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Autore: kenjina    17/10/2016    1 recensioni
La situazione peggiorò quando trovarono un tavolo da biliardo libero e pronto solo per loro e, ovviamente, finì invischiato in un due contro due in coppia con la sua manager - almeno quella era una piccola fortuna in mezzo a tanta sfiga, si disse per farsi forza. Non avrebbe saputo di che morte morire, se avesse dovuto scegliere tra il Porcospino e la Scimmia; per non parlare della nuotatrice che, grazie a Buddha, non aveva mai giocato a biliardo e non sapeva neanche da che parte iniziare.
«Ehi, guarda che hai le palle piene tu, intesi?», gli fece Hanamichi, puntandogli la stecca contro.
Rukawa sollevò gli occhi al cielo. «Scimmia, non c'era bisogno di dirmelo. Che ho le palle piene di te lo sapevo da tempo».
(Tratto dal capitolo 17)
I ragazzi selvaggi son tornati, più selvaggi di prima... Ne vedremo delle belle!
Storia revisionata nell'Agosto 2016
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hisashi Mitsui, Kaede Rukawa, Nobunaga Kiyota, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wild Boys'
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Ni-hao a tutti

Capitolo 21

Cos’è successo?

 

 

 

I famosi ed estenuanti allenamenti del Kainan King volsero finalmente al termine e mai come quel giorno Nobunaga pensò che fossero infiniti. Moralmente a terra come rare volte accadeva, si asciugò il sudore dalla fronte con la maglietta. Con uno sbuffo, si tolse la fascia dai capelli e si diresse verso gli spogliatoi per una veloce doccia. Aveva solo voglia di buttarsi sul divano e trovare conforto in qualche programma spazzatura in tv per non pensare.

Jin e Maki, che avevano notato quanto quel suo allenamento fosse stato sottotono, si scambiarono un’occhiata preoccupati. Abituati com’erano all’esuberanza del loro numero 10, che da quel punto di vista non aveva nulla da invidiare a quello dello Shohoku, la situazione era allarmante. L’unica volta in cui l’avevano visto in quelle condizioni aveva bisticciato malamente con l’attuale ragazza, durante il ritiro nell’estate appena trascorsa.

«Di qualunque cosa si tratti, dobbiamo farlo parlare», decretò Shin’ichi, seguendo la scimmietta della sua squadra. Soichiro annuì con enfasi, soprattutto quando entrarono negli spogliatoi e non udirono la sua voce stridula cantare sotto la doccia – abitudine che tutti detestavano e non mancavano di fargli notare.

«Cos’è tutto questo silenzio?», domandò il Nonno Maki, sfilandosi maglia e pantaloni, prima di ficcarsi in doccia e finire di spogliarsi. «Kiyota, hai per caso mal di gola?».

«No, Capitano, sto bene», replicò mogio quello.

«Allora perché non canti?», domandò Soichiro.

Da una delle docce, Kazuma Takasago gridò: «Ehi, Jin! Non incoraggiarlo, per una volta che ci risparmia l’udito!». I compagni scoppiarono a ridere, in attesa della replica infuocata del loro numero 10, ma quando non arrivò le risa si spensero.

«Kiyota, sei sicuro di stare bene?», domandò uno di loro.

«Ho detto di sì», ribatté Nobunaga, stanco di quelle domande. «Ho dormito male e sono stanco».

Capendo che non volesse altre rotture, i ragazzi presero a parlare d’altro, finché tutti non uscirono dalle docce e si vestirono per andarsene finalmente a casa. Gli unici che parvero non avere fretta alcuna, furono il Capitano e Soichiro che, mentre rimettevano le loro cose nei rispettivi borsoni, non tolsero gli occhi di dosso alla matricola. Fu solo quando rimasero loro tre che decisero di metterlo sotto torchio.

«Allora, qual è il problema?», domandò Shin’ichi, avvicinandosi al ragazzo e scompigliandogli i capelli bagnati. «Perché un problema c’è, non insultarmi con qualche frottola».

Nobunaga arrossì fino alla punta delle orecchie e s’imbronciò ancora di più. Non voleva far preoccupare i suoi compagni per le sue seghe mentali, fondate o meno che fossero.

«Su, Nobu, sai bene che con noi puoi parlare liberamente, no?», furono le parole di Soichiro, condite con un rassicurante sorriso.

I due attesero con pazienza che quello iniziasse a parlare e, dopo un lungo sbuffo, finalmente lo fece.

 «Si tratta di Hicchan».

«Avete litigato?», domandò Shin, preoccupato.

Nobu gonfiò le guance. «Non ancora, ma continuando così non ci vorrà poi molto. È che–», chiuse la zip della sua borsa, sedendosi per terra a gambe incrociate e mettendosi le mani tra i capelli neri. «Da quando stiamo insieme quel Rukawa è sempre in mezzo alle palle e la cosa mi puzza».

Gli altri due si scambiarono un’altra occhiata.

«Nobunaga, amico mio, ricordi cosa aveva detto quella ragazza, Ayako, no?», intervenne Soichiro. «Si conoscono da quando erano bambini, sono amici d’infanzia».

«Altro che amici d’infanzia!», s’infervorò subito il numero 10. «Quello zitto e addormentato me la soffia da sotto il naso! Maledetta Volpe!».

Maki incrociò le braccia al petto, un sopracciglio inarcato con perplessità. «E dimmi, cosa ti fa credere che la Sakuragi possa lasciarti per lui?».

«Beh, è sempre di quel dannato Rukawa che stiamo parlando», sbottò Nobunaga, imbronciato. «Quello piace a tutte».

«E non credi che se così fosse, lei non avrebbe perso tempo con te?», incalzò il Capitano.

«Già, probabilmente starebbero insieme già da anni», diede man forte Soichiro.

La Scimmietta si mordicchiò il pollice, ripensando a tutti i momenti che aveva trascorso con la sua bella e al rapporto che lei aveva con l’odiato rivale. «Quindi che dovrei fare?».

Maki gli si avvicinò, sedendosi accanto al suo compagno di squadra e osservandolo bonario. «Non conosco bene Hime Sakuragi per poter dire con certezza di sapere cosa le passa per la testa, ma sia lei che il fratello mi hanno dato l’impressione di essere le persone più fedeli che abbia mai incontrato. E difficilmente il mio giudizio è errato, lo sai bene». Gli sorrise. «Con questo voglio dirti che non credo tu debba impensierirti né essere geloso. Può darsi che Rukawa sia attratto da lei, ma quello è un suo problema».

«Esatto», confermò Soichiro. «Ti stai facendo solo male con le tue congetture, quando sicuramente non hai nulla da temere. Ma se vuoi proprio dormire tranquillo la notte, perché non le parli apertamente? Sono sicuro che la cosa si chiuderà con una bella risata!».

Ritrovato lo spirito giusto, Kiyota balzò in piedi, alzando pugno al cielo. «Ahaha ma certo! Nessuno mi porterà via la ragazza, neppure la Kitsune! E volete sapere perché? Ma perché siamo la coppia numero uno di tutta Kanagawa! Ma che dico, del Giappone intero! Ahahaha!». E sbraitando come l’invasato che era, si diresse a tutta velocità allo Shohoku, nella speranza di trovarla ancora lì. Ma del resto, era ovvio che lo Shohoku avrebbe dovuto allenarsi giorno e notte per sperare di battere il Kainan King. Povere schiappe! Ahahah!

Riuscì a prendere per un soffio il treno che lo avrebbe portato al quartiere di quei teppisti e, mentre osservava il paesaggio nuvoloso al di là del finestrino, ripensò alla telefonata del giorno prima. Era stato brusco, quello non poteva negarlo. Ma aveva anche le sue buone ragioni per diffidare di quella pseudo amicizia. Diamine, erano sempre insieme e lei lo metteva persino in secondo piano rispetto a quel volpino! Doveva fare qualcosa!

Come una furia, uscì dal vagone non appena le porte automatiche si aprirono e corse verso il vicino liceo, ormai quasi deserto. Solo qualche aula, dove si riunivano i club, e lo stabile della palestra erano ancora illuminati. Con uno sbuffo di sollievo rallentò il passo e si diresse verso quest’ultima. Si beccò le solite occhiatacce dai pochi che lo incrociarono e che notarono la vistosa “K” sulla giacca della divisa sportiva, ma non ci fece caso. Se non fosse stato teso per il discorso che doveva affrontare con la sua Hicchan, avrebbe sbraitato a quei poveracci dello Shohoku quando il suo Kainan fosse mille volte migliore di loro.

Arrivato alla palestra, la cui porta era affollata da praticamente tutti i giocatori con le borse in spalle ma evidentemente interessati a qualcosa, s’inchinò per sbirciare dalle finestre a nastro a livello terra, incuriosito. Allungò il naso verso il vetro e ciò che vide non gli piacque per niente.

Eccola lì, la sua Hicchan, che giocava in un avvincente uno contro uno in tutta la sua grazia, corpo a corpo con l’odiatissimo Rukawa. Chi altro poteva essere?

Ma porca vacca! Io l’ammazzo!”, gridò mentalmente mentre reprimeva a stento l’impulso di saltare addosso a quel dannato ghiacciolo.

Le urla di Sakuragi, insieme a quelle degli altri, fecero da sottofondo a un canestro della ragazza, e se da una parte Nobunaga era orgoglioso che la sua bella fosse così brava e avesse appena segnato contro il Volpino, dall’altra detestava la confidenza che aveva con lui. La osservò bisbigliargli qualcosa e ridacchiare alla risposta lapidaria di lui, che le diede una manata in pieno viso per farla smettere. Dannazione, non era possibile! Era un incubo!

«Ehi, Kit! Mettiti le mani dove dico io e non toccare la mia sorellina!», gridò Hanamichi, pronto a soccorrere la ragazza se non fosse stato per il pugno provvidenziale di Akagi.

«E lasciali giocare in santa pace, demente!».

«Ahia, Gori! Mi picchi sempre!».

«Continua a chiamarmi così e sarà l’unica cosa che farò finché non la smetterai!».

«Hanamichi, devi metterti il cuore in pace», udì dire da Mitsui. «La Volpe è cotta di tua sorella, che male c’è?».

«Che male c’è?!», ululò il rossino, come se avesse letto il pensiero di Kiyota. «C’è che stiamo parlando della Kitsune! Quello non ha un cuore! Ed è infimo! Mi ruba sempre la mia Hicchan!».

L’inconfondibile suono di una sventagliata lo fece saltare sul posto. «Abbassa la voce, Hanamichi Sakuragi! Vuoi che ti sentano?».

«Quei due, persi come sono nel gioco, non sentirebbero neppure una tromba contro l’orecchio», scherzò Mitsui.

Passò qualche istante di silenzio, prima che una timida voce osasse parlare. «Ragazzi, io non sono una persona molto sveglia, ecco», disse Sana, mentre osservava i due amici. «Ma se non avessi saputo che Hime-san fosse impegnata, avrei detto che... beh, che lei e Kaede-kun stessero insieme».

Per poco Nobunaga non si strozzò con la sua stessa lingua e nello stesso istante Hanamichi ebbe un calo di pressione, prontamente sorretto da Akagi. Che diavolo andava a pensare, quella ragazzina?

«Beh, non sei certo l’unica a dirlo», fu la pronta risposta di Mito. «Mi chiedo cosa succederebbe, se quel Kiyota non fosse parte dell’equazione».

«Una volta gliel’ho chiesto», disse Ayako. «A Hime, intendo». Nobunaga attese che proseguisse, con il cuore in gola.

«E?».

«Non mi ha risposto, ma dal suo sguardo era evidente che fosse parecchio... uhm, turbata».

«Turbata?» sbottò Hanamichi, ovviamente contrariato dalla cosa. «Che diavolo vuol dire?».

«Che forse ci stava facendo un pensierino?», azzardò Miyagi, con una punta di malizia.

«Hicchan non farebbe mai una cosa del genere», disse con convinzione il numero 10. «Non alla Nobu-Scimmia».

 «Con tutto il rispetto per Kiyota, ma con uno come Rukawa lo farei eccome».

Ryota sbiancò come un cadavere. «A-Ayakuccia!».

Mitsui scoppiò a ridere. «Hai capito questa marpiona?».

Quella arrossì, dando un bacino sulla guancia al suo playmaker preferito. «Suvvia, Ryota, scherzavo, scherzavo. Idiozie a parte, non ho mai visto Rukawa comportarsi così apertamente con una ragazza come fa con lei», proseguì Ayako, che  lo conosceva dalle medie. «Vorrà pur dire qualcosa, no?».

«Già», bofonchiò Hanamichi, palesemente contrariato. «Dormono perfino insieme».

«Checcosa?!», esclamarono in coro tutti. Hime e Kaede fermarono il gioco per guardarli con perplessità, chiedendosi cosa diamine avessero da gridare. Persino Akagi era sull’orlo di una crisi di nervi alla sola idea di quella sciagurata a letto col Volpino.

«Li ho scoperti la mattina dopo che hanno ricoverato Mitchi», confessò Hanamichi. «Insomma, era già capitato in passato, ma questi discorsi mi stanno preoccupando».

«Ma hanno–».

«Nononono!», si affrettò a dire Hana, arrossendo al solo pensiero. «Avrei già gettato il cadavere della Volpe in mare aperto! E poi, insomma... li avrei sentiti, no?».

«Uhm...», ci pensò sopra Hisashi, accarezzandosi il mento. «Non credo che Rukawa sia il tipo che grida in certe situazioni. Hime, magari sì, ma lui decisamente no. Al massimo un “hn” a cose fatte».

«Che poi, secondo voi Rukawa saprebbe dove mettere le mani e tutto il resto?», fu la saggia domanda di Miyagi, che evidentemente non dormiva la notte pensandoci.

«Beh, se Hanamichi non ha sentito gridare neanche lei, immagino di no», fu la logica conclusione dell’ex teppista.

«Mabbasta! Possiamo smettere di parlare della mia sorellina che fa le cosacce con la Volpe?».

Tra le risate, i ragazzi continuarono a ciarlare come vecchie pettegole, ma Nobunaga non li sentì più. Aveva ripreso la via di casa più incacchiato e abbattuto di prima. Parlare e chiarirsi un paio di corna – proprio come quelle che gli gravavano sulla testa!

Era furioso.

Ormai, nonostante si fosse imposto di essere comprensivo, aveva capito che ciò che provava per Hime Sakuragi era a senso unico e quella consapevolezza fu un pugno allo stomaco che lo lasciò senza fiato.

Non aveva mai provato un così forte legame con una ragazza – almeno, le poche che avevano accettato di uscire con lui – ed era convinto che quello che c’era tra loro fosse speciale. Erano pazzi come cavalli entrambi, insieme si divertivano un mondo e avevano molte cose in comune. Diamine, era persino brava a basket! Ma forse era questo il motivo per cui lei preferiva il bello e dannato.

«E che dannato sia davvero! Lo odio, lo odio!», gridò al vento, guadagnandosi le occhiatacce di chi gli stava intorno. «E odio anche lei! Mi ha preso per il culo fin dall’inizio!», continuò a sfogarsi con se stesso, mentre tutti i bei momenti trascorsi insieme, a partire dal fatidico ritiro di qualche mese prima, si sgretolavano come intonaco sotto i colpi di un martello. Era persino andata a letto col nemico, la stronza! Come diamine poteva sorridergli e fare finta di niente dopo quello che aveva fatto?

Gli era sempre sembrata così sincera, così adorabilmente affascinata da lui, che aveva continuamente accantonato i dubbi, ogni qualvolta sorgevano. Era stato uno stupido ingenuo a fidarsi di una strega come lei. L’aveva detestata sin dall’inizio, avrebbe dovuto continuare a seguire quella via invece che innamorarsi.

Per tutti gli dei, era innamorato di Hime Sakuragi.

Che cazzo gli diceva il cervello quando era successo?

Si portò un pugno alla bocca e strinse i denti contro le nocche, pur di non sfogare la sua rabbia contro un muro. Era talmente deluso e incazzato che aveva voglia di piangere. Lui, Nobunaga Kiyota, ridotto così da una femmina! Era inaccettabile.

Rientrò a casa sbattendo la porta alle sue spalle e facendo prendere un colpo alla sorellina e ai genitori, in salotto. Senza neppure salutare si fiondò in camera sua e si buttò sul letto.

Che se ne andassero tutti al diavolo, non aveva bisogno di nessuno.

 

*

 

Hime riagganciò la cornetta, sempre più perplessa. Erano trascorsi tre giorni dall’ultima volta che aveva sentito Nobu e aveva continuamente chiamato a casa Kiyota in ogni momento a disposizione, nella speranza di trovarlo. Una volta aveva risposto Arimi, un’altra il padre, ma la replica era sempre la stessa: Nobunaga non è in casa. Il ché era piuttosto strano, dato che durante quest’ultima chiamata aveva chiaramente sentito il suo vocione in sottofondo.

Sa da una parte stava dando la colpa agli allenamenti del Kainan, sempre più frequenti in vista della partita di semifinale, dall’altra quest’ultimo episodio l’aveva destabilizzata e stava iniziando a non capire cosa stesse succedendo. Aveva colto il disappunto nella sua voce, quando gli aveva detto che si sarebbe allenata con Ede, invece che stare sola con lui, ma non credeva che la cosa l’avesse fatto incavolare a tal punto da evitarla così a lungo.

Decisa a vederci chiaro, corse in camera a prendere giaccone, sciarpa e cuffietta, e, senza neppure la decenza di cambiarsi dagli abiti casalinghi di domenica pomeriggio, s’infilò le scarpe e si recò alla stazione, diretta a casa del suo ragazzo.

Cosa era successo da farlo allontanare così? Stava andando tutto per il meglio, a parte quello schifoso articolo sulla sua presunta relazione con Kaede. Era assurdo solo pensarlo, figurarsi il fatto che Nobu potesse crederci davvero. Oh, ma gliel’avrebbe fatta pagare, a quell’Aida della malora. A costo di farle fare una figura di cacca colossale davanti al suo idolo, Akira.

Si strinse nelle spalle una volta scesa alla fermata del Kainan. Un vento gelido l’aveva schiaffeggiata appena le porte si erano aperte e il cielo era sempre più nuvoloso e pericolosamente bianco. Si diceva che sarebbe nevicato, quel giorno.

S’incamminò infreddolita verso casa Kiyota, non troppo distante dal liceo, e rimuginò sugli ultimi giorni di silenzio, alla ricerca di una spiegazione plausibile. Scosse il capo, senza trovarla. Avrebbe avuto le sue risposte in meno di dieci minuti e direttamente dal suo ragazzo.

Accelerò il passo appena riconobbe il cortile della villetta e sorrise come un’ebete all’idea di rivederlo e di stare al caldo tra le sue braccia. Quello sì che era il suo posto preferito: capo sul petto, a sentire il cuore che batteva veloce sotto l’orecchio, le mani di lui che le carezzavano i fianchi, i suoi capelli lunghi che le solleticavano il viso. Sarebbe potuta morire tra quelle braccia e sarebbe stato sicuramente un dolce modo di andarsene.

Il cancelletto d’ingresso era socchiuso, così zampettò attraverso il piccolo giardino zen e suonò direttamente alla porta. Non dovette attendere molto, prima che qualcuno l’aprì. E fu proprio lui.

Parve sorpreso di vederla sull’uscio di casa, ma il suo sguardo s’indurì come poche volte l’aveva visto. Il sorriso le morì in gola, così come lo slanciò di appendersi al suo collo e sbaciucchiarlo senza ritegno.

«A-allora sei vivo!», esordì tentennante, ma lui non reagì. Continuava a guardarla con... disprezzo? Cos’era quello? «Nobu? È successo qualcosa?».

«Non saprei, dimmelo tu», sbottò lui, muovendosi verso di lei per richiudersi la porta alle spalle. Era palese che lei stesse congelando, ma non la volle neppure far entrare in casa. Cosa diavolo–?

«Nobu?», ripeté lei, sempre più confusa. Il cestista del Kainan strinse i pugni e per una frazione di secondo temette che volesse colpirla. «Ho fatto qualcosa di male? Te la sei presa per l’altro giorno?».

«No, non me la sono presa», fece gelido come il vento che soffiava da nord. «O forse sì, ma in quel posto. Vero, Sakuragi? Me l’hai proprio fatta, complimenti».

Hime iniziò a spazientirsi. E da quand’è che la chiamava per cognome? «Ma di cosa stai parlando?!».

«Sto parlando del fatto che mi tradisci con quello stronzo di Rukawa, ecco cosa!», sbraitò Kiyota, le guance rosse per il freddo e per l’affronto. «era così palese, sotto il mio naso! Se ne sono resi conto tutti, tranne me!».

«Co– cosa?!».

«Avanti, mentimi ancora», la sfidò. «Fallo, tanto ormai ci sei abituata, no?».

«Nobunaga Kiyota, smettila con questa idiozia o me ne vado».

«Bene, non aspettavo altro. Vattene pure, non ho nulla da dirti».

La rossa sgranò gli occhi, che iniziarono a pizzicare prepotentemente. Se fosse il vento o il nodo in gola non seppe dirlo. «Davvero, non capisco di cosa stia parlando! In che lingua devo dirtelo? Kaede è il mio migliore amico! A-m-i-c-o! E come già ti dissi, se credi che io possa rinunciare a lui per stare con te, allora non hai capito niente!».

«Beh, è interessante che praticamente tutti credano che tu sia la sua ragazza e non la mia», sibilò, muovendo un passo verso di lei che, istintivamente, indietreggiò. «“Cosa avrà da dire Nobunaga Kiyota” sul fatto che Rukawa si fotte la sua ragazza, eh? Ha da dire che si è rotto le palle di questa storia».

«Nobunaga, ti prego, stai fraintendendo tutto. Nessuno si fotte nessuno, se non tu il tuo cervello!».

«Non ho frainteso proprio un cazzo!», esclamò, al colmo dell’ira. «Ho sentito quei deviati dei tuoi amici parlarne e nessuno ha dubbi! E sai cosa ho capito? Ho capito che non è affatto il tuo migliore amico, perché ti ama! Ma neppure lui ti è tanto indifferente, se te lo porti a letto, vero?! Ti sei fatta scoprire persino da quella scimmia di tuo fratello! E io mi sento un grandissimo coglione per essere cascato nelle tue trame, ecco cosa!».

Senza un filo d’aria in gola per replicare e cercare di farlo ragionare, Nobu accolse il suo silenzio come assenso e le voltò le spalle, aprendo la porta. Si fermò senza guardarla in viso e, prima di chiuderla fuori con un colpo secco, le sibilò di andare al diavolo e di non farsi più vedere.

Mi fai schifo”.

Hime non riuscì a muoversi per chissà quanto tempo. Non riuscì a razionalizzarlo in minuti. Continuava a guardare la porta chiusa davanti al suo naso, incapace di reagire, di respirare, di pensare. Cosa era appena successo? Cosa–

Neppure si sarebbe resa conto di piangere, se non fosse stato per la terribile fitta al petto e i singhiozzi che ormai la stavano facendo tremare come una bandiera al vento. Era tutto così assurdo e irreale che fu quasi tentata di darsi un pizzicotto sulla guancia per risvegliarsi da quell’incubo. Ma il dolore atroce non parve svanire, né le lacrime smisero di rigarle le guance ora pallide. Si portò una mano alla bocca, per ricacciare indietro un conato di vomito, giacché ora aveva preso a bruciarle persino lo stomaco.

Cosa diavolo è appena successo?, continuava a ripetersi senza sosta e senza trovare risposta. Era stata accusata di tradimento, di andare a letto con Kaede, di averlo preso in giro... ma che razza di droghe aveva assunto per arrivare a pensare una cosa simile? Secondo lui quei mesi di spensieratezza erano stati il frutto di uno stupido gioco che lo avrebbe visto perdente sin dall’inizio? Aveva la minima idea di chi avesse accanto come compagna, per cedere così facilmente alle chiacchiere degli altri? Perché non le aveva lasciato il tempo di spiegarsi e risolvere tutto? Perché l’aveva accusata così duramente senza neppure fermarsi un attimo e darle la possibilità di ribattere, come avrebbero fatto due persone civili?

Si accorse di aver iniziato a camminare solo quando si ritrovò davanti al treno che l’avrebbe riportata a casa e vi salì come un automa, scontrandosi contro altri pendolari senza neppure avere le forze di scusarsi per la sua sbadataggine. Tutto ciò che vedeva davanti a sé erano quegli occhi blu che la guardavano con odio, tutto ciò che sentiva era quella voce dura e cattiva che le sibilava di andare a quel paese e che l’accusava di cose che non avrebbe neppure mai sognato di fare.

Mi fai schifo.

Lei, che non si era mai innamorata in vita sua e che sapeva di amare quel ragazzo più di se stessa, incolpata di averlo tradito con il proprio migliore amico.

Cosa diavolo era appena successo?

Senza neppure rendersi conto, il treno si era nuovamente fermato e, forse per abitudine, si era alzata e aveva lasciato il mezzo, dirigendosi al campetto dietro casa. Il freddo si era fatto più pungente e le lacrime le si congelavano sulle guance, ma non aveva voglia di tornare a casa e subire l’interrogatorio del fratello e della madre, vedendola in quello stato pietoso.

Fu quando lo vide palleggiare davanti al canestro noncurante del meteo, che tutta la disperazione e la stanchezza la colpirono più forte di prima e crollò sulle ginocchia, piangendo senza riuscire a darsi un contegno.

Kaede, disturbato da quel lamento, si voltò con le braccia alzate, pronte a tirare. Il pallone gli cadde dalle mani appena si accorse di chi si trattasse. Fu da lei in pochi passi, chinandosi e prendendola tra le braccia, intimorito e insicuro sul perché di quel pianto isterico.

«Ehi», le sussurrò, temendo che il solo suono della sua voce potesse spaventarla. Hime non parve udirlo, e singhiozzò fino allo sfinimento. «Tranquilla, ci sono io», le mormorò, cullandola con dolcezza.

La ragazza gli si aggrappò con le poche forze rimaste e spese i lunghi minuti successivi a consumare tutte le lacrime di cui disponeva.

Neppure quando parve calmarsi, Kaede le chiese cosa fosse successo, sebbene stesse ribollendo dalla rabbia nei confronti di chi l’aveva ridotta in quello stato. Sapeva che gliene avrebbe parlato solo quando si sarebbe sentita pronta, se mai fosse accaduto, e lui l’avrebbe ascoltata, come sempre. Sperava solo di essere in grado di aiutarla, in qualche modo. Le accarezzò la nuca, tra la cuffietta in lana e i capelli, nella speranza di farla rilassare. Non era mai stato bravo a consolare le persone, ma quando si trattava di Hime tutto sembrava diventare più facile, sebbene più doloroso.

Solo dopo molti minuti, in cui i singhiozzi diminuirono e le lacrime si seccarono, Hime parlò con voce spezzata. «Mi ha lasciata», mormorò senza fiato.

Kaede ingoiò un’imprecazione che avrebbe fatto impallidire persino quel delinquente di Tetsuo, e la strinse con più fermezza. «Cos’è successo?».

«Vorrei saperlo anche io», bofonchiò lei, passandosi una mano sul viso e cercando le forze per proseguire. «Mi ha addossato colpe ridicole e... e non capisco, davvero. Andava tutto così bene. Così bene». Si morsicò il labbro inferiore con forza, pur di non riprendere a piangere, ma non era sicura che sarebbe riuscita a trattenersi. «A quanto pare la mia unica colpa è esserti amica».

«Hn?!».

«Crede che io sia innamorata di te. E tu di me. È ridicolo solo pensarlo, figurarsi dirlo a voce alta».

In apparenza Rukawa non diede alcun segno di averla sentita, ma Hime sentì chiaramente i suoi muscoli irrigidirsi. Sollevò lo sguardo arrossato su di lui, che la osservava con quei suoi taglienti occhi color del mare più buio, e si sentì mancare.

«Ede, tu non sei innamorato di me, vero?», gli chiese a bruciapelo, senza darsi il tempo di morsicarsi la lingua e stare zitta. Voleva saperlo, doveva saperlo. Era una domanda pericolosa, pericolosissima per la loro amicizia. Ma non avevano mai avuto segreti e non voleva che le tacesse una cosa così importante. Neppure se avesse incrinato il loro rapporto. Era un dubbio che ormai la stava consumando e voleva vederci chiaro, almeno lì.

«Hn... non lo so».

Quella risposta non la rassicurò per niente. Si spostò per guardarlo meglio, sentendo le guance andare a fuoco. «Cosa vuol dire? Di certo lo saprai!».

«Io non–». Kaede sbuffò, in evidente imbarazzo. Come faceva a saperlo? Non gli era mai interessata nessuna ragazza, eccetto lei. Insomma, adorava la sua compagnia, il suo amore per il basket, il modo in cui assorbiva qualsiasi insegnamento le impartisse durante i loro allenamenti, il suo stare in silenzio anziché parlare a sproposito e capirlo alla perfezione, nonostante il suo brutto carattere. Gli bastava la sua presenza per calmarlo e rimetterlo a posto. Certo, non si era mai perso in qualche fantasia erotica che li vedeva rotolarsi tra le lenzuola e il solo pensiero era talmente bizzarro e ridicolo che ringraziò il cielo che Hime non potesse ancora leggergli la mente.

Insomma, non come l’incubo della notte precedente che vedeva quella piattola della Azamui in costume da bagno che–

Scosse il capo, terrorizzato al solo pensiero, e cercò di tornare con la mente al problema attuale.

Era amore quello? Solo una profonda amicizia? Che diavolo ne sapeva lui? Sapeva solo che nessun’altra ragazza era in grado di farlo sentire a suo agio come lei, nessuna avrebbe potuto sostituire ciò che significava per lui. Era la sua confidente, a volte la madre che aveva perso troppo presto, la sorella che non aveva mai avuto, e aveva il terrore di perderla.

La sua splendida ragazza.

«Davvero, non lo so».

Hime si grattò la punta del naso, arrossata per il freddo e l’imbarazzo. «Quando ti chiesi di non starmi troppo vicino perché ormai siamo cresciuti, ecco... lo feci perché temevo potessi, uhm, fare qualcosa di azzardato».

Kaede cadde dalle nuvole. «Del tipo?».

In tutto quel dolore, in tutta la difficoltà di quella discussione, Hime scoppiò incredibilmente a ridere e lo fece di cuore. Il numero 11, non per l’ultima volta, si chiese se non fosse pazza.

«Ma che ho detto?», si chiese a voce alta il cestista, mentre quell’invasata rideva e piangeva allo stesso tempo.

«Credo ti sia appena dato una risposta, con quella domanda», riuscì a dire la ragazza, una volta che si fu calmata. All’occhiata ancora perplessa dell’amico, Hime sorrise. «Intendo dire che almeno non sei attratto da me in quel senso».

«E vuol dire che non sono–?».

«Io... beh, no. Insomma, non credo».

Kaede strinse i denti, indeciso. Cosa avrebbe fatto un ragazzo qualsiasi per capire davvero cosa provava per la sua migliore amica? Per darsi la conferma che non ci fosse attrazione? Forse avrebbe dovuto... baciarla?

«Ede, cos’è quella faccia terrorizzata?».

Eww! No, meglio di no. O probabilmente avrebbe rigettato la torta di compleanno di dieci anni prima. «Hn. Niente».

«Pensavi che sarebbe terrificante stare insieme, vero?». Hime ridacchiò. «È un po’ quello che provo anche io nei tuoi confronti, Ede. Ti voglio un mondo di bene e non potrei mai rinunciare a te, a noi. In un certo senso ti amo. Ma come amo Hanamichi, non come–». Il mezzo sorriso sulle sue labbra si spense ancora una volta, in quella terribile giornata, e abbassò lo sguardo.

Non come Nobunaga.

«Quello è un coglione», le disse con fermezza. «Non merita queste», aggiunse, asciugando le nuove amare lacrime che le bagnarono le guance.

Hime tirò su col naso, scuotendo il capo. «Sono sollevata», disse, sviando il discorso. «Per non averti fatto del male, intendo».

«L’unico male che mi fai è l’emicrania che mi provochi ogni volta che apri bocca». Accusò in silenzio la gomitata più che meritata che gli rifilò tra le costole e la strinse con affetto per farsi perdonare.

Trascorsero lunghi attimi di silenzio, scanditi dalle deboli carezze di lui sulla sua nuca e qualche fremito di pianto represso che ogni tanto si affacciava nuovamente.

«Hana lo ammazzerà di botte», disse infine Hime, con voce roca.

«Hn. Non sarà il solo».

Lei lo guardò con durezza, gli occhi lucidi e arrossati per il pianto. «Rukawa Kaede, promettimi che non farai scemenze».

«Hn».

«Promettimelo!».

«Dillo anche al senpai Mitsui».

«Hisashi è inoffensivo, per ora».

«Non ne sono tanto sicuro. E non dimenticare la negriera».

«Chi? Ayako?».

«Hn».

Hime sbuffò, mentre si torturava il labbro inferiore con i denti. Era imbestialita con quell’idiota, ma non voleva che arrivassero alle mani per causa sua. L’unica che aveva il diritto di tirargli un pugno era lei, e lei soltanto!

Il primo fiocco di neve le ricadde sulla punta del naso, facendole alzare lo sguardo sul cielo nuvoloso. In altre occasioni avrebbe sorriso come una bambina alla sua prima nevicata. Ogni volta che la Prefettura di Kanagawa si ricopriva di neve, infatti, Hime tornava indietro di anni, quando la vita era spensierata e si divertiva con poco. E no, non si trattava di bei ricordi legati all’infanzia: semplicemente diventava una poppante che non aveva mai visto un evento simile in vita sua e dava il peggio di sé, insieme al fratello.

È solo neve”, era il solito commento del Volpino, mentre quell’invasata si buttava a fare l’angelo.

Certo che lui non si stupisce”, diceva Hanamichi, annuendo a se stesso. “Si ritrova nel suo ambiente ideale, questo surgelato. Hai mai pensato di trasferirti in Antartide?”.

Ma se non sai neppure dove sia”, era la risposta di Kaede.

Quell’anno la neve non aveva alcuna attrattiva per la ragazza dai capelli rossi. Era fredda, come freddo era quello che sentiva dopo quella giornata da dimenticare, e le mise un’incredibile tristezza. Cacciò indietro le lacrime e si alzò, porgendo una mano all’amico.

«Torniamo a casa, ti prenderai un malanno», gli disse.

Rukawa si alzò, ma la mancanza di scenate di gioia, mentre iniziava a nevicare con più insistenza, lo preoccupò non poco. Gli rivenne in mente la sua apatia dopo la morte della madre, come non riuscisse a venire fuori da quel buio pesto che era diventata la sua vita; e ricordò gli incredibili sforzi di quella stessa ragazzina folle per aiutarlo a risalire a galla, nonostante i fallimenti, nonostante i tanti tentativi andati a vuoto.

E il solo pensiero che lei avesse litigato con il ragazzo di cui era innamorata solo ed esclusivamente a causa della loro grande amicizia, lo rendeva tanto orgoglioso quando incazzato col mondo. Quello era davvero un coglione e non aveva idea di chi avesse perso.

Le si avvicinò, abbassandole meglio la cuffia sulle orecchie e sulla fronte, e l’abbracciò ancora.

L’avrebbe fatta sorridere di nuovo.

Le avrebbe fatto amare la neve ancora una volta.

 

 

 

Continua...

 

 

* * *

 

Vi avevo avvertiti. La cosa si sarebbe fatta intensa. E ora mi diverto. >:)

 

A presto e grazie ai pochi coraggiosi che ancora mi seguono.

Vi farò una statua, un giorno. Promesso.

Marta.

   
 
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