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Autore: L0g1c1ta    08/11/2016    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Il girasole lasciato sulla finestra della sua camera brilla alla luce del mattino. I petali paiono ben più gialli e brillanti, le foglie trasparenti sembrano essere trapassate dalle lame del bagliore, il capo alto e scuro insensibile alla forza del sole. Diventa tutt’un col bagliore dell’estate. Diventa unico sole nella camera silenziosa.

Le dita robuste, eppure gentili, carezzano uno dei petali. Piano, cauto, paterno, sfrega i polpastrelli sul giallo abbagliante. Sono morbidi, i petali del girasole. Sono calde, le punte gialle e brille. A Russia ricordano i capelli di una bambola, le guance di un bambino, il lobo dell’orecchio di Lituania, quando lo vezzeggiava. Ha le guance giovani e rosse, Lituania, arrossiscono per sciocchezze e poche gentilezze. Russia ricorda quando lo trovava seduto sulle scale di casa a guardare il tramonto oltre gli alberi. Quando il sole faceva suo i capelli scuri e la pelle pallida per il freddo. Quasi arancione, vedeva fame di libertà e lentiggini brune. Vicino e discreto vedeva dei puntini sulle guance e sul naso. Lituania è lentigginoso e dopo anni se n’era accorto.

Non ricorda bene ora, ma crede che Lituania gli abbia regalato questo girasole, forse per i vestiti regalati. L’ha appoggiato alla finestra e, grande e curioso, osserva lui, ignorante della luce. Un girasole bizzarro è questo. Gli regala luce e compagnia eppure sceglie sempre di contemplare questa brutta stanza. Che buffo girasole. Buffo come il piccolo Lituania. Buffo come la persona che l’ha fatto nascere. Carezza ancora l’orecchia sporgente del fiore e pian piano la luce lo scalda. Pigro per il calore, ma non esausto, il polpastrello vola sui petali gialli sul capo nero. Li carezza come capelli bruni e morbidi.

Lituania era buffo. Lituania era buffo, ora non più, cresciuto e duro di cuore. Lituania era buffo quando ancora lo conosceva per i suoi sussulti e gli zigomi alzati con forza e timore. Quando ancora per lui non aveva macchioline scure sulle guance. Quando spesso la sua schiena sanguinava. Quando spesso piangeva sulle scale di casa. Era buffo, davvero buffo, il piccolo Lituania. Credeva in tutto, credeva sempre in peggio. Credeva di essere solo e di dover rimanere per sempre da solo. Era buffo, davvero e semplicemente buffo.

Era buffo quando non sapeva dei cassetti pieni di lettere. Nemmeno il fuoco poteva far smettere i loro arrivi. Polonia era tenace. E testardo, anche se malato. E insopportabile. E spina in un cuore frustrato. Russia non è mai stato buffo. E’ sempre stato ingombrante e solo. Ora si sente quasi come un tempo. Lituania era buffo e dolce quando piangeva. Quando le gocce perlacee inzuppavano il suo viso come un bambino. Con fatica si faceva sfiorare. Però ascoltava e credeva in ogni cosa.

Lituania credeva di essere solo. Di essere stato abbandonato. Di non essere voluto da nessuno. Polonia mandava lettere e offese a lui. Russia era frustrato, perché Lituania si sentiva solo e non lo vedeva. Perché Polonia era assillante, anche da malato. Anche da guarito. Anche da Nazione rinata.

Lituania, solo, piccolo, dolce, gli aveva creduto. Aveva creduto in ciò che desiderava che credesse. Gli aveva fatto credere che non fosse lui cattivo, ma Polonia. Lo aveva poggiato sul campo di battaglia col cuore iroso e abbandonato di fronte al suo vecchio principe. Gli aveva sussurrato bugie e menzogne. Perché era solo anche lui e perché amava Lituania da quando era una macchiolina rannicchiata nella neve, con un cagnolino e un cappottino verde. Lo amava già all’epoca e avrebbe fatto qualunque cosa per farlo suo. Per far di Polonia un nemico. Ma Lituania è buffo, ma non stupido. L’ha portato di fronte a Polonia e di fronte a Polonia comprese di essere stato ingannato. L’aveva perso per anni, così come l’ha perso anche ora.

Il petalo brillante perde la sua luce. Il polpastrello, sfregando e ricordando, l’ha strappato. Cade, come pesante carcassa, sul mattone, accanto allo stelo prepotente del girasole. Cade e s’accascia come morto, come grigio scheletro. Russia poggia gli occhi stanchi sul petalo quasi nero. Sospira e trattiene uno sbuffo di risata. Anche questo girasole è buffo: ha creduto alle sue mani e, alfine, gli ha strappato parte di sé. Ha fatto male a fidarsi, così come ha fatto male Lituania. Così come forse sta facendo adesso.

Per un attimo si chiede se sia un bene per il ragazzo stare accanto a lui.

Ne accarezza un altro, con più malinconia, con più dolcezza, mentre gli occhi infuocati di Bielorussia, appoggiata allo stipite della porta, guardano crudelmente il girasole e l’unghia del fratello. Come se volesse che prendesse fuoco in quell’istante.

 

 

 

 

 

Jan ricorda poco della sua vita. Ma in generale crede di non essere mai riuscito a ricordare qualcosa. I primi mesi erano assillanti, ricorda, o forse immagina. Il dimenticare dove fossero le chiavi di casa. Poi dove avesse lasciato delle carte importanti. Poi se avesse mai avuto due figli o una moglie. Qualcuno, non ricorda bene chi, se n’era accorto, del suo problema. Devono averlo portato in ospedale, forse, ricorda solo bianco e pelle di poltrona sulla sua schiena. Forse devono avergli fatto delle domande e forse si devono essere accorti che Jan Lukasiewisz fosse malato. Di cosa non ricorda, ma era malato.

Contemporanea alla memoria, anche le gambe incominciarono a fargli del male. Le ginocchia s’incurvarono verso l’interno e non l’esterno come suo solito, o come qualsiasi corpo possa fare. La pelle delle cosce parve quasi strapparsi e bruciare sotto al suo peso. Non immaginava di essere così tanto pesante, o forse le sue gambe non lo reggevano più come una volta. Poi incominciò a cadere e a farsi veramente male. Dopo essere caduto varie volte, si rese conto di non riuscire più a reggersi in piedi. Entrò di nuovo in ospedale e ne uscì con una sedia a rotelle. Poi non ricordò bene più nulla.

È tutto frammentato, come se il suo cervello, una cassetta antica di un vecchio film, avesse bruciato alcune pellicole bianche e nere. Ha solo quei frammenti di spazio e colore intraducibile. Ha spesso frammenti di persone che non ricorda di aver mai visto. Alcuni frammenti ne hanno pochissimi, altri in abbondanza. La cartuccia del suo cervello sta continuando a prendere fuoco e a dimenticare. In molti frammenti vede la campagna, il sole, il grano, una casetta, due bambini. Vede lunghi, lunghissimi capelli scuri, una frangetta tagliata troppo lunga. Ricorda un profumo, ma non lo riconosce. Quella figura è spesso presente nei suoi ricordi e spesso la dimentica.

“Ecco, le ho abbottonato la camicia” ritorna in sé, come appena svegliato. Con lo sguardo gettato sotto di sé, sui suoi pantaloni, rialza gli occhi appannati. C’è una donna, giovanissima, vestita in bianco. Strizza gli occhi, inclina un sopracciglio più dell’altro. Non sa bene chi sia e nemmeno perché gli abbia abbottonato la camicia. Si sente pulito e fresco di bucato, ma la signorina di fronte a sé continua ad osservarlo, paziente ma contrariata.

“Vi ho già vista?” la biondina, l’ha notato solo ora, chiude un attimo le palpebre. Jan immagina che sia arrabbiata. Un attimo di lucidità, frammenti di videocassetta rinvenuti dalle fiamme. Rivede questa ragazza più giovane, coi capelli sciolti, tagliati all’americana, o crede che fosse un taglio americano. Ricorda un maglione scuro e pesante, una giornata fredda. Ricorda le sue mani robuste che tremavano sul ferro della sua sedia, ricorda che lo spingeva e parlava e parlava. Di cosa non ricorda. I suoi occhi s’illuminano, ricordando ed essendo fiero di ricordare.

“Ah, certo! Sei Karla!”

“Sono Wala, signor Lukasiewisz” risponde, riaprendo le palpebre e tagliando l’aria con i suoi occhi “Sono la vostra infermiera da quasi due anni e ogni volta vi dimenticate di me” finisce di parlare, usando un tono frustrato. Nelle tempie di Jan si accende un ricordo che però non riesce a dare un’immagine. Questa scena gli è familiare, l’ha già vista. Ricorda ancora lei, la giovane infermiera, arrabbiarsi, con occhi e guance di fuoco, saltellante per la rabbia. Era divertente, ricorda. Sorride, ricordando Wala.

“Sono felice di vederti, Wala”

“Sono stata accanto a voi tutta la mattina…”

“Ah, davvero?” respira profondamente, Wala. Persino il collo le si fa rossastro e gli occhi incominciano ad annacquarsi. In piedi, ritta di fronte alla sua sedia, stringe forte i pugni. Jan sente scricchiolare le nocche e le falangi e pensa di rimanere immobile e zitto. Non ha paura, qualcosa, forse qualche ricordo o strappo di videoregistratore, gli dice di non aver paura. Non gli farà mai del male. Un po’ gli dispiace di averla fatta arrabbiare. Si guarda attorno, come se vedesse questa clinica per la prima volta.

“Cosa facciamo ora?” chiede innocentemente, ricordando con difficoltà quel che è appena successo. L’infermiera sa che sia inutile arrabbiarsi. Si arrabbia troppo e per cose stupide, lo sa bene. Le sue colleghe gliel’hanno sempre detto. Sa che non dovrebbe essere nervosa con i pazienti e che non dovrebbe farsi vedere così infantile di fronte agli altri. Soprattutto alla sua direttrice. Un mese dopo che Lukasiewisz gli era stato affidato, aveva perso la pazienza e aveva alzato la voce mentre Jan la guardava dubbioso. La direttrice l’ha vista e l’ha richiamata. Non vuole che accada mai più.

“        Andiamo fuori in giardino? A lei piace tanto” Jan annuisce, non ricordando che in quel luogo ci fosse un giardino. Wala annuisce insieme a lui, comprensiva, afferra con forza la sedia e ricomincia a spingere.

La clinica sa di dolci. Qualche infermiera deve aver cucinato il cioccolato e il Pan di Spagna. Il palato avverte lo zucchero prima della mente. Ricorda una focaccia tonda, col buco al centro come una ciambella. Ricorda di averne tagliato una fetta, non sa dire quando l’abbia fatto, e di aver visto cioccolato fuso cadere lentamente sul piatto immacolato, senza briciole. Aveva un fumo intrigante, morbida come piace a lui. Ricorda di averne mangiata molta anche fuori dalla clinica, ma ricorda dove. Forse a casa sua, in campagna. Non ricorda e non gli va di ricordare.

Un piatto gli viene poggiato in grembo, già con la forchetta poggiata dentro, tagliando in due il pezzo di torta. Non si fa domande, prende il piatto e affonda le labbra sulla forchetta. Mangiucchia piano il dolce e prova a ricordare qualcosa, non ricordando. Spesso gli accade di dimenticare pochi minuti di ricordi. Non sa chi gli abbia poggiato il piattino, né come abbia fatto a finire nella mensa. Vede solo altre persone che forse ricorda o forse con cui ha parlato. Al tavolino dov’è c’è un altro signore. Le rughe sembrano pezzi pesanti di carne che tentano di cadere nel piatto sotto di sé. La fronte spaziosa, il naso grosso, gli occhi truci. Con la forchetta scava nel Pan di Spagna, come se detestasse tanto la fetta di torta da volerla distruggere invece che gustarla. Jan lo dimentica subito e getta lo sguardo altrove. Su una sediolina è caduta Wala. Sorride, tra le mani carta. Una lettera. Jan la osserva, interessato, ricordandosi chi sia. Alza lo sguardo e riconosce con fatica una foto.

“Chi è lui?” l’infermiera alza lo sguardo, lo guarda spaventata, come un bambino guarda spaventato il genitore che lo ha appena visto con una mano nella marmellata. Arrossita, non per rabbia, guarda in basso, sulla foto. L’ha scattata l’ultima volta che ha visto il suo ragazzo a Berlino, tra il caos della città e il cielo decisamente più rilassato e calmo. Wala sospira e prova a mormorare qualcosa.

“E’ il ragazzo che sposerò” Jan guarda lei, con interesse. Wala pensa che non ricorderà mai questa foto e nemmeno la lettera che le ha inviato. Pensa che sia inutile raccontargli qualcosa, ma esita comunque “E’ di Berlino, è tedesco” mormora imbarazzata, come si è imbarazzati nel parlare dell’uomo che si ama e che presto si sposerà.

“Lo ami?” Wala guarda Jan e crede che la domanda sia sincera. Le si fanno ancora umidi gli occhi, per l’emozione. Le si fa il rossore, appena le s’incurvano le labbra.

“Sì”

Jan guarda di fronte a sé. Vede verde del giardino. Vede campagna gialla e scura. Ancora familiarità in quel che vede. È felice. Il sole sta calando, lo vede chiaramente coi suoi occhi. Riesce a vedere bene gli alberi alti e le loro ombre protratte ad abbracciarsi fra loro. Sente sotto la pelle iniziare a far freddo e l’aria iniziare a congelarsi. Fra poco sarà completamente buio. Jan guarda comunque ancora di fronte a sé, meravigliato, dimenticando e ricordando questo paesaggio sempre suo. Jan ama la campagna, il grano e le foreste nere. Gli ricordano sempre quella ragazza coi capelli lunghi e scuri e la frangetta dispettosa sui suoi occhi. È familiare e confortevole, questa sensazione. Jan chiude gli occhi. Si sente in pace.

Riapre le palpebre. La clinica non sa di dolci, né di cioccolato, né di Pan di Spagna. Si sente piccolo, d’un tratto. È seduto ancora alla tavola dov’era seduto ieri. O forse giorni fa, non ricorda. Forse è passato molto più tempo di quel che crede. Un brivido di paura ed immobilità serpeggia sulla sua spina dorsale. C’è qualcosa di diverso. Si guarda attorno e vede meno persone. Credeva che ce ne fossero molte, tantissime, tante da riempire tutta questa stanza. Ma è ora di pranzo, crede che sia ora di pranzo, e non c’è quasi nessuno. Alza lo sguardo, angosciato. L’uomo, quello scorbutico, con le rughe pesanti come pezzi di piombo, è sparito. La sua sedia è vuota. Qualcosa dentro Jan gli dice che non c’era neanche ieri e nemmeno il giorno prima. Qualcosa dentro di lui gli fa credere che questa sala sia più grigia di com’era quando era venuto qui la prima volta. Jan sente mormorare. Si volta alla sediolina, dove credeva che fosse Wala, ma lei non c’è. Sente comunque la sua voce. È offuscata, appannata, iraconda. Si chiede, intrappolato nella sua mente, se quel che senta lo stia ascoltando ora oppure lo abbia ascoltato tanto tempo fa.

 

“Mi ha abbandonata. Mi ha lasciata!”

“Come? Com’è possibile?”

“Non lo so. È cambiato. Dice che sono una razza inferiore e che non possiamo più sposarci perché macchieremo la razza ariana!”

“Ma è ridicolo! Com’è possibile?”

“E’ diventato pazzo! Gli hanno fatto il lavaggio del cervello! È come se fosse morto! Non lo riconosco più!”

“Wala, cerca di calmarti”

“No, mi ha ferita, non ce la faccio più. Devo andarmene, devo capire perché mi abbia lasciata per davvero”

“Ma dove vai? Wala, non te ne puoi andare così!”

 

“Signor Lukasiewisz” Jan si sveglia dal mormorio di ricordi senza immagini né forma. Qualcosa in lui lo rende sgarbato e gli ordina di guardare il suo nuovo infermiere con disprezzo. Non gli piace per niente quest’uomo. Né il modo in cui lo guarda, né la sua altezza e il suo rifiutarsi di guardarlo negli occhi, né come lo comandi. Jan ricorda tutto questo, come se non esistesse ricordo più importante che lui, quest’uomo freddo e rigido. Con le sue spalle alte e il suo accento spigoloso “Deve mangiare” e gli getta sotto al naso un mucchietto di patate. Jan annusa e non sente patate. Sente olio di trattore, e pellicce di ratti che un tempo girovagavano nella sua casetta di campagna.

“No” risponde secco, non ricordando di aver mai dato una negazione a Wala. Si chiede dove sia e se sappia forse un angolo della sua memoria dove sia potuta andare. L’infermiere non annuisce, ancora morto di animo, ancora fiero per qualcosa che lui non comprende.

“Allora non mangerà nulla anche oggi” afferma ancora, indifferente, con l’accento irritante. Ritira piano il piatto e, come un fantasma, svanisce. Jan sente il proprio stomaco lamentarsi e si spaventa. Ha fame, davvero tanta fame.

Il cielo del suo paesaggio preferito sembra sempre lo stesso. Anche il tramonto non pare aver mai cessato di cadere dietro agli alberi e le loro ombre si abbracciano come al solito, come cullate dal tepore dei raggi arancioni. Eppure Jan si sente distante, intimorito persino delle proprie spalle. Sente di essere osservato e non con affetto come lo è sempre stato, o crede di essere sempre stato. Jan non ricorda quasi nulla della sua vita, ma riesce a ricordare bene ogni giorno di quel che succede nella clinica. Le infermiere, quelle giovani, frizzanti o infantili, le hanno sostituite con donne adulte e fredde. Non ha mai visto un dolce guardo da loro. I suoi compagni alla clinica che ricorda ora, sono quasi tutti spariti. Chi chiuso, chi veramente scomparso. Non capisce bene cosa accada in quelle quattro mura, ma hanno persino distrutto il paesaggio che tanto adora e che forse gli ricordava qualcosa. Guarda con più attenzione il nero sopra alle cime nere degli alberi, interessandolo di più, rendendolo più attento. Si sente triste.

La sedia sembra muoversi, sembra scendere lentamente verso la collina su cui si è appoggiato. Non ricorda come fermarsi, non ricorda come muovere le ruote e cessare di cadere. Vertigini, tremiti. Sta scendendo verso il nero del grano. Senza stelle, senza luna, Jan non sa che fare e semplicemente non fa nulla, intristito. La sedia è veloce, troppo veloce. Chiude gli occhi, immaginando già l’impatto, immaginando già il dolore. Le ruote volano e una si fora. Una pietra appuntita l’ha spezzata. Il corpo anziano e leggero di Jan sbalza, come preso il volo. Jan ha ancora gli occhi chiusi, ancora ha paura. Il corpo cade e si spezzano le ossa. Ci sono troppe pietre, sotto la collinetta. Jan si fa male, Jan sente sangue alla testa.

Il cervelletto pare sbloccarsi, il rullino della sua memoria non brucia più. Come rinate dalle ceneri, i frammenti di ricordi ruotano veloci alla memoria debole di Jan. Vede ancora i capelli lunghi e scuri e la frangetta. Ma vede anche occhi blu con spicchi di marroncino, come piccole nocciole. Vede tra le sue braccia un bambino, lamentoso e rossiccio. Ne vede un altro affianco a sé, grassottello nelle sue scarpine, invidioso del fratellino più piccolo. Vede una lunga treccia e una mano bianca e piccina fra le sue. Vede poi un viso stanco e un sorriso esausto. Vede capelli biondicci e lentiggini su di un faccino ribelle.

Jan, ammirato dai colori e dai suoni della sua memoria, rimane ancora con occhi aperti. Gusta i ricordi come se fossero nocciole e miele, prima non sentire più l’anima nel suo corpo.

Il medico in cima alla collina inizia a camminare verso la sedia e il corpo, immaginando già il peso e la difficoltà nel trasportarli.

 

 

 

 

 

 

L’aria è fresca e calda, come se fosse estate. L’erba è immobile e statica sul verde campo. L’aria dolce del lago. Il sole che picchia malamente sulle spalle coperte dalla camicia. Il mormorio di qualche insetto che non conosce e non vuole conoscere. Un uccellino che picchietta sul legno del tronco, cercando insetti da mangiare. Polonia, innanzi a lui, abbagliato dal calore dei raggi, eppure insofferente. Respira, inspira. Non sente, ma odora comunque. È bello il lago. È bello vedere Austria ed Ungheria ancora insieme, con Italia. Polonia non sente e non potrebbe sentirli nemmeno se potesse. Troppo lontani, troppo chiacchiericcio. Chiude gli occhi e gli cade la schiena sul prato. L’erba non è umida e il sole lo scalda. Non soffre per le sue orecchie: s’è già rilassato.

Prussia sente il picchiettare sui tronchi e il fruscio del vento e ne è felice. È felice che qualcosa sia negato al biondo e a lui concesso. Lo rende più contento. Fissa lontano, dove Polonia ha guardato, dove i tre passeggiano. Gli hanno lasciato il ragazzo e loro se ne sono andati a spasso. Rilassato, ammorbidito dall’abbraccio del sole, Polonia sospira ad occhi chiusi. Poggia le mani dove cade l’ombellico. Stringe piano sulla maglia troppo grande per lui, eppure leggera. Non gli è dispiaciuto vagare tra i vestiti ed immergersi nelle stoffe: nulla gli è mai andato perfettamente con la taglia. In quegli anni, inoltre, è dimagrito e pesa quanto un fuscello. Non se ne lamenta, non si lamenta di nulla. Non c’è motivo per lamentarsi. Fa strisciare le mani dentro il tessuto colorato. Si tocca dove la pelle è più fredda e si stringe. Vuole un abbraccio.

Prussia non si è mai seduto, non ha mai avuto voglia né motivo per sedersi. In qualche modo gli dà fastidio stare fermo. I tre si sono allontanati troppo. Sembrano puntini in lontananza, lungo la scia diamantata del lago. Vede Italia saltellare con le braccia aperte come ali. Ungheria è calma ed ondeggiante. Austria più fermo, ma inaspettatamente impreciso coi passi. Pare molto più aperto. E Prussia non può che lamentarsene.

La testa è spesso impegnata e i pensieri fissi ovunque per non toccare il ragazzo che ora sonnecchia sull’erba vicino a lui. Eppure ricorda che la scorsa notte, pregato da Ungheria di controllare Polonia, lo aveva trovato il ragazzo addormentato nel lettuccio. Ricorda di aver concretamente pensato di afferrare il secondo cuscino e di premerlo sul naso pallido del polacco. Si vedeva nel sogno col trionfo di una morte creata in casa straniera, in una stanzetta straniera, con la morte di un ragazzo straniero. Aveva rivisto il rosso attorno agli occhi, le mani pizzicavano di malizia, le dita carezzavano il cuscino come se fosse un neonato. Poi Polonia si era mosso e il rosso ridivenne blu di notte. Non si era svegliato, il ragazzo, ma Prussia aveva ben pensato alla stranezza della sua testa.

Ci sta pensando anche ora, ben più calmo, ben più indifferente. Rivede sé stesso e la sua mente sporca di sangue quando, nemmeno la settimana scorsa, Polonia riebbe gli occhi. Si rivede gettarglisi addosso al collo sottile. Immagina una sua reazione, un suo comportamento. Ungheria si sarebbe gettata anch’ella su di lui e l’avrebbe davvero cacciato fuori di casa. Austria… Austria chissà. Italia avrebbe pianto. Non aveva fatto niente. La sorte e il pensiero fin troppo giovane l’hanno fermato alla porta e bloccato sul legno del muro. Ma ora ci riflette e ora immagina con più facilità. Prussia è calmo, Prussia è quieto, ma pensa comunque. Polonia ha occhi affatto appannati. Lo fissa, come se vedesse turbamento nel suo animo. Il comandante sorride e il polacco sa che non è vero e sincero.

“Quando ero piccolo i bastardelli come te li ammazzavamo” Polonia non legge le labbra, non sa ancora farlo, non ne è in grado, nemmeno in tedesco. Assottiglia le palpebre, inclina la testa. Non ha capito e vuole capire. Prussia non vuole ripetere nemmeno una sillaba di quel che ha appena espresso. Chiude gli occhi, sospira, sorride ancora, contento di aver detto ad alta voce ciò in cui crede. Si sente più leggero, senza colpe né altri pensieri. Guarda, alto, il lago diamantato, l’erba ora vivace, l’acqua cristallina. Si sente felice e sereno. Respira e stende il sorriso. Questo lago è un quadro italiano.

“Polonia, spero tanto che un giorno potrò mai ucciderti”.

Polonia lo guarda ancora, perplesso. Non ha capito ancora.

 

 

 

 

 

Feliks trasale e respira una boccata d’aria pesante. I ciuffi di capelli gli vanno negli occhi e qualche granello di polvere di gesso gli vola sulla divisa scolastica. L’aria chiusa e la puzza d’inchiostro lo svegliano completamente, quasi dimentico di essersi addormentato in classe. Non gli accade mai. Alza lo sguardo e incrocia gli occhi con quelli del maestro. Si sente osservato da ogni angolo, come un leone rinchiuso nella gabbia del circo. La stilografica immersa nell’inchiostro sembra squadrarlo male per averla lasciata imbevuta completamente nel liquido puzzolente.

“Bene, il signor Lukasiewisz finalmente si degna di aprire gli occhi a noi povera gente. Dormito bene, signore?” Feliks sente le guance prudere per l’imbarazzo e la vergogna. Il suo banco, in mezzo alla classe, lontano dalle finestre, dal muro, ma vicino alla cattedra, sembra bruciare sotto lo sguardo dell’alto maestro e dalla classe intera. Ridono tutti, mormorii leggeri. Nessuno gli ride, non direttamente, non fuori dalla classe. Nessuno prova nemmeno ad alzare le mani su di lui, ragazzino robusto e affatto debole. Ridono per la battuta e non per la sfortuna, capisce. Feliks, nonostante ciò, si sente rosso e sottomesso. Si vergogna di se stesso. Non ha voce, né parole.

“Ecco, beh…”

“E’ un peccato sapere che non abbia risposte da darmi, perché in effetti avrei delle domande da porvi” il cuoricino dispettoso salta dalla cassa toracica e sbatte contro la gola sigillata. Batte, batte come un tamburo. Le lentiggini paiono mimetizzarsi sotto il telo rosso e la fronte abbassata. I capelli arruffati cadono sulle sue palpebre. Con fatica osserva il maestro, i suoi capelli radi e i suoi baffi folti e bianchi. Per il piccolo Feliks sembra minaccioso e terribile ora. Si sente piccolo nel suo banco, sotto gli occhi penetranti del maestro, le occhiate terrorizzate dei suoi compagni e il ghigno di qualche d’uno nella classe.

“M-Ma!”

“Visto che ritiene le sue conoscenze sufficienti da non ascoltare la lezione, perché non metterla alla prova?” è arrabbiato, infuriato. Al maestro non piace quando qualcuno è distratto o non lo ascolta, lo sa bene. Feliks non dorme mai in classe, né ignora le lezioni. Non lo fa mai. Si sente sfortunato e nei guai fino al collo. Non voleva addormentarsi in classe e non voleva finire in questo pasticcio. Si chiede come abbia fatto ad essere così sfortunato proprio oggi, proprio quando la sera scorsa era così impegnato. L’insegnante lo guarda ancora, aspettando una reazione. Pensa che ormai sia spacciato e che sarebbe meglio giocare al suo gioco, o almeno così dice sempre suo padre.

Sospira e deglutisce.

“Bene, mi dica di preciso il motivo per cui iniziò la Grande Guerra” Feliks vede brillare di fronte ai suoi occhi una cascata di stelle e comete. Uno scomparto della sua memoria si apre e vede luce “Spero che se lo ricorda” certo che se lo ricorda. Ricorda suo padre, tornato la sera tardi da Varsavia, con la fronte bassa e gli occhiali pendenti. Ricorda quando si sedette sul divano e buttò i fascicoli dell’università sul tavolo della cucina. Pagine e pagine di testi scritti da alunni che mai conoscerà. Era arrabbiato, nel suo modo. Incrociava le dita sulla fronte coi capelli e le rughe di sforzo. L’esame dei suoi alunni era andato male, sbagliando domande di storia internazionale e non solo polacca. Gli occhiali sembravano pizzicargli sul naso. E’ incredibile, disse fuori di sé, che tra i giovani ci sia così tanta ignoranza! Non sanno nemmeno perché iniziò la Grande Guerra!

“Iniziò perché l’Arciduca austriaco Franz Ferdinand era stato assassinato a Sarajevo, nel… 1914” mormorò con fatica la data, ricordando bene la scansione che fece il padre quella sera. Wladimir Lukasiewisz è logorroico quando è arrabbiato, soprattutto se la materia trattata era l’università. Soprattutto quando a sbagliare erano degli allievi particolarmente ottusi. Si sedeva e faceva sedere qualcuno vicino a sé. Ripeteva e ripeteva domande, risposte errate degli studenti e quelle esatte che avrebbero dovuto scrivere. Feliks era tra i primi che si sedeva sul divano insieme a lui. Guerre, alleanze e date, tutte ripetute più e più volte. A Feliks piace la storia e suo padre, a modo suo, gliela insegnava e lui la ripeteva in classe. Qualcuno negli ultimi banchi sbuffò e rigirò i pugni, altri d’avanti sospirarono di sollievo e ammirazione. Il maestro sbatte le palpebre e se le massaggia, deluso e forse anche sorpreso.

“Ah, è stato piuttosto facile. Siete stato molto fortunato, potrei anche ascoltarla in un’altra domanda…” la campanella trilla indispettita, come un’ape incastrata in un barattolo di marmellata. Non la finisce più di strimpellare e per Feliks è come un grido di esulto. È salvo, il maestro non gli farà più domande a sorpresa. Si sente leggero come un palloncino. L’ansia e l’attesa evaporano dal suo corpo “Avete più fortuna di quanto credessi, Lukasiewisz” qualcuno si alza, i suoi compagni iniziano già ad eclissarsi dalle quattro mura, come inseguiti da un esercito di vespe e mosconi. Inizia la pausa, inizia la ricreazione. Il maestro si allontana, per Feliks ormai è solo un’ombra innocua “Filip, impegnati di più la prossima volta. Jozef, smettila di impiastricciare il banco, nella mia ora non ci sono artisti emergenti. Lukasz, i compiti si fanno ogni giorno e non solo quando ci sono io in classe. Rafael, la storia è una materia importante nella vita, non dimenticarlo. Simeon, non sospirare sempre, la vita è ancora lunga per te. E Feliks…” il ragazzino si blocca sulla sedia “…la notte solitamente si dorme” e ritorna alla cattedra. Feliks, felice e leggero, si alza anche lui.

La classe è quasi vuota, solo qualcheduno ha deciso di spendere alcuni minuti in più. Il banchetto di Feliks è al centro della scatola quadrata che è la sua classe. Il ragazzino è abituato a poche cose in questa classe, a malapena è iniziato settembre. Con strazio sua madre gli comprò una nuova uniforme, cresciuto in meno di un anno, fatte le spalle più sode e le cosce più magre. Quasi tutti hanno la camicia, la cravatta e il panciotto blu. Sua madre e lui stesso hanno girato molto nelle ultime settimane. Tutti i panciotti blu erano finiti. Solo uno rosso, solo uno scartato il giorno prima da un altro bambino. Gliel’ha infilato con disperazione e preghiere, affinché nessun maestro potesse lamentarsene. Già da quasi tre settimane andava a scuola e nessuno sembrava notare quella macchiolina rossa in mezzo ad una classe pacificamente azzurra.

I muri sono azzurrini, appena dipinti, con una linea più scura e quasi simmetrica. Feliks si era divertito a cercare un punto sbagliato nella linea in mezzo al muro azzurro, eppure niente. Nemmeno pende troppo verso il basso o verso l’alto. I banchi bassi, la cattedra alta, le finestre ancora senza tendine, ancora spoglie, l’aria di pulito. E’ ancora estate e possono aprire le finestre quando desiderano. Possono anche correre fuori in giardino. L’anno scorso e anche quello prima c’era così tanta neve che avevano portato da casa gli slittini. Feliks spera che anche quest’anno faranno la stessa cosa. Gli piace di più la neve che il caldo del sole. Gli piace di più il bianco che il verde. Il giardino fuori dalla finestra è già pieno di ragazzini piccoli e grandi. Ora si accorge che gli brontola lo stomaco.

Il maestro è ancora alla cattedra, chino sul registro e altri fogli che non comprende. La porta è chiusa, qualcuno l’ha chiusa per sbaglio. Sollevato, provando ad ignorare l’avvenimento tra i due, Feliks si avvia alla porta. Il maestro sembra non averlo visto. I baffi lunghi quasi toccano il legno tanto è chino. Spettinati sono anche i ciuffi di capelli quasi grigi, la pelle e le rughe pesanti, cadenti sui fogli. Feliks spera che non faccia sapere ai suoi che abbia dormito in classe. Spera che sua madre non lo saprà mai e mai vedrà la stanzetta all’ultimo piano della loro casa. Quella che prima era la sua stanzetta quando era piccino, quella che la notte scorsa ha dipinto con furia, fino al mattino. Non l’ha ancora finita e crede che non si sia nemmeno asciutta completamente. La pelle quasi sfiora la maniglia della porta.

“Lukasiewisz” un tonfo al cuore, un altro salto verso la gola “Vorrei parlarti un momento” è furibondo, pensa il bambino. Deglutisce, si sente lento e pesante, ardente ed imbarazzato, ancora una volta. Ricorda però la campanella suonata e la risposta corretta, allora si volta con meno peso alle gambe. Si avvicina con timidezza. Immagina scuse che deve pronunciare e suppliche per non farlo sapere ai suoi genitori. E neanche alla zia Dorota. Già è diventata triste lei, non vorrebbe darle un dispiacere. Gli si bloccano i piedi di fronte alla sedia del maestro. Guarda in alto, pronto per qualsiasi sgridata. Certi maestri danno ceffoni ai ragazzi, ma il suo no, per questo è tranquillo. Il suo maestro però non è molto paziente, per questo è teso. Pensa ancora alla sua mamma e al suo papà. Non vuole che lo sappiano. Il maestro si sfrega ancora le palpebre coi polpastrelli. Quando è rilassato fa così, ricorda.

“Feliks, ho apprezzato il tuo impegno l’anno scorso nelle mie materie, soprattutto per il polacco e la storia…” il bambino ricorda suo padre e annuisce all’insegnante “…e anche in queste settimane ti stai dando da fare, nonostante i problemi che noi tutti abbiamo…” Feliks ricorda lo zio Darek e il suo funerale avvenuto meno di un mese fa. Ricorda Tymek, scomparso dall’accampamento e ancora non ritrovato, eppure per tutti morto. Ricorda la zia Dorota e quanto piangesse, nonostante lei non si addolorasse mai. Ricorda il nonno Jan trovato con la testa rotta e il collo spezzato. Ricorda che il maestro ha due figli e uno dei due l’hanno ancora ritenuto disperso. Ricorda il papà di Simeon, seppellito nella chiesa vicino alla casa di Filip. Annuisce e si sente triste “…ma voglio comunque essere certo che i tuoi progressi continuino allo stesso ritmo e non vedendoti addormentato in mezzo alla lezione” Feliks ricorda la vergogna, annuisce e deglutisce “Non dirò nulla ai tuoi genitori, ma che non riaccada mai più, intesi?” Feliks ricorda la paura e annuisce “Perfetto, puoi andare a giocare” il bambino sospira di sollievo, si volta, apre la porta ed esce fuori.

Il giardinetto della scuola di Feliks è veramente grande. Più grande della vecchia scuola di Tymek e un tempo se ne vantava con lui per guardarlo con superiorità. Non hanno ancora completato la stradina di pietrisco che collega l’entrata della scuola col giardinetto, ma nessuno lo nota per davvero. Feliks addenta il suo panino e mastica con la bocca aperta, ingoiando più ossigeno che pezzi di carne. Ingoia e lecca con la lingua i residui sul labbro. Respira con tranquillità e calpesta l’erba sotto i suoi piedi. Gli dispiace vedere così tanti bambini come lui nel giardinetto: hanno già preso tutti un posto sui giochi. E con difficoltà qualcuno ne cederà il posto, tutti avari ed infantili. A Feliks non importa molto di loro e nemmeno di giocare. Il suo panciotto rosso taglia in due il verde dell’erba e il blu delle uniformi. Avanza con un cipiglio quasi arrabbiato, anche se docile. Feliks sembra sempre arrabbiato, anche quand’è contento. I suoi compagni lo sanno e l’hanno saputo in breve. Il bambino si siede ad una panca, in mezzo al chiacchierio e alle urla. Seduto, come se non sentisse o vedesse movimenti, scarta ancor di più il fazzoletto azzurrino della mamma e morde a grandi bocconi il panino e la salsiccia.

Avvinghiati ad un’altalena, tutt’altro che seduti, alcuni piccini, nuovi e senza ancora le divise, osservano di sottecchi il rosso di Feliks. Due di loro, con le facce più tonde degli altri e i nasini ancor più schiacciati, ancora stretti all’altalena, cacciano gli occhi su di lui. Vedono un biondino, con le spalle grosse, basso ma colerico di sguardo, e sussultano. Sono bambini appena entrati nella scuola, che non sanno nemmeno come tenere in mano una stilografica e come asciugarne l’inchiostro. I due guardano ancora con preoccupazione. Feliks vede gli sguardi e ricambia, indifferente, masticando con ancora più forza. Ma per i due questo è come un avvertimento a non impicciarsi nei suoi affari, allora singhiozzano e lasciano l’altalena, spaventati. Feliks osserva i vestiti svolazzanti dei bambini, alza le spalle e morde ancora il panino.

Un grosso gruppetto di macchie azzurre pare avere un cervello ed un capo e, come tante pecorelle, si dirigono in una direzione precisa. Feliks addenta ancora e strappa al panino un grosso pezzo. Non gli dispiace che nessuno si sieda vicino a lui, troppo spaventati i piccini e distaccati i più grandi. Gli piace essere solo e poi il verde non lo attira. Spera che arrivi in fretta la neve, così potrà andare anche a pattinare con la zia Dorota, che lei pattina come una campionessa. Il gruppo di macchioline azzurre si stacca dal verde e gira l’angolo. Feliks conosce bene quel gruppo, allora li ignora. Ha fatto già a pugni con loro e non vuole fargliela pagare per come l’avevano preso in giro. Già la maestra l’ha richiamato e ha fermato quei bulletti. Feliks ha vinto, eppure sua madre lo ha trattato come uno sconfitto. Ora lo evitano e a lui sta bene.

Nemmeno se n’era accorto, ma qualcuno si era seduto sulla sua banchina vicino a lui. Feliks mastica con forza, coi denti impiastricciati di pane umido. Occhiali tondi, panciotto blu, magro e leggero come uno stuzzicadenti. Il bambino lo guarda timido, con occhi sottomessi. Per poco non l’aveva riconosciuto. Mastica e ingoia il suo pezzo di pane. Era l’ultimo, ha finito la sua merenda. Gli occhiali tondi del bambino lo guardano dal basso verso l’alto, con le mani tormentate. Feliks fa passare la lingua sui denti e quello deglutisce.

“Che c’è, Simeon?” domanda, per nulla irritato, anche se con voce differente. Simeon ha sentito rabbia ed impazienza, allora sobbalza. Simeon è sempre triste, sa. È nuovo nella loro classe e già una cerchia di impiccioni lo sta prendendo in giro e spintonando. Una volta l’ha trovato col naso sanguinante e gli occhiali spezzati. Il giorno dopo l’ha ritrovato in classe con un gigantesco cerotto marroncino e degli occhiali più ovali che tondi. Una volta l’ha scovato accerchiato da degli spacconi, quella volta ha fatto a pugni con loro. Quella volta ha rotto il naso a Rafael e al suo amico Lukasz e la maestra li ha fermati e ha chiamato i loro genitori. Quella volta Feliks si era sentito solo deluso e tutti ora lo ignorano o lo guardano spaventati. Ma lo facevano anche prima, per questo a Feliks non importa. Simeon lo guarda supplichevole, allora capisce. Butta tutte le briciole in terra, si pulisce un po’, si alza e cammina affianco al bambino. Entrano a scuola, più serena che nel giardinetto.

“Hey, ho sentito di tuo zio e di tuo nonno”

“Ah…”

“Mi dispiace” Feliks annuisce, dispiaciuto anche lui, nonostante Simeon legga tutt’altro. Gli manca lo zio Darek e anche il nonno Jan, anche se a malapena lui sapesse come si chiamasse. Ma non gli importava, non era molto importante. Non se n’era mai lamentato. Gli piaceva anche lo zio Darek. Era simpatico, faceva sempre felice la zia Dorota e sgridava Tymek quando gli dava fastidio. Ancora non ha ben realizzato che non ci siano più. Si sente stringere il cuore e l’aria mancare, ma non vuole più piangere. Simeon lo guarda ancora da dietro le lenti trasparenti.

“Io ho sentito di tuo padre, ma non so bene cos’è successo” Simeon si fa cupo, le lenti paiono diventate nere, i capelli piatti e senza vento. Per quanto sappia, Feliks ha sempre visto Simeon come grigio e triste. Non era così prima. Prima che morisse suo padre era almeno studioso. Studiava anche più di lui. Prima Simeon era giallo come il sole, come la sabbia del deserto. Feliks lo ricordava ben diverso e con capelli biondicci. Potrebbero essere anche grigi come delle nuvole quiete, per come potrebbe descriverlo. Prima Simeon era quasi smorfioso e col naso all’insù, ora non si permette nemmeno di sorride.

“Gli hanno fatto un buco proprio qui” il suo dito punta verso la gola, nell’osso dietro la carne. Feliks immagina già sangue e sporcizia, allora sussulta intristito “L’hanno portato indietro dalla mamma e la nonna. La mamma ha pianto tanto” si ferma un attimo, con occhi di un grigio più scuro.

“Avete fatto il funerale?”

“Si, domenica scorsa” Feliks s’intristisce. Non aveva mai assistito ad un funerale, la sua prima volta fu dello zio. Immagina che anche per Simeon sia lo stesso. Simeon tira il naso e Feliks si preoccupa. Crede che voglia piangere e si impietosisce.

“Stai bene?”

“Sì” tira ancora su il naso. Feliks non ne è sicuro, ma non protesta. A lui dà fastidio piangere di fronte a qualcuno, allora sta zitto. Al funerale del nonno, quando ha visto la salma, ha singhiozzato come un bambino. I bambini non possono avere sorelline, per questo si è vergognato tantissimo. La loro classe è vuota e silenziosa. Le finestre ancora spalancate. Si avvicinano a quelle, a quei banchi. C’è il banco di Simeon. Il bambino lo guarda triste, Lukasz l’ha già scarabocchiato tutto. Scoraggiato, ma non sconfitto, Simeon prende una gomma e inizia a cancellare. Le scritte sono grandi e troppe per lui. Gli ci vorrà tempo, pensa Feliks. Comprensivo, schifato, prende anche lui una gomma e lo aiuta. Simeon nemmeno lo guarda e non sa dire se apprezzi.

Dupek.

“Quando c’era papà nessuno mi trattava male” dice, come se avessero parlato fino ad ora. Feliks non si sorprende troppo e continua a cancellare. Il banco sta già cominciando a diventare bianco. Feliks da qualche tempo viene spesso chiamato da Simeon. È come se avessero sempre avuto un accordo fra di loro. Feliks lo accompagna in classe, come una guardia del corpo, e Simeon si siede in classe o cancella il banco. Feliks è bravo ad ascoltare e a vedere, per questo sta zitto. Non sa dire se Simeon sia un suo amico o no, ma gli addolcisce la giornata stare con lui.

Gòwno.

“Ora è tutto diverso ed è proprio brutta questa cosa” si aspettava che sospirasse, eppure niente. Non gli piace tanto questo nuovo Simeon, ma nemmeno quello di prima gli andava molto a genio. Lo ricordava sgargiante ed orgoglioso. Lo ricordava altezzoso e vivace. Era quasi seccante, Simeon. Con quell’occhietto che sapeva qualsiasi cosa, quelle orecchie perennemente aperte alla sua testa, quel colletto preciso e il labbro perennemente alzato. Era irritante, ma felice. Feliks cancella, come se fosse nato solo per fare questo.

Niemiecki.

“        Prima era tutto molto meglio” getta la gomma, hanno finito. A Feliks fa male il polso e se lo stiracchia. Simeon si è poggiato sulla sedia e guarda fuori. Feliks si poggia sul banco dietro di lui e fa lo stesso, coi suoi occhi quasi furiosi. Fuori i bambini e i suoi compagni stanno ancora giocando come tanti pulcini blu. I due non li guardano e fanno strada agli occhi verso l’alto. Oltre le nuvole e il verde c’è Varsavia, la città. Sembra lontana, il verde troppo vicino, sembra essere un luogo mai visto. Eppure Simeon ci abita e Feliks dalla campagna va sempre a scuola la mattina. Simeon è pensieroso e per Feliks sembra veramente distrutto “Credo che me ne torno a casa” l’altro lo guarda, affatto sorpreso.

“Ancora?”

“Sì, sennò mi picchiano” Feliks ritorna a guardare fuori, oltre gli alberi, verso un grigio più chiaro, quello della città. Non si sorprende e non è nemmeno preoccupato. Simeon scappa spesso da scuola in questi giorni. Spesso la madre è a lavorare e non trova nemmeno la nonna ad aspettarlo, almeno così dice. I maestri per ora non dicono nulla, ma il bambino crede che fra qualche giorno, se le cose continuassero in questo modo, allora Simeon sarebbe in un mare di guai. Per Feliks è ovvio, ma non vuole nemmeno fermarlo per preparare lo zaino. Se Simeon si sente male per il suo papà, allora lo capisce. Anche lui si sentiva male andando a scuola, pensando al nonno e allo zio Darek. Si sente male anche ora, ma non voleva vedere la zia ancora triste. Simeon si mette lo zaino in spalla, pronto. Sembra esitare, Feliks pensa solo che abbia dimenticato qualcosa. Qualche libro sotto al banco, forse.

“Grazie comunque, Feliks. Per… per avermi aiutato, insomma”

“Uh, certo” risponde, continuando a guardare fuori. È sinceramente arrabbiato con Simeon. Perché scappa e non affronta la realtà, come dice suo padre. Ma suo padre gli ha spesso detto di non arrabbiarsi sempre e di sembrare sempre calmo anche quando non lo è affatto, per questo guarda fuori e non il compagno.

“Sai, quando il papà è morto sono andato in chiesa e ho visto quella regina” sembra pensarci su “Quella morta giovane… quella che il maestro ha spiegato sulla Confederazione coi lituani, ricordi?”

“Ah, sì, Jadwiga”

“Sì, infatti, Jadwiga” risponde, come se in realtà non gli importi molto il suo nome “Ero così arrabbiato con tutti che mi sono messo a pregare a lei” gli racconta, come se fosse importante, molto importante. Feliks si accorge del tono grave, come se confessasse un peccato ad un prete, per questo volta il capo e il verde diventa ancora grigio “Ero davvero arrabbiatissimo. Le avevo chiesto di uccidere tutti quanti a scuola” Feliks s’inquieta, Simeon si aggiusta gli occhiali, vergognandosi “Tutti quanti. Il maestro, la maestra, Lukasz, Jozef, Rafael, tutti. Però tu no” Feliks lo guarda ancora, preoccupato “Ho chiesto che morivano tutti, ma non tu. Tu sei l’unico buono qui” avanza un sorriso timido. A Feliks non è mai importato troppo l’andare in chiesa e nemmeno sa cosa siano veramente le preghiere. Ma per Simeon sembra una cosa molto importante, allora si imbarazza, non sapendo nemmeno per cosa. Si sente rosso in faccia, proprio come lo era col maestro.

“Grazie…”

“Io vado, ci vediamo” sta per oltrepassare la porta, col suo zaino pesante e molliccio, grigiastro come tutto di lui. Feliks lo vede fermarsi e voltarsi giusto per un attimo “Uh, senti, ma perché ti sei addormentato oggi in classe?” Feliks arrossisce, ma non si vergogna, non come col maestro. Pensa che non ci sia nessuno in questa classe e che tutti stiano giocando fuori e non saprebbero mai nulla di quel che dirà. Deglutisce, imbarazzato, con una voce più mortificata che aggressiva.

“Stavo dipingendo una vecchia stanza ieri…”

“        Ah, perché?”

“Volevo dipingerla tutta di rosa” Simeon si volta completamente e lo zaino lo segue. Lo guarda incredulo. Feliks lo guarda arrabbiato, veramente furioso. Ma anche rosso, veramente impacciato “Era per la mia sorellina… Ci ho messo tutta la notte per dipingerla e non l’ho ancora finita”

“Oh, non sapevo che la tua mamma aspettasse un bambino” Feliks annuisce, più sicuro di sé, molto più fiero del suo desiderio “E come sai che sarà una femmina?” Feliks lo guarda penetrante, imbronciato.

“Lo deve essere, altrimenti lo chiamerò Tymek e lo prenderò io in giro quando sarà grande!” esclama, le lentiggini ancora sparite sotto un altro strato di rosso. Sa di aver detto una bugia. Anche se sarà un maschio non lo chiamerà mai Tymek: ce n’è già uno nella sua famiglia che si chiama così e uno basta. Perché Tymoteusz non è morto, è solo scappato dalla guerra ed è sparito, codardo com’è. Così ha capito Feliks da sua madre, mentre i pensieri della donna erano ben diversi. Non voleva farlo soffrire, così ha fatto semplicemente scomparire suo cugino. Feliks non sa questo e viene calmato dal sorriso di Simeon, ironico, burlesco, familiare.

“Va bene, come vuoi” e pare veramente uscire fuori dalla classe. Si ferma ancora e per Feliks sembra quasi una presa in giro “Senti, qualche giorno vieni a casa mia a giocare?” il rossore di vergogna e rabbia del bambino diventa marmo bianco. Guarda il compagno e l’istinto lo fa annuire, commosso, incredulo. Simeon sorride ancora, saluta con la mano e scompare. Feliks, da solo nella stanza vuota, batte le palpebre, diventate d’un tratto pesanti. Sente di aver trovato un amico. Confuso, ma comunque felice, si siede al suo banco e aspetta. La campanella trilla subito dopo e qualcuno incomincia già ad occupare i posti.

Feliks non sente la lezione della maestra e perde molte frasi che dice di geografia. Non hanno ancora una cartina in classe, per questo si arrangiano con il loro libro colorato. Feliks guarda la cartina dell’Europa e tutti i colori brillanti ed inopportuni. La Polonia, squilibrata e bruttina, è di un viola troppo chiaro, quasi rosa. Per un attimo Feliks si chiede perché la Polonia debba avere un colore così ambiguo. La Germania e l’Unione Sovietica sono rosse. L’Inghilterra verde palude. La Francia celeste. Anche l’Italia è blu, solo un po’ più scura. Feliks guarda la Germania e quel rosso lo trapassa come una lama. La spoglia dello zio era stata forata da proiettili, ferite aperte e occhi scavati che fuoriuscivano dal cranio. Darek sembrava un mostro uscito dalla terra e aveva un rosso tanto agghiacciante da mostrarsi anche se lavato. La zia Dorota aveva urlato e si era gettata su di esso. In quell’attimo Feliks aveva avuto la consapevolezza che quello fosse un corpo morto.

La maestra viene chiamata fuori da un’altra donna. Esce fuori, dopo un attimo la classe ritorna a chiocciare come galline. Feliks, della fila centrale, al centro della classe, ha ancora la testa schiacciata sull’immagine dell’Europa. La maestra è nuova e giovane, sa bene. Talvolta, non sempre, viene chiamata fuori dalla balia per allattare la figlia, ancora neonata. Tornerà presto, lo sa bene, per questo resta impiastricciato nei colori delle nazioni. Si sente irrequieto e triste, per questo non si muove.

Qualcuno bisbiglia, vede occhi puntati sul banco vuoto e il nome di Simeon si fa sentire. Feliks d’istinto punta gli occhi anche lui sul bianco del banco appena pulito. I compagni, chi preoccupato, chi curioso, curiosano e si chiedono domande senza risposta. Feliks sbuffa, ritornato inquieto, e giocherella con l’angolo della carta del libro. Il padre di Simeon era importante e il figlio lo esaltava quasi ogni giorno. Il generale aveva medaglie e distintivi, la Polonia lo acclamava. Simeon aveva un padre fiero e dignitoso. Feliks guarda il rosso della Germania e si chiede perché una nazione più grande della sua debba far del male alla sua casa e a quella dei suoi amici. Assai nervoso, si chiede perché debba per forza uccidere suo zio e far piangere e opprimere sua zia. Feliks non lo capisce e si sente impotente.

La maestra torna in classe, senza gemiti d’infante nel corridoio. Come galletti di fronte ad una volpe, tutti tacciono e rimangono fermi ai loro posti, come se mai fosse accaduto il chiocciare di prima. Feliks non si è mosso. Alza gli occhi sulla maestra, sottile come uno spillo, e si ricorda della figlia lasciata alla balia fuori dal corridoio. Ricorda sua madre e della pancia non ancora soda, ma tonda. Una scintilla di ricordo brucia e si rivede nel rosa della sua vecchia cameretta. Pensa che debba per forza essere una femmina, quella che ha nel ventre sua madre, altrimenti avrebbero un cattivo in casa. Come Tymek. Feliks non vuole un altro come lui. Vuole una bambina pacifica come sua cugina Klara, che dorme sempre e quand’è giorno lo guarda interessato da quel faccino tondo e rugoso. Ricorda Klara e i ciuffi biancastri cresciuti quel mese. L’istinto lo fa sorridere. Pensa che non sia tutto perduto. Lo zio Darek se n’è andato e anche il nonno Jan e forse anche quell’antipatico di Tymek, ma la sua sorellina deve ancora arrivare. Alza il viso e lo poggia sulla mano, piantato il gomito al banco. Guarda la maestra sorridendo come uno che ha vinto e sa che vincerà ancora. Lui vivrà felice con la sua nuova sorellina e questa sarà l’amica del cuore di sua cugina Klara. Andrà tutto bene, deve solo aspettare.

La maestra smette di spiegare. Ancora annoiati, gli alunni attendono. Gli occhiali abbaglianti della donna sono immobili, impiantati alla finestra chiusa. Qualcuno vicino alla cattedra si allarma. Qualcuno nelle file più lontane bisbiglia. Feliks, al centro, nota la riga di sudore sulla fronte della maestra e le labbra schiusa. Mormora qualcosa alla classe, Feliks non ascolta. Guarda dove la donna sta sgranando gli occhi. Qualcuno imita il bambino. Un solo sguardo attira più del miele con le api. Più occhi incrociano il vetro delle finestre.

Fuori c’è il sole, appanna il verde degli alberi del giardinetto. Lo sguardo viene lanciato più in alto. Feliks non vede cosa stia succedendo. Si alza dalla sedia e gli altri lo imitano. Vede un punto nero, a forma di aereo, che rimane impigliato nel cielo azzurro. Sopra ad un palazzo, o a quello che pare un palazzo, il punto nero continua a sorvolare, con l’ala pendente verso il cielo. Svolta veloce, senza far rumore. L’aereo getta una piccola parte di sé, nera e ugualmente terribile. Feliks sente silenzio, nemmeno il corridoio parla, nemmeno la classe accanto, nemmeno la maestra. Il sole tocca l’alto del cielo e quel frammento di nero, sporco, marcio, cade sul palazzo.

Scoppio bianco, scoppio dalla terra. Feliks è abbagliato da quella luce insormontabile che acceca l’intero edificio bianco e grigiastro. Il bambino, concentrato, ammirato da quella novità, si sente piccolo, paralizzato, in pericolo. Il vento improvviso tira l’erba, l’altalena e gli alti alberi. Pare trascinarli e volergli strappare. Feliks si riscuote, il suo cuoricino batte ancora. Sbatte le palpebre, il vento tira ancora. Gli alberi avvinghiati alle corde dell’altalena, quelli che il bambino ha sempre visto fin da quando entrò per la prima volta nella scuola, paiono gracili. L’aria dello scoppio fa cadere le chiome più scure. I compagni di classe sbarrano gli occhi: le radici si mostrano e cadono all’insù. L’altalena vola con tutta la corda e il ramo a cui era aggrappata.

Il vento picchia. Il vento forza. Il vento spacca il vetro della finestra. Il suono improvviso fa arretrare i due bambini, pulcini impauriti. Il vento batte i pugni, il vento rompe. Gli ingenui vicini alle finestre mostrano le mani di fronte alla testa. Un terzo inciampa. Il vento li spinge all’indietro. Feliks serra gli occhi e si para il viso. Sente legno strisciare sul pavimento. Sente sfrigolare i banchi. Li sente strappati e gettati verso il muro. Feliks inciampa e sbatte il braccio sul banco. Rimane lì, sul pavimento. Il vento continua con la sua prepotenza. Lo fa voltare e puntare l’orecchio per terra. Rombi di tuoni, fulmini e tornadi tra le orecchie. Urla di bambini. Ossa e carni gettate contro legno e piastrelle. Feliks sente la terra tremare e il cuore battere come un malato che sbatte, sbatte fino a perdere letteralmente la testa. Socchiude gli occhi, la saliva esce dal labbro come un piccolo fiumiciattolo. Vede bianco fuori dalla finestra. Il capo caduto sulla piastrella sfregiata dal banco. Gli occhi avanzano lacrime, non prova nemmeno a trattenerle. Grida di bambini, la cattedra trema, i libri cadono, le sedie inciampano fra i piccini per terra. Urla di dolore, qualcuno si è fatto male. Il libro di Feliks cade sulla sua mano, ancora aperto, ancora mostra le nazioni e i loro colori. Feliks è costretto a guardarla, sente non il pavimento, ma tutta la stanza muoversi.

Guarda il rosso. Guarda il centro dell’Europa. Gli escono lacrime dagli occhi.

Seppur appannati, vede. Qualcun altro piange, più di uno. Feliks non li riconosce. Guarda avanti, vicino alla finestra. Guarda Jozef, coi suoi denti da coniglio spezzati e i capelli impiastricciati di sangue. I vetri della finestra si sono gettati su di lui, hanno tagliato la tempia. Josef tocca la carne con le dita. Urla, con le lacrime agli occhi. La maestra non parla, forse non sta bene, forse è morta, pensa la sua paura. Feliks sente la bile scendere dal suo naso, bollente come mercurio. Geme, sente con l’orecchio un’altra scossa. La classe si muove ancora. Il libro di geografia è sparito. Pensa al sorriso ingenuo del nonno Jan e a come lo zio Darek gli spazzolava i capelli con la sua mano grande e forzuta. Feliks piange e non gli importa di essere bambino. Sente grida di aiuti, sente schiamazzi. Non urlano solo loro in classe. Qualcuno chiama la maestra, qualcuno il papà, qualcuno la mamma.

“Mamma…” geme Feliks. Non aveva mai chiamato lei, troppo severa, troppo impaziente. Pensa a come lo abbracciava quand’era più piccolo, quando si faceva male quando correva dietro a Tymek. Feliks sente l’aria puzzare e il gas infilarsi fra le narici. La classe trema ancora, i banchi ora si spostano verso la finestra. Guarda in alto, verso il soffitto, vede bianco, vede mattoni e legno spaccarsi sulla sua testa. Vede qualcosa esplodere. Sente che qualcosa starà per esplodere su di lui. Questa lo inghiottirà e lo ucciderà.

“Mamma…”

Grida e macerie, orrori e sangue. Il bambino guarda la sua scuola, fuori dal cancello, con lo zaino sulla schiena, caduto tra i ciottoli e la sporcizia. L’edificio azzurrino, i mattoncini imbiancati, il cancello caduto come montagna di carte da gioco. La scuola si spezza in due, come casetta di bambola. Il bambino si sente sporco, le mani fradice di melma, le strade allagate dalla fanghiglia delle fogne. Pensa solo una cosa che ha detto e piange, piange come chi ha sbagliato e non potrà più rimediare. Il povero Simeon sembra una maschera di disgrazie e sofferenza.

 

“Ero così arrabbiato con tutti che mi sono messo a pregare a lei”

 

“Le avevo chiesto di uccidere tutti quanti a scuola”

 

“Tutti quanti. Il maestro, la maestra, Lukasz, Jozef, Rafael, tutti”

 

Dovevano morire tutti, ma non lui. Lui non aveva colpa di nulla.

E intanto Varsavia viene violentata dagli aerei nemici, come se bambini ed anziani valessero meno della sporcizia in cui si rotolano i maiali.

 

 

 

 

 

 

Russia alza lo sguardo dal libro e capisce che c’è qualcosa di strano. Estonia ha poggiato la scopa nell’angolino tra il muro e la finestra e rimane incastrato lì, di fronte alla luce del mattino. Russia si sveglia presto per abitudine, Estonia si sveglia presto per sostituire i suoi fratelli. Affaccendato e stanco si veglia all’alba e cade sul letto, ben oltre il tramonto. Non si ferma, né si lamenta, forse per questo che Russia nota a malapena la sua stanchezza. Non può farcela da solo, ma non deve penarsi per questo: l’ha tradito ed è giusto così. Eppure ora si è fermato e ora è diventato uno con la luce.

Russia si alza dalla poltrona e gli si avvicina. Estonia sa che lo guarda, anche con tensione, ma non si volta. Rimane lì fermo, protetto dai raggi del mattino, con gli occhiali concentrati e luminosi. L’uomo affianco a lui non sa che fare e non crede che questo sia un capriccio del ragazzo. Fa un passo pesante e tocca la spalla di Estonia con la mano. Strizza gli occhi ed osserva. Il giardino è il solito, il cancello affatto. È spalancato, lasciato aperto. Qualcuno entra e si mimetizza nella foschia dell’alba, sottile ed argentea come se fosse nebbia. Estonia sobbalza e pare che gli occhiali abbiano più luce attorno alla lente.

“Lettonia!” esclama, inciampa nel tappeto, ritorna alto e corre. Russia cammina veloce, dietro di lui. Sente freddo alla pelle e caldo al cuore. Batte come un tamburo di guerra. Estonia salta i gradini della scalinata, evita un altro tappeto. Affaticato, emozionato, angosciato, spalanca il portone. Russia vede la figura minuta del ragazzino scomparire sotto le braccia e il peso del fratello. È felice e tremule, l’estone. Il portone si spalanca completamente, preso dalla foga e dalla forza di Estonia. Sta per richiudersi. Russia è veloce ma cauto e lo ferma. Guarda innanzi a lui, abbassa solo poco gli occhi. Ucraina, sua sorella, sorride umile, come se la benda non desse alcun peso alla sua testa. La guarda e gli si appannano gli occhi. Ucraina è serena e sta bene. Lei ha portato a casa Lettonia, lei sta bene. Sta bene, sta veramente bene. La mano sul legno della porta, tanto trema che cade. Vorrebbe abbracciarla.

Estonia libera Lettonia dall’abbraccio. Il ragazzino lo guarda con timore, che lo costringe a gettare gli occhi su di lui e levarli dalla sorella. Deve avere un volto ambiguo, poiché il piccolo non ha ancora smesso di osservarlo impaurito. Russia non sa cosa pensare. Il calore al suo cuore è fin troppo opprimente per farlo ragionare limpidamente. Sente girare la testa. Stanno succedendo troppe cose e non si è ancora accertato delle condizioni della sorella maggiore. A Russia il caldo opprime le viscere, a Lettonia il freddo lo investe.

“Sono… sono tornato per stare vicino ad Estonia e per far guarire Ucraina. S-Sempre se lei voglia” non trema più la voce. Nemmeno le gambe, nemmeno lo sguardo. Lettonia è dritto innanzi a lui e, anche se gli occhi temono il peggio, il corpo è rigido e sicuro. È diventato grande. È diventato coraggioso. Confuso, commosso, con occhi più appannati, Russia lancia uno sguardo alla sorella. Le muore il sorriso, con lentezza accenna con la testa. Lettonia ha portato a casa Ucraina. Estonia l’aveva quasi dimenticato. Stringe le spalle del fratellino, protettivo e preoccupato. Lo guarda sottomesso eppure forte. Ha paura che gli faccia del male. Russia sospira e con fatica trattiene una lacrima da uno degli occhi. Il ginocchio cade sulla pietra sotto di sé. Una mano si alza e s’impiglia fra i riccioli di Lettonia. Sospira, come se si liberasse la gola da un gran peso.

“Oh, Lettonia…” e non dice nient’altro. Vezzeggia ancora le dita sui capelli folti. Lettonia lo guarda confuso, ma più leggero. Non l’ha notato, ma fino ad ora ha tenuto la mano ad Ucraina. Russia non riesce a pensare a nulla. Deve avere tempo, deve togliersi e rinfrescarsi il cuore appesantito. Fa cadere la mano sana dai riccioli. Si rialza, sospira ancora, e si volta. La mano malata, tagliata una seconda volta, fasciato il pollice con bende ed una seconda cicatrice, si muove. Possono entrare. Ucraina sospira di sollievo, Estonia anche. Russia si allontana, non riesce veramente a pensare. Gli fa male la testa e non vuole sentire le domande e le risposte dei due fratelli. Cade sulla poltrona. Sospira ancora, il dolore al cuore non se n’è ancora andato. Ucraina l’ha seguito, se n’è accorto solo ora. I gomiti sui ginocchi, i palmi aperti sul viso.

“Un giorno mi uccideranno, quei tre” Ucraina ride con gioia. Per Russia è un sollievo che ride, anche se di lui. ‘Non dire così, caro’, potrebbe aver detto. Non l’ha ascoltata, ancora scosso, ancora trattiene la commozione. Sente solo le braccia di sua sorella attorno a sé. Lo riscaldano più di una stufa in una serata invernale. Russia accenna ad un sorriso, si sente un po’ più leggero.

Bielorussia è indignata e rossa, visto ogni cosa sopra la scalinata. Scivola fra i corridoi e le stanze e raggiunge la propria. Spalanca la porta, come se volesse distruggerla. Si china e con voracità afferra sotto al letto la sua valigia, già pronta da qualche giorno, già conscia che il fratello non avrebbe alzato un dito su quei tre Baltici. Li ama troppo e questo non va bene. Scribacchia sulla sua scrivania un biglietto e lo abbandona lì dove ha appoggiato l’inchiostro. Con poca cautela esce dal retro e si avvia, a piedi, verso città.

 

 

 

 

 

Vado a recuperare il Baltico e il morto.

Datemi pochi giorni.

Non cercatemi.

 

Bielorussia.

 

 

 

 

 

Angolo di L0g1

Signore e signori, il mese scorso la Fenice ha festeggiato il suo primo compleanno. Avrei voluto scrivere un capitolo speciale, ma mi sono resa conto di non aver avuto abbastanza tempo a disposizione e non sapevo nemmeno quanto fosse difficile iniziare il mio ultimo anno al liceo classico, per cui ho deciso semplicemente di continuare a scrivere questa fanfiction.

Non scrivo un “angolo” da anni ormai e non ricordo nemmeno cosa scribacchiassi un tempo, ma cercherò di dare il massimo.

Vorrei ringraziare tutti voi, lettori e recensori, della pazienza che avete nel leggere questo gigante, straziante, mai felice storia. Voi tutti che amate, apprezzate o forse detestate Polonia e Lituania, voi tutti che vi aspettavate o meno questa famosa ‘Lietpol’ o che leggete solo per passare il tempo.

Vi ringrazio tutti, con tutto il mio cuore.

La Fenice d’argento riuscirà a vedere la fine e non dovrà passare un altro anno per vederla. E, anche se in ritardo di qualche settimana: buon compleanno a tutti voi!

L0g1

 

 

 

 

 

Mi duole soltanto che non ci siano tante recensioni come l'anno scorso, ma non ha importanza: continueró e finiró comunque questa fanfiction, costi quel che costi!

 

 

 

  
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