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Autore: revin    14/10/2016    1 recensioni
La vita da reclusa è molto più dura di quella che Gwen avrebbe potuto immaginare, soprattutto in un penitenziario di massima sicurezza interamente dominato da uomini. Fox River è un inferno al quale sembra impossibile poter sopravvivere. Ma Gwen ha una missione da compiere... la vendetta.
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Michael/Sara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Come ordinato dal direttore Pope, Geary raggiunse la cella 93 e mi scortò personalmente fino alle celle riservate ai detenuti in isolamento, nell’ala sotterranea, buia e terribilmente silenziosa.
Una volta arrivati, procedemmo per un lungo corridoio superando diverse porte, finché all’improvviso il mio accompagnatore in divisa si fermò di fronte ad una pesante porta di ferro massiccio, priva di sbarre, con una bassa apertura rettangolare al centro che poteva essere aperta solo dall’esterno e che al momento era chiusa.
Quando Geary infilò la chiave nel chiavistello per far scattare la serratura, la porta si aprì cigolando greve. Fu allora che lo vidi. Era immerso nella più completa oscurità, seduto a terra, in un angolo, con le ginocchia al petto, le braccia intorno ad esse e gli occhi stretti come quelli di un animale braccato. 
  • Oh Lincoln…  -  mormorai, portandomi una mano alla bocca.
Lo vidi alzare lo sguardo verso di me, ma non ero sicura che mi avesse riconosciuta. C’era troppo buio. 
  • Potreste accendere le luci per favore?  -  chiesi alla guardia.
L’uomo mi rispose con un grugnito.  -  Non è possibile.
  • Il direttore Pope mi ha concesso 5 minuti di visita, potreste almeno accendere una lampadina solo per evitare che mi metta a parlare col muro piuttosto che con quest'uomo.
Geary sbuffò, ma finalmente si decise a collaborare e ordinò alla guardia, in attesa in fondo al corridoio, di accendere la luce nella cella desolata di Lincoln. Nello stesso momento gli porsi i polsi perché mi liberasse dalle manette.
Entrai e la prima cosa che feci fu abbracciare il mio amico dopo che quest’ultimo si fu alzato. Non ci venne lasciata alcuna privacy. Pope aveva ordinato categoricamente che l’incontro avvenisse sotto gli occhi attenti del fedele Geary.
  • Che ci fai qui? Sei venuta per dirmi addio?  -  mi chiese Lincoln con una smorfia.
  • Si, una specie…  -  lo strinsi più forte.  -  … Mi dispiace tanto per quello che è successo.
Ancora non potevo credere di essermi affezionata tanto a quel colosso chiuso e corrucciato.
  • Già, è andata così. Come sei riuscita a convincere Pope a farti scendere quaggiù?
Mi staccai da lui prima di rispondere.  -  Sono stata convincente.
  • Nessuno è così convincente. Non hanno permesso neanche a Michael di vedermi e Pope è uno che rispetta le regole.  -  mi fissò sospettoso.  -  Che cos’hai combinato?
  • Non ho combinato niente. Te l’ho già detto, sono un tipo molto convincente quando m’impegno. Non potevo lasciarti andare senza prima averti salutato. Questa potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo.
Gli sorrisi, sperando che notasse il condizionale all’interno della frase e lo collegasse all’evasione.
  • Tra un minuto esatto si torna in cella, Sawyer!  -  mi ricordò Geary ancora fermo accanto all’entrata.
Decisi di concedermi un ultimo abbraccio, l’ultimo saluto perché Lincoln capisse che gli ero accanto e tifavo per lui e per la riuscita dell’evasione. Prima di staccarmi, gli sussurrai all’orecchio poche parole, cercando di non farmi notare dalla guardia. 
  • Tasca sinistra… Michael dice di prenderla alle 8.  -  per poi concludere a voce più alta  -  Buon viaggio Lincoln, e grazie di cuore per essermi stato amico.
L’uomo rispose piegando l’angolo della bocca in una smorfia, molto vicina ad un sorriso.
  • Grazie a te per avermi creduto.
Ero sicura che avesse capito cosa avevo voluto dirgli o perlomeno che avesse intuito che ci fosse di mezzo lo zampino del fratello. Tutta quella messa in scena era servita affinché io potessi arrivare a Lincoln prima della sua esecuzione e passargli di nascosto una mentina scura che, secondo Michael, avrebbe dovuto far arrivare il fratello in infermeria al momento dell’evasione.
Io avevo portato a termine il mio compito. Adesso era tutto nelle mani di Michael e della fortuna. Dovevo solo trovare il modo per comunicare al ragazzo la riuscita dell’operazione prima che scattasse il secondo turno di lavoro.
  • Capo, potrei avere altri 5 minuti, per favore?  -  chiesi al secondino, dopo aver lasciato le celle sotterranee ed essere risaliti nel Braccio A.
  • Che altro c’è?  -  sbottò scorbutico l’uomo.
  • E’ che stamattina io e il mio gruppo abbiamo fissato le nuove pareti di cartongesso nel magazzino, ma sono stata io a prendere le misure e ho dimenticato di trascriverle.
  • E allora?
  • E allora vorrei passare dalla 40 per ricordarle a Scofield e Sucre, così non dovranno ripetere nuovamente il lavoro e perdere tempo. Purtroppo oggi salterò la prima ora di lavoro per un controllo in infermeria. Per favore. Il capitano Bellick ci ha già rimproverati di metterci troppo tempo, non voglio prendermi un’altra strigliata.
  • D’accordo, ma fa presto.
  • Certo.
Presi le scale e salii fino al piano superiore, dove Michael mi stava aspettando insieme a Fernando, seduto sulla branda più alta. La cella era aperta, come tutte le altre d'altronde. Appena Michael mi vide entrare, la sua espressione si trasformò in una maschera di ansia.
  • Allora?
  • Piano perfettamente riuscito!  -  esclamai soddisfatta, sorridendo sia a lui, sia al suo amico caffelatte.
La maschera di ansia si sciolse.  -  Grazie a Dio! Hai avuto problemi con Pope?
  • Ahm…no, ha acconsentito subito.  -  mentii.
  • Meglio così. E Lincoln come sta?
  • Credo che sia un po’ spaventato, ma sta bene. Adesso posso sapere come avete intenzione di organizzarvi?
  • Cercheremo di prolungare il turno di lavoro per tutta la notte e partiremo dalla stanzetta delle guardie alle 9.  -  mi spiegò sicuro il ragazzo.
Anche questa volta doveva aver calcolato ogni minimo dettaglio.
  • Alle 8 Lincoln ingoierà la mentina e verrà colpito da forti dolori addominali.  -  proseguì.  -  Sospetteranno che si tratti di avvelenamento da cibo e lo lasceranno riposare in infermeria, così quando arriveremo noi, Lincoln sarà già lì e potremo evadere tutti insieme.
  • Sembra un buon piano.
All’improvviso mi resi conto che era arrivato il momento dei saluti e non seppi più cosa dire. Dire addio a Lincoln era stato facile perché sapevo che si sarebbe salvato e che in teoria quella non sarebbe stata la fine, ma adesso che dovevo dire addio anche a Michael, di colpo mi sentivo strana. Ero imbarazzata.
Per un istante restammo a fissarci in silenzio. Sembrava aspettare che dicessi qualcosa; io cercavo di pensare a cosa dire. Poi Fernando con un salto scese giù dalla sua branda e ci fissò entrambi.
  • Ho capito. Tolgo il disturbo.  -  Mi sorrise e lasciò la cella.
La situazione divenne ancora più imbarazzante adesso che io e Michael eravamo rimasti da soli.
  • Beh… ci tengo a dirti che ti sono grato per quello che hai fatto.  -  iniziò.  -  Capisco di averti messa in una situazione scomoda.
  • No, non fa niente… ve lo dovevo… comunque prego.  -  Ero imbambolata dai suoi occhi e mi stavo impappinando a parlare.  -  Spero che vada tutto bene e che Lincoln si salvi… e spero anche che T-Bag inciampi sul filo spinato e precipiti dal muro, ma… per lo più spero che ce la facciate. Perlomeno per Lincoln… e anche per te, certo.
Stavo parlando come una matricola sotto anfetamine. La mia voce suonava stridula persino alle mie orecchie. Dovevo smetterla di dire sciocchezze.
Michael mi rivolse il suo tipico sorriso mozzafiato, capace di fare terra bruciata intorno, e per poco non mi cadde la mascella.
  • Sembra che tu ti sia affezionata molto a Lincoln. Non ti sarai presa una cotta per lui.
Non riuscii neanche ad arrossire per quell’insinuazione che non stava neanche in piedi.
  • No… non è per Lincoln che mi sono presa una cotta.  -  e dopo aver pronunciato l’intera frase, mi resi conto di aver parlato senza pensare e mi sentii un’idiota.
Michael continuò a fissarmi col suo sguardo intenso, dolce, sincero, mentre io ricambiavo con le farfalle allo stomaco in pieno tumulto.
  • Adesso… ehm… devo proprio andare. Buona fortuna.
  • Ciao Gwen. Ci vediamo fuori.
Sarebbe stato bello se il piano avesse funzionato come da copione, ma quella sera il piano non funzionò e me ne resi conto molto velocemente quando alle 10 non sentii ancora scattare gli allarmi di tutto il penitenziario. Il fatto che Fox River fosse immerso nella calma e nel silenzio infondo era un segno positivo, significava che nessun tentativo di evasione fosse ancora stato scoperto, però era anche statisticamente impossibile che le guardie non si fossero ancora accorte della mancanza della grata di ferro alla finestra dell’infermeria.
Esistevano solo due spiegazioni per spiegare quel ritardo: o per qualche motivo il gruppo aveva deciso di rimandare l’evasione, oppure qualcosa era andato storto.
Poi alle 11,05 l’epilogo. Qualcuno fece scattare la serratura nell’entrata ovest del Braccio A. Un secondo dopo, il capitano Bellick, seguito dai 5 operai ancora in tenuta da lavoro, varcarono la porta.
Restai a fissarli senza parole. Era piuttosto chiaro dalla loro presenza lì e dalle loro espressioni deluse e stanche che l’evasione fosse fallita. Che cosa era andato storto? Lincoln non era riuscito ad arrivare in infermeria? Qualcuno li aveva scoperti? Probabilmente no, altrimenti Bellick sarebbe entrato urlando e i 5 uomini sarebbero stati sbattuti in isolamento, e non certo riaccompagnati nelle loro celle con tanto di riguardo.
Non potevo credere che fosse tutto finito in un buco nell’acqua, dopo tutti i preparativi, dopo che ero arrivata addirittura a ricattare il direttore Pope per vedere Lincoln, rischiando di compromettere la mia situazione fin troppo delicata. Cosa ne sarebbe stato adesso di Lincoln?
 
La mattina del 9 Maggio, mi svegliai con una strana inquietudine addosso. Non ero riuscita a chiudere occhio tutta la notte, tormentata dal miliardo e mezzo di domande che mi frullavano in testa e dal pensiero logorante di ciò che sarebbe accaduto l’indomani.
Alle 9 esatte ero schizzata in cortile alla ricerca di Michael per avere delle spiegazioni, ma dopo aver praticamente rivoltato tutto il circondario e l’intero Braccio senza successo, mi ero dovuta accontentare di Charles, seduto sulla sua branda, solo e sconsolato.
  • Avreste già dovuto trovarvi oltre i confini dell’Illinois a quest’ora.  -  esordii, dimenticando tatto e buone maniere.
L’espressione palesemente sconsolata del vecchio non fece una grinza. Sembrava così stanco. Neanche se fosse stato travolto da una mandria di buoi inferociti avrebbe potuto avere aspetto peggiore.
  • C’è stato un problema.  -  disse soltanto.
  • Beh, questo è ovvio. Che cos’è successo?  -  chiesi, sedendogli accanto.
  • Il passaggio sotto l’infermeria, quello che Michael aveva corroso per farci passare, è stato sostituito con un condotto da 7 centimetri e non siamo riusciti a creare nemmeno una crepa. Abbiamo dovuto rinunciare.
  • Com’è possibile che non vi siate accorti della sostituzione?
Non appena formulai la domanda, mi resi conto di averla posta all’uomo sbagliato. Era a Michael che avrei dovuto chiederlo, lui aveva progettato la fuga.
  • Credo… non lo so, probabilmente qualcuno dev’essersi accorto del vecchio condotto danneggiato, richiedendo una sostituzione rapida.
Davvero una bella sfortuna, e dire che erano quasi riusciti nell’impresa.
Per un istante fissai Charles che ricambiò il mio sguardo, preoccupato. Non stava più pensando all’evasione adesso, ma ad un problema molto più urgente. Lincoln.
  • Mancano meno di 15 ore all’esecuzione.  -  constatai pensierosa.
  • Già.
  • Che cosa farà Michael?
  • Credo che stia cercando di prendere tempo.
Mi feci attenta.  -  Come?
Scrollò le spalle.  -  Non so come farà esattamente, ma non è intenzionato a lasciar morire il fratello.
 
Di questo ne ero certa anch’io, ma non contribuiva a sminuire le mie preoccupazioni. Sapevo che Michael non si sarebbe arreso, lui poteva ancora salvare Lincoln… o perlomeno lo speravo.
Ero certa che l’ansia mi avrebbe uccisa.
Alle 21,30, dopo che i detenuti vennero fatti rientrare nelle loro celle e chiusi dentro per la notte, cominciai a farmi prendere dal panico. Non ero riuscita a sapere niente da Michael, niente su Lincoln, e stavo impazzendo. Mancavano soltanto 2 ore e mezza. E se Michael non avesse trovato un modo per fermare l’esecuzione?
Se solo non mi fossi lasciata coinvolgere. A ripensarci, mi sembrava a dir poco impossibile essermi presa tanta pena per un delinquente qualsiasi, conosciuto in carcere, del quale non ero nemmeno sicura fosse innocente. Non ero una grande sostenitrice della pena di morte e probabilmente per questo avrei dovuto provare rabbia, orrore, disgusto. Ma quello che stavo provando in quel momento andava ben oltre la rabbia, l’orrore e il disgusto. Ero chiusa in una cella con delle sbarre all’ingresso, ma mi sentivo ugualmente soffocare, quasi fossi rimasta intrappolata in uno sgabuzzino largo un metro per un metro, privo di luci e di finestre.
Alle 23,30 avevo già percorso la breve distanza che separava le sbarre della porta al lavandino, ben 663 volte. Non potevo restare ferma. Sedermi era fuori discussione. Dormire, un’utopia.
L’ultima mezz’ora fu la peggiore. Cominciai a sudare freddo, poi a spogliarmi per il caldo. Pregai per Lincoln , per finire un minuto dopo ad imprecare contro me stessa e la mia dannata debolezza a lasciarmi coinvolgere. Pregai di nuovo e restai con il fiato sospeso per un lasso di tempo che mi parve infinito, finché l’orologio non segnò mezzanotte e un minuto esatto.
   
 
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