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Autore: Kat Logan    20/12/2016    3 recensioni
Paradiso e Inferno; è ciò che si ritroveranno ad affrontare i protagonisti di Stockholm Syndrome in questa nuova avventura.
Hanno amato, realizzato i propri sogni, hanno accarezzato il paradiso nella pacifica Osaka ed ora devono ristabilire l'equilibrio; troppa gioia tutta in una volta è da pagare.
Per uno Yakuza la cosa più importante è l'onore, così, Akira e Haruka seguiranno le proprie tradizioni.
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"Ovunque andrò, sarai con me. E avrei voluto dirlo in modo diverso, in un’occasione differente…magari al lume di candela, su un tetto, sotto alla luna, al nostro terzo matrimonio. Ma sai, un momento giusto non c’è mai. Quello giusto è quando lo senti, ovunque tu sia..quindi…lo dico adesso, forte come non l’ho mai sentito prima d’ora. Ti amo e questo non cambierà, non è cambiato nemmeno nel momento in cui non mi sono più riconosciuta".
[Sequel di Stockholm Syndrome].
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo Yakuza'
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Capitolo 9
Butterfly Effects
 


“Il movimento delle ali di una farfalla rappresenta un piccolo cambiamento
nella condizione iniziale del sistema,
che provoca una catena di eventi che portano a fenomeni di scala sempre più vasta.
Se la farfalla non avesse sbattuto le ali,
la traiettoria del sistema sarebbe stata molto diversa.”
 
(Wikipedia – Teoria del Caos).

 
 
 
 
Ogni azione provoca una conseguenza. La più piccola decisione può cambiare il corso degli eventi, ma nessuno di loro aveva fatto i conti con l’imprevedibilità della vita.
Se Haruka non avesse lasciato a guardia di Mimì i suoi due scagnozzi avrebbe avuto la possibilità di scampare ai poliziotti corrotti e di raggiungere in tempo il suo gruppo di amici. Se Akira non avesse incrociato il bambino sul suo stesso marciapiede, avrebbe senz’altro sventato il rapimento di Michiru e Minako non sarebbe mai stata colpita. E a pensare più in grande sarebbe bastato che il cielo di Tokyo non si fosse messo a piangere per non distrarre le ragazze e far accadere la catena di eventi funesti che aveva colpito tutti quanti in pieno con la forza di un cataclisma.
Nessuno di loro aveva badato al battito d’ali del destino; nessuno di loro aveva ponderato tutte le possibili vie che la vita aveva offerto loro di percorrere.
 
 
Le luci di Tokyo sbiadivano dietro ai finestrini costellati di gocce d’acqua piovana.
Il traffico in centro città era intenso e rallentava la corsa di Akira e Minako rendendo ogni respiro della ragazza sempre più flebile.
“Sicuro che sia tutto a posto lì dietro?” la voce del taxista colpì Akira come un proiettile in pieno petto. Nessuno aveva chiamato un’ambulanza, nemmeno lui, pensando ci avrebbe messo troppo anche a sirene spianate e che i paramedici avrebbero fatto domande scomode.
Akira si trovava lì. Era a causa della sua scelta che sedeva scomposto sul sedile posteriore di quell’auto dalla targa cigolante, con Minako pallida fra le sue braccia e le mani ormai cremisi a tamponare la ferita al fianco della ragazza.
Gli occhi a mandorla dello sconosciuto fissi sullo specchietto retrovisore erano lo scandire dell’orologio del fato; delle lancette insistenti.
 
Tic, tac. Minako vivrà o morirà?
Tic, tac. Arriverai in tempo?
Tic, tac. Se non ce la facesse sarebbe soltanto tua la colpa. Potresti ancora vivere con questo peso sulla coscienza?
Tic, tac, tic, tac.
Il tempo sta per scadere.
Tic, tac, tic, tac.
Dipende da te.
Tic, tac. Cosa farai?
 
La voce del destino era alienante e inarrestabile nella sua testa, o forse era la sua coscienza a ossessionarlo.
“Se la tappezzeria si macchia…” l’uomo parlò di nuovo e a quelle parole Akira provocò un altro sfarfallio.
“Ci fermiamo qui. La corsa è finita per noi” decise perentorio.
Buttò in faccia all’uomo un malloppo di banconote alla rinfusa senza curarsi del reale pagamento da effettuare.
“Si tenga il resto. In caso debba far pulire la sua tappezzeria del cazzo”.
Prese un respiro profondo. Con la mano destra aprì la portiera del taxi e puntò una sola gamba al di fuori dell’abitacolo.
“Okay amore. Devi sopportare solo un altro po’. Ti giuro faremo veloce…”. Sussurrò all’orecchio di Minako sistemandole la propria giacca in vita e prendendola su di peso.
La pioggia torrenziale bagnò entrambi e Akira prese a fare lo slalom tra le auto bloccate stringendo i denti.
Corse a perdifiato ignorando ogni suono attorno a lui. Il rumore del mondo era sparito, aveva solo il battito furente del suo cuore nelle orecchie.
 
 
***
 
 
Rei si addormentò placidamente sul sedile del passeggero. La guida pacata di Sadao cullò i suoi sogni più profondi.
Dietro le sue palpebre chiuse, le pupille guizzarono alla velocità della luce, accarezzando ancora una volta l’immagine di Setsuna.
Lei era lì, impressa nella sua mente come il ricordo più nitido di una persona incontrata qualche ora prima.
Muta e quasi statuaria Setsuna le indicò col dito un campo rosso vermiglio, poi le sorrise.
Rei si svegliò di soprassalto e Sadao inchiodò.
“S-scusa” balbettò con aria colpevole e con le dita ancora arpionate al volante.
“Un gatto ha attraversato la strada e ho avuto paura d’investirlo” si apprestò a discolparsi per poi spingere nuovamente sull’acceleratore.
Rei ostentò un’espressione confusa con i neuroni ancora impigliati in quel sogno singolare.
“Non dirmi era nero…” sibilò con voce impastata per poi drizzare le spalle e sedersi più composta.
Sentì il suo cuore riprendere a battere normalmente, poiché lo scossone improvviso aveva macchiato di terrore ogni suo singolo muscolo.
Sadao farfugliò qualcosa a proposito del manto dell’animale, accese la radio in cerca di una stazione che mandasse un segnale chiaro per allietare quel viaggio, quando la mano di Rei si poggiò sul suo polso.
“Il biglietto di Haruka!” esclamò portando poi le dita verso le tasche del ragazzo per frugarvi dentro senza il minimo imbarazzo.
Setsuna le aveva indicato i fiori rossi e Haruka le aveva fatto avere l’indirizzo della pista che aveva ritenuto giusta.
“Non tornare in centrale!” ordinò una volta trovato il pezzo di carta per poi sondarne con le iridi la calligrafia della bionda.
“La nostra meta è un’altra. E’ ora di porre fine a questo dannato caso”.
 
 
***
 
 
Se solo Rei fosse tornata in centrale a compilare le uniche scartoffie che il suo datore le aveva rifilato per tenerla occupata avrebbe incrociato gli occhi celesti di Haruka.
A quell’ora non c’era quasi più nessuno e i due uomini avevano potuto sbatterla tranquillamente nella piccola cella accanto a quella che era stata la stanza di Setsuna.
Nessuno poteva identificarla come un aiuto alle indagini. In quel momento era solo una criminale con due suoi simili travestiti da brave persone.
L’uomo più alto prese a fischiettare sedendosi mollemente su una sedia da ufficio. L’altro afferrò il telefono per comporre il numero da chiamare e attese che all’atro capo qualcuno gli rispondesse.
“L’abbiamo qui” sibilò fissandola come un mucchio di spazzatura.
“Dove la portiamo?”.
Haruka dovette distogliere l’udito dalla conversazione perché il compare di quello al telefono si chinò dinnanzi al sua cella.
Le riservò un ghigno di scherno vedendola seduta a terra con le spalle al muro. “Sembri un uccellino in gabbia. Mi chiedo come tu possa essere davvero una Yakuza”.
Haruka tacque. Il suo umorismo pungente era annegato nella pioggia.
“Eppure, a quanto pare vali un sacco di soldi”.
“Più di quelli che vali tu sicuramente” ringhiò a bassa voce.
Il poliziotto non parve prendere bene quella mancanza di rispetto poiché la minacciò dando un colpo di manganello ad una delle sbarre.
“Guarda che ti vogliono viva, ma questo non vuol dire che tu debba rimanere illesa”.
La bionda non vacillò a quell’intimidazione; non una sfumatura di paura andò ad incupire il suo sguardo celeste.
Cercò una connessione, una risposta a quella cattura inaspettata.
Quella gente aveva riconosciuto benissimo in lei il loro obbiettivo. Haruka non doveva far da tramite, era la merce da prelevare. Ma chi poteva esserne l’ordinante?
La regina rossa. Fu un lampo, e d’improvviso, un flash le rivelò un frammento di ricordo che aveva rimosso con noncuranza. Una fila di denti bianchi che le sorrideva.
Che fosse la donna dal tatuatore la regina rossa?
Un sibilo le scappò dalle labbra. L’aveva avuta sotto al naso senza saperlo.
“Andiamo” l’ordine di quello che aveva fatto la telefonata la fece alzare di scatto.
Il compare le aprì la cella con un cigolio sinistro.
Haruka era pronta e senza nemmeno che se ne accorgesse, più che l’aria di una diretta al patibolo, aveva assunto un’espressione trionfante.
Se la montagna non va a Maometto, allora Maometto va alla montagna .
 
 
***
 
 
Non aveva udito il frenare della macchina. Fu come cadere in un sonno tanto profondo da non poter avvertire alcun rumore.
Michiru si sentì stranamente leggera. Aveva la sensazione di fluttuare nell’aria e subito dopo galleggiare fra le onde di un mare calmo. Poi seguì un formicolio che si diramò dalla punta delle dita al polso, per poi irradiarsi nelle braccia sino a raggiungere le spalle.
Emise un sbuffo pesante per il fastidio e provò a scuotere il capo.
Doveva essere sdraiata, ma le onde sotto di lei svanirono nel nulla e al loro posto comparve un’altra superficie.
Non seppe riconoscerla.
La testa si era fatta pesante, tanto che compiere un minimo movimento del capo le costò una fatica non indifferente.
Haruka. Nella mente correva il suo nome.
Svegliami, Haruka.
Che fossero andate assieme a letto come ogni altra notte?
La testa da pesante si fece dolorante.
Michiru spalancò gli occhi, soffocando un mugolio di dolore che le colpì violentemente le tempie.
Minako. Un pensiero capace di farsi strada nella sua mente come lo squarcio di un fulmine nel cielo notturno.
“Minako! Oddio, Minako!”. Il respiro le si fece veloce mentre quel pensiero divenne repentinamente un insieme di parole.
Michuru dovette portarsi una mano al petto come a controllare che il cuore fosse ancora integro. La preoccupazione aveva preso il sopravvento tanto da farle dubitare che ogni parte del proprio corpo fosse ancora al suo posto.
“Spiacente, non è qui”. La frase venne espressa da una voce resa rauca dal fumo.
L’odore nauseabondo di un sigaro colse alla sprovvista le narici di Michiru che venne colpita da un capogiro. Odiava l’odore di fumo e non sopportava di essere presa alla sprovvista, soprattutto quando si trattava di essere in compagnia di persone poco raccomandabili.
La ragazza riprese il controllo di sé se stessa. Richiamò a raccolta ogni singola briciola di coraggio e riuscì ad alzarsi facendo forza sui gomiti. Le dita intercettarono una lurida moquette e a Michiru le ci volle giusto un paio di secondi per rendersi conto di dove si trovasse. Si trovava all’interno di un piccolo container da cantiere.
“Sta bene?”.
“Chi? Minako?”.
Non appena la nuvola di fumo si diradò il viso di Ken Azuma si fece più vivido.
Michiru annuì con un cenno del capo scacciando dalla mente gli spiacevoli ricordi riguardanti Daisuke che l’assalivano nell’ incrociare lo sguardo dell’uomo.
“Se è la bionda che era con te non ne ho idea, fiorellino”.
Ridacchiò divertito. “Sai, dipende se il tuo amico corre in fretta. Se un poliziotto ha assistito alla scena, se qualche passante anzi che girare un video col telefonino ha chiamato un’ambulanza. E’ tutta questione di fortuna, coincidenze o qualunque cosa in cui tu creda. Tu, Michiru in cosa diavolo riponi fiducia?”.
Ken Azuma non ricevette altro che uno sguardo fermò e colmo di disgusto in cambio.
“Io credo nel mio istinto” continuò senza che lei fosse interessata a quella conversazione a senso unico.
“Cosa vuoi da me?” la voce di Michiru le grattò in gola.
Si alzò da terra ancora leggermente intontita senza distogliere lo sguardo da quello cupo del suo interlocutore. Se aveva capito una cosa nella vita era che gli Yakuza assomigliavano alle bestie; sembravano dotati di un ottimo fiuto per la paura e quando ne coglievano anche solo una debole stilla cercavano di alimentarla fino a schiacciare chi si trovavano di fronte.
Ken spense il mozzicone che gli pendeva dalle labbra con non curanza. Gli piaceva quando le belle donne cercavano di fare le dure per non cedere al terrore. Gli piaceva anche quando urlavano come aveva fatto Michiru sul marciapiede fino a consumare il fiato e aveva amato la sfumatura colta nel blu dei suoi grandi occhi nel momento in cui aveva capito di essere spacciata.
“Devo scoprire una cosa e tu ne sarai testimone. Quello che voglio da te è che tu mi accompagni lì fuori mentre alcuni dei miei ragazzi stanno già scavando in quella cava di cemento”.
Michiru assunse un’aria più interrogativa a quelle parole.
“Voglio sapere se i tuoi amici e il tuo uomo ti dicono davvero tutto. Se il mio intuito non m’inganna ci troveremo qualcuno là sotto. Qualcuno che ci ha messo chi ti sta accanto ogni notte”.
Il cigolio della porta alle spalle dell’uomo interruppe la conversazione.
“Abbiamo fatto bingo”. Un uomo dalla lunga coda di cavallo corvina informò Ken.
“Erano in due a dormire là sotto”.
Il sorriso sinistro di Ken Azuma si spense. Guardò Michiru combattendo fra il desiderio di farla sua e quello di torturarla spedendo un bel filmato della scena ad Haruka. Forse avrebbe fatto entrambe le cose se ne avesse avuto il tempo, ma prima doveva finire ciò che aveva cominciato.
“Devi avere un bel fegato per dormire nello stesso letto di un assassino, fiorellino”.
Michiru deglutì rimanendo immobile con la schiena sostenuta da una scrivania spoglia.
“Adesso vieni con me e vediamo chi ha fatto fuori la persona che ami tanto. Anche se penso mi arrabbierò molto e dovrai sopportare il mio caratteraccio”.
Le dita elegantemente smaltate riuscirono ad appropriarsi di un piccolo tagliacarte.
“Muoviti”.
Michiru ubbidì. Seguì lo Yakuza, in bilico sul filo del suo destino.
 
 
*** 
 

All’ Aiiku Hospital i turni erano estenuanti per uno specializzando.
Ami, ormai, riusciva a sentire solamente male ai piedi dopo aver corso da un reparto all’altro per più di quarantotto ore. Quattro ore di sonno filate erano ormai un miraggio, ma sarebbe bastato ancora un po’ di pazienza perché potesse tornare a casa.
Si diresse alla macchinetta del caffè, strascicando i piedi sulle mattonelle chiare dell’edificio, decidendosi ad assumere un’aria meno da zombie e più da essere umano solo quando intravide la figura del suo mentore Mamoru Chiba.
Il giovane sembrava indeciso sulla scelta da prendere. Caffè nero senza zucchero o una cioccolata calda con extra zucchero?
Il caffè lo avrebbe sicuramente fatto scattare come una molla e gli avrebbe dato un tono più professionale, ma la cioccolata gli piaceva di più anche se quella era una brodaglia scialba e non quella che sua moglie gli avrebbe preparato accompagnata da biscotti alla cannella che tanto amava. Il dito a mezz’aria fino a che la propria allieva non lo raggiunse. Spinse il tasto del tè al limone andando alla cieca e lasciando la scelta al fato troppo preso a ricomporsi davanti all’allieva.
“Giornataccia?” chiese ad Ami quando fu a due passi da lui.
“Faticosa ma produttiva. Dovrei essere felice, non ho dovuto registrare nemmeno l’ombra di un decesso ma…” Ami portò una mano davanti alle labbra impedendosi di liberare uno sbadiglio. “La realtà è che sono demolita!”.
Mamoru rise di gusto e quando il “clac” della macchinetta indicò che il suo bicchiere fumante poteva essere estratto rimase interdetto dalla bevanda che gli era stata rifilata a scatola chiusa.
Sospirò pesantemente, rigirando il cucchiaio di plastica nel bicchierino tentando di sciogliere i granelli di zucchero depositati sul fondo.
“Aino non dovrebbe cominciare a momenti?”.
Ami annuì col capo.
“Dovrebbe attaccare tra quaranta minuti, proprio quando io mi ricongiungerò felicemente al mio piumone!”.
La ragazza scelse un cappuccino ma il suo “clac” venne interrotto dal fruscio delle porte automatiche e da una raffica di vento gelido che invase il corridoio.
Sulla sua retina sbatté una sagoma conosciuta. Per un momento ebbe il sospetto di avere le allucinazioni per la stanchezza ma quando il suo sguardo entrò in collisione con gli occhi inconfondibili di Akira prese coscienza di non star sognando.
 
Grigio liquido. I suoi occhi riconobbero immediatamente la zazzerra corta e azzurra di Ami.
Akira era allo stremo delle forze ma ce l’aveva fatta. Era arrivato all’ospedale con le braccia in procinto di cedere per la stanchezza.
L’aveva tenuta. Aveva stretto Minako con tutte le sue forze e adesso era immobilizzato dalla disperazione nell’atrio dell’ospedale.
“Oddio” sibilò Ami.
“Dottor Chiba, è Minako! Serve…”
“Una barella, subito” gridò pronto lui mentre Ami corse incontro ad Akira.
“Cos’è successo?!” la voce della ragazza era irriconoscibile.
Due infermieri accorsero con la barella e Akira poté lasciare Minako.
Le sue braccia erano gelide senza il suo corpo. Per quanto la temperatura di lei fosse calata nel tragitto era riuscita a sentirla, ma ora non c’era più niente lì.
Akira riusciva solo a pensare che quello forse era stato l’ultimo istante in cui l’aveva abbracciata. L’ultimo momento in cui aveva potuto sentirla addosso.
“AKIRA!”.
Ami gli schioccò le dita davanti alla faccia per farlo riprendere da quell’immobilità.
“Devi dirmi che è successo per aiutarla”.
Mamoru fece cenno ad Ami che si sarebbe diretto in sala operatoria con Minako.
“Un bastardo…” fece fatica a trovare le parole perché la scena si stava ripetendo al rallentatore nella sua testa.
Lui si era distratto e lei ne aveva pagato le conseguenze.
“Un bastardo ha accoltellato Minako”.
Ami deglutì. Sapeva che Minako avrebbe accompagnato sua sorella per negozi, eppure Michiru non era lì. Se fosse stata viva Michiru di sicuro si sarebbe trovata con loro in quel posto, ma di fatto non c’era quindi le probabilità che anche a Michiru fosse stato fatto del male erano alte.
Ami voleva chiedere ad Akira di sua sorella, ma forse sarebbe stato troppo.
Fisso la sua giacca piena di sangue. Non le aveva mai dato fastidio vederne o non avrebbe seguito il suo sogno di diventare un bravo medico, ma in quel momento, Ami dovette fare appello al suo sangue freddo sapendo chi ne era il proprietario.
“Tu sei ferito?”
“No” lo sguardo di Akira era lontano. Aveva seguito la barella di Minako fin oltre le porte che il pubblico non poteva oltrepassare.
“Da quanto ha perso conoscenza?”.
“Non lo so. Io…ho corso più in fretta possibile Ami. Là fuori è tutto bloccato”.
La sua voce si fece concitata e negli occhi Akira pregava che lei non la incolpasse per l’accaduto.
“Adesso è in buone mani, okay? Lo so che hai fatto il possibile”. Non le vennero altre parole per rassicurarlo.
“Ami, devi fare l’impossibile ora”.
La ragazza lo guardò interrogativa.
“Devi salvarle la vita. A tutti i costi”.
Ami annuì. Alla scuola di medicina le avevano insegnato a non promettere mai miracoli alle famiglie dei pazienti, ma in quel momento sul tavolo operatorio c’era una persona a cui teneva e non poteva pensare di non riuscire a farne uno.
Tirò fuori dal camice la cuffietta e se la legò sul capo.
“Michiru…” le parole le morirono in gola.
“Sto andando a prenderla” la interruppe Akira prima che potesse domandare qualsiasi cosa.
“Fai l’impossibile anche tu, allora. Ti prego” mormorò la ragazza prima di correre a tentare di salvare l’ultima vita della giornata.
 
 
***
 

Haruka era stata incappucciata. Riusciva a sentire il calore del proprio respiro all’interno della tela scura che i due le avevano messo in testa.
La situazione era a dir poco catastrofica. Nessuno, per quanto ne sapesse, era al corrente del fatto che era stata sequestrata, non aveva idea di dove la stessero portando ma era conscia del fatto che non si sarebbe trattata di una festa a sorpresa. Eppure si stava trattenendo dal ridere per l’assurdità di tutta quella faccenda.
Una Yakuza rapita da un paio di piedi piatti per chissà quale scarna ricompensa sarebbe entrata senz’altro nella storia come freddura da raccontare all’interno del clan.
Il clan che aveva odiato una vita intera. Il clan che voleva distruggere dall’interno aiutando la polizia e che allo stesso tempo si ritrovava a desiderare fosse al suo fianco in quella situazione.
Strana la vita. Pensò cercando d’ignorare il caldo che le si stava propagando dal cuoio cappelluto alla base della nuca.
Se suo padre non fosse stato costretto; se le cose fossero andate diversamente e non fosse mai entrata nel clan in quel momento la sua vita sarebbe stata senza dubbio differente.
Haruka sospirò ignorando le chiacchere dei suoi due sequestratori.
 
Non avrebbe mai incontrato Akira e di conseguenza nemmeno Minako. Probabilmente non avrebbe mai conosciuto Setsuna e tanto meno Rei. L’agente Meiō sarebbe stata viva e rinchiusa in centrale a combattere il crimine e sicuramente destino non avrebbe messo sulla sua strada Michiru. Michiru riusciva ad immaginarla nitidamente. Avrebbe sicuramente avuto un fidanzato di buona famiglia, uno di quegli uomini rispettati dalla società e che tutte le vicine t’invidiano e con lui avrebbe condiviso un nido d’amore con vista sull’oceano. Michiru in un’altra vita in cui Haruka non sarebbe stata al suo fianco non avrebbe conosciuto paura o sofferenza, non avrebbe mai dovuto fare i conti con la violenza a cui Haruka era stata abituata sin da ragazzina.
E lei? Haruka in una vita parallela a quella chi sarebbe stata?
Non le veniva in mente nulla. Non aveva la capacità d’immaginarsi altrove e in un altro modo e forse era perché in fondo lei non era tagliata per essere diversa da quella che era. Probabilmente nemmeno l'universo era stato capace di assegnarle un’esistenza differente. Lei si trovava lì per uno scopo ben preciso, ovvero perché doveva essere così. Lei era al momento giusto nel posto giusto. Quella era la sua vita; l’unica. Pertanto avrebbe saputo affrontarla. Se la sarebbe tenuta stretta con i denti fino alla fine perché non avrebbe avuto altre chance. Quel pensiero le diede forza.
 
Una buca e poi un’altra.
Il terreno si era fatto scosceso e l’asfalto aveva smesso di correre sotto alle ruote dell’auto. Dovevano trovarsi in periferia dove i lampioni sono più radi poiché non avvertì più le macchie luminose al di fuori della vettura.
Un formicolio alle mani ammanettate la pervase. Haruka mosse le dita sfiorandosi la tasca dei pantaloni e lo sentì.
Il suo telefono era lì.
Si morse le labbra e dondolò appena sul sedile.
I due idioti non avevano pensato a toglierle di dosso quello.
La bionda pregò che non si fosse guastato durante percosse e con indice e medio riuscì ad estrarlo quel che bastava dalla tasca per accendere lo schermo con una leggera pressione del pulsante sul lato destro dell’apparecchio.
“Siamo arrivati” sibilò uno dei due sterzando in un parcheggio ghiaioso.
Haruka respirò a fondo. Riuscì a sbloccare con una strisciata del dito lo schermo e coprì con un colpo di tosse il suono flebile che l’avvertiva dello schermo attivo.
“Cerca di non morire soffocata, stronza. Ci servi viva”.
“Ogni vostro desiderio è un ordine” rispose sarcastica cercando di compiere l’ultimo sforzo che forse le avrebbe dato una possibilità per essere trovata.
La macchina si fermò e il motore venne spento.
I due si guardarono attorno e Haruka poté captarne la tensione.
“Arriva qualcuno…” sentenziò il primo.
“Scendiamo” disse il secondo.
“Aspetta” il guidatore fermò il compare prima che si accingesse ad aprire lo sportello.
“Ricordati di fare come fanno sempre tutti questi bastardi. Prima i soldi e poi gliela consegniamo”.
“Certo. Pistola carica?”.
“Pistola carica”.
“Come no, anche la mia!”. Haruka non riuscì a trattenersi.
“Tra poco avrai meno voglia di scherzare brutta stronza”.
E il rumore di sportelli segnalò che i due avevano abbandonato la vettura.
Haruka sapeva si sarebbe trattato di un paio di minuti scarsi. Ignorò il gonfiore ai polsi, il dolore delle percosse e tutto il resto.
“Okay, okay…dimmi che sono stati soldi ben spesi…” pregò tra sé e sé riuscendo dopo un paio di tentativi a premere il pulsante sul lato opposto al blocco dello schermo.
L’intelligenza artificiale si palesò domandando come potesse aiutarla.
 
Haruka riuscì ad inviare la propria posizione al primo contatto in rubrica.
Un’altra farfalla spiegò le proprie ali pronta a dare una svolta all’unica vita che le era stata permessa.



Note dell'autrice:
Questo è il mio personale "Buon Natale" per voi, siccome sarà l'ultimo capitolo che pubblicherò quest'anno.
Sono contenta di essere riuscita a non farvi aspettare secoli come la volta precedente... e niente, spero che il capitolo possa piacervi anche se tutta la risoluzione e l'azione sarà nel prossimo (l'ultimo prima dell'epilogo).
Mi rendo conto dello squallore di Ken Azuma, ma in fondo...mica è fratello di Daisuke per nulla no?! Vi ricordate che brutta canaglia è stato?!
Nello scrivere ho fangirlato malamente (e inaspettatamente) per Ami e Mamoru. Mi è partita una ship pazzesca e mi è venuta voglia di fare uno spin off alla grey's anatomy. Mi rendo conto della follia, ma tenetemi così come sono!
Aspetto di sapere tutte le vostre opinioni.
Nel frattempo vi auguro un Buon Natale e un Felice anno nuovo! 
Sapete dove trovarmi prima che arrivi il 2017.



 
   
 
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