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Autore: Lost In Donbass    17/01/2017    1 recensioni
Tom é un soldato, reduce dell'Afghanistan, scappa dal passato, da se stesso, dai suoi demoni.
Bill é solo, ha una figlia, divorato dalla depressione e dall'attesa.
C'è Loitsche, ci sono i ricordi, le incomprensioni, la passione mai davvero spenta, lettere mai aperte. Bill sta aspettando da due anni. Ma sarà disposto ad aspettare ancora?
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Mpreg
Capitoli:
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CAPITOLO SECONDO: RESCUE ME
I trusted in you in every way
But not enough to make you stay
Turn around, I lost my ground
The walls are coming closer
My senses fade away
I’m haunted by your shadow
I reach to feel your face
You’re not here … are you here?
 
-Mamma, mamma, guarda che bello!
Bill si massaggiò il ponte del naso, guardando la sua bambina zampettargli vicino, un enorme sorriso sul viso rotondo che gli ricordava così tanto il suo, di viso, lo stesso sorriso un po’ sbarazzino e un po’ deciso che lo aveva fatto innamorare anni prima e lo aveva distrutto ogni giorno di più. Ogni volta che guardava, baciava, coccolava sua figlia, Bill non poteva fare a meno di vedervi lui, quel ragazzo che aveva amato e che amava ancora così tanto da infliggersi ferite sempre peggiori ogni giorno di più. Aveva il suo stesso taglio d’occhi, la stessa luce orgogliosa ma innocente che aveva lui, quelle guance rotonde e grassottelle, quel sorriso così bello … più la guardava, più si rendeva conto di quanto gli mancasse, di come si ancorasse a quella bambina come alla proiezioni dell’uomo che l’aveva abbandonato senza una lettera, un ricordo, un addio.
-Che cosa, Mackenzie?
Non avrebbe voluto alzarsi dal divano, non in quel momento. Ma poi, quando mai voleva alzarsi dal divano, con la televisione sempre accesa su soap opera e programmi di cucina che non guardava mai veramente? Sospirò, alzandosi lentamente, le membra doloranti, gli occhi gonfi e stanchi, i capelli piastrati tutti arruffati, la camicia da notte spiegazzata. Bill era stanco, come sempre. Stanco, annoiato, depresso, un fantasma che tirava avanti senza nemmeno saperne il vero motivo. La sua svogliatezza era oramai diventata patologica, se ne rendeva conto da solo, ma non aveva la più pallida idea di come liberarsene, di come uscire dal pantano nel quale si era affogato da solo. Mackenzie gli indicò un enorme castello di carte che faceva la sua bella figura in mezzo al salotto, un po’ pericolante ma pur sempre d’effetto, circondato dal disordine che gravava in casa.
Bill sorrise mestamente, accarezzandole la testolina
-Che carino, tesoro, è bellissimo.- non sapeva quanto la sua voce fosse sicura di sé, e nemmeno se poteva davvero definirsi una voce orgogliosa, ma non gliene importava molto. Era stanco, tanto stanco.
-Giochiamo col castello?- Mackenzie gli si appese alle gambe, tirandogli con le manine paffute il bordo della camicia da notte azzurro pallido – Facciamo l’assalto dei cavalieri? E la togna per i cattivi?
-Si dice gogna, amore, non togna. E comunque oggi no, la mamma è stanca.- sospirò Bill, ributtandosi a peso morto sul divano, lasciando la bambina sedersi per terra con uno sbuffo arrabbiato.
-Anche ieri eri stanca, mamma. E anche l’altro ieri. E ieri prima ancora.
Mackenzie guardò attentamente Bill, semi sdraiato sul divano a guardare programmi che poi nemmeno seguiva, con quella tazza di the che diventava freddo e che buttava via, quelle pastiglie che prendeva sempre e che secondo Mackenzie contribuivano a stancarlo più di quanto dovesse essere un ragazzo di ventitre anni, quelle sigarette che fumava sempre e che riempivano la casa di cenere.
-Lo so, tesoro, ma è un brutto periodo questo, non ho voglia di giocare.- mugolò Bill, mordicchiandosi il labbro inferiore, fingendo di stare attento allo stupido programma di cucina che andava in onda.
-Ma mamma, per te non è mai un buon periodo.- gli ricordò tristemente Mackenzie, alzandosi e barcollando sulle corte gambe grassottelle gli andò vicino, ricadendo seduta per terra come un sacco di patate. Da che avesse memoria, Bill era sempre stato così. Vittima delle sigarette, delle pastiglie di Xanax, della televisione per il popolino, del divano e della stazione. Da quando era nata, non faceva altro che stare alla stazione ad aspettare qualcuno, nata praticamente su quella panchina, guardando ogni viso che si alternava dinnanzi a loro, prendendosi qualunque tempo, dalla nebbia, alle tempeste, al bollente solleone, senza capire chi fosse la persona che tanto dovevano attendere. Vedeva tristemente Bill sgonfiarsi sempre di più, appeso spasmodicamente alla speranza di vedere quella persona sconosciuta che, a giudicare da quel poco che Bill diceva, avrebbe dovuto essere suo padre. Mackenzie non lo sapeva. In realtà, non gli sarebbe nemmeno troppo interessato saperlo, ma qualcosa le diceva che se questa persona si fosse mai palesata, allora forse sarebbero finite le sigarette, le pastiglie, la televisione e soprattutto l’apatia.
-Sono sicuro che quando papà tornerà da noi, tutto si aggiusterà.- Bill la prese faticosamente in braccio, stampandole un umido bacio sulla fronte pallida – Aspettiamolo ancora, cucciolina mia, e quando sarà arrivato, la mamma non sarà più stanca, va bene?
-Lo dici sempre, mamma.- Mackenzie si appese alla vestaglietta di Bill, lasciandosi avvolgere dalle sue braccia delicate – Dov’è allora papà?
-E’ andato lontano, tesorino, tanto lontano … - Bill fece un sorriso mesto, una lacrima solitaria a percorrergli la guancia. – Ma tornerà, non ti preoccupare.
Erano due anni che non faceva che dire così, registrò Mackenzie, sistemandosi meglio in braccio al moro, eppure sembrava che nessun cambiamento avvenisse. Bill, dal canto suo, si accoccolò meglio sul divano, accarezzando dolcemente la bambina e pettinandole con le dita i sottili capelli corvini. C’era stato un tempo, che oramai pareva così lontano nella sua memoria confusa dallo Xanax e dalle ragnatele di lacrime che si affollavano nei cristalli della sua depressione, in cui era stato così felice di aspettare Mackenzie, così pieno di gioia di essere lì, con la pancia gonfia e la certezza di poter avere finalmente una famiglia. Non si vergognava, non faceva altro che sorridere alla vita, accarezzarsi la pancia, farsi orribili congetture su come sarebbe stata bella la sua vita con il figlio che portava in grembo e … lui. Certo, lui, che popolava i suoi giorni e le sue notti, lui che gli appariva in sogno come una chimera e che gli sfuggiva dalle dita ogni mattina, quando apriva gli occhi ed era solo, in quel letto freddo, non più riscaldato dal suo corpo caldo, solo con una pastiglia da ingoiare e la speranza vana di vederlo arrivare, una mattina, col treno, lui che non faceva che farlo stare male ogni minuto di più, che lo costringeva a indebolirsi così, che gli torturava la psiche e che l’aveva abbandonato così, da solo, con una figlia a carico, la costrizione di tornare in un luogo che aveva dimenticato e di lasciare Berlino, la sua casa, tutto, l’aveva obbligato a scomparire, lui e la loro bambina, schiavi dell’attesa estenuante. Bill era perso, senza di lui, non si capacitava di come potesse essere stato lasciato dal ragazzo che pensava lo avrebbe amato e protetto per sempre. Non gliel’aveva forse detto? “Bill, ti proteggerò per sempre, lo sai, vero? Ti amo tanto, piccolo mio”. Ricordava la sua voce, squillante e dolce. Ricordava il suo profumo, giovane e inebriante, che sapeva di menta fresca, voglia di rivolte e di cambiamenti generali, di rock’n’roll, quello un po’ rockabilly che suonava nella sua chitarra elettrica, quelle canzoni americane così allegre, un po’ country, che lo facevano così divertire. Ricordava il suo sorriso, largo e affettuoso, vivace, sempre positivo, mai triste, ricordava le sue labbra morbide sulle sue, sulla sua pelle, sui suoi capelli, ricordava le sue mani grandi, callose, belle, che lo stringevano, che lo accarezzavano  dolcemente, che lo toccavano dappertutto. Ricordava semplicemente lui, la sua bellezza, la sua voglia di vivere, la sua allegria. Bill si struggeva per quel ragazzo che aveva amato di un amore così folle da consumarsi, si annientava da solo ancorandosi ai ricordi vividi che fino a due anni prima coloravano la sua vita sul baratro, vi si appendeva con le unghie e con i denti, si lacerava le carni, come un folle, si strappava i capelli pur di poter dondolare appeso a quegli stralci di ricordi confusi che costellavano quella mente ferita e frustrata. Avrebbe potuto dirlo che lo faceva per sua figlia, ma sapeva da solo, odiandosi per questo, che non sarebbe mai stato così nobile e così abnegante, non sopportava il modo in cui la trattava ma non riusciva a fare altro che stare chiuso nel suo tetro torpore dettato dai farmaci, eppure era certo che se lui fosse rimasto, la loro bambina sarebbe stata più felice di come lo poteva essere vivendo con una madre depressa e abbandonata. Avrebbe potuto dire che lo faceva per lui, per tenere viva la passione e l’ardore che bruciavano all’epoca per quando sarebbe tornato, ma non era così spumeggiante e positivo come lo era ai tempi di Berlino, non esisteva più il ragazzo frizzante e divertente che aveva calcato la capitale con i suoi stivali col tacco e le sue pellicce di quarta mano, che non pensava a niente che non fosse vivere i propri vent’anni come se non ci fosse un domani. No, Bill lo faceva solo ed esclusivamente per se stesso, per non affogare in pensieri suicidi, per non decidere di andare a dormire stringendo Mackenzie a sé per non svegliarsi mai più, per non lasciarsi cadere giù dal ponte sul fiume, per non buttarsi sotto il treno che tanto odiava, tentava di pensare a lui e ai tempi in cui era stato felice per resistere alla vita che gli era completamente avversa. Era una vita che detestava, che si trascinava ormai da due anni, una vita fatta di giorni tutti uguali, che si confondevano nella sua testa malata e stanca, fatta di un’attesa tanto speranzosa quanto dilaniante. Lo aspettava con così tanto ardore da aver perso il conto delle stagioni. Aspettava che scendesse da quel treno e che gli corresse incontro, che lo prendesse in braccio e lo baciasse come faceva a Berlino, quando lo veniva a prendere fuori dall’università, aspettava che vedesse sua figlia e che la stringesse, che le baciasse i sottili capelli neri e che quando gli avrebbe cinguettato “Ti assomiglia così tanto, ciliegina”, lui gli avrebbe risposto “Rock’n’roll”, la sua risposta a tutto, e avrebbe sorriso e si sarebbero avviati a casa a braccetto, con Mackenzie in braccio e finalmente un sorriso. Ogni giorno si illudeva che questa scena, oramai vivida e bruciante in ogni suo sogno, così precisa da illuderlo a volte che fosse già accaduta, potesse succedere ma ogni giorno i suoi sogni si sgretolavano come cenere al vento e scomparivano nell’ultimo treno.
Bill sospirò rumorosamente, alzandosi dal divano e trascinandosi in bagno, guardandosi allo specchio con aria triste. Cosa c’era, in quello specchio? Un ragazzo di ventitre anni che ne dimostrava almeno il doppio, troppo effeminato per non suscitare domande nei cuori della gente, i capelli arruffati, il viso scavato dallo Xanax e dalla depressione, lo sguardo di un ragazzo morto che non trova pace, la vuotezza di un’anima sola e deserta come il Gobi. Si passò una mano sul viso pallido, stringendo l’altra attorno al bordo del lavandino, mentre Mackenzie gli saltellava accanto, appendendosi alla vestaglietta.
-Mamma, ho fame.
-Sì, patatina, mi preparo per il Kalende May e ti faccio la merenda.
Sorrise dolcemente, afferrando le creme per la pelle, facendo un profondo respiro. No, Mackenzie non stava bene, lo sapeva. Era grassa per un’ anomalia, quei mille problemi di salute che aveva, quel metabolismo disfunzionale che la faceva ingrassare senza un motivo apparente, ogni volta che la guardava Bill pensava a come sarebbe stato diverso se lui fosse rimasto. La malattia della bambina sarebbe stata meno opprimente da sopportare, se fossero stati in due a farsene carico, e non fosse stato da solo, incapace di affrontare quel mondo avverso. Cominciò a truccarsi, lentamente, come ogni giorno, a ricoprirsi di creme, fard, rossetti, mascara, eye-liner. Amava truccarsi, indubbiamente, ma oramai non c’era più un motivo tangibile per farlo, non lo faceva più per sembrare alternativo, non lo rendeva più bello e affascinante come ai tempi di Berlino, anzi, forse lo abbruttiva ancora di più, inchiodandolo come fosse un pagliaccio che tira fino agli estremi il suo spettacolo fricchettone. Non si truccava più per il ragazzo che amava, per gli amici che aveva abbandonato senza una spiegazione, per i locali punk della capitale, no, ora lo faceva solo per un lavoro squallido che non gli piaceva fare, costretto ad abbandonare i suoi studi per crescere la bambina, obbligato a lasciare e dimenticare i suoi sogni di ragazzo per sacrificarsi a una precoce e drammatica vecchiaia dello spirito, che lo rovinava ogni giorno di più. Se lui fosse rimasto, sarebbe restato a Berlino, avrebbe continuato a studiare, avrebbe potuto avere un lavoro in cui avrebbe eccelso, la bambina sarebbe stata felice. Ma lui era partito, invece, lasciandolo lì sulla soglia di una casa, le mani strette sulla pancia, l’orrore dipinto nelle pupille di vederlo scomparire giù dalla tromba delle scale verso un futuro incerto come il fumo di una sigaretta.
 
-Amore, credi che se mi proponessero di trasferirmi a New York per continuare gli studi dovrei accettare?
Si inginocchiò sul letto dove lui stava seduto, accarezzandogli la schiena nuda e muscolosa, guardando i suoi grandi occhi scuri persi in un mondo tutto suo. Gli accarezzò il viso, poggiandogli il mento su una spalla.
-Cosa dici?- insisté, baciandogli delicatamente la tempia, sussurrandogli quelle parole direttamente sulla pelle calda – Mi ameresti lo stesso, vero?
Lui non rispose, limitandosi a grattarsi una guancia, continuando a leggere quei fogli che teneva tra le mani, ignorando le sue mani lunghe e belle che lo stringevano e che lo pettinavano, ignorando le sue labbra sulla nuca e la sua voce naif.
-Ehi, amore, mi stai ascoltando?- si alzò, frusciando sensualmente nella vestaglia rosa pompelmo, scivolando verso la finestra. La aprì, guardando Berlino sotto di lui, con i suoi parchi, la sua storia, la sua magia, inspirando l’aria fresca di una sera marzolina. Si sedette sul bordo della finestra, accendendosi una sigaretta lunga, un po’ anni ’30, un po’ hollywoodiana, lasciando le chimere di fumo perdersi nel vento della primavera che timidamente si affacciava. Si sentivano i Budgie risuonare da qualche parte nella strada, mentre sentiva lui respirare profondamente dietro di lui, le lenzuola ancora sporche dopo che avevano fatto l’amore, il lento scorrere della Sprea laggiù verso il tramonto, il profumo del suo dopobarba che gli era rimasto sulla pelle, quel profumo di menta, rivolta e rock’n’roll. Si voltò verso di lui, con un sorriso malizioso, i capelli arruffati, i grossi orecchini tintinnanti
-Oppure potresti venire con me. Io e te, insieme nella Grande Mela, non sarebbe meraviglioso? Coronerebbe il sogno d’amore di ogni amante. Ci verresti con me?
Lo guardò, sempre concentrato su quei fogli, l’espressione corrucciata. Si avvicinò, ancheggiando, sedendoglisi accanto, un sorriso timido sul viso
-Cucciolino mio, hai capito qualcosa di quello che ti ho detto?
-Hai detto qualcosa, Bill?- lo guardò incerto, scuotendo la testa, per poi alzarsi e dirigersi verso il bagno – Scusa, ma devo andare, mi aspettano.
Non fu sicuro se vide l’ombra di incerta incredulità che attraversò il sorriso di Bill, piegandoglielo in una smorfia, prima che gli zampettasse dietro mugolando.
 
Tom si chiedeva da tempo se non avesse forse dovuto tornare in Afghanistan, se non fosse davvero là la casa che cercava disperatamente da quando era nato. Non c’era stato momento in cui il ragazzo non aveva smesso di cercare un luogo a cui sentirsi di appartenere veramente; aveva bisogno di trovare un luogo, una persona, un oggetto che avrebbe potuto chiamare “casa”, da cui fuggire ogni volta, come se farebbe con il seno di una madre. Aveva Berlino, ma sapeva che era troppo mondana per lui, l’aveva già vissuta e spremuta fino all’ultima goccia, non c’era più niente con cui dissetarsi nella sua città natale. Aveva Loitsche, ma era solamente la meta di vacanze di cui doveva rinverdire il sapore, il mondo utopico che lo faceva sopravvivere ma che era fatto di sogni e ricordi felici, niente a che vedere con quello che doveva ospitarlo. E poi c’era l’Afghanistan, c’era la sabbia e il vento che frustava le colline brulle, c’erano le capre montane che rosicchiavano i cardi, c’era il deserto, c’era la guerra che l’aveva coinvolto nel suo giro di morte, eppure, Tom non riusciva del tutto a separarsi da quel mondo che lo aveva ospitato per due anni di fila. Si chiedeva se forse la sua casa a quel punto non fosse diventato il deserto afghano, la crudezza di quella luna fredda che illuminava la sabbia impregnata di sangue, il sapore metallico del vento che urlava in notti gelide come la morte. Voleva di nuovo il suo Afghanistan, non riusciva a non pensarci, non riusciva a liberarsi del soldato che era in lui e che si era ancorato al suo cuore e gli stava urlando di tornare sotto i bombardamenti e vivere quell’incubo fino in fondo. Tom si voleva male, forse, ma aveva bisogno del deserto. Aveva bisogno di soffrire come un cane perché sembrava che il mondo che odiava alla follia fosse contemporaneamente l’unico in cui poteva venire a patti con la sua natura tormentata e vagabonda.
Guardò con aria vacua Georg alzarsi dal tavolo e dirigersi verso il bancone, mentre registrava solo con un orecchio i discorsi dei suoi vecchi amici e le loro moine. Aveva creduto che gli fossero mancate quelle serate, ma ora si sentiva soffocare in mezzo alla gente e alle loro storie alle quali annuiva distrattamente, ridendo ogni tanto. Dicevano che uscire da una guerra poteva rovinarti per sempre. Tom non era affatto sicuro di essere sopravvissuto davvero, a quel punto. Continuò a guardare Georg, in mezzo alle luci del vecchio locale della sua adolescenza, quello dove si erano fatte le scommesse più stupide, dove aveva baciato il suo primo ragazzo, dove si era scopato la prima ragazza, dove si era ubriacato sul serio. Ricordava l’odore di sudore, profumi alla vaniglia e patatine fritte di cui era sempre invaso il Kalende May, il locale da giovani dove si andava se non si aveva voglia di stare sotto il severo occhio della signora Schafer, implacabile proprietaria della locanda di Loitsche. Bevve un sorso di birra svogliatamente, anche se aveva sognato per due anni di poter tornare a ubriacarsi come prima. Eppure  quella stessa birra che aveva osannato anni prima, ora la trovava rivoltante come un pugno nello stomaco. Le luci che si riproiettava nella mente durante i bombardamenti, non facevano che fargli pulsare la testa ancora di più. La vicinanza dei suoi amici, che aveva così tanto desiderato mentre era lì coi suoi commilitoni a raccontarsi della loro vita, ora erano soltanto i fantasmi slavati del suo passato. Tom era triste, assurdamente. Si sentiva perso, nella civiltà. Si alzò, lentamente, la solita scusa di fare un giro per il locale per vedere se se lo ricordava davvero bene, avviandosi mollemente, con quell’aria sempre vigile e attenta, forse anche spaventata, che non riusciva a cancellare, come se da un momento all’altro dovesse ricominciare a sparare su qualcuno. Si avvicinò con nonchalance al bancone e guardò la bambina che stava seduta dietro al bancone, grassa e rotonda, il viso simile a quello di un piccolo Buddha ridente, avvolto in un grosso vestito di pizzi e crinoline rosa confetto, i capelli corvini accuratamente pettinati con la riga da un lato, i grossi occhioni a mandorla che rilucevano alle luci basse del locale.
-Ciao, piccolina.- sussurrò, captando l’occhiata incuriosita ma quasi saccente che la bambina gli lanciò. Lei si voltò verso di lui, sfarfallando gli occhi d’inchiostro, lasciando perdere per un momento il peluche con cui giocava e concentrò le sue attenzioni sul ragazzo.
-Ciao.- cinguettò di rimando, con quella vocina da bambina che a Tom suonava così estranea. – Chi sei?
-Mi chiamo Tom, tesoro.- il rasta si avvicinò, cercando di parlare col tono più dolce possibile. Ma la guerra non era dolce – E tu, come ti chiami?
-Mackenzie. Ciao, Tom.- la bambina sorrise, un buffo sorriso sottile, come quello di un vero Buddha tibetano, battendo le manine grassottelle.
C’era qualcosa, in Mackenzie che stupiva Tom, senza un vero motivo tangibile. Forse quegli occhi, quello sguardo che gli sembrava di conoscere, di aver visto chissà dove e chissà quando, in un momento passato e dimenticato nel deserto. C’era un ricordo, nel viso rotondo della bambina, un fantasma, nel suo sorriso infantile, un demone, nel suo sorriso dolcissimo. Eppure non riusciva a capire chi potesse ricordargli quella bambola vestita di rosa, che stringeva il peluche di un dromedario.
-Che bello il tuo pupazzo.- Tom le sorrise, toccando il pelo morbido del giocattolo.
-Si chiama Dhakira. Vuol dire “ricordo” in arabo. Me l’ha detto la mamma.
Mackenzie sorrise orgogliosa, agitando il dromedario.
-Oh, la mamma viene da là?- disse il ragazzo, accarezzando la testolina mora della bambina.
-No, è tedesca.- rispose Mackenzie – Sa tante cose e tante storie bellissime.
Tom conosceva una persona così, ricordava. Quando ancora viveva a Berlino, c’era stato un ragazzo nella sua vita che sapeva tante cose, e che raccontava storie bellissime. Aveva il genio che solo i matti possono avere, e aveva la loro incertezza. Sapeva cose che nessuno avrebbe saputo. Se gli avessero chiesto di descrivere con una sola parola come fosse quel giovane glamster, allora sicuramente avrebbe detto “è un poeta”, ma un poeta di quelli veri, di quelli dannati e maledetti che si possono incontrare solamente nella Parigi di Baudelaire, nella Londra degli anni ’60 e  nei quartieri nuovi della ex Berlino Ovest. Non era un tipo facile, come tutti i poeti, d’altronde, saturo della sua poesia che diceva aver ereditato da una notte passata sul Caer Idris, anche se Tom non sapeva se credergli o no, la luce smaliziata eppure sognatrice che brillava nel profondo di quelle iridi nere come l’inferno, degli occhioni così simili a quelli di quella bambina, ugualmente profondi, vagamente saccenti, avvolti da un’aurea misteriosa che sicuramente non era per tutti. Sapeva che la poesia era il suo sangue, che le storie e le leggende uscivano a fiotti dalla sua bella bocca come fosse un fiume in piena che sgorga da una sorgente inesauribile, che la sua magia era proprio nell’impalpabilità dei suoi discorsi. Potevi non credergli, e schernirlo come folle. O potevi credergli, e allora l’avresti fatto con tutto te stesso. Era un leader, a modo suo, un moderno Hölderlin che aveva rivoluzionato sé stesso da solo, come avesse anche lui uno Scardanelli da tenere a bada, dentro di sé. Ricordava la sua mente brillante, quelle parole che sembravano venire direttamente dal suo grande cuore appassionato.
 
L’aveva guardato attentamente, le lunghe gambe fasciate nei jeans neri aderentissimi, le mani pallide fasciate da eleganti guantini di pelle borchiati, seduto come una modella sul muretto, che fumava distrattamente una sigaretta, il viso rivolto alla luna come se potesse cogliere da lei i segreti dell’esistenza.
Aveva allungato un dito verso di essa, le lunghe unghie smaltate di nero con le stelline a decorarle, un sorriso sensuale ma incantato a illuminargli il viso, e lo aveva guardato dritto negli occhi, esalando un sospiro che sapeva di fumo e marshmellow
-Wa’iiblis hu aleawda.
Aveva sorriso ridacchiando, forse un po’ ubriaco, forse solo poeta
-Che hai detto?- gli aveva risposto, cercando di cogliere quello che guardava lui. Ma come fai a vedere la luna se guardi il dito?
-E’ arabo, tesoro.- cinguettava così bene che sembrava un usignolo, lo dicevano tutti – Ho detto che l’Iblis è tornato.
-Non ci stai con la testa, fattelo dire.- aveva riso, ubriaco, bevendo un altro sorso di birra, stringendoselo possessivamente contro, strofinandogli il viso nel collo da cigno. Non sapeva se gli facesse effettivamente piacere o no, in fondo.
-Sì che ci sto, cucciolo.- gli aveva avvolto le gambe al bacino, infilandogli le mani tra i capelli – Sono io il tuo Iblis, infatti.
Non gli aveva mai detto chi o che cosa fosse effettivamente un Iblis, e lui, beh, aveva sempre avuto troppa paura per andarlo a cercare.
 
-Ho capito; e la mamma è qui con te?- Tom si inginocchiò accanto a Mackenzie, guardando i fiocchetti rosa confetto che aveva sulla testolina mora.
-Certo! La mamma canta qui ogni sera.- la bambina agitò il peluche verso il palco dove, fino a un momento prima, aveva cantato una ragazza con la voce meravigliosa, con una favolosa maschera a nasconderle il viso, con un lungo naso aquilino nero e enormi farfalle dorate decorate con perline e diamantini finti, un gigantesco drappo bianco e nero a nasconderle le forme, solamente dei capelli corvini che sbucavano come elettrizzati da dietro la maschera di farfalle. L’aveva guardata distrattamente per tutta la serate, osservando le mosse sensuali anche se appesantite e falsate dal drappo simile a una gigantesca toga, ascoltando quelle canzoni della sua giovinezza cantante da una voce angelica e demoniaca allo stesso tempo. C’erano state le cover di Nena, che Tom ricordava essere un po’ l’idolo di tutti, lì dentro, quelle canzoni che tutti sapevano a menadito e che si cantavano in compagnia, con due birre e la sua chitarra sotto mano, magari seduti al fiume o prima della radura, intorno a un fuoco da campo, la voce dei loro sogni. Quelle degli Scorpions, che si cantavano tornando a casa la sera tardi, o quando finiva l’estate e tutti avrebbero voluto stare ancora un po’ in quello stralcio di paradiso dimenticato nella pianura, quelle che si cantavano il 5 novembre seduti sul muretto a sud di Loitsche. C’era stata l’ultima cover degli Oasis, la canzone che per eccellenza tutti conoscevano, quella che invece era l’implacabile hit dell’estate del 2005, ripetuta fino alla nausea in ogni momento, come se dovessero predicare un nuovo movimento un po’ figlio dei fiori. Sembrava quasi che la cantante fosse stata lì con loro, a sperimentare tutti i momenti che coloravano il passato del rasta come raggi di luce che adesso faticavano a farsi largo nell’oblio della guerra.
-E’ brava, vero?- disse Mackenzie, sorridendo felice. – Mi canta sempre delle belle ninnananne.
-E’ bravissima, sì.- rispose Tom, per poi sussurrarle, quando cominciò a sentire i suoi amici chiamarlo a gran voce – Ora devo andare, piccina. Sono contento di averti conosciuto, lo sai?
-Anche io, Tom.- la bambina batté le manine grassocce, ridendo, quelle buffe risate di gola dei bambini – Tornerai?
-Certo, piccoletta, tornerò a trovar …
Non fece in tempo a finire la frase che sentì una voce, una voce che non gli era del tutto nuova, oltretutto, risuonare alle sue spalle
-Mackenzie, ma chi è questo qui? Lascia stare la mia bambina, tu!
Tom si voltò, un sorriso che non era più sicuro fosse quello rassicurante e un po’ strafottente che aveva prima di arruolarsi, visualizzando la cantante, con addosso sempre la lunga toga bianca e nera, la maschera un po’ storta, come se l’avesse appena rinfilata in fretta e furia
-Ehi, tranquilla, non le ho fatto niente, le ho solo tenuto un po’ di compagnia. Comunque, complimenti, un’ottima prestazione …
Eppure, il rasta non fece nemmeno in tempo di finire di parlare, che vide la cantante irrigidirsi completamente, come se l’avessero appena uccisa con un colpo di pistola dritto nel cuore, cadere per terra in ginocchio come fosse una marionetta a cui vengono tagliati colpo i fili, esattamente come il suicidio tragico della Petrushka dei balletti russi, e gemere un nome tra quelli che poteva presumere fossero singhiozzi
-T … Tom? Tom, sei tu?
-Cosa? Beh, sì, mi chiamo Tom, ma non … - il rasta la prese delicatamente per le spalle, scuotendola con gentilezza, incerto sul da farsi, prima che la figura mascherata non cominciasse a piangere a dirotto. E Tom avrebbe davvero scommesso di tutto, in quel momento, ma non sarebbe mai potuto arrivare a indovinare il viso truccatissimo che gli apparve non appena la ragazza, che poi era pure un ragazzo a dire il vero, si strappò la maschera dorata da dosso. Non avrebbe mai potuto immaginare che una volta tornato a casa, lontano dalla guerra, lontano dall’Afghanistan, lontano dal deserto, il suo peggior incubo gli si manifestasse così, di colpo, come una lacerazione a ciel sereno della sua giovinezza. Non avrebbe mai potuto sognare di risentire quel “Tom, Tom amore mio!” urlato tra le lacrime che tanto aveva sperato di dimenticare nella polvere da sparo. Non avrebbe mai potuto pensare che l’Iblis era tornato per vendicarsi di lui.
  
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