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Autore: Sophja99    31/01/2017    4 recensioni
Luine è una mezzelfa, cresciuta nella Corte Benedetta, la residenza degli elfi benigni e delle altre creature appartenenti al Piccolo Mondo. Nonostante il mondo incantato in cui vive ogni giorno, Luine si è sempre sentita inferiore agli elfi con cui convive per la sua natura ibrida e, infatti, questi non mancano occasione di ricordarle la sua incompletezza. Ciò che davvero vorrebbe è incontrare i genitori che la hanno abbandonata quando era solo una neonata e farebbe di tutto pur di conoscerli e vivere finalmente insieme a loro come una normale famiglia, ma sarà davvero pronta a pagare il prezzo della sua richiesta e a scoprire chi si cela dietro alle figure dei genitori su cui tanto fantasticava da bambina?
Storia partecipante al contest "La tua carta dei Tarocchi" indetto da Ynis sul forum di Efp.
Genere: Dark, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Luine uscì dal castello quanto più velocemente poteva. Voleva solo allontanarsi da sua madre, dal dolore che le aveva inflitto e dalla famiglia che lì si era costruita, da cui lei era stata completamente estromessa. Si asciugò le guance umide con il palmo della mano e si strappò via con rabbia le lacrime che continuavano suo malgrado a scendere.

Un'egoista senza cuore, ecco cos'era la sua madre naturale.

Presa da una collera incontrollabile, si slacciò il bracciale dal polso e lo scagliò lontano, voltandosi subito dopo per non vedere dove si fosse posato. L'unica cosa che desiderava in quel momento era cancellare il ricordo di Eithne dalla testa, ma non ci riusciva proprio. Nonostante tutta la sofferenza che le aveva causato e sebbene si fosse rivelata una donna completamente diversa da quella che si era immaginata, rimaneva pur sempre sua madre.

Eppure, la rabbia e la delusione persistevano: in tutti quegli anni aveva pensato così tanto spesso ai suoi genitori che ne aveva quasi idealizzato le figure; si era inventata e immaginata come fossero e come sarebbe stato il loro incontro. Molte volte le era venuta in mente l'immagine dei genitori, dall'aspetto e i tratti simili ai suoi, che bussavano alla porta della sua casa alla Corte Benedetta e la abbracciavano, promettendole che da allora in avanti non l'avrebbero mai più lasciata da sola. Ma quel meraviglioso sogno non si era mai avverato e ora Luine aveva anche chiarissimo il perché: loro non l'avevano voluta allora e non l'avrebbero accolta nemmeno adesso.

Aveva sempre vissuto con il forte desiderio di avere una famiglia felice, unita e perfetta, ma ormai, dopo il suo incontro con la regina Eithne, lo vedeva solo come un qualcosa di irrealizzabile, perché il destino aveva deciso di privarla di quelle gioie.

Aveva la mente talmente occupata da questi pensieri, che non si accorse nemmeno di starsi dirigendo al giardino che si trovava poco sotto le mura del castello. Si sedette a terra, a guardare il panorama di prati verdi e incantevoli, che, tuttavia, non riuscivano a calmarla.

«Non saresti dovuta venire» disse una voce sconosciuta e maschile dietro di lei. Luine si voltò subito e il suo sguardo cadde su un uomo vestito di un mantello nero, dalla pelle tanto pallida da apparire bianca come quella di un cadavere e dai corti capelli mori, messi in risalto dal colorito cereo. Si vedeva chiaramente che fosse un adulto, ma in qualche modo appariva quasi... senza età, con tratti sia giovanili, sia maturi. Inoltre, aveva un'aria terribilmente familiare, sebbene Luine fosse certa di non avere mai visto in vita sua un individuo simile. Poi si ricordò di aver scorto qualcuno di simile poco prima di entrare nella grotta del druido Seumas.

«Tu chi sei?» domandò la mezzelfa, alzandosi e indietreggiando.

«Non mi riconosci?» continuò l'uomo, facendo un passo avanti e accennando un sorriso. Ora che era più vicino, Luine si accorse di un particolare che prima le era sfuggito: le orecchie erano a punta. Era un elfo. «Luine, sono tuo padre.»

«Cosa?» sussurrò la ragazza, improvvisamente senza fiato e con le gambe molli. Ora comprese perché i lineamenti del viso e la sua fisionomia le fossero subito sembrati tanto noti. Eppure, non riusciva ancora a capacitarsi come potesse quell'uomo che aveva davanti, dall'aria tanto misteriosa e pericolosa, essere sangue del suo sangue.

«Proprio così» affermò. «Ho continuato a seguirti e a tenerti d'occhio durante tutto il tuo stupido viaggio per ritrovare tua madre. Un viaggio a vuoto, perché, come ti saresti dovuta aspettare, lei non ti ha voluta. Non saresti mai dovuta partire.»

«Perché mi dici questo? Io... volevo solo incontrarvi, conoscervi e...» balbettò Luine. Quindi, chiuse gli occhi, come per mettere ordine alla tempesta di pensieri che affollavano la sua mente. «Perché l'avete fatto? Come avete potuto?»

«Intendi perché ti abbiamo abbandonata? Per capirlo devi conoscere l'intera storia.»

«E allora, padre» disse la mezzelfa, mettendo particolare enfasi e ironia in quell'ultima parola «raccontami come è andata davvero. Aiutami a capire.»

Quello volse lo sguardo altrove, verso l'orizzonte, e sussurrò: «Sì, meriti di saperlo», poco prima di iniziare a narrare.


Una ragazza correva tra i campi verdi e rigogliosi della Scozia, lasciando che il vento le sferzasse i lunghi capelli rossi e l'abito bianco. Tutti a corte le invidiavano i bei riccioli che le incorniciavano il volto e le serve si sentivano sempre fiere quando le dovevano acconciare i capelli. Insomma, l'avevano resa famosa in tutta la società scozzese.

Eppure, tutta quell'attenzione l'aveva sempre fatta sentire a disagio e, man mano che cresceva e le responsabilità e le speranze risposte in lei aumentavano, sempre più spesso ricercava momenti di solitudine e pace, per pensare lucidamente alla piega che stava prendendo la sua vita. Non aveva mai desiderato un'esistenza dedita solo alle frivolezze della corte, all'importanza data alla reputazione e, soprattutto, al matrimonio. Non sapeva nemmeno cosa significasse la parola “amore”, figurarsi se avrebbe accettato di buon grado di essere mandata in sposa con un uomo che neanche conosceva, come spesso avveniva nella società di allora. Quella tradizione la disgustava: come si poteva costringere una donna a sposarsi con qualcuno che non amava? Le sembrava assurdo e disumano.

Anche adesso Eithne stava scappando dal castello per rimanere per qualche ora da sola, come spesso faceva. Sapeva bene che al suo ritorno l'avrebbero attesa i rimproveri del padre, ma non le interessava. Quei momenti di intimità con se stessa valevano qualsiasi sacrificio.

Si introdusse nel bosco che circondava il castello. Non era grande; tuttavia, si estendeva per una zona relativamente estesa, perfetta per la caccia. Si tolse le scarpette di cuoio e fece un sospiro di sollievo quando le piante dei piedi entrarono a contatto con l'erba umida e la terra. Continuò a camminare, sempre tenendo a mente la strada di ritorno, e, una volta trovato il posto adatto, si sedette sulle radici di un albero. Socchiuse gli occhi, godendosi la luce del sole che filtrava attraverso le fronde, fin quando non sentì il rumore di un ramo che veniva spezzato, segno che qualcuno stava arrivando.

Si alzò immediatamente, pronta per scappare, temendo che si stesse avvicinando un brigante, poiché questi spesso si appostavano nelle foreste, dove potevano nascondersi meglio dalle guardie reali e attaccare con più facilità chi passava.

Indietreggiò lentamente, guardando nella direzione da cui era provenuto il suono. A un tratto da dietro un albero apparve un individuo, che si mostrò in tutta la sua interezza a Eithne. Le prime cose che colpirono la ragazza furono la sua giovinezza e la bellezza. Doveva dimostrare poco meno di vent'anni e aveva dei lineamenti talmente graziosi, sebbene un po' spigolosi, che la lasciarono senza parole. Il suo aspetto aveva una tale armonia da quasi non sembrare umano.

Tuttavia, nonostante la sua bellezza non poteva essere messa in dubbio, rimaneva pur sempre uno sconosciuto, di cui Eithne non sapeva le intenzioni. Fece per fuggire, ma lui disse: «Aspetta!»

Inspiegabilmente, quella parola ebbe il potere di indurla a fermarsi. Forse era stato il tono di voce, argentino come mai le era capitato di ascoltare, o il modo in cui lo disse, senza alcuna nota di comando o cattiveria. Quando si voltò verso di lui, quello la stava guardando con un'espressione carica di curiosità e l'attimo di silenzio che si andò a creare le diede modo di guardarlo con più attenzione. Aveva dei capelli neri come una notte senza stelle, lasciati crescere fino al collo, e gli occhi, per quanto potesse vedere a quella distanza, dello stesso colore. Indossava poi una tunica e dei pantaloni di seta dalle tonalità scure e sopra un mantello, che dava l'impressione che quell'uomo avesse viaggiato molto per giungere fin lì, tesi avvalorata dal fatto che le scarpe fossero logore e sporche, come potevano diventare solo dopo un lungo viaggio.

«Chi sei?» domandò Eithne, con voce roca. Non aveva mai visto un uomo come quello che aveva davanti, tanto bello e misterioso e con dei capelli così scuri; non erano frequenti da incontrare in Scozia.

«Mi chiamo Fenimel» disse l'uomo. «E tu, invece?»

«Eithne. Non hai un nome...» la ragazza cercò la parola adatta per non offenderlo «usuale

«Diciamo solo che vengo da molto lontano» rispose lui, accennando un sorriso.

Eithne ricambiò. Ormai non sentiva più la paura e l'inquietudine che aveva provato quando lo aveva visto la prima volta. In qualche modo Fenimel riusciva ad ispirarle fiducia, sebbene ancora non lo conoscesse affatto.

«Da dove?» domandò, troppo curiosa per frenare la sua lingua.

«Se te lo dicessi, non mi crederesti» affermò, piegando un poco la testa, come se la stesse studiando. Fu allora che notò uno strano particolare che prima non aveva visto, perché coperto dai capelli: le sue orecchie erano a punta. Eithne continuò ad osservarle, senza capacitarsi di come fosse possibile qualcosa del genere e Fenimel dovette intuire la sua perplessità e confusione per un qualcosa che giudicava anomalo.

«Cosa sei davvero?» domandò Eithne, la voce leggermente tremante.

«Promettimi che non scapperai urlando» disse Fenimel e Eithne, nonostante la paura e la reticenza, annuì, troppo interessata a sapere di più sul conto di quel misterioso individuo. Allora lui continuò: «Sono un elfo.»

Eithne spalancò la bocca, ma da essa non uscì alcun verso. Non riusciva proprio a credere che davanti a lei vi fosse una delle creature che da sempre avevano popolato le fantasie del loro popolo e le storie che la madre da piccola le narrava prima di andare a dormire. «Un... elfo

Fenimel annuì e lei chiese: «Allora, se tu sei davvero un elfo, esistono anche tutte le altre creature? Le fate e i folletti?»

«Già. Tutte le leggende che vengono narrate su queste terre sono vere.»

«Com'è possibile?» domandò Eithne.

«Viviamo nascosti dagli umani, in luoghi a voi invisibili.»

La ragazza si scoprì a non avere alcuna paura di lui; anzi, si sentiva in modo del tutto inspiegabile calamitata a quell'elfo. «I posti da cui provieni? Quelli che si trovano molto lontani da qui?»

«Sì» disse Fenimel. «In realtà si trovano nel nord della Scozia.»

«E... come sono?» domandò Eithne, stranamente curiosa.

«Da una parte c'è la Corte Benedetta, meravigliosa e incantata, dove vivono gli elfi della luce, silvani e delle stelle, insieme alle creature del Piccolo Popolo, come gli gnomi e le fate. Poi c'è la Corte Maledetta, dove vivono tutte le creature più malvagie e spregevoli, primi fra tutti gli elfi oscuri.»

«Vorrei tanto vederle...» disse Eithne, sospirando.

«Purtroppo, gli umani non possono entrarvi, ma io posso raccontarti di loro e delle creature che vi abitano. Posso dirti ogni singolo particolare: non sarà come vederle direttamente, ma, almeno, potrai farti un'idea più chiara di come siano.»

La ragazza annuì e si avvicinò a lui. Restarono tutto il pomeriggio seduti ai piedi dell'albero a parlare.


Dopo l'incontro iniziale, i due cominciarono a vedersi sempre più spesso: almeno una volta ogni giorno. Eithne non sempre aveva la possibilità di incontrarlo a causa degli impegni di corte, ma sfruttava ogni scusa per allontanarsi dal castello e andare al loro punto di ritrovo, su un colle accanto al palazzo e al bosco, dove lui puntualmente stava ad aspettarla. Tuttavia, il momento della giornata che più preferiva era la notte, quando si stendevano a parlare sul prato e guardavano il firmamento sopra di loro. Con solo la luna e le stelle ad illuminarli, i racconti di Fenimel sul Piccolo Popolo e le due Corti di elfi esistenti, l'una Benedetta, l'altra Maledetta, sembravano prendere vita e riempire l'aria di magia.

Rimanevano tutta la notte svegli, a parlare e sognare mondi incantati e creature fantastiche, fin quando le prime luci dell'alba facevano capolino all'orizzonte, annunciando l'arrivo del sole e il momento della loro momentanea separazione.

Anche quella notte si erano incontrati sul colle, non troppo distante dal castello, ma abbastanza perché nessuno li vedesse. Eithne si rigirava tra le mani una rosa dal colore molto chiaro, della cui specie dozzine di fiori si potevano facilmente trovare nelle campagne scozzesi, mentre si lasciava cullare dalla voce calmante e dolce dell'elfo.

A un tratto Eithne lo interruppe, poiché un pensiero le era appena balenato nella testa. «Com'è l'amore tra voi elfi?»

«L'amore?» domandò Fenimel, stupito dalla domanda. «Non saprei come spiegarlo: è una cosa del tutto normale e naturale, come credo che sia anche per gli umani e gli animali. Quando due elfi si incontrano e iniziano a provare qualcosa l'uno per l'altro, tra i due avviene un'unione sia fisica, sia mentale. È come se divenissero un tutt'uno: si crea un filo che li lega, che mette in collegamento le loro menti, i loro sentimenti e i loro pensieri.»

«Possono entrare uno nella mente dell'altro?» chiese la ragazza, affascinata dall'argomento.

«Sì. È un legame tanto potente da unire i due elfi per l'eternità.»

«E da voi vengono celebrati i matrimoni?»

«Matrimonio?» ripeté Fenimel, aggrottando le sopracciglia.

«Sarebbe la celebrazione dell'unione tra due persone, quando questa diventa ufficiale, legando i due per tutta la vita» affermò Eithne, rabbuiandosi subito dopo. «Dovrebbe sancire l'amore che unisce due individui, ma in realtà oggi è solo un patto, usato per accrescere il prestigio, l'onore e la ricchezza delle famiglie. Sono certa che i miei genitori mi daranno in sposa ad un uomo che non amo, come sta accadendo a tutte le mie amiche...»

«Senza amore?» esclamò Fenimel, incredulo. «Como possono legarti ad una persona verso cui non provi alcun sentimento?»

Eithne non rispose alla domanda; invece, gli chiese: «Da voi esistono i matrimoni?»

«Non come i vostri. Da noi si chiamano Meleàdh1, e sono solo il momento in cui i due amanti si scambiano le promesse eterne davanti a tutto il popolo elfico e non. Qualcosa di puramente formale.»

Eithne osservò la bellezza e l'incanto della luna, una sfera tanto fulgente che al confronto le stelle impallidivano.

«Eithne, c'è una cosa che devo dirti...» iniziò Fenimel, interrompendo il silenzio che si era andato a creare. L'elfo parlò con un tono di voce talmente denso di preoccupazione che la ragazza si voltò subito a guardarlo. «Tutte le cose di cui ti ho parlato appartengono alla Corte Benedetta, come avrai capito. Il punto è che io non ne faccio parte. Vivo nella Corte Maledetta, dove si trovano tutti gli spiriti maligni e gli elfi oscuri. Io sono uno di loro.»

«Sei... un elfo oscuro?»

«Sì. Ho vissuto ogni singolo giorno della mia vita in mezzo a ladri, assassini e individui spietati, senza alcuna pietà o morale. Finora non te l'ho detto perché temevo che non mi avresti più guardato allo stesso modo, che avresti avuto paura di me. Però, ti prego, non pensare che io sia davvero uno di loro. Forse lo sono per il sangue che scorre nelle mie vene e per il mio passato, ma sono fuggito dalla Corte Maledetta proprio perché odiavo le persone che mi stavano intorno e quello che facevano. Non volevo vivere lì, né essere come loro: desideravo solo stare alla Corte Benedetta, insieme agli elfi a cui tanto volevo assomigliare.»

«Tu lo sei» affermò Eithne, alzandosi a sedere e appoggiando a terra la rosa per prendere la mano di Fenimel e stringerla tra le sue. «Sei come gli elfi della Corte Benedetta. Non importa il tuo aspetto, il tuo passato o il tuo sangue. Ciò che davvero conta è quello che senti e che sei qui dentro» continuò, appoggiando una mano sul suo petto, all'altezza del cuore. «Io so che sei una brava persona; l'ho capito dal primo momento che ti ho visto. All'inizio naturalmente ero diffidente, come è normale che sia di fronte ad uno sconosciuto, ma mai ho avuto paura che tu potessi farmi del male.»

Alla candida e lieve luce delle stelle, la pelle bianca dell'elfo sembrava risplendere e i suoi occhi guardarla nel profondo, con un'intensità tale da farla arrossire. In quel momento Eithne si ricordò di avere ancora la mano appoggiata al petto dell'elfo, ma non tentò di scostarla. Quel leggero contatto la faceva sentire più vicina a lui, al suo cuore.

Fenimel accostò delicatamente la mano alla guancia della ragazza, accarezzandole il viso fino ad arrivare alle labbra, dove anche i suoi occhi si posarono. Eithne, lasciatasi trasportare dall'atmosfera magica che si era andata a creare, si avvicinò a lui, finché le loro bocche non si toccarono in un lieve bacio.

La mano di Eithne risalì fino alle sue spalle, andando a scostare il mantello per toccare direttamente la pelle nuda. Il bacio si fece più ardito e infuocato, mentre gli strati che dividevano i loro corpi diminuivano e la passione prendeva possesso della ragione e delle loro facoltà. Stesi su un tappeto di erbe e fiori, con le stelle e la luna come uniche testimoni, un elfo e un'umana divennero un unico, singolare fuoco, che divampò alto e potente come l'amore che li univa.


Continuarono a vedersi anche dopo quella fatidica notte; i loro incontri si susseguirono per mesi e ogni notte il fuoco veniva attizzato con nuova aria e passione, rendendo il loro amore ancora più forte. Però, tutto cambiò nel momento in cui Eithne scoprì di essere incinta. Le prime settimane riuscì facilmente a nascondere la pancia, ma già al secondo mese iniziò a notare un leggero rigonfiamento, che sarebbe andato aumentando e non sarebbe certo scappato agli sguardi attenti delle serve e dei genitori, e a manifestare i primi sintomi della gravidanza, come il vomito, la stanchezza e frequenti dolori al ventre.

Fu costretta a rivelare tutto al padre e alla madre, omettendo l'identità di Fenimel e dicendo loro soltanto che colui con cui aveva perso la verginità e che l'aveva messa incinta era un semplice garzone del villaggio. Il padre non la prese bene e iniziò anche a meditare un aborto, ma la madre cercò di farlo ragionare e, dopo una lunga discussione, decisero di allontanarsi dal palazzo con la scusa di una vacanza nel castello di certi loro cugini per il tempo necessario prima di affidare il bambino ad una qualsiasi delle tante famiglie che abitavano un villaggio vicino, prima di fare ritorno.

Partirono immediatamente e si stabilirono nella tenuta di alcuni parenti, che, pensando anche loro che la loro visita fosse del tutto casuale, non sospettarono minimamente della gravidanza di Eithne. Questa, quindi, trascorse i mesi successivi segregata nella sua stanza, dove avrebbe potuto conservare le forze in vista del parto. La ragazza, tuttavia, sapeva che i genitori avevano perso la fiducia in lei e non si fidavano più a lasciarla libera di andarsene in giro.

Tutte le notti, quando si affacciava alla finestra per guardare il cielo e le stelle, piangeva ricordando i momenti felici trascorsi con l'elfo. Eppure, nonostante tutti i dolori, sia fisici, sia psicologici, che il loro amore le stava provocando, non c'era neanche un minimo di pentimento in lei. Ciò per cui davvero piangeva, però, non era tanto l'assenza di Fenimel, che pure si faceva sentire con violenza, quanto il destino della creatura che stava prendendo vita dentro di lei. Come sarebbe stata? Che fine avrebbe fatto? Sarebbe stata trattata bene?

Eithne partorì in un giorno di primavera e quella che si scoprì essere una bambina uscì proprio nel momento in cui l'alba sorgeva e i raggi del sole mattutino si insinuavano nella camera da letto.

La levatrice, una volta coperta la bambina con panni bianchi per pulirla dal sangue di cui era cosparsa, fece per portarla subito via, ma, dopo le assidue proteste di Eithne, questa ottenne di poterla tenere per un po' di tempo prima di mandarla via. «Posso... tenerla con me solo fino a questo pomeriggio? Solo per oggi?»

La donna ne parlò con la madre di Eithne, che, vista la disperazione della figlia, acconsentì alla sua richiesta. La ragazza, con le guance umide per il dolore del parto, i capelli incollati al viso e al collo e madida di sudore, sorrise quando la bambina le venne messa tra le braccia e questa iniziò a piangere. Le sue mani tremarono quando vide la creatura a cui lei stessa aveva dato la vita e prese a cullarla per calmarla. Rimase con lei per tutta la mattina e il pomeriggio, senza toccare cibo o fare nient'altro per la paura di far cadere la bambina o svegliarla dal sonno a cui con fatica l'aveva condotta. Le sembrava talmente piccola e fragile che temeva che al minimo movimento potesse andare in frantumi.

Al tramonto, quando la piccola si era destata affamata e Eithne era impegnata ad allattarla, la finestra della stanza si aprì e con grande stupore della ragazza vi entrò Fenimel.

«Cosa ci fai qui?» domandò la donna con voce tremante. Era da così tanto tempo che non si incontravano che le sembrava di vedere un fantasma.

«Sei sparita» disse lui, l'espressione e il tono di voce duro come non lo aveva mai sentito. «Non mi hai fatto più sapere nulla, non ti sei più fatta vedere e non sai quanto ci ho messo a scoprire che eri venuta qui e a raggiungerti. Eri incinta di nostra figlia e non mi avevi detto niente. Perché?»

«Ho dovuto dire tutto ai miei genitori o non sarei mai riuscita a far passare inosservata la gravidanza. Se si fosse saputo in giro che ho avuto una relazione al di fuori dei vincoli matrimoniali, questo avrebbe potuto rovinare l'onore della mia famiglia.»

«Al diavolo l'onore!» sibilò l'elfo. «A nostra figlia non ci hai pensato?»

Ci ho pensato ogni singolo giorno di questi ultimi mesi pensò. Ed è proprio per il suo bene che ho fatto questa scelta. «Portala via» disse Eithne.

«Cosa?»

«Non è umana» indicò le orecchie leggermente a punta, ma solo accennate, che si potevano notare solamente con uno sguardo più attento. «Lei non appartiene a questo mondo come me. Portala via, alla Corte Benedetta, in cui hai detto che vivono gli elfi della luce. È l'unico posto in cui potrebbe vivere bene.»

«Eithne, io non posso andarci. Non mi permetteranno mai di entrarvi.»

«Ma lei sì. Sono certa che non la rifiuteranno.»

«Oppure possiamo scappare tutti insieme.»

«Sai bene che non posso. Io non appartengo al vostro mondo, ma a questo. Qui ho dei doveri e anche dei sogni da realizzare. Per quanto io ami te e la bambina, non posso lasciare tutto e andarmene» disse, mentre una lacrima scendeva a rigarle il volto.

Guardò la neonata e i suoi grandi occhi azzurri. Luine pensò. Ti chiamerai così. O, almeno, in questo modo ti ricorderò quando non sarai più accanto a me. «Addio, mia piccola Luine» disse, lasciando un ultimo leggero bacio sulla sua testa, prima di porgerla a Fenimel. Questo la guardò con un'espressione colma di dolore, mentre prendeva Luine tra le mani e se la stringeva al petto.

«Aspetta» sussurrò Eithne, poco prima che Fenimel se ne andasse. Si slacciò dal polso un bracciale sottile e semplice, che tese verso l'elfo. «Lasciaglielo come ricordo di sua madre.»

Fenimel lo prese e le lanciò un ultimo sguardo carico di amore e rimorso. Eithne scoppiò in lacrime poco dopo che le sagome delle due persone che più aveva amato nella vita scomparivano nella notte appena calata. Al posto del fuoco di un tempo ormai non era rimasto altro che fumo e cenere.


«Quella fu l'ultima volta che la vidi» disse il padre, dopo aver finito di parlare. «Più tardi seppi grazie ai servitori più stretti dei suoi genitori che, poco dopo la mia partenza insieme a te, Eithne disse alla madre che la bambina era stata portata via dall'ostetrica. La faccenda venne velocemente liquidata e, quando lei recuperò tutte le forze, fecero ritorno a corte, per dimenticare l'accaduto e ricominciare. Naturalmente continuai a informarmi sul suo conto, ma non ebbi più il coraggio di incontrarla ancora. Tre anni più tardi ho saputo che si era sposata con l'uomo che sarebbe poi divenuto il re di Scozia e il suo attuale marito, e da lui aveva avuto un figlio maschio. Insomma, alla fine ha avuto la vita normale che tanto aveva desiderato.»

«Lei... è stata sua la decisione di abbandonarmi. E tu non hai minimamente protestato» proruppe Luine, il cuore più a pezzi di prima dopo aver sentito la storia dei suoi genitori. «Avresti potuto tenermi con te, ma hai scelto di fare come lei ti aveva detto.»

«Non potevo portarti alla Corte Maledetta; lì non saresti mai vissuta bene e tutti ti avrebbero guardata con disprezzo per essere un'ibrida.»

«Non pensare che alla Corte Benedetta mi sia trovata meglio: ero un'orfana, un'elfa a metà in mezzo a individui praticamente perfetti e intoccabili» sputò fuori tutta la sofferenza accumulata in quegli anni di solitudine. «E a voi non è mai importato nulla. Avete continuato per le vostre vite senza minimamente preoccuparvi della figlia che avute avuto e rinnegato.»

«Luine» affermò il padre, con sguardo duro. «Torna alla Corte. Questo non è il tuo posto. Lascia tua madre vivere in pace, senza costringerla ad affrontare i suoi demoni del passato.»

«Già, poverina» la voce di Luine grondava amara ironia. «Però, non mi sembrava molto sofferente mentre il popolo la acclamava come regina e lei sorrideva ai loro complimenti.»

«Vai via, Luine» ripeté il padre, stavolta con un tono che non ammetteva repliche, a tratti rabbioso.

Lei si voltò con le lacrime agli occhi e si allontanò da lui il più rapidamente possibile. Quel giorno era come se entrambi i suoi genitori l'avessero rifiutata una seconda volta, provocandole una ferita al cuore che Luine non credeva sarebbe più stata in grado di risanare.


Si sdraiò sul prato, osservando il castello da lontano, che appariva come un'enorme rocca circondata da un esiguo bosco. La sua testa era affollata da miriadi di pensieri, che si andavano accumulando con le parole taglienti pronunciate dai suoi genitori. Tu non dovresti nemmeno esistere. Vattene. Non saresti mai dovuta partire. Questo non è il tuo posto.

Luine strizzò gli occhi, per impedire che altre lacrime scendessero e si accumulassero con quelle già versate. Era stanca; stanca di piangere, stanca di sentirsi inadeguata e rifiutata, stanca di non avere un posto a cui davvero apparteneva e in cui sarebbe sempre potuta tornare, stanca dei sogni che non si sarebbero mai avverati.

In tutta la sua vita non aveva voluto altro che una famiglia normale, come quelle degli elfi che popolavano la Corte. Ognuno di loro aveva una madre e un padre che pensavano a loro e alle loro necessità, che li accompagnavano nel cammino della loro vita. Lei non li aveva avuti e aveva sperato di poter cambiare le cose con quel viaggio, che in realtà si era rivelato solo una perdita di tempo e forze e che non le aveva dato altro che nuovo dolore da aggiungere a quello che già si era accumulato dentro di lei.

Eppure, guardando gli uccelli che fendevano il cielo azzurro, si ritrovò a pensare che forse c'era ancora speranza. Non aveva fatto tutta quella strada solo per vedersi sbattere la porta in faccia. Aveva la possibilità di rimettere a posto le cose a modo suo e realizzare i suoi sogni più reconditi.

Con lo sguardo fisso in direzione del palazzo, si alzò di scatto, mossa da rinnovata forza. I suoi genitori avevano solo paura di abbandonare la vita a cui ormai erano attaccati per accogliere lei. Luine non doveva fare altro che rendergli più facile il distacco, eliminando gli ostacoli si frapponevano tra lei e loro, cosicché sarebbero stati più propensi ad accettarla finalmente e a recuperare il tempo perduto. L'unica cosa che voleva era una famiglia perfetta ed era certa che, se si fosse impegnata, sarebbe riuscita ad averla e a riunirsi con Eithne e Fenimel, a qualsiasi costo.


Luine mise piede nell'area del palazzo dove si trovavano le residenze della famiglia reale; entrare nel castello era stato un gioco da ragazzi. Tutta la servitù era a dormire già da ore e la mezzelfa aveva impiegato solo pochi minuti a circuire le guardie, distraendole, o a stordirle con un colpo veloce, ma potente, molto più di quanto un comune umano sarebbe riuscito a infliggere. Inoltre, aveva privato una di loro della spada che la guardia non aveva fatto in tempo a sfoderare prima di essere ucciso e che ora teneva stretta tra le mani.

Camminava lungo il corridoio buio, illuminato solo dalla leggera fiamma di una fiaccola appesa al muro, ma i suoi piedi non sembravano nemmeno toccare il suolo. Una delle migliori doti che aveva ereditato dal padre era proprio la discrezione tipica della razza elfica, che poteva farla diventare quasi invisibile. La luce del fuoco si rifletteva nella lama, facendola apparire come infuocata.

Aprì lentamente una delle due porte che vi erano in quel piano, lo stesso in cui era stata quel giorno durante il suo incontro con la regina. Sussultò al ricordo della lite avuta con lei e delle parole che quella le aveva rivolto, ma si calmò ripetendosi che tutto sarebbe finito bene perché sarebbe riuscita a rimettere a posto le cose.

Davanti a lei si presentò un'ampia stanza, dai muri decorati con arazzi sapientemente tessuti, raffiguranti innumerevoli figure a cui non seppe dare un'identità o una spiegazione alle azioni che stavano compiendo, e dalle finestre coperte da pregiate tende rosse. A un lato della camera troneggiava su tutto un grande letto a baldacchino, al cui interno Luine poteva scorgere una figura tramite le bianche e fini tende di cotone. Si accostò al letto e scostò la cortina per rivelare il giovane corpo del principe, che dormiva infilato sotto coperte pesanti con in viso un'espressione di pura serenità. Luine non provò alcuna simpatia o compassione per quel ragazzo dai capelli castani e ancora acerbo; l'unica immagine che aveva in testa era lo sguardo d'orgoglio che la madre gli aveva rivolto lungo tutta l'adunanza nel cortile del castello. Qualcosa che a lei era stato precluso non una, bensì due volte. Non è giusto pensò, mentre gli occhi le si inumidivano. Perché lui ha avuto tutto dalla vita, e io nulla?

La mezzelfa sentì la rabbia farsi largo nel suo petto e offuscarle la mente, impedendole di concepire altri pensieri che non fossero la collera e la sofferenza che aveva dentro. Strinse l'elsa della spada tra le mani e posizionò la lama poco sopra il collo scoperto del ragazzo.

Si bloccò pochi attimi prima di alzare l'arma: lei voleva davvero farlo? Togliere la vita ad un ragazzo di appena dodici anni? Osservò il viso dai tratti delicati e giovani e solo ora si accorse di quanto assomigliasse alla madre che avevano in comune. Dentro di lui scorreva il suo stesso sangue, o, almeno, parte di esso; eppure, Eithne aveva ugualmente deciso di mettere lei da parte e scegliere lui, il figlio legittimo e prediletto, quello che mai aveva conosciuto il dolore e la solitudine, i sentimenti con cui, invece, Luine era cresciuta. Aveva ricevuto tutto l'amore che due genitori potevano dargli: la sua vita era esattamente quella che Luine aveva da sempre desiderato.

Il destino non aveva avuto pietà di lei e Luine non ne avrebbe avuta per quel ragazzino.

Con un movimento deciso sollevò l'arma e la fece ricadere sul collo del principe, che si recidette senza alcuna difficoltà. Luine pensò a quanto le sue ossa fossero fragili e ancora non ben formate, mentre uno schizzo di sangue le sporcava la veste e il viso e le lenzuola bianche si tingevano lentamente di rosso. Luine osservò, senza alcun rimorso nel cuore, la testa del ragazzo, ora staccata dal corpo e rimasta scomposta accanto al cuscino: aveva ancora in volto un'espressione quasi beata. Almeno non ha sofferto si disse. Non tanto quanto me.

Afferrò la spada grondante di sangue e uscì svelta dalla camera, lasciandosi dietro il cadavere del principe. Entrò poi in quella accanto, in cui già era stata quella mattina. Tuttavia, allora era stata troppo focalizzata su sua madre per osservare con attenzione la camera da letto. Lasciò vagare lo sguardo sui mobili all'apparenza molto costosi e di qualità, e sugli arazzi attaccati alle pareti, molto più grandi di quelli della stanza del fratellastro. Infine, guardò il letto a baldacchino al centro della stanza: era ben più largo dell'altro, poiché era matrimoniale, ospitando la coppia reale.

Strinse l'elsa fino a far sbiancare le nocche della mano e scostò le tende appese al letto con la lama dell'arma, dipingendole di chiazze rosse e scoprendo i volti di sua madre e del suo nuovo marito. Gli occhi chiusi, le mani unite e i corpi stretti l'uno con l'altro. Luine si portò una mano alla bocca e si lasciò sfuggire una smorfia: come riusciva Eithne a dormire così serenamente con un uomo che non amava, dopo tutto quello che aveva causato a lei e a suo padre?

Quindi il suo sguardo ricadde sul re, un uomo dalla corporatura vigorosa e sana, da vero guerriero e sovrano. Il viso severo ora era disteso in un'espressione che mostrava incredibile pace e tranquillità. Aveva l'orribile impressione di stare rovinando un momento fin troppo intimo tra i due coniugi. Coniugi. Odiava pensare alla madre come a una donna sposata con qualcuno che non fosse Fenimel: era stata tutta colpa sua se lei non aveva avuto una famiglia normale. Sua e di quel mostro che si trovava accanto a lei.

Luine, con le lacrime agli occhi per la rabbia, sollevò la spada con entrambe le mani, la punta aguzza della lama a un passo dal petto dell'uomo, e la lasciò cadere con violenza. Le lacrime continuavano ad uscirle e a rigarle il volto, mentre l'arma entrava sempre più in profondità, lacerando pelle, muscoli e ossa, e la veste, intorno al punto in cui aveva introdotto la spada, si tingeva del rosso scuro del sangue.

Lasciò l'elsa di scatto, guardando il re aprire gli occhi di soprassalto e svegliarsi per il dolore improvviso, ancora ignaro di stare per morire. Il suo corpo cominciò a tremare e dalla bocca uscirono versi senza alcun senso, insieme ad un piccolo rivolo di sangue. Le scosse sempre più deboli del sovrano destarono anche Eithne, che sollevò la testa stroppicciando gli occhi. Quando mise a fuoco la terribile scena che si presentava davanti a lei e la spada ancora conficcata nel corpo ormai senza vita del marito, lanciò un grido.

«Cosa hai fatto?» urlò la donna, piegandosi sul re e accarezzando le sue guance pallide, nel vano tentativo di aiutarlo.

«Ho sistemato tutto. Ho rimediato al tuo errore. In fondo, quel ragazzo era solo il frutto di qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere» rispose Luine, citando le stesse parole che quella mattina la madre le aveva rivolto, riferendosi alla sua nascita e intera esistenza. Sul suo volto sporco di sangue ancora vivo spuntò un sorriso, che raggelò il sangue nelle vene alla madre.

«Cosa gli hai fatto? Mostro, cosa hai fatto a mio figlio?» la tempestò di domande Eithne, con le lacrime agli occhi, e subito dopo si alzò e si precipitò nella stanza accanto. Nonostante le pareti che dividevano le due camere, Luine sentì chiaramente le acute urla di dolore lanciate da Eithne alla vista della testa mozzata del figlio.

La mezzelfa la seguì, ma dovette fermarsi alla porta, perché, come la madre la vide affacciarsi, incominciò a urlare più forte. «Stai lontana. Guardie! Guardie, prendetela! Tenetela lontana da me e mio figlio!» Abbracciò i resti del corpo del ragazzo, scossa da singhiozzi incontrollati.

«Nessuno verrà» mormorò Luine, accennando poi a un sorriso. «Ma questo non ha più alcuna importanza. Mamma, ti sto offrendo un nuovo inizio: dimentica queste persone, che ormai fanno parte del passato, e sii la madre che ho sempre voluto.»

«Ho detto allontanati!» strillò Eithne, mandando avanti le braccia nel tentativo di proteggere se stessa e il figlio dalla creatura a cui lei stessa aveva dato la vita e che le si stava ritorcendo contro.

«Guardati intorno: hai avuto tutto quello che un umano potrebbe mai desiderare. Oro, potere, una famiglia, per quanto fasulla. Ora puoi riprendere da dove ti eri interrotta: ti sei persa tutta la mia infanzia e crescita, ma non fa niente. Ci sarà ancora tempo per recuperare gli anni perduti.»

«Voglio solo che tu te ne vada e mi lasci da sola con la mia vera famiglia...» sibilò Eithne, ormai allo stremo delle forze.

«Noi siamo la tua vera famiglia» continuò Luine, avvicinandosi di nuovo a sua madre. «Io e papà. E potremo essere di nuovo insieme. Tutti noi.» Tuttavia, non riuscì a terminare le ultime due parole che sentì un dolore lancinante al petto. Quando abbassò lo sguardo sul suo corpo, vide la punta di una lama spuntare poco sotto il seno sinistro, nel punto esatto in cui si trovava il suo cuore.

Le gambe cedettero, mentre il dolore si diffondeva in ogni zona del corpo, prosciugandole le forze e rendendole sempre più arduo respirare. Poteva chiaramente sentire il suo cuore battere sempre più lentamente e con maggiore difficoltà e il corpo iniziare a non rispondere ai comandi. Il sudore puntellava il suo viso, mischiandosi al sangue delle persone che aveva ucciso, e la sua pelle diventava sempre più pallida e fredda, in modo del tutto innaturale.

Il cuore di Luine, già martoriato da indicibili sofferenze, smise definitivamente di pulsare; l'ultimo battito terminò, portandosi via la sua vita e un male incurabile e troppo grande da sopportare.


Era arrivato troppo tardi. Aveva creduto di essere riuscito a convincere Luine a desistere dalle sue folli idee, ma si era sbagliato. Ed ora stava pagando le conseguenze del suo errore proprio Eithne, insieme al marito e al figlio. O a ciò che era rimasto di loro.

Come vide il massacro che la sua stessa figlia aveva compiuto e l'orrore stampato nel volto di Eithne, aveva agito d'istinto: aveva preso la spada lasciata a terra dalla mezzelfa e le aveva trafitto il cuore con un colpo preciso e letale. Aveva visto Luine, il frutto del suo amore per Eithne, cadere a terra, uccisa dal suo stesso padre, e morire. Anche ora stava guardando il corpo divenuto cereo di Luine, i suoi capelli rossi sparsi sul pavimento di legno macchiato di sangue e gli occhi spalancati in un'espressione insieme di stupore, rabbia e sofferenza. Si chiese come fosse riuscita una ragazza così giovane a sopportare delle emozioni talmente forti e dolorose e come fosse arrivata a compiere delle azioni tanto terribili. Poi si ricordò che non era stata altro che colpa loro: sua e di Eithne. Non avevano saputo volerle bene, l'avevano rifiutata e quello era il risultato dei loro sbagli.

Sapeva del suo patto con il druido Seumas: anche quella volta, come ora, non era riuscito ad intervenire per fermarla in tempo e, quando lei era entrata nella grotta, ormai era troppo tardi per fare alcunché senza che il druido avvertisse la sua presenza. Però, era a conoscenza di cosa Luine avesse barattato con Seumas per poter incontrare lui ed Eithne: la sua parte umana, quella dove erano racchiuse tutte le virtù e le qualità della mezzelfa, lasciando solo i sentimenti appartenenti alla sua anima da elfa oscura, gli stessi che la avevano logorata fino a portarla alla rovina e che anche Fenimel in tutta la sua esistenza aveva cercato di combattere e mettere a tacere.

Lasciò cadere con una smorfia di disgusto l'arma con cui aveva tolto la vita a sua figlia e si voltò verso Eithne, che aveva osservato la scena con la mano premuta sulla bocca; l'elfo non sapeva dire se l'avesse fatto per lo stupore o per reprimere un grido. Le lacrime scendevano copiose lungo le sue guance e Eithne continuava a guardare il corpo riverso al suolo della figlia.

Fenimel le si avvicinò e la strinse a sé, tremante come una foglia scossa dal vento. La sofferenza che lui sentiva non era minimamente paragonabile a quella che Eithne doveva stare provando, sebbene fosse stato lui a infliggere il colpo fatale a Luine.

Un tempo erano stati potenti e felici. Una fiamma alta e superba, che, tuttavia, prima e o poi è destinata a spegnersi, lasciando dietro di sé solo la cenere. Lei aveva avuto tutto: aveva conosciuto l'amore, la gioia, il potere e, infine, la sofferenza. Alla fine, però, tra le mani non le era rimasto più nulla.

La figlia rinnegata, il figlio, il marito: ormai non erano altro che cenere. Cadaveri che presto sarebbero stati dimenticati da tutti e diventati nulla più che polvere e aria.

Abbracciò Eithne più forte, pensando a quanto dolore avesse portato il loro amore proibito. Se avessero deciso diversamente, se, anziché lasciarla andare, lui avesse tentato di farla rimanere accanto a sé, forse sarebbero diventati davvero la famiglia perfetta che tanto Luine aveva desiderato. E, invece, ora eccoli lì, a cercare di trarre l'una un po' di conforto dall'altro, unici sopravvissuti al fuoco che un tempo era stato il loro amore e che aveva provocato le morti di tante persone innocenti.

Eppure, mentre cullava Eithne, la cui schiena continuava ad alzarsi ad ogni singhiozzo, pensò che forse sarebbero riusciti a ricominciare. In qualche modo, insieme, avrebbero rimesso a posto i pezzi, risanato le profonde ferite che quella esperienza aveva lasciato loro e sarebbero andati avanti. Se quella volta avessero deciso di restare insieme, forse il fuoco di un tempo avrebbe ripreso ad ardere, potente come allora.




1Non è una parola davvero esistente, ma inventata da me, fondendo il termine Meleth, ovvero “amore” secondo la lingua elfica tolkeriana, e Gràdh, con lo stesso significato, ma in gaelico scozzese.

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Angolo dell'autrice:

Grazie infinite a chi è arrivato fino a questo punto! Devo dire che non sono molto abituata a scrivere storie così dark e dai toni tanto cupi. Tendo ad avere una propensione verso storie un pizzico più positive e a lieto fine, soprattutto quando c'è di mezzo una storia d'amore: infatti, anche in questa, dopo tutto ciò che Fenimel ed Eithne hanno passato con Luine, ho deciso di lasciare un minimo di speranza a queste povere anime, almeno nel finale. Non me la sentivo proprio di rendere la situazione più drammatica di così.^^

Ad ogni modo vorrei fare un appunto riguardo al titolo che ho scelto: "Damnata ab omnibus, ad infinitum" è una frase latina presente nella canzone "The city of the dead" della cantante Eurielle, che mi è piaciuta moltissimo e che ho trovato azzeccata per il personaggio di Luine. Disprezzata, rinnegata da tutti, anche dai suoi stessi genitori: dannata a rimanere per sempre da sola e avviata dall'odio e la rabbia che prova nella via di dolore e del massacro a cui è stata portata dagli eventi e che in parte ha scelto quando ha stretto l'accordo con il druido. Proprio per questo ho deciso come nome della locanda in cui fa visita per chiedere indicazioni "Stella del mattino", paragonando la sua successiva e progressiva caduta, man mano che la sofferenza e la follia vincono la razionalità, a quella di Lucifero. Un piccolissimo dettaglio che ho voluto spiegare.

Spero che vi sia piaciuta! Mi farebbe molto piacere leggere i vostri pareri e critiche su di essa. 

Un abbraccio,

Sophja99
   
 
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