Capitolo 5: No hero
I can’t jump over buildings
I’m no hero
But love can do
miracles
I can’t outrun a bullet cause
I’m no hero
But I’d spill my
blood for you
Cause you know I’d do
it all.
(“No
hero” – Elisa)
Erano
passati poco più di tre mesi dall’arrivo dei francesi nel Regno di Napoli e adesso,
finalmente, le cose stavano iniziando a procedere per il giusto verso. La
pestilenza che aveva indebolito la città si stava esaurendo e Napoli riprendeva
vita e vivacità; inoltre sembrava che gli altri Stati italiani avessero
accettato la legittimità di Re Carlo come nuovo sovrano di quelle terre. Il
Generale sorrise tra sé pensando che, forse, parte di quell’accettazione la si
doveva al fatto che in tutta Italia si era ormai sparsa la voce che il Principe
Alfonso aveva dato il suo consenso e che si faceva vedere spesso al fianco di
Sua Maestà. Naturalmente gli altri potenti d’Italia non potevano sapere cosa
c’era stato prima di quell’apparente pace ed era bene che non lo sapessero,
visto che adesso era tutto sistemato e le atroci torture inflitte al Principe
erano soltanto un brutto ricordo.
Compiaciuto,
il Generale pensò che se tutto si era risolto per il meglio era merito suo e
del rapporto sempre più stretto che aveva instaurato con il ragazzo: il
Principe si stava fidando di lui e si stava legando sempre di più, si lasciava
fare docilmente qualunque cosa il Generale volesse da lui e seguiva i suoi
consigli e la sua guida. E lui? Stentava ancora a crederlo ma, per la prima
volta in tutta una vita dedicata esclusivamente alle battaglie e alla carriera
militare, adesso provava qualcosa di profondo e importante per il Principe
Alfonso, qualcosa di bello che gli scaldava il cuore.
Certo,
ora si profilava un noioso intralcio: Giovanni Sforza e sua cugina Caterina
erano giunti a Napoli per conferire con Sua Maestà e si erano accampati fuori
città in attesa di comparire alla sua presenza. Re Carlo aveva mandato il suo
Generale a parlare con loro per sentire che cosa volevano prima di decidere se
riceverli o meno ed era per questo che adesso l’uomo si stava dirigendo verso
il loro accampamento. Mentre cavalcava, rifletteva su quanto la sua vita fosse
più serena e quanto prendersi cura del Principe Alfonso lo facesse sentire
bene.
Chissà,
magari gli sarebbe piaciuto restare per sempre nel Regno di Napoli, in quel
luogo ridente e soleggiato, assieme al giovane Principe… Prima, però, doveva
occuparsi della faccenda incresciosa di Giovanni e Caterina Sforza e sperava
proprio di poterli convincere ad andarsene senza incontrare Sua Maestà che si
stava riprendendo ora dalla sua febbre e aveva bisogno di riposo e non di
scocciatori.
Mentre
il Generale si dirigeva all’accampamento degli Sforza, nel castello stava per
svolgersi un dramma in piena regola.
Re
Carlo aveva preso in antipatia il Principe Alfonso ancor prima di conoscerlo e
poi, dopo averlo incontrato, l’aveva detestato sempre di più. Aveva scelto
deliberatamente di incolparlo per la pestilenza che si era scatenata a Napoli e
che aveva contagiato anche lui e il suo desiderio sarebbe stato quello di farlo
ammazzare e imbalsamare per occupare il posto vacante alla tavola di
mostruosità voluta da Re Ferrante. Il sovrano si immaginava il Principe come un
giovane arrogante e combattivo, un po’ come Cesare Borgia che aveva conosciuto
a Roma, e si proponeva di toglierselo dai piedi in una maniera che sarebbe
servita da esempio a chiunque avesse anche solo osato pensare di mettersi
contro di lui. Quando Alfonso era stato catturato, però, il Re si era trovato
davanti un ragazzo spaurito e indifeso, un avversario non certo alla sua
altezza, che per cercare di salvarsi la pelle aveva mostrato verso di lui una
specie di atteggiamento seduttivo. Si
era dichiarato disponibile ad accompagnarlo a visitare la città e aveva cercato
di attirare la sua simpatia, ottenendo l’effetto esattamente opposto. Carlo
VIII di Francia era un Re guerriero, un uomo più avvezzo a vivere negli
accampamenti militari che a Corte; tante moine e smancerie lo avevano incattivito
ancora di più contro il giovane Principe e, di conseguenza, lo avevano spinto a
torturarlo in modo più crudele e brutale di quanto avesse programmato di fare
in principio. L’intervento del Generale in favore di Alfonso era stato
inaspettato e gli aveva tolto buona parte del divertimento che si era aspettato
ma, seppure a malincuore, il sovrano doveva ammettere che il suo ufficiale
aveva avuto ragione: un Principe aragonese sottomesso ai francesi e disposto a
dire qualsiasi bestialità pur di restare al sicuro era un bel guadagno per la
stabilità della sua corona. Aveva perfino tenuto testa a quell’intrigante del
cardinale Della Rovere e dichiarato davanti a tutti di ritenere legittima
l’investitura di Re Carlo come sovrano di Napoli! Il Re non poteva desiderare
di meglio, eppure… eppure i piagnistei e gli atteggiamenti di Alfonso gli
davano la nausea e, in qualche modo, doveva togliersi la voglia di tormentarlo,
senza compromettere l’accordo tra di loro.
Quello
sarebbe stato il giorno adatto: il Generale, che era diventato fin troppo
protettivo nei confronti del Principe, si trovava all’accampamento degli Sforza
per ascoltare le loro richieste e il Principe sarebbe stato solo e
completamente in sua balìa. Re Carlo aveva dato certi ordini ai suoi uomini e
poi era rimasto nella sala del trono a ridersela di gusto, immaginando ciò che
sarebbe successo…
Alfonso
era uscito tardi dalla camera e, sempre guardandosi intorno per il timore di
essere molestato, aveva fatto un timido giretto per i corridoi del castello,
vagando senza una meta. Gli sembrava così ingiusto non potersi muovere
liberamente per quel maniero che fino a poco tempo prima era stato suo! Ogni angolo, ogni stanza
risvegliavano in lui ricordi e nostalgie di un tempo felice e privo di preoccupazioni.
Senza accorgersene, si era spinto fino al loggiato che dava sul Golfo e,
sospirando tristemente, si era affacciato per ammirare il panorama incantevole
che si poteva godere da lì. Rammentava di quando aveva detto al cardinale Della
Rovere, durante la sua prima visita a Napoli, quando ancora il regno
apparteneva a suo padre, che un luogo tanto bello e pieno di piaceri doveva
essere difeso a tutti i costi. E lui come lo aveva difeso? Era scappato come
uno straccione qualsiasi, senza appoggi, senza amici, senza nessuno che lo
aiutasse e poi era caduto nelle mani dei francesi e…
“Il
principino si gode il panorama, eh?”
aveva ringhiato un armigero, avvicinandosi in modo minaccioso ad Alfonso. Altri
tre compagni gli erano dietro e sghignazzavano soddisfatti.
Alfonso
trasalì: perduto nei suoi ricordi e nelle sue malinconie, non si era nemmeno
reso conto di non essere più da solo.
“Cosa
volete da me? Lasciatemi in pace e andate a fare la guardia, a perlustrare il
perimetro o qualsiasi altra cosa facciano quelli come voi!” aveva reagito,
petulante, cercando di non mostrarsi intimorito. Erano soltanto dei soldati
qualunque e non potevano permettersi di dargli fastidio!
“I
nostri ordini sono diversi” disse uno degli armigeri, avvicinandosi ancora di
più e strattonando Alfonso per un braccio, mentre i suoi compagni ridevano
ancora più forte.
Il
Principe impallidì, ritraendosi.
“Non
potete farmi niente, voi siete solo soldati e io invece sono…”
“Tu
non sei nessuno, ragazzino” lo
interruppe un altro, con un ghigno. “Sei un prigioniero di Sua Maestà e, se Sua
Maestà ordina di farti torturare, noi obbediamo e basta!”
Al
Principe si gelò il sangue nelle vene.
“Tortu… torturarmi? Ma cosa dite? Non potete farmi del male,
io sono sotto la protezione del vostro comandante e…”
“Sì,
sappiamo che sei sotto il nostro
comandante” fece un soldataccio, con una risata
sguaiata, “ma lui non è qui, adesso, e gli ordini di Sua Maestà sono più
importanti dei suoi!”
“Ma
io… io… sono utile a Sua Maestà…” tentò di dire Alfonso, lanciando occhiate
disperate in cerca di una via di fuga. “La mia presenza legittima la sua
corona, gli servo!”
“Beh,
forse Sua Maestà ha cambiato idea” tagliò corto il primo armigero. “Forza,
prendiamolo!”
Così
dicendo, il soldato spintonò bruscamente il Principe, mentre un altro faceva il
gesto di volerlo afferrare. Terrorizzato, il ragazzo scartò velocemente a
destra, infilandosi nella prima porta aperta che vide ma, per sua sfortuna, era
proprio quella della sala del trono, dove sedeva Re Carlo.
“Quale
sorpresa vederti qui, caro Principe” gli disse, con un guizzo di divertimento
maligno negli occhi. “Sei già stato informato dei nostri progetti per il resto
della giornata?”
Fino
a quel momento, Alfonso poteva sempre sperare che la soldataglia volesse burlarsi
di lui, ma a quel punto non poteva più dubitare: il Re, per qualche suo motivo,
aveva deciso di farlo riportare nella camera delle torture. Ma che cosa aveva
fatto di male?
Stupido
a domandarselo… in fondo, cosa aveva fatto di male anche la prima volta in cui
era stato sottoposto a quei supplizi?
Il
Principe sentì le gambe che gli tremavano, ma non poteva permettersi di
crollare, altrimenti gli armigeri lo avrebbero preso e trascinato subito alla culla di Giuda o a qualsiasi altro
strazio fosse venuto in mente al sovrano. I soldati che lo inseguivano erano
ormai alle sue spalle e altre guardie presenti nella sala del trono, ad un
cenno del Re, si erano mosse verso di lui. Alfonso non ci pensò due volte:
attraversò di corsa la sala del trono fino a raggiungere la porta opposta e si
precipitò lungo il corridoio con la forza della disperazione. Non riuscì però a
evitare di sentire l’ultimo sberleffo del Re…
“Sei
veloce, Principino, ma prima o poi ti stancherai, e allora…”
I
soldati alle sue calcagna erano diventati dieci, poi quindici, poi venti. Il
Principe attraversava saloni, sfrecciava lungo corridoi, superava porte,
scostava tendaggi, sempre con gli uomini del Re a tallonarlo. Pensò di
rifugiarsi nella sua stanza e di barricarsi dentro: se fosse riuscito a tenere
lontani i soldati per abbastanza tempo, forse sarebbe tornato il Generale e
magari avrebbe convinto il sovrano a risparmiarlo. Non era stato lui a salvarlo
la prima volta? Non diceva sempre che, se si fosse comportato bene e avesse
sostenuto la Francia, non gli sarebbe accaduto niente di male? Doveva solo
resistere fino al ritorno del Generale, di sicuro non era un caso che quella
sorta di caccia si fosse scatenata
proprio il giorno in cui lui era andato ad incontrare gli Sforza… Sua Maestà
aveva atteso che il suo comandante lasciasse il castello prima di perseguire i
suoi turpi scopi.
Se riesco a
raggiungere le mie stanze, forse posso farcela, mi chiuderò dentro, dovranno
sfondare la porta per prendermi, ma così guadagnerò tempo e quando il Generale
sarà tornato…
Alfonso
si precipitò verso le scale che portavano alle stanze da letto, ma per la
fretta e il terrore mise un piede in fallo e mancò uno dei gradini; scivolò e
cadde, battendo violentemente la testa contro la balaustra di marmo. Il colpo
gli aprì una ferita sopra l’occhio destro che cominciò subito a sanguinare, ma
il giovane non se ne diede pensiero… se fossero riusciti a prenderlo, gli
avrebbero fatto ben di peggio! Stordito, si rialzò e fece per riprendere la
corsa, ma vide altre cinque guardie che venivano proprio dalle stanze di sopra
e che scendevano i gradini, dirigendosi verso di lui. Da quella parte non ci
sarebbe stata salvezza.
I
soldati sembravano ovunque. Alfonso si sentiva debole e smarrito per il colpo
in testa, cominciava ad avere le vertigini e il terrore gli attanagliava lo
stomaco come una morsa. Asciugandosi il sangue che gli colava dal taglio sulla
fronte con la manica dell’abito, scorse un’altra possibile via di fuga, un
corridoio laterale dal quale nessuna guardia sembrava provenire. Disperato, non
poté fare altro che rimettersi a correre in quella direzione, talmente confuso
da non rendersi conto che il corridoio portava proprio alle segrete e alle
camere di tortura. Quando se ne accorse era troppo tardi, gli armigeri gli
erano addosso e bloccavano ogni altra via di uscita. Il Principe non ebbe altra
scelta che entrare in quelle stanze che gli causavano tanto orrore, dove aveva
sofferto pene indicibili e creduto di morire nel modo più tremendo. Esausto,
paralizzato dal terrore e frastornato per il colpo subito, Alfonso scivolò a
terra senza più forze, incapace di continuare quell’inutile fuga. Come un
animale braccato, si rannicchiò in un angolo, stringendosi le ginocchia al
petto e nascondendovi la testa in un patetico tentativo di proteggersi, poi
scoppiò in un pianto dirotto, fuori di sé per la paura.
I
soldati, tuttavia, non lo catturarono. Vedendo che si era cacciato da solo
proprio nel luogo che più temeva e che si era rincantucciato a piangere come un
bambino, si limitarono a sghignazzare soddisfatti e a sbeffeggiarlo, poi se ne
andarono, lasciandolo da solo in quelle stanze umide e spaventose.
Il
Generale rientrò al castello quando il pomeriggio lasciava il posto alla sera.
Aveva parlato con Giovanni e Caterina Sforza ed era piuttosto innervosito con
loro: pretendevano che il sovrano marciasse con i loro eserciti su Roma per
vendicarsi del papa Borgia e, non contenti, volevano anche i cannoni francesi
per difendere la loro fortezza di Forlì. Ma chi diavolo si credevano di essere?
Sua Maestà avrebbe fatto molto meglio a non riceverli, anzi, a dare subito
l’ordine di scacciarli dal regno di Napoli. Si avviò verso la sala del trono,
ansioso di riferire al Re riguardo al colloquio avuto con quegli spocchiosi
Sforza, ma le sue riflessioni si interruppero vedendo che alcuni dei suoi
uomini si davano gomitate e ridacchiavano tra loro.
“Non
avete niente di più utile da fare?” li rimproverò bruscamente. “Che avete da
ridere? Non c’è assolutamente niente di divertente. Anzi, tu, vai subito ad
annunciare a Sua Maestà che sono tornato e che ho urgente bisogno di
parlargli.”
I
soldati smisero subito di ridere; quello che era stato incaricato di annunciare
al Re il suo ritorno partì in tutta fretta mentre gli altri si scambiavano
occhiate avvilite.
“Si
può sapere che sta succedendo qui?” insisté il Generale, spazientito.
“Vi
chiediamo perdono, signore” disse uno dei soldati. “Era solo uno scherzo,
abbiamo pensato che fosse divertente. E Sua Maestà…”
Un
vago sospetto iniziò a farsi strada nella mente dell’uomo.
“Di
che stai parlando? Cosa c’entra Sua Maestà? E’ successo forse qualcosa al Re o
al Principe Alfonso?”
“Sua
Maestà sta bene… e anche il Principe, certo! E’ stato solo… uno scherzo…”
Il
Generale ne aveva abbastanza e comprese che da quei soldati non avrebbe tirato
fuori nient’altro, così si diresse a passo deciso verso la sala del trono per scoprire
ciò che era accaduto in sua assenza. Non era proprio il momento adatto per le
intemperanze di Sua Maestà, quello. Era più che mai necessario mostrare a tutta
l’Italia che il regno di Napoli apparteneva con pieno diritto alla Francia e
che avevano la totale approvazione del Principe Alfonso che, per alcuni, era
ancora il legittimo erede al trono, altrimenti sarebbero arrivati altri
avvoltoi come gli Sforza, pronti a pretendere chissà cosa e ad accampare
assurdi diritti.
“Generale,
aspettavamo con impazienza il vostro ritorno” lo accolse Re Carlo, con un
sorrisetto compiaciuto. “Allora, che cosa desideravano i nostri amici Sforza?”
“Non
sono vostri amici, mio sovrano” ribatté con fermezza il Generale. “Vogliono
soltanto sfruttare la nostra potenza militare a loro vantaggio e osano persino
minacciarvi…”
Il
Re perse subito tutta la sua allegria.
“Minacciarci?
E con quali armi a disposizione, se ci è concesso sapere? Quel Giovanni Sforza
è un pagliaccio, deriso da tutta Italia per l’accusa di impotenza e la cugina…
Caterina, vero? Beh, quella è nota per l’esatto contrario” brontolò il sovrano,
di malumore. “Sono venuti fin qui per insultarci?”
“Gli
Sforza chiedono a Vostra Maestà di concedere loro i cannoni francesi, per vendicarsi
delle offese ricevute dal papa Borgia e per difendere il loro castello di
Forlì. In cambio, vi offrono l’appoggio dei loro eserciti per far ritorno in
Francia.”
“Per
quale motivo dovremmo fare ritorno in Francia proprio adesso? E, soprattutto,
perché mai avremmo bisogno dei loro ridicoli eserciti?”
“Secondo
loro, la vostra posizione qui a Napoli non è sicura” replicò il Generale, in
tono allusivo. “Ritengono che la Spagna potrebbe decidere di muovervi guerra.
Evidentemente ignorano che avete l’appoggio di un Principe della casata
aragonese e che, per questo motivo, la Spagna non oserebbe mettersi contro di
voi.”
Il
Re parve a disagio.
“Eh…
sì, certo, l’appoggio del Principe aragonese” disse, in tono molto meno
convinto. Rifletté un attimo, concluse che, tutto sommato, non era accaduto
niente di irreparabile e, rinfrancato, dichiarò: “Molto bene, dimostreremo loro
quanto si sbagliano e quanto sono avventati nelle loro vuote minacce: domattina
stessa manderemo un messaggero per invitarli al castello e offriremo loro un
banchetto, durante il quale avranno modo di vedere quanto siano saldi i
rapporti tra noi e il Principe e quanto poco abbiamo da temere dalla Spagna. E,
a proposito di questo… sarai tu a occuparti del Principe che, al momento, si
trova nelle segrete…”
“Nelle
segrete?” ripeté il Generale,
incredulo. Possibile che non potesse nemmeno allontanarsi una mezza giornata
senza che succedesse un pandemonio?
“Volevo
solo divertirmi un po’, ma quel Principe Alfonso è davvero troppo suscettibile”
replicò spazientito il Re. “Ad ogni modo non è successo niente, ti occuperai tu
di lui, come al solito, e domani gli Sforza avranno quel che meritano.”
Con
un rapido inchino, il Generale si congedò dal suo sovrano e si diresse in
fretta verso le camere di tortura. Entratovi, accese subito le torce e vide la
figuretta esile e tremante del Principe, ancora rannicchiato nell’angolo in cui
si era rifugiato ore prima. Gli si avvicinò con cautela per non spaventarlo
ulteriormente e si chinò accanto a lui, passandogli un braccio attorno alle
spalle. Alfonso sobbalzò, si guardò intorno con occhi terrorizzati e riprese a
singhiozzare.
“No,
no, vi prego… non fatemi del male, ho fatto il bravo, mi sono comportato bene…
non fatemi del male, per favore, per favore…”
Il
ragazzo sembrava fuori di sé per il terrore, era scarmigliato, stravolto, la
manica del suo abito e il farsetto sporchi di sangue e sul sopracciglio destro
spiccava una ferita. Il Generale non osava nemmeno pensare ai momenti di orrore
che il povero Principe doveva aver trascorso, sebbene nessuno lo avesse
fisicamente molestato.
“Va
tutto bene, Principe, è finita, adesso ti accompagno in camera e… Va tutto bene,
calmati, adesso” tentò di tranquillizzarlo, ma il giovane pareva non sentirlo
nemmeno e continuava a gemere e a piangere.
“No,
per favore, non fatemi male, no, no…”
“Alfonso!”
lo chiamò allora il Generale, in tono calmo ma deciso e stringendo il Principe
a sé. “Ci sono io adesso, nessuno ti farà del male.”
Sentendosi
chiamare per nome, il Principe si riscosse e riprese coscienza di se stesso e
di chi gli stava parlando. Sconvolto, si aggrappò convulsamente all’uomo che lo
stava confortando.
“Volevano…
loro… mi hanno inseguito per tutto il castello… non mi lasciate più da solo, vi
prego… mi odiano, mi odiano tutti!” mormorò, ansimando e singhiozzando.
“Adesso
sono qui e non devi temere più niente” ripeté il militare.
“No…
voi non c’eravate, mi avete lasciato solo, mi avete abbandonato…” protestò
debolmente il ragazzo.
Il
Generale gli prese il viso tra le mani per guardarlo direttamente negli occhi.
“No,
Principe Alfonso, non ti ho abbandonato e mai lo farò, ma io non ho alcun
obbligo nei tuoi confronti, gli unici miei doveri sono verso Sua Maestà”
spiegò, serio. “Tutto quello che faccio per te è perché tu sei importante, per
la causa francese e per me personalmente, ma non hai il diritto di rinfacciarmi
nulla. Io mi occuperò sempre di te e ti starò vicino perché è ciò che voglio, non perché sia un mio obbligo verso di te. Hai capito bene,
Principe?”
Alfonso,
che restava sempre affascinato e irretito dalle parole pacate e rassicuranti
dell’uomo, annuì. Allora il Generale si chinò su di lui e lo baciò a lungo,
stringendo tra le braccia quel corpo esile e delicato, cercando di
trasmettergli calore dopo tutto il freddo e l’umido che aveva patito nelle
segrete.
Infine
lo prese in braccio, sollevandolo da terra e, ancora una volta, si trovò a
riflettere su quanto fosse fragile e sperduto quel povero Principe senza regno
e su quanto male gli avessero fatto. Lo portò nelle loro stanze dove si sarebbe
preso cura di lui lavandolo, ripulendogli e medicandogli la ferita sulla fronte
e procurandogli degli abiti caldi e puliti.
Alfonso
si affidò a lui, lasciandosi portare in braccio e sentendosi finalmente al
caldo e al sicuro. Tutto gli appariva più sopportabile quando il Generale era
con lui e si occupava di lui. Adesso non era più solo.
FINE