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Autore: Giuu13    21/12/2016    2 recensioni
Una scommessa porterà una piccola nazione scorbutica a conoscere una dolce e solare ragazza (molto umana) e a scontrarsi con la vita che gli uomini sono costretti a vivere, nel bene e nel male.
Dal testo:
«Vi troverò un italiano che preferisca l’Italia a voi, che non vi ami proprio, che vi detesti. Poi dovrete baciarmi il culo, idioti!»
Genere: Commedia, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Roma» disse Chiara allungandosi nel letto. Il ragazzo si voltò verso di lei, era appoggiato alla testata del letto che gli pungeva la schiena.
«Mi devi fare un super favore»
Romano annuì divertito dall’ironia della sorte. Avevano cominciato con un favore e con un favore sarebbe tutto finito.
«Questi tuoi amici delle riunioni sono simpatici? Non rispondermi, diresti di no anche se lo fossero»
Romano girò la testa sorridendo.
«Non puoi farteli amici?» continuò lei. «Esci con loro qualche volta, a bere qualcosa, a fare un giro, invitali a casa tua e fagli vedere quanto sei imbattibile a scacchi. Sei un buon amico, Romano, hai un grande cuore, anche se non lo mostri. Non ti sto dicendo di farteli amici, ma almeno di provarci. Ho vissuto a lungo senza amici, non volevo includere nessuno nella mia vita per ovvi motivi, ma aver trovato te è stata la cosa più bella che mi sia mai capitata»
Romano annuì mentre Chiara si sistemava vicino a lui chiudendo gli occhi, poteva farlo, glielo doveva.
 
Venne svegliato dal telefono che squillava prepotente, rispose assonnato e infastidito. Dall’altra parte c’era la voce debole e flebile di Giorgio; Chiara si era addormentata quella notte con loro nel letto senza più svegliarsi.
Romano rimase a letto tutto il giorno, non si alzò, non mangiò, non vide e sentì nessuno; rimase a vegetare fino a sera quando squillò di nuovo il telefono. Stava pensando di non rispondere, ma vide il nome di Veneziano comparire sul display.
«Lovi, come stai?»
Era incredibile come riuscisse a sentire il suo dolore senza una parola; lui diceva che era perché erano fratelli, perché tra loro c’era tanta empatia da gemelli.
«Arrivo, dammi qualche ora. Prendo l’aereo e sono lì» riattaccò senza stare ad ascoltare le deboli proteste di Romano che non voleva nessuno.
Aprì la porta quando sentì il rumore di un motore spegnersi davanti casa sua. Trovò Giorgio sulla porta di casa, aveva tra le mani le chiavi della Vespa di Chiara, la moto parcheggiata sul marciapiede.
«Abbiamo trovato un bigliettino, una specie di testamento “fai-da-te”» sorrise l’uomo triste. «Voleva che l’avessi tu: “Datela a Romano” c’era scritto, “gli piace tanto”»
L’uomo gli mise le chiavi in mano, Romano non accennava a muoversi, e se ne andò a piedi, la testa bassa e incassata tra le spalle, l’andatura sbilenca di Chiara.
Era seduto sulla Vespa con solo i pantaloni della tuta addosso quando un taxi bianco si fermò, scese Veneziano che in fretta pagò e prese una piccola valigia dal baule.
«Sei mezzo nudo, così ti ammalerai, Lovi»
«Non credo proprio» sussurrò Romano mentre il fratello lo trascinava in casa.
Veneziano cucinò qualcosa di veloce e mentre era ai fornelli ascoltò la storia di Romano, quello che era successo dall’inizio fino ad allora; raccontava con tono distaccato guardando il pavimento freddo, non sembrava nemmeno la sua storia, sembrava la trama di un film.
Il più piccolo stava male mentre ascoltava, ma doveva essere forte per il fratello, doveva compensarlo come lui aveva fatto in passato.
Un’ora più tardi Veneziano si rotolava tra le lenzuola.
«Si sta così bene qui, fa caldo»
Romano gli si sdraiò accanto a pancia in giù, la testa rivolta dall’altra parte a guardare la porta aperta.
Cominciò a piangere lentamente e in silenzio, senza singulti e movimenti vari, le mani sotto al cuscino si muovevano una alla ricerca dell’altra per pizzicarsi e contorcersi; era sorpreso di essersi trattenuto durante tutta la giornata, di non aver versato una lacrima, ed era sorpreso di non riuscire a fermarsi, adesso.
La notte porta consiglio. No, la notte porta dolore, lo risveglia quando tu vorresti solo addormentarti.
Sentì una mano calda sulla schiena all’altezza del cuore, e un’altra che gli stringeva le dita sotto al cuscino. Trattenne il respiro e si voltò cercando di mantenere gli occhi nascosti dai capelli; Veneziano era girato verso di lui, gli occhi chiusi e il respiro regolare, ma non dormiva, lo stava consolando.
Romano si addormentò con la mano del fratello sulla schiena, la sentiva rimettere lentamente insieme tutti i cocci del suo cuore, sentiva le crepe rimarginarsi e diventare semplici graffi; sentì i polmoni rilassarsi e riuscì a tornare a respirare piano.
 
«È quello verde?» chiese Veneziano da dentro casa.
«Prendi quello che vuoi, è un semplice casco, muoviti»
Romano aprì la sella della moto per prendere il casco. Trovò quello tricolore e prendendolo sentì un tonfo nel bauletto. Tirò fuori un pezzo degli scacchi, era il re nero masticato da quel bassotto bastardo; sorridendo rimise a posto il re quando sentì i passi del fratello dietro di lui.
Veneziano si era allacciato il casco al contrario e sbuffando Romano glielo sistemò, non voleva di certo prendere una multa per quell’idiota.
«Sei sicuro che possa venire anche io? Non mi conosce nessuno e non c’entro niente con-»
«Stai zitto, Feli. Tu vieni e basta, sei mio fratello e tutto quello che riguarda me riguarda te»
«Oh, Lovi» Veneziano lo strinse forte tra le braccia, lo coccolò a lungo mentre lui si dimenava insultandolo.
«Lasciami stare, idiota! Non devi abbracciarmi, ma salire in moto. Siamo in ritardo, dannazione» riuscì a divincolarsi dalle braccia a tentacolo del fratello che si mise buono sulla sella.
«E vedi di attaccarti alla moto, non a me»
Come se le sue parole fossero entrate in un orecchio ed uscite dall’altro, Veneziano circondò la vita del fratello cominciando a canticchiare.
Era una giornata troppo bella per un funerale. Il sole splendeva nel cielo e le poche nuvole erano candide e morbide.
«Il cielo è felice di averla con sé» disse Feliciano dietro di lui; Romano annuì, la sua presenza lì dietro lo confortava.
Arrivarono in chiesa appena in tempo, stavano chiudendo le porte; Giorgio fece cenno con la testa a mo’ di saluto e si sedette accanto alla moglie piegata in avanti e nascosta da un cappello a tesa larga. Loro si sedettero su una panca vuota, la navata era quasi deserta e non si capiva se fosse perché era una cerimonia privata o perché non c’era stato nessuno da invitare. Qualche posto più avanti Romano vide le tre ragazze del bar strette in un abbraccio.
La cerimonia iniziò e il silenzio lo si sentiva pesante e quasi soffocante.
Si era fatto accompagnare da Veneziano per avere una spalla, un punto forte, ma si ritrovò lui stesso ad essere il punto saldo del fratello. Feliciano stava piangendo cercando di trattenere i singhiozzi, si asciugava gli occhi con un dito in fretta, voleva essere all’altezza del compito di cui il fratello lo aveva rivestito tacitamente. Veneziano non piangeva per Chiara, non poteva, non la conosceva; Veneziano piangeva per il dolore che vedeva negli occhi dei genitori della ragazza, per Romano che non stava versando una lacrima.
«Stai piangendo per entrambi» sussurrò Romano sorridendo. A quel sorriso, a quel sorriso nel posto sbagliato, a quel sorriso sotto sotto ferito a morte, Veneziano pianse senza più trattenersi.
 
Al tavolo delle riunioni si discuteva a voce bassa, senza urla e strepiti, senza litigi tra Alfred e Arthur, Arthur e Francis; c’era una nota grave nell’aria che tutti potevano sentire. Romano era seduto al suo posto tra il fratello e Francis, con Ludwig due posti più a destra che parlava della situazione disastrosa dell’euro.
La sera del funerale Feliciano aveva chiamato Ludwig e i fratelloni Antonio e Francis per metterli al corrente su quello che era successo e aveva tassativamente vietato loro di chiamare Romano, non era pronto a parlarne. Alla fine tutte le nazioni erano venute a sapere la storia, così si evitarono figure e frasi che avrebbero potuto peggiore la situazione: nessuna battuta sulla scommessa persa, nessun commento sulla superiorità dell’America o dell’Inghilterra. Intorno a quel tavolo tutti si erano legati in qualche modo agli umani, avevano provato tutti il dolore causato dalla loro perdita.
Francis osservò il ragazzo seguire il discorso del tedesco, la tristezza nascosta dietro quegli occhi ambrati; lui più di tutti sapeva cosa stava passando, lui aveva perso Jeanne e ancora adesso se ci pensava provava nostalgia. Era questo il lato brutto dell’essere nazione, di vivere per sempre: la memoria era perfetta, i ricordi chiari e limpidi, indelebili e sarebbero rimasti con loro per sempre, fino alla fine.
 
«Ehi Roma» Antonio si avvicinò alla panca su cui l’italiano stava prendendo il sole, il viso alzato verso il cielo.
«Che fai, terroncello?» chiese Gilbert sedendoglisi affianco.
«Prendo il sole, cosa che dovresti fare anche tu visto che sei pallido come un fantasma. Esiste il sole in Crucconia?»
«Noi andiamo a prendere qualcosa in caffetteria, ti va di venire?» Francis appoggiò i gomiti allo schienale della panca ad osservare il ragazzo pensieroso.
«Solo se lui non viene» disse Romano puntando il pollice contro il prussiano che si alzò in piedi offeso.
«Come puoi non volere la compagnia del Magnifico?» chiese scandalizzato.
«Si può fare» rise Antonio prendendo il ragazzo per un polso e cominciando a correre verso l’entrata del grande edificio grigio. Francis li seguì saltellando senza prima aver tirato una potente pacca sul collo a Gilbert che prese a corrergli dietro minacciandolo e urlando improperi vari.
«Siete tutti degli stronzi bastardi!»
Gilbird volava dietro il padrone cinguettando.
Le nazioni in pausa seguivano divertiti con lo sguardo la corsa, rumorosa e colorata, di quei quattro fino a quando non sparirono dietro le porte dell’edificio.
   
 
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