessima
madre…» mormorò dopo parecchi minuti
contro la mia camicia zuppa.
Le sorrisi. «Abbiamo
già avuto questa discussione,
ricordi? Sei brava. I bambini ti amano, e farti aiutare non sminuisce
di certo
il tuo ruolo. Ti dedichi anima e corpo a loro, te l’ho sempre
visto fare. Non
ti addormenti se non sei stremata, con la mano di Mark nella tua o Anne
che
ancora ti succhia il seno».
Mossa perfetta. Mi
lanciò una breve occhiata, appena
sconsolata, prima di abbassare ancora il viso. Sussurrò con
voce bassissima:
«Sono brutta».
Le presi il viso in una mano,
costringendola a
guardarmi. «Non lo sei affatto. Conosco il tuo cuore, ed
è bellissimo». Mossa
sbagliata.
Allontanò la mia mano
con uno schiaffetto, riprendendo
a singhiozzare. «Non è nel cuore che voglio essere
bella, voglio esserlo
davvero!» esclamò, sollevandosi velocemente in
piedi «Voglio essere magra come
prima, senza la pelle floscia, senza le smagliature, senza le
cicatrici… invece
sono orrenda» singhiozzò, nascondendosi il volto
con le mani.
Annaspai, sconcertato dal suo grado
di incontentabile
disperazione. Mi sollevai, ad andai a stringerla fra le braccia,
ancora. La
baciai con forza. «I bambini ti amano, io ti amo. E sei
bellissima» le
sussurrai contro il viso, baciandola ancora.
Si staccò dopo pochi
secondi, restituendomi la stretta
sul corpo. «È per me che voglio essere bella, non
capisci?» mormorò contro il
mio torace. «Sono una moglie, una madre, ma voglio essere
anche una donna»
confessò, come se si sentisse infinitamente in colpa.
E i cocci si ricongiunsero nella
mia mente. Si odiava
per non potersi dedicare completamente ai figli, e contemporaneamente,
ancor di
più per voler avere del tempo da destinare a sé
stessa.
La strinsi, la baciai. Dalla
tempia, alla guancia, alla
bocca. La feci stendere sul letto. Le accarezzai la pelle morbida e
feci
vibrare le palpebre, colto da un brivido. «Non esiste niente
di più soffice» le
soffiai sulla pancia, la maglietta sollevata.
I suoi occhi, ancora rossi e gonfi,
mi fissarono stupiti
e lucidi. «Edward…» balbettò.
Le accarezzai i fianchi scoperti,
con entrambe le
mani, e poi le cosce, baciandole ancora la pancia, attento ad essere
estremamente delicato, più del solito. Le sfilai la
maglietta, osservando il
seno morbido e gonfio trattenuto dal reggiseno da allattamento. Le
sorrisi.
«Sei la mia donna preferita. Molto, molto sensuale.
Perché mi piace quello che
vedo» mormorai, abbassando lo sguardo sul suo petto.
Sorrise, un piccolo e breve sorriso
timido. Poi
strinse le mani nei miei capelli. «Non possiamo, Edward.
È troppo presto»
mormorò, arrossendo appena e dandomi un piccolo sorriso
triste e incerto,
asciugandosi le lacrime dagli occhi.
Annuii. «Lo so, anche se
vorrei tanto» sussurrai,
sfregando il mio inguine contro il suo. «Ma voglio stare con
te ugualmente»
continuai, intenzionato ad accarezzarla, baciarla, amarla,
abbracciarla, e poi
di nuovo baciarla e accarezzarla, finché tutti i suoi brutti
pensieri non
fossero scomparsi.
27
Agosto
2010. In cortile.
Bella aveva auto una forma di
depressione abbastanza
grave da essere diagnosticata, dopo la nascita delle gemelline. Era
stata
triste, sconfortata, angosciata. Era normale, dopotutto, dopo
l’orda di ormoni
che negli ultimi anni aveva tempestato il suo corpo e dopo che le due
piccine
le erano state in grembo per tutto quel tempo.
Adesso, a due mesi dalla nascita
delle gemelle, aveva
ormai recuperato. Cullai Juliet
con un braccio,
pulendole le bavette dalla bocca. Identica alla gemella aveva gli occhi
verdi,
com’erano stati i miei. Le accarezzai i capelli e fece una
smorfia simile ad un
sorriso, accompagnata da un gorgoglio contento. Sollevai lo sguardo,
tenendo
d’occhio Mark che giocava nella sabbietta del parco, a pochi
metri di distanza
dalla panchina dove mi ero sistemato. Aveva un anno e otto mesi, ma ne
dimostrava un po’ meno, così che dovevo ben
guardarmi dall’essere chiamato
padre degenere per lasciarlo così autonomo.
Sorrisi a Juliet,
riponendola nella carrozzina accanto alla gemella. «Non
mettere la sabbia in
bocca, Mark!» lo ammonii, quando vidi che la sollevava con un
pugno e la
osservava incuriosito.
Sospirai, lasciando andare il capo
all’indietro. Mi
ero trovato costretto a chiedere un consiglio a Carlisle su mia moglie,
ma
quello che mi aveva suggerito andava ben oltre l’aspetto
medico. Appena potevo
le donavo piccoli regalini, cose molto femminili, la esortavo a uscire,
con
Alice e Rosalie, con la scusa di fare qualcosa per i bambini per farle
dedicare
un po’ di tempo per sé stessa. La adoravo, la
baciavo. Il suo corpo stava
cominciando a recuperare, tornando quello di una volta, anche grazie
all’allattamento. E un mese prima, avevamo ripreso a fare
sesso. Vero sesso. Protetto,
perché non mi sarei mai
perdonato un’altra gravidanza in quelle circostanze. Fu da
quel momento che,
piano a piano, notai sensibili miglioramenti.
Ero quindi, ormai, perfettamente
tranquillo e più che
felice. Sorrisi. L’avevo lasciata a casa con Kate, mentre
giocavano nella
piscinetta per liberarsi dalla cappa di calura e umidità
tipica di Forks nei
mesi estivi.
Vibrò il telefono nella
tasca. Mi affrettai ad
osservare il display, non senza prima lanciare un’occhiata a
Mark e le
gemelline. Era da casa, osservai con un cipiglio.
«Bella?».
«Edward.
Credo
che tu debba tornare, è urgente».
Bella
Mi sventolai con la rigida
copertina della rivista che
mi aveva portato Edward. La temperatura non era poi tanto alta, al
massimo una
ventina di gradi, ma l’umidità rendeva
l’aria così satura da essere quasi
irrespirabile. Mi allungai sulla sdraio, sbadigliando. Era da circa una
settimana che le gemelle avevano smesso di darci il tormento, di notte.
Abbassai lo sguardo sul seno gonfio, trattenuto a stento dal costume e
nascosto
sotto il sottile prendisole.
Sospirai, socchiudendo gli occhi e
sfiorando le gambe
e la pancia. La pelle era ancora tesa e dilatata, ma intanto stava
riacquisendo
tono, e la pancia era tornata piatta come una volta. Sorrisi appena,
pensando a
Edward e quello che mi aveva promesso per quella serata. Arrossii
appena, più
che per il pudore per l’eccitazione, lasciando istintivamente
dischiudere le
labbra.
Era uscito con i bambini,
portandoli al parco, per
lasciarmi un po’ di tempo per riposarmi, visto che la notte
ero l’unica capace
di nutrire le bambine. Più tardi magari avrei potuto usare
un po’ il tiralatte,
anche perché in quelle condizioni il seno - per quanto era
gonfio - non sarebbe
potuto nemmeno essere sfiorato, pensai con una smorfia. Kate,
stranamente, non
era voluta andare con il padre a giocare. Lui aveva cercato di
convincerla,
invogliandola con il miraggio di un pomeriggio all’aperto, ma
la bambina non
aveva desistito.
«Lasciala stare con
me» avevo detto ad Edward,
desiderosa di trascorrere un po’ di tempo sola con la mia
bimba più grande
«possiamo giocare con la piscinetta, che ne dici?»
le avevo chiesto,
accarezzandole i capelli mori, come i miei.
La bambina aveva annuito,
stringendosi alla mia gamba.
Avevo sempre paura di trascurarla, considerandola già grande
ed autonoma. Ma,
dopotutto, aveva poco più che tre anni. Edward provava a
leggerle i pensieri,
ma più cresceva più imparava a nasconderli,
rendendo più arduo il nostro
compito.
Mi feci ancora aria, sistemandomi
il cappello sulla
testa per ripararmi dal sole, e mi chinai sul tavolino a prendere la
limonata
ghiacciata.
Un urlo mi fece trasalire,
costringendomi ad alzarmi
con un balzo dalla sedia, gli occhi sgranati. Mi guardai velocemente
attorno,
in cerca della bambina. Il cuore mi pompava velocemente nel petto. No,
no, no.
Le avevamo appena tolto il gesso. No.
«Kate? Katherine?» la
chiamai agitata, guardandomi attorno nel cortile.
Dopo pochi secondi la vidi
sgambettare verso di me, in
direzione opposta a quella della piscinetta, con le mani e il viso
sporche di
sangue. Piangeva, disperata, il viso rosso. Le corsi incontro
afferrandole
immediatamente le piccole mani e osservandole, in cerca di tagli e
lesioni, per
poi passare al viso, le labbra, la bocca e i denti, ignorando i crampi
allo stomaco.
Raggelai quando mi resi conto che
non era il suo
sangue. Un piccolo ciuffetto bianco era vicino all’angolo
della bocca.
Presi alcuni abbondanti respiri,
metabolizzando la
cosa. Kate continuava ad urlare, sconvolta, tremando. Me la strinsi al
petto,
prendendola fra le braccia e sollevandola. Si strinse forte a me,
estendendo
immediatamente il suo scudo attorno a noi.
Le accarezzai la testa, dirigendomi
all’interno della
casa. Scoccai una veloce occhiata alla mia destra, dove giaceva la
piccola
palla di pelo bianco che era stato il nostro coniglietto domestico.
«Shh, amore,
non è successo niente» la rassicurai,
cullandola.
Prima lavarla o chiamare Edward?
Presi la decisione un
secondo dopo, spinta dal pianto interminabile della bambina. Prima
lavarla. Non
volevo che rimanesse con il sangue appiccicato sulla faccia, o che si
allarmasse vedendomi allontanare da lei, anche se per poco.
La posai sul fasciatoio per
spogliarla. Convincerla a
separarsi da me, anche solo per pochi secondi, fu davvero difficile.
«Su,
amore, solo un attimo» la consolai, «ci togliamo
questi brutti vestiti sporchi
e ci facciamo un bel bagnetto. Solo un attimo Katie, te lo
prometto».
Quando la immersi
nell’acqua tiepida e profumata
tremava, gli occhi ampi. La tenni stretta con un braccio al mio petto,
non
curandomi affatto di bagnare il prendisole. Con una mano a coppa portai
l’acqua
a sciacquarle il volto più e più volte,
dolcemente, accarezzandola, finché non
fu perfettamente pulita. La avvolsi in un telo morbido di bucato,
strofinandola
per infonderle calore, mentre intanto tremava.
Decisi che quello era il momento di
chiamare Edward.
Tenendomela stretta al petto mi avviai in soggiorno, presi il cordless
e
composi il suo numero. Mentre aspettavo che rispondesse ondeggiai
dolcemente
sul posto, cullando la bambina.
«Bella?».
«Edward. Credo che tu
debba tornare, è urgente»
risposi immediatamente, pur senza mettere paura o allarmismo nella
voce. Non
volevo che Kate ne fosse turbata.
«Cos’è
successo?»
rispose Edward, evidentemente agitato. «Kate
si è fatta male? Tu stai male? C’è
qualcuno lì con te?».
La piccola si lamentò e
gemette fra le mie braccia, rivolgendomi
l’ennesimo sguardo angosciato che mai un bambino dovrebbe
avere. «Shh,
è tutto okay, tesoro» la tranquillizzai,
cullandola,
prima di rivolgermi di nuovo a Edward «non è
niente di così grave. Devi solo
tornare presto, va bene? Ti spiegherò quando sarai
qui» sottolineai piano,
sperando che capisse che non avevo intenzione di parlarne e che avessi
dei
buoni motivi per farlo.
«Sarò
lì fra un
quarto d’ora al massimo. Sono già in auto».
Sospirai, richiudendo la chiamata e
avviandomi verso
la nursery. Posai Kate sul fasciatoio, dove rimase sempre avvinghiata a
me. A
fatica le infilai un body pulito e un pigiamino, poi la misi seduta con
le
gambine penzoloni sul fasciatoio. «Così, abbraccia
forte la mamma. Posa la
testolina qui e chiudi gli occhi» feci, guidandole il capo
sul mio petto.
Accesi il phon ad una temperatura che non fosse troppo alta e cominciai
ad
asciugarle ed accarezzarle i capelli morbidissimi di bambina.
Quando Edward arrivò,
dieci minuti più tardi, Kate
aveva gli occhi socchiusi e mi stava attaccata, stesa su di me, sul
divano.
Ancora non dormiva. Avevamo preso in considerazione che un momento del
genere
arrivasse, ma non per questo mi sentivo più preparata. Come
spiegare a mia
figlia che era normale che le potesse venire voglia di succhiare il
sangue al
nostro animaletto domestico? Povera piccina, chissà quanto
era turbata.
«Bella?» mi
chiamò Edward entrando nella stanza, gli
occhi ampi. «Che succede?».
Mi portai l’indice sulle
labbra, invitandolo al
silenzio. Abbassai lo sguardo sulla bambina, poi picchettai col palmo
sul posto
accanto al mio. Sospirò, turbato, venendo a sedersi accanto
a me. «Dove sono i
bambini?» domandai con calma.
«Le gemelle dormono, Mark
è nel seggiolone, in auto.
Cosa succede?» incalzò, impaziente.
«E l’hai
lasciato lì? Edward!» protestai.
Mi liquidò con un gesto
della mano. «Starà bene per
cinque minuti. Bella».
Sospirai, scuotendo appena il capo
e continuando ad
accarezzare la bambina. «C’è stato un
piccolo incidente con Barnie»
mormorai pianissimo, guardandolo negli occhi.
Aggrottò le
sopracciglia, perplesso. «Barnie?».
Annuii. «Il coniglio,
Edward» sottolineai
eloquentemente, passandomi la lingua sui denti.
Batté le palpebre,
confuso, osservandomi. Poi spostò
lo sguardo sulla bambina, che non si era ancora addormentata. Speravo
che fra i
suoi pensieri potesse trovare la soluzione che gli avrebbe fatto
comprendere.
Cacciò un respiro secco, poi rilassò le spalle.
«Capisco» mormorò, chinandosi a
raccoglierla fra le braccia. Protestò debolmente, poi si
avvinghiò al padre
come aveva fatto con me pochi secondi prima. La sostenne con un braccio
sotto
il sederino e uno sulla testa. «Vieni, amore di
papà. Vuoi vedere una cosa?» le
domandò, sfregando il viso contro il suo per costringerla a
guardarlo.
Kate cominciò a
singhiozzare, ancora.
«Shh,
è tutto passato. Vieni
qui» mormorò, cullandola fino a portarla in
camera.
«Ti raggiungo subito,
vado a prendere i bambini» feci
velocemente, sollevandomi in piedi.
Fece un cenno, chiudendosi la porta
della nostra
stanza alle spalle.
«Papà va nei
boschi a mangiare, lo sai, vero? È
normale, piccolina, siamo tutti diversi» le spiegai,
guardandola negli occhi
ampi e rossi.
«A te piacciono le
caramelle al limone e a Mark
piacciono quelle alla fragola. Se a tutti piacessero le stesse
caramelle si
finirebbero subito e non ci sarebbero più
caramelle».
Sollevai un sopracciglio,
voltandomi a guardare
Edward. Scrollò le spalle, indifferente. Avevo messo a
dormire le gemelline
nella loro culletta, ed ero rimasta con Mark per mezz’ora
finché non era
crollato addormentato anche lui. Ero entrata in camera che mio marito
aveva
appena finito di calmare la bambina.
Kate tirò su con il
naso, tremando.
Scoccai un’occhiata
preoccupata a Edward. Sospirò.
«Amore» la chiamò, accarezzandole i
capelli e facendola voltare nella sua
direzione. «Vuoi venire con papà stasera? Facciamo
un giro nei boschi insieme,
vuoi? Ci divertiamo. Giochiamo a chi prende più animali, va
bene?».
Gli strofinai il braccio.
«Ce la fai?» domandai a
bassa voce, incerta, «Porta qualcuno con te».
Annuì, riportando
l’attenzione sulla bambina. «Viene
anche zio Emm e forse
zia Alice. Possiamo formare due
squadre e vedere chi vince, vuoi Katie?».
Ci guardò silenziosa.
«Posso stare con te?» domandò
piano a Edward.
Le sorrise. «Certo,
Katie. Vedrai, non ci batterà
nessuno».
La bambina annuì, piano,
stringendosi al collo del
padre.
Sospirai, lasciandomi andare sul
letto, un secondo
prima che dal ricevitore si alzassero dei vagiti.
«È l’ora della poppata di
Anne, vado io. Tu… emh…
occupati
del cortile» feci
con una smorfia.
Edward scoppiò a ridere.
«Schizzinosa come sempre»
sussurrò al mio orecchio, evitando di poco una meritata
pacca scherzosa.
Ciao
a tutti!
Mi
dispiaceva troppo lasciare questi extra a metà, quindi anche
se
dopo tanto tempo termino con la pubblicazione. Mancano ancora un paio
di extra.
Un
abbraccio affettuoso e nostalgico.
Francesca