Capitolo 21
Cos’è successo?
I famosi ed estenuanti
allenamenti del Kainan King volsero finalmente al termine e mai come quel
giorno Nobunaga pensò che fossero infiniti. Moralmente a terra come rare volte
accadeva, si asciugò il sudore dalla fronte con la maglietta. Con uno sbuffo,
si tolse la fascia dai capelli e si diresse verso gli spogliatoi per una veloce
doccia. Aveva solo voglia di buttarsi sul divano e trovare conforto in qualche
programma spazzatura in tv per non pensare.
Jin e Maki, che avevano
notato quanto quel suo allenamento fosse stato sottotono, si scambiarono
un’occhiata preoccupati. Abituati com’erano all’esuberanza del loro numero 10,
che da quel punto di vista non aveva nulla da invidiare a quello dello Shohoku,
la situazione era allarmante. L’unica volta in cui l’avevano visto in quelle
condizioni aveva bisticciato malamente con l’attuale ragazza, durante il ritiro
nell’estate appena trascorsa.
«Di qualunque cosa si
tratti, dobbiamo farlo parlare», decretò Shin’ichi, seguendo la scimmietta
della sua squadra. Soichiro annuì con enfasi, soprattutto quando entrarono
negli spogliatoi e non udirono la sua voce stridula cantare sotto la doccia –
abitudine che tutti detestavano e non mancavano di fargli notare.
«Cos’è tutto questo
silenzio?», domandò il Nonno Maki, sfilandosi maglia e pantaloni, prima di
ficcarsi in doccia e finire di spogliarsi. «Kiyota, hai per caso mal di gola?».
«No, Capitano, sto bene»,
replicò mogio quello.
«Allora perché non
canti?», domandò Soichiro.
Da una delle docce, Kazuma Takasago gridò: «Ehi, Jin! Non incoraggiarlo, per
una volta che ci risparmia l’udito!». I compagni scoppiarono a ridere, in
attesa della replica infuocata del loro numero 10, ma quando non arrivò le risa
si spensero.
«Kiyota, sei sicuro di
stare bene?», domandò uno di loro.
«Ho detto di sì»,
ribatté Nobunaga, stanco di quelle domande. «Ho dormito male e sono stanco».
Capendo che non volesse
altre rotture, i ragazzi presero a parlare d’altro, finché tutti non uscirono
dalle docce e si vestirono per andarsene finalmente a casa. Gli unici che
parvero non avere fretta alcuna, furono il Capitano e Soichiro che, mentre
rimettevano le loro cose nei rispettivi borsoni, non tolsero gli occhi di dosso
alla matricola. Fu solo quando rimasero loro tre che decisero di metterlo sotto
torchio.
«Allora, qual è il
problema?», domandò Shin’ichi, avvicinandosi al ragazzo e scompigliandogli i
capelli bagnati. «Perché un problema c’è, non insultarmi con qualche frottola».
Nobunaga arrossì fino
alla punta delle orecchie e s’imbronciò ancora di più. Non voleva far
preoccupare i suoi compagni per le sue seghe mentali, fondate o meno che
fossero.
«Su, Nobu, sai bene che
con noi puoi parlare liberamente, no?», furono le parole di Soichiro, condite
con un rassicurante sorriso.
I due attesero con
pazienza che quello iniziasse a parlare e, dopo un lungo sbuffo, finalmente lo
fece.
«Si tratta di Hicchan».
«Avete litigato?»,
domandò Shin, preoccupato.
Nobu gonfiò le guance. «Non
ancora, ma continuando così non ci vorrà poi molto. È che–», chiuse la zip
della sua borsa, sedendosi per terra a gambe incrociate e mettendosi le mani
tra i capelli neri. «Da quando stiamo insieme quel Rukawa è sempre in mezzo
alle palle e la cosa mi puzza».
Gli altri due si
scambiarono un’altra occhiata.
«Nobunaga, amico mio,
ricordi cosa aveva detto quella ragazza, Ayako, no?», intervenne Soichiro. «Si
conoscono da quando erano bambini, sono amici d’infanzia».
«Altro che amici
d’infanzia!», s’infervorò subito il numero 10. «Quello zitto e addormentato me
la soffia da sotto il naso! Maledetta Volpe!».
Maki incrociò le braccia
al petto, un sopracciglio inarcato con perplessità. «E dimmi, cosa ti fa
credere che la Sakuragi possa lasciarti per lui?».
«Beh, è sempre di quel
dannato Rukawa che stiamo parlando», sbottò Nobunaga, imbronciato. «Quello
piace a tutte».
«E non credi che se così
fosse, lei non avrebbe perso tempo con te?», incalzò il Capitano.
«Già, probabilmente
starebbero insieme già da anni», diede man forte Soichiro.
La Scimmietta si
mordicchiò il pollice, ripensando a tutti i momenti che aveva trascorso con la
sua bella e al rapporto che lei aveva con l’odiato rivale. «Quindi che dovrei
fare?».
Maki gli si avvicinò,
sedendosi accanto al suo compagno di squadra e osservandolo bonario. «Non
conosco bene Hime Sakuragi per poter dire con certezza di sapere cosa le passa
per la testa, ma sia lei che il fratello mi hanno dato l’impressione di essere
le persone più fedeli che abbia mai incontrato. E difficilmente il mio giudizio
è errato, lo sai bene». Gli sorrise. «Con questo voglio dirti che non credo tu
debba impensierirti né essere geloso. Può darsi che Rukawa sia attratto da lei,
ma quello è un suo problema».
«Esatto», confermò
Soichiro. «Ti stai facendo solo male con le tue congetture, quando sicuramente
non hai nulla da temere. Ma se vuoi proprio dormire tranquillo la notte, perché
non le parli apertamente? Sono sicuro che la cosa si chiuderà con una bella
risata!».
Ritrovato lo spirito
giusto, Kiyota balzò in piedi, alzando pugno al cielo. «Ahaha
ma certo! Nessuno mi porterà via la ragazza, neppure la Kitsune! E volete
sapere perché? Ma perché siamo la coppia numero uno di tutta Kanagawa! Ma che
dico, del Giappone intero! Ahahaha!». E
sbraitando come l’invasato che era, si diresse a tutta velocità allo Shohoku,
nella speranza di trovarla ancora lì. Ma del resto, era ovvio che lo Shohoku
avrebbe dovuto allenarsi giorno e notte per sperare di battere il Kainan King.
Povere schiappe! Ahahah!
Riuscì a prendere per un
soffio il treno che lo avrebbe portato al quartiere di quei teppisti e, mentre
osservava il paesaggio nuvoloso al di là del finestrino, ripensò alla
telefonata del giorno prima. Era stato brusco, quello non poteva negarlo. Ma
aveva anche le sue buone ragioni per diffidare di quella pseudo amicizia.
Diamine, erano sempre insieme e lei lo metteva persino in secondo piano
rispetto a quel volpino! Doveva fare qualcosa!
Come una furia, uscì dal
vagone non appena le porte automatiche si aprirono e corse verso il vicino
liceo, ormai quasi deserto. Solo qualche aula, dove si riunivano i club, e lo
stabile della palestra erano ancora illuminati. Con uno sbuffo di sollievo
rallentò il passo e si diresse verso quest’ultima. Si beccò le solite
occhiatacce dai pochi che lo incrociarono e che notarono la vistosa “K” sulla
giacca della divisa sportiva, ma non ci fece caso. Se non fosse stato teso per
il discorso che doveva affrontare con la sua Hicchan, avrebbe sbraitato a quei
poveracci dello Shohoku quando il suo Kainan fosse mille volte migliore di
loro.
Arrivato alla palestra,
la cui porta era affollata da praticamente tutti i giocatori con le borse in
spalle ma evidentemente interessati a qualcosa, s’inchinò per sbirciare dalle
finestre a nastro a livello terra, incuriosito. Allungò il naso verso il vetro
e ciò che vide non gli piacque per niente.
Eccola lì, la sua
Hicchan, che giocava in un avvincente uno contro uno in tutta la sua grazia,
corpo a corpo con l’odiatissimo Rukawa. Chi altro poteva essere?
“Ma porca vacca! Io l’ammazzo!”, gridò mentalmente mentre reprimeva
a stento l’impulso di saltare addosso a quel dannato ghiacciolo.
Le urla di Sakuragi,
insieme a quelle degli altri, fecero da sottofondo a un canestro della ragazza,
e se da una parte Nobunaga era orgoglioso che la sua bella fosse così brava e
avesse appena segnato contro il Volpino, dall’altra detestava la confidenza che
aveva con lui. La osservò bisbigliargli qualcosa e ridacchiare alla risposta
lapidaria di lui, che le diede una manata in pieno viso per farla smettere.
Dannazione, non era possibile! Era un incubo!
«Ehi, Kit! Mettiti le
mani dove dico io e non toccare la mia sorellina!», gridò Hanamichi, pronto a
soccorrere la ragazza se non fosse stato per il pugno provvidenziale di Akagi.
«E lasciali giocare in
santa pace, demente!».
«Ahia, Gori! Mi picchi sempre!».
«Continua a chiamarmi
così e sarà l’unica cosa che farò finché non la smetterai!».
«Hanamichi, devi
metterti il cuore in pace», udì dire da Mitsui. «La Volpe è cotta di tua
sorella, che male c’è?».
«Che male c’è?!», ululò il rossino, come se avesse letto il pensiero
di Kiyota. «C’è che stiamo parlando della Kitsune! Quello non ha un cuore! Ed è
infimo! Mi ruba sempre la mia Hicchan!».
L’inconfondibile suono
di una sventagliata lo fece saltare sul posto. «Abbassa la voce, Hanamichi
Sakuragi! Vuoi che ti sentano?».
«Quei due, persi come
sono nel gioco, non sentirebbero neppure una tromba contro l’orecchio», scherzò
Mitsui.
Passò qualche istante di
silenzio, prima che una timida voce osasse parlare. «Ragazzi, io non sono una
persona molto sveglia, ecco», disse Sana, mentre osservava i due amici. «Ma se
non avessi saputo che Hime-san fosse impegnata, avrei detto che... beh, che lei
e Kaede-kun stessero insieme».
Per poco Nobunaga non si
strozzò con la sua stessa lingua e nello stesso istante Hanamichi ebbe un calo
di pressione, prontamente sorretto da Akagi. Che diavolo andava a pensare,
quella ragazzina?
«Beh, non sei certo
l’unica a dirlo», fu la pronta risposta di Mito. «Mi chiedo cosa succederebbe,
se quel Kiyota non fosse parte dell’equazione».
«Una volta gliel’ho
chiesto», disse Ayako. «A Hime, intendo». Nobunaga attese che proseguisse, con
il cuore in gola.
«E?».
«Non mi ha risposto, ma
dal suo sguardo era evidente che fosse parecchio... uhm, turbata».
«Turbata?» sbottò
Hanamichi, ovviamente contrariato dalla cosa. «Che diavolo vuol dire?».
«Che forse ci stava
facendo un pensierino?», azzardò Miyagi, con una punta di malizia.
«Hicchan non farebbe mai
una cosa del genere», disse con convinzione il numero 10. «Non alla
Nobu-Scimmia».
«Con tutto il rispetto per Kiyota, ma con uno
come Rukawa lo farei eccome».
Ryota sbiancò come un
cadavere. «A-Ayakuccia!».
Mitsui scoppiò a ridere.
«Hai capito questa marpiona?».
Quella arrossì, dando un
bacino sulla guancia al suo playmaker preferito. «Suvvia, Ryota, scherzavo,
scherzavo. Idiozie a parte, non ho mai visto Rukawa comportarsi così
apertamente con una ragazza come fa con lei», proseguì Ayako, che lo conosceva dalle medie. «Vorrà pur dire
qualcosa, no?».
«Già», bofonchiò
Hanamichi, palesemente contrariato. «Dormono perfino insieme».
«Checcosa?!», esclamarono in coro tutti. Hime e Kaede fermarono il gioco per
guardarli con perplessità, chiedendosi cosa diamine avessero da gridare.
Persino Akagi era sull’orlo di una crisi di nervi alla sola idea di quella
sciagurata a letto col Volpino.
«Li ho scoperti la
mattina dopo che hanno ricoverato Mitchi», confessò Hanamichi. «Insomma, era
già capitato in passato, ma questi discorsi mi stanno preoccupando».
«Ma hanno–».
«Nononono!»,
si affrettò a dire Hana, arrossendo al solo pensiero. «Avrei già gettato il
cadavere della Volpe in mare aperto! E poi, insomma... li avrei sentiti, no?».
«Uhm...», ci pensò sopra
Hisashi, accarezzandosi il mento. «Non credo che Rukawa sia il tipo che grida
in certe situazioni. Hime, magari sì, ma lui decisamente no. Al massimo un “hn” a cose fatte».
«Che poi, secondo voi
Rukawa saprebbe dove mettere le mani e tutto il resto?», fu la saggia domanda
di Miyagi, che evidentemente non dormiva la notte pensandoci.
«Beh, se Hanamichi non
ha sentito gridare neanche lei, immagino di no», fu la logica conclusione
dell’ex teppista.
«Mabbasta! Possiamo smettere di parlare della mia sorellina che fa le cosacce con la Volpe?».
Tra le risate, i ragazzi
continuarono a ciarlare come vecchie pettegole, ma Nobunaga non li sentì più.
Aveva ripreso la via di casa più incacchiato e abbattuto di prima. Parlare e
chiarirsi un paio di corna – proprio come quelle che gli gravavano sulla testa!
Era furioso.
Ormai, nonostante si
fosse imposto di essere comprensivo, aveva capito che ciò che provava per Hime
Sakuragi era a senso unico e quella consapevolezza fu un pugno allo stomaco che
lo lasciò senza fiato.
Non aveva mai provato un
così forte legame con una ragazza – almeno, le poche che avevano accettato di
uscire con lui – ed era convinto che quello che c’era tra loro fosse speciale.
Erano pazzi come cavalli entrambi, insieme si divertivano un mondo e avevano
molte cose in comune. Diamine, era persino brava a basket! Ma forse era questo
il motivo per cui lei preferiva il bello e dannato.
«E che dannato sia
davvero! Lo odio, lo odio!», gridò al vento, guadagnandosi le occhiatacce di
chi gli stava intorno. «E odio anche lei! Mi ha preso per il culo fin
dall’inizio!», continuò a sfogarsi con se stesso, mentre tutti i bei momenti
trascorsi insieme, a partire dal fatidico ritiro di qualche mese prima, si
sgretolavano come intonaco sotto i colpi di un martello. Era persino andata a
letto col nemico, la stronza! Come diamine poteva sorridergli e fare finta di
niente dopo quello che aveva fatto?
Gli era sempre sembrata
così sincera, così adorabilmente affascinata da lui, che aveva continuamente
accantonato i dubbi, ogni qualvolta sorgevano. Era stato uno stupido ingenuo a
fidarsi di una strega come lei. L’aveva detestata sin dall’inizio, avrebbe
dovuto continuare a seguire quella via invece che innamorarsi.
Per tutti gli dei, era
innamorato di Hime Sakuragi.
Che cazzo gli diceva il
cervello quando era successo?
Si portò un pugno alla
bocca e strinse i denti contro le nocche, pur di non sfogare la sua rabbia
contro un muro. Era talmente deluso e incazzato che aveva voglia di piangere.
Lui, Nobunaga Kiyota, ridotto così da una femmina! Era inaccettabile.
Rientrò a casa sbattendo
la porta alle sue spalle e facendo prendere un colpo alla sorellina e ai
genitori, in salotto. Senza neppure salutare si fiondò in camera sua e si buttò
sul letto.
Che se ne andassero
tutti al diavolo, non aveva bisogno di nessuno.
*
Hime riagganciò la
cornetta, sempre più perplessa. Erano trascorsi tre giorni dall’ultima volta
che aveva sentito Nobu e aveva continuamente chiamato a casa Kiyota in ogni
momento a disposizione, nella speranza di trovarlo. Una volta aveva risposto
Arimi, un’altra il padre, ma la replica era sempre la stessa: Nobunaga non è in casa. Il ché era
piuttosto strano, dato che durante quest’ultima chiamata aveva chiaramente
sentito il suo vocione in sottofondo.
Sa da una parte stava
dando la colpa agli allenamenti del Kainan, sempre più frequenti in vista della
partita di semifinale, dall’altra quest’ultimo episodio l’aveva destabilizzata
e stava iniziando a non capire cosa stesse succedendo. Aveva colto il
disappunto nella sua voce, quando gli aveva detto che si sarebbe allenata con
Ede, invece che stare sola con lui, ma non credeva che la cosa l’avesse fatto
incavolare a tal punto da evitarla così a lungo.
Decisa a vederci chiaro,
corse in camera a prendere giaccone, sciarpa e cuffietta, e, senza neppure la
decenza di cambiarsi dagli abiti casalinghi di domenica pomeriggio, s’infilò le
scarpe e si recò alla stazione, diretta a casa del suo ragazzo.
Cosa era successo da
farlo allontanare così? Stava andando tutto per il meglio, a parte quello
schifoso articolo sulla sua presunta relazione con Kaede. Era assurdo solo
pensarlo, figurarsi il fatto che Nobu potesse crederci davvero. Oh, ma
gliel’avrebbe fatta pagare, a quell’Aida della malora. A costo di farle fare
una figura di cacca colossale davanti al suo idolo, Akira.
Si strinse nelle spalle
una volta scesa alla fermata del Kainan. Un vento gelido l’aveva schiaffeggiata
appena le porte si erano aperte e il cielo era sempre più nuvoloso e
pericolosamente bianco. Si diceva che sarebbe nevicato, quel giorno.
S’incamminò infreddolita
verso casa Kiyota, non troppo distante dal liceo, e rimuginò sugli ultimi
giorni di silenzio, alla ricerca di una spiegazione plausibile. Scosse il capo,
senza trovarla. Avrebbe avuto le sue risposte in meno di dieci minuti e
direttamente dal suo ragazzo.
Accelerò il passo appena
riconobbe il cortile della villetta e sorrise come un’ebete all’idea di
rivederlo e di stare al caldo tra le sue braccia. Quello sì che era il suo
posto preferito: capo sul petto, a sentire il cuore che batteva veloce sotto
l’orecchio, le mani di lui che le carezzavano i fianchi, i suoi capelli lunghi
che le solleticavano il viso. Sarebbe potuta morire tra quelle braccia e
sarebbe stato sicuramente un dolce modo di andarsene.
Il cancelletto
d’ingresso era socchiuso, così zampettò attraverso il piccolo giardino zen e
suonò direttamente alla porta. Non dovette attendere molto, prima che qualcuno
l’aprì. E fu proprio lui.
Parve sorpreso di
vederla sull’uscio di casa, ma il suo sguardo s’indurì come poche volte l’aveva
visto. Il sorriso le morì in gola, così come lo slanciò di appendersi al suo
collo e sbaciucchiarlo senza ritegno.
«A-allora sei vivo!»,
esordì tentennante, ma lui non reagì. Continuava a guardarla con... disprezzo?
Cos’era quello? «Nobu? È successo qualcosa?».
«Non saprei, dimmelo tu»,
sbottò lui, muovendosi verso di lei per richiudersi la porta alle spalle. Era
palese che lei stesse congelando, ma non la volle neppure far entrare in casa.
Cosa diavolo–?
«Nobu?», ripeté lei,
sempre più confusa. Il cestista del Kainan strinse i pugni e per una frazione
di secondo temette che volesse colpirla. «Ho fatto qualcosa di male? Te la sei
presa per l’altro giorno?».
«No, non me la sono
presa», fece gelido come il vento che soffiava da nord. «O forse sì, ma in quel posto. Vero, Sakuragi? Me l’hai
proprio fatta, complimenti».
Hime iniziò a
spazientirsi. E da quand’è che la chiamava per cognome? «Ma di cosa stai
parlando?!».
«Sto parlando del fatto
che mi tradisci con quello stronzo di Rukawa, ecco cosa!», sbraitò Kiyota, le
guance rosse per il freddo e per l’affronto. «era così palese, sotto il mio
naso! Se ne sono resi conto tutti, tranne me!».
«Co– cosa?!».
«Avanti, mentimi ancora»,
la sfidò. «Fallo, tanto ormai ci sei abituata, no?».
«Nobunaga Kiyota,
smettila con questa idiozia o me ne vado».
«Bene, non aspettavo
altro. Vattene pure, non ho nulla da dirti».
La rossa sgranò gli
occhi, che iniziarono a pizzicare prepotentemente. Se fosse il vento o il nodo
in gola non seppe dirlo. «Davvero, non capisco di cosa stia parlando! In che
lingua devo dirtelo? Kaede è il mio migliore amico! A-m-i-c-o! E come già ti
dissi, se credi che io possa rinunciare a lui per stare con te, allora non hai
capito niente!».
«Beh, è interessante che
praticamente tutti credano che tu sia la sua ragazza e non la mia», sibilò,
muovendo un passo verso di lei che, istintivamente, indietreggiò. «“Cosa avrà da dire Nobunaga Kiyota” sul
fatto che Rukawa si fotte la sua ragazza, eh? Ha da dire che si è rotto le palle
di questa storia».
«Nobunaga, ti prego,
stai fraintendendo tutto. Nessuno si fotte nessuno, se non tu il tuo cervello!».
«Non ho frainteso
proprio un cazzo!», esclamò, al colmo dell’ira. «Ho sentito quei deviati dei
tuoi amici parlarne e nessuno ha dubbi! E sai cosa ho capito? Ho capito che non
è affatto il tuo migliore amico, perché ti
ama! Ma neppure lui ti è tanto indifferente, se te lo porti a letto, vero?!
Ti sei fatta scoprire persino da quella scimmia di tuo fratello! E io mi sento
un grandissimo coglione per essere cascato nelle tue trame, ecco cosa!».
Senza un filo d’aria in
gola per replicare e cercare di farlo ragionare, Nobu accolse il suo silenzio
come assenso e le voltò le spalle, aprendo la porta. Si fermò senza guardarla
in viso e, prima di chiuderla fuori con un colpo secco, le sibilò di andare al
diavolo e di non farsi più vedere.
“Mi fai schifo”.
Hime non riuscì a
muoversi per chissà quanto tempo. Non riuscì a razionalizzarlo in minuti.
Continuava a guardare la porta chiusa davanti al suo naso, incapace di reagire,
di respirare, di pensare. Cosa era
appena successo? Cosa–
Neppure si sarebbe resa
conto di piangere, se non fosse stato per la terribile fitta al petto e i
singhiozzi che ormai la stavano facendo tremare come una bandiera al vento. Era
tutto così assurdo e irreale che fu quasi tentata di darsi un pizzicotto sulla
guancia per risvegliarsi da quell’incubo. Ma il dolore atroce non parve
svanire, né le lacrime smisero di rigarle le guance ora pallide. Si portò una
mano alla bocca, per ricacciare indietro un conato di vomito, giacché ora aveva
preso a bruciarle persino lo stomaco.
Cosa diavolo è appena successo?, continuava a ripetersi
senza sosta e senza trovare risposta. Era stata accusata di tradimento, di
andare a letto con Kaede, di averlo preso in giro... ma che razza di droghe
aveva assunto per arrivare a pensare una cosa simile? Secondo lui quei mesi di
spensieratezza erano stati il frutto di uno stupido gioco che lo avrebbe visto
perdente sin dall’inizio? Aveva la minima idea di chi avesse accanto come
compagna, per cedere così facilmente alle chiacchiere degli altri? Perché non
le aveva lasciato il tempo di spiegarsi e risolvere tutto? Perché l’aveva
accusata così duramente senza neppure fermarsi un attimo e darle la possibilità
di ribattere, come avrebbero fatto due persone civili?
Si accorse di aver
iniziato a camminare solo quando si ritrovò davanti al treno che l’avrebbe
riportata a casa e vi salì come un automa, scontrandosi contro altri pendolari
senza neppure avere le forze di scusarsi per la sua sbadataggine. Tutto ciò che
vedeva davanti a sé erano quegli occhi blu che la guardavano con odio, tutto
ciò che sentiva era quella voce dura e cattiva che le sibilava di andare a quel
paese e che l’accusava di cose che non avrebbe neppure mai sognato di fare.
Mi fai schifo.
Lei, che non si era mai innamorata in vita sua e che sapeva di
amare quel ragazzo più di se stessa, incolpata di averlo tradito con il proprio
migliore amico.
Cosa diavolo era appena successo?
Senza neppure rendersi
conto, il treno si era nuovamente fermato e, forse per abitudine, si era alzata
e aveva lasciato il mezzo, dirigendosi al campetto dietro casa. Il freddo si
era fatto più pungente e le lacrime le si congelavano sulle guance, ma non
aveva voglia di tornare a casa e subire l’interrogatorio del fratello e della
madre, vedendola in quello stato pietoso.
Fu quando lo vide
palleggiare davanti al canestro noncurante del meteo, che tutta la disperazione
e la stanchezza la colpirono più forte di prima e crollò sulle ginocchia,
piangendo senza riuscire a darsi un contegno.
Kaede, disturbato da
quel lamento, si voltò con le braccia alzate, pronte a tirare. Il pallone gli
cadde dalle mani appena si accorse di chi si trattasse. Fu da lei in pochi
passi, chinandosi e prendendola tra le braccia, intimorito e insicuro sul
perché di quel pianto isterico.
«Ehi», le sussurrò,
temendo che il solo suono della sua voce potesse spaventarla. Hime non parve
udirlo, e singhiozzò fino allo sfinimento. «Tranquilla, ci sono io», le
mormorò, cullandola con dolcezza.
La ragazza gli si
aggrappò con le poche forze rimaste e spese i lunghi minuti successivi a
consumare tutte le lacrime di cui disponeva.
Neppure quando parve
calmarsi, Kaede le chiese cosa fosse successo, sebbene stesse ribollendo dalla
rabbia nei confronti di chi l’aveva ridotta in quello stato. Sapeva che gliene
avrebbe parlato solo quando si sarebbe sentita pronta, se mai fosse accaduto, e
lui l’avrebbe ascoltata, come sempre. Sperava solo di essere in grado di aiutarla,
in qualche modo. Le accarezzò la nuca, tra la cuffietta in lana e i capelli,
nella speranza di farla rilassare. Non era mai stato bravo a consolare le
persone, ma quando si trattava di Hime tutto sembrava diventare più facile,
sebbene più doloroso.
Solo dopo molti minuti,
in cui i singhiozzi diminuirono e le lacrime si seccarono, Hime parlò con voce
spezzata. «Mi ha lasciata», mormorò senza fiato.
Kaede ingoiò
un’imprecazione che avrebbe fatto impallidire persino quel delinquente di
Tetsuo, e la strinse con più fermezza. «Cos’è successo?».
«Vorrei saperlo anche io»,
bofonchiò lei, passandosi una mano sul viso e cercando le forze per proseguire.
«Mi ha addossato colpe ridicole e... e non capisco, davvero. Andava tutto così
bene. Così bene». Si morsicò il
labbro inferiore con forza, pur di non riprendere a piangere, ma non era sicura
che sarebbe riuscita a trattenersi. «A quanto pare la mia unica colpa è esserti
amica».
«Hn?!».
«Crede che io sia
innamorata di te. E tu di me. È ridicolo solo pensarlo, figurarsi dirlo a voce
alta».
In apparenza Rukawa non
diede alcun segno di averla sentita, ma Hime sentì chiaramente i suoi muscoli
irrigidirsi. Sollevò lo sguardo arrossato su di lui, che la osservava con quei
suoi taglienti occhi color del mare più buio, e si sentì mancare.
«Ede, tu non sei
innamorato di me, vero?», gli chiese a bruciapelo, senza darsi il tempo di
morsicarsi la lingua e stare zitta. Voleva saperlo, doveva saperlo. Era una domanda pericolosa, pericolosissima per la
loro amicizia. Ma non avevano mai avuto segreti e non voleva che le tacesse una
cosa così importante. Neppure se avesse incrinato il loro rapporto. Era un
dubbio che ormai la stava consumando e voleva vederci chiaro, almeno lì.
«Hn...
non lo so».
Quella risposta non la
rassicurò per niente. Si spostò per guardarlo meglio, sentendo le guance andare
a fuoco. «Cosa vuol dire? Di certo lo saprai!».
«Io non–». Kaede sbuffò,
in evidente imbarazzo. Come faceva a saperlo? Non gli era mai interessata
nessuna ragazza, eccetto lei. Insomma, adorava la sua compagnia, il suo amore
per il basket, il modo in cui assorbiva qualsiasi insegnamento le impartisse
durante i loro allenamenti, il suo stare in silenzio anziché parlare a
sproposito e capirlo alla perfezione, nonostante il suo brutto carattere. Gli
bastava la sua presenza per calmarlo e rimetterlo a posto. Certo, non si era
mai perso in qualche fantasia erotica che li vedeva rotolarsi tra le lenzuola e
il solo pensiero era talmente bizzarro e ridicolo che ringraziò il cielo che
Hime non potesse ancora leggergli la mente.
Insomma, non come l’incubo
della notte precedente che vedeva quella piattola della Azamui in costume da
bagno che–
Scosse il capo,
terrorizzato al solo pensiero, e cercò di tornare con la mente al problema
attuale.
Era amore quello? Solo
una profonda amicizia? Che diavolo ne sapeva lui? Sapeva solo che nessun’altra
ragazza era in grado di farlo sentire a suo agio come lei, nessuna avrebbe
potuto sostituire ciò che significava per lui. Era la sua confidente, a volte
la madre che aveva perso troppo presto, la sorella che non aveva mai avuto, e
aveva il terrore di perderla.
La sua splendida ragazza.
«Davvero, non lo so».
Hime si grattò la punta
del naso, arrossata per il freddo e l’imbarazzo. «Quando ti chiesi di non
starmi troppo vicino perché ormai siamo cresciuti, ecco... lo feci perché
temevo potessi, uhm, fare qualcosa di azzardato».
Kaede cadde dalle
nuvole. «Del tipo?».
In tutto quel dolore, in
tutta la difficoltà di quella discussione, Hime scoppiò incredibilmente a
ridere e lo fece di cuore. Il numero 11, non per l’ultima volta, si chiese se
non fosse pazza.
«Ma che ho detto?», si
chiese a voce alta il cestista, mentre quell’invasata rideva e piangeva allo
stesso tempo.
«Credo ti sia appena
dato una risposta, con quella domanda», riuscì a dire la ragazza, una volta che
si fu calmata. All’occhiata ancora perplessa dell’amico, Hime sorrise. «Intendo
dire che almeno non sei attratto da me in
quel senso».
«E vuol dire che non
sono–?».
«Io... beh, no. Insomma,
non credo».
Kaede strinse i denti,
indeciso. Cosa avrebbe fatto un ragazzo qualsiasi per capire davvero cosa
provava per la sua migliore amica? Per darsi la conferma che non ci fosse
attrazione? Forse avrebbe dovuto... baciarla?
«Ede, cos’è quella
faccia terrorizzata?».
Eww! No, meglio di no. O
probabilmente avrebbe rigettato la torta di compleanno di dieci anni prima. «Hn. Niente».
«Pensavi che sarebbe
terrificante stare insieme, vero?». Hime ridacchiò. «È un po’ quello che provo
anche io nei tuoi confronti, Ede. Ti voglio un mondo di bene e non potrei mai
rinunciare a te, a noi. In un certo
senso ti amo. Ma come amo Hanamichi, non come–». Il mezzo sorriso sulle sue
labbra si spense ancora una volta, in quella terribile giornata, e abbassò lo
sguardo.
Non come Nobunaga.
«Quello è un coglione»,
le disse con fermezza. «Non merita queste», aggiunse, asciugando le nuove amare
lacrime che le bagnarono le guance.
Hime tirò su col naso,
scuotendo il capo. «Sono sollevata», disse, sviando il discorso. «Per non
averti fatto del male, intendo».
«L’unico male che mi fai
è l’emicrania che mi provochi ogni volta che apri bocca». Accusò in silenzio la
gomitata più che meritata che gli rifilò tra le costole e la strinse con
affetto per farsi perdonare.
Trascorsero lunghi
attimi di silenzio, scanditi dalle deboli carezze di lui sulla sua nuca e
qualche fremito di pianto represso che ogni tanto si affacciava nuovamente.
«Hana lo ammazzerà di
botte», disse infine Hime, con voce roca.
«Hn.
Non sarà il solo».
Lei lo guardò con
durezza, gli occhi lucidi e arrossati per il pianto. «Rukawa Kaede, promettimi
che non farai scemenze».
«Hn».
«Promettimelo!».
«Dillo anche al senpai
Mitsui».
«Hisashi è inoffensivo,
per ora».
«Non ne sono tanto
sicuro. E non dimenticare la negriera».
«Chi? Ayako?».
«Hn».
Hime sbuffò, mentre si
torturava il labbro inferiore con i denti. Era imbestialita con quell’idiota,
ma non voleva che arrivassero alle mani per causa sua. L’unica che aveva il
diritto di tirargli un pugno era lei, e lei soltanto!
Il primo fiocco di neve
le ricadde sulla punta del naso, facendole alzare lo sguardo sul cielo
nuvoloso. In altre occasioni avrebbe sorriso come una bambina alla sua prima
nevicata. Ogni volta che la Prefettura di Kanagawa si ricopriva di neve, infatti,
Hime tornava indietro di anni, quando la vita era spensierata e si divertiva
con poco. E no, non si trattava di bei ricordi legati all’infanzia:
semplicemente diventava una poppante che non aveva mai visto un evento simile
in vita sua e dava il peggio di sé, insieme al fratello.
“È solo neve”, era il solito commento del Volpino, mentre quell’invasata
si buttava a fare l’angelo.
“Certo che lui non si stupisce”, diceva Hanamichi, annuendo a se
stesso. “Si ritrova nel suo ambiente ideale, questo surgelato.
Hai mai pensato di trasferirti in Antartide?”.
“Ma se non sai neppure dove sia”, era la risposta di Kaede.
Quell’anno la neve non
aveva alcuna attrattiva per la ragazza dai capelli rossi. Era fredda, come
freddo era quello che sentiva dopo quella giornata da dimenticare, e le mise
un’incredibile tristezza. Cacciò indietro le lacrime e si alzò, porgendo una
mano all’amico.
«Torniamo a casa, ti
prenderai un malanno», gli disse.
Rukawa si alzò, ma la
mancanza di scenate di gioia, mentre iniziava a nevicare con più insistenza, lo
preoccupò non poco. Gli rivenne in mente la sua apatia dopo la morte della
madre, come non riuscisse a venire fuori da quel buio pesto che era diventata
la sua vita; e ricordò gli incredibili sforzi di quella stessa ragazzina folle
per aiutarlo a risalire a galla, nonostante i fallimenti, nonostante i tanti
tentativi andati a vuoto.
E il solo pensiero che
lei avesse litigato con il ragazzo di cui era innamorata solo ed esclusivamente
a causa della loro grande amicizia, lo rendeva tanto orgoglioso quando
incazzato col mondo. Quello era davvero un coglione e non aveva idea di chi
avesse perso.
Le si avvicinò,
abbassandole meglio la cuffia sulle orecchie e sulla fronte, e l’abbracciò
ancora.
L’avrebbe fatta
sorridere di nuovo.
Le avrebbe fatto amare
la neve ancora una volta.
Continua...
* * *
Vi avevo avvertiti. La cosa si sarebbe fatta intensa. E ora
mi diverto. >:)
A presto e grazie ai pochi coraggiosi che ancora mi seguono.
Vi farò una statua, un giorno. Promesso.
Marta.