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Autore: L0g1c1ta    04/04/2017    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Il treno si è fermato da un pezzo, nessuno ha chiesto nulla del baule ingombrante, nessuno sembrava notarlo. Ha visto la sua Vilnius ed è cambiata. La dama che ha servito e che ha conquistato dopo guerre e battaglie pare un meccanismo incompleto di un orologio. La scoperta non gli ha detto nulla. In verità, dopo che Lettonia se ne andò, lui ha ricominciato a non sentire più nulla. Ha dovuto aspettare che cadessero i capelli a Polska. Ha una testa rugosa e sinceramente anche bruttina. È terribile pensare questo del proprio migliore amico.
È sceso da tempo dal treno e il baule l’ha accompagnato. C’è stata la folla inizialmente, poi ogni allegria si è spenta. La sua città è spenta. Toccare coi piedi la Lituania e respirare la sua aria di fabbriche e smog non gli ha detto nulla, eppure… eppure sente che qualcosa manca dentro di sé. Forse si è dimenticato di scrutare la città in questi anni, invece di ignorarla come ha sempre fatto dopo la sua guarigione. Ma in realtà Lituania ha quasi dimenticato di essere lituano e di appartenere a tutto questo. Somiglia ad una noiosa città industriale come ce ne sono di città industriali. Pare una piccola Pietroburgo. Questa cosa nemmeno lo rattrista.
C’è solo lui seduto in panchina. Non c’è nemmeno un cane ad abbaiare nei vicoletti, come ne correvano un tempo a casa sua. Non ronza nemmeno un’ape, né sente fischiare il vento fra gli alberi. Scuote la testa e pensa che sia stupido pensare a cose del genere se non c’è nemmeno più un albero a Vilnius. Dimentica questi pensieri in fretta. Sono troppo infantili. Al nuovo Lituania non piace più essere bambino. Non se n’è accorto nemmeno, ma la sua gamba sta accarezzando il baule, lasciato un po’ aperto. Immagina le ossa spezzate di Polska, ma non rabbrividisce. Pochi giorni e sarà a casa.
Gli stivali rigidi calpestano la stradina. I capelli non hanno del vento per carezzarli. Il cappotto è troppo pesante per quel giorno, si rende conto. Ignora tutto, stringe i pugni. Il pugnale antico poggiato al suo cuore sembra un’arteria di troppo e pulsa anch’egli, tremando tra i suoi passi. Si ferma di fronte alla panchina, non mostra altro che la solita espressione che gli ha sempre mostrato. Non la nota o forse finge di non notarla. Questa cosa le fa rabbia, ora che il fratello non c’è. Stringe i denti, si avvicina ancora. Lituania ha alzato lo sguardo. In qualche modo i piedi rimangono bloccati al terreno, congelati dagli occhi grigi e chiari. Non hanno un lampo di luce, solo spessore che non ricorda bene. È un campanello d’allarme nella sua testa.
“Cosa vuoi, Bielorussia?” e la guarda con più intensità e forse stizza.
Basta solo questo per farla deglutire e tremare il pugnale nascosto.
 
 
 
 
 
 
 
 
I polmoni succhiano un’ondata improvvisa di ossigeno, che riempie Polonia, con un forte dolore. Alza di scatto la testa, con la bocca ancora carica di aria. Il collo e il busto lo seguono, come se invece di ossigeno abbia ricevuto un pugno allo stomaco. Gli occhi vedono azzurro, per un attimo ha pensato al cielo mattutino, per un attimo ha creduto ad un sogno.
Ma che…?!, vorrebbe urlare, ma frena immediatamente la lingua coi denti. Muove piano la testa, gli occhi si fanno scattanti nelle palpebre. L’azzurro che sta vedendo è solo mattone dipinto. Vede la cattedra, i banchi piccini e tanti bambini seduti. Guarda avanti, vede il maestro che cammina leggiadro, coi baffi argentei sotto al naso. Gli muore la voce, i tremiti lo aggrediscono. Sente il suo cuore impazzire e rimbombargli nelle orecchie. Si accorge di aver trattenuto il fiato fino ad ora. Questa è la classe di Feliks.
Ma perché sono qui?, si chiede una sua vecchia vocina timida. Il mento si posa a destra, a sinistra, sotto di lui. È seduto al centro della classe, sulla sedia minuta di Feliks. Il banco è sparito. Congiunge le ginocchia con le mani. Le dita s’impiastricciano tra di loro. Si sfregano e si maltrattano. Polonia ricorda di essere già stato qui. Ricorda l’esplosione di piume, i tedeschi alla porta. Ricorda la caduta nel buio. Si chiede perché sia ancora lì. Perché sia al centro di questa classe su una sediolina, in mezzo a tanti bambini. Si chiede come farà ad uscire da questo posto.
Il maestro continua a spiegare qualcosa che Polonia non riesce ad ascoltare. Gli alunni hanno ancora le teste sui libri. A nessuno importa di lui. È un briciolo, ma importante sollievo. Ricorda di dover respirare e deve obbligare i polmoni a recuperare ossigeno. Deve ordinare a se stesso di respirare. Le dita smettono di graffiarsi a vicenda, ma i tremiti sono ancora centrati sulle ginocchia. Sente di star per impazzire per la paura e la confusione. Non vuole stare in quella anormale normalità. Il maestro gira ancora di fronte alla cattedra, col libro in una mano e il braccio dietro la schiena. Polonia è sordo. Deve stare calmo, non deve perdere la testa. Immagina di essere ancora invisibile, di non valere altro che aria in quella stanza, ma Feliks non c’è e sente la paura cozzare con la sua mente.
La terra sotto ai suoi piedi sembra tremare. La stanza ondeggia leggermente, l’azzurro si agita di fronte ai suoi occhi. Guarda fuori dalla finestra, con un antico presagio. Vede oltre al parco punti neri, palazzi e macerie. Aerei tedeschi. Il cuore si ferma, la stanza continua ad oscillare e si scuote maledettamente. Si guarda attorno: i bambini hanno gli occhi chini sui libri, il maestro poggia i passi con leggerezza. Nessuno alza gli occhi, nessuno sente gli scoppi in lontananza. Le mani ritornano a graffiarsi ed azzannarsi. Le ginocchia tremano con più forza e si impigliano con le gambe. Guarda ancora fuori: gli aerei hanno colpito un palazzo in lontananza. Non capisce, e il sudore cola dalla sua fronte.
“La Germania è attualmente il paese europeo, potremmo dire, migliore al mondo…” sente per la prima volta dalla bocca del maestro. Nessuno pare notare l’oscillare più insistente della stanza. Polonia si accuccia nella sedia, come se fosse il rifugio più sicuro qui dentro. Respira con affanno, ha la gola chiusa. Il sudore cola dalla sua fronte come cera su una candela accesa “…e lo sarà per sempre, bambini”.
La finestra ha uno scoppio improvviso. Polonia non riesce nemmeno a sobbalzare, volta semplicemente la testa. I vetri cadono addosso ai due bambini azzurri. Entrambi guardano il libro. Uno di loro segue le parole del maestro col dito movente tra le righe. Un pezzetto della finestra si è conficcato nella carne della mano. Polonia vede rosso colare dalla mano gracile. Macchia il libro. Ha la mascella di ferro: l’altro bambino ha un taglio sul naso e il sangue bagna le dita del piccino. Le ginocchia battono fra di loro. Non riesce a capire perché nessuno si accorge di nulla “Hitler è come una guida per noi polacchi. Ogni sua decisione è giusta e dev’essere seguita come una legge, piccini”.
Sopra la sua testa sente qualcosa sgretolarsi. Alza di scatto la testa. Si è formata una grossa crepa sul soffitto. La stanza volteggia e danza come valzer viennese. Polonia si deve tenere aggrappato alla sedia per non cadere. I bambini e il maestro sono in un equilibrio allarmante. Il maestro si è fermato e ora si è appoggiato alla cattedra, con una calma che penetra nelle vene di Polonia come ghiaccio fuso. La crepa si sta ampliando e taglia in due, poi in tre, poi in quattro la stanza azzurrina. Lo spacco si apre e fa cadere polvere come farina gettata in aria. Polonia si tiene aggrappato anche a se stesso. Gli sta per scoppiare il cuore in petto.
“La Germania non vorrebbe da noi altro che ubbidienza e noi polacchi siamo più che fieri di ubbidirle, giusto bambini?”
“Sì, maestro” Polonia vede la crepa tagliare le pareti ai lati. Li vede sconnettersi al pavimento e star sul punto di cedere. Il soffitto sulla sua testa sputa altra polvere. Cadono pezzetti di mattone, il calcestruzzo si sbriciola come terra. Si poggia le mani sulla testa con disperazione. Le ginocchia si congiungono col resto del corpo. Si fa un bozzolo, terrorizzato. Fra poco il soffitto cederà e cadrà addosso a lui. Sente scoppiare affianco alla scuola un’esplosione. La stanza trema su se stessa.
“Bene, bambini, la lezione è finita. Salutate la nostra Germania” dice il maestro, alzatosi dalla cattedra, indifferente, ceco, in equilibrio sulle proprie gambe, nonostante il tremare insistente della classe e le crepe sulla sua testa e alle sue spalle. I bambini si alzano dai banchi, fermi sulle proprie gambe, completamente ignari del terrore di Polonia. Polonia contrae il volto con qualcosa di simile all’orrore.
“Heil Hitler!” dicono in coro, alzando di scatto il braccio in un saluto che Polonia giura di non ricordare. Il ragazzo non vuole più vedere niente. Sbarra gli occhi, si chiude la testa fra le gambe. Sente la stanza cedere. Fra poco cadrà sulla sua testa un gigantesco blocco di cemento e mattoncini. Non è pronto per questo.
Trilla la campanella nella stanza. Polonia spalanca gli occhi. La stanza non trema più. Alza con timore gli occhi. I banchi minuti dei bambini sono spezzati, alcuni raggruppati, alcuni sparsi nella stanzetta. Drizza la testa: il soffitto è pieno di crepe e spacchi. Le finestra sono distrutte, nemmeno un frammento di vetro le ricopre. La cattedra è capovolta. I bambini e il maestro sono spariti. Si alza con timore in piedi. Questo nuovo silenzio fa urlare il suo cuore. Non sa cosa ha appena visto. Si lascia andare il torso e comincia a camminare. Il pavimento è scollegato, pendente verso sinistra, come una lieve discesa. Fa fatica a stare in piedi. Con la coda dell’occhio vede la porta d’uscita. Il legno è levigato, la maniglia brilla come oro. Non si fa domande, vuole uscire subito da lì. Cammina più velocemente, calcia con affanno i ciottoli sotto ai suoi piedi. E’ ad un passo dalla porta. Allunga la mano. Guarda la maniglia come se quel giallo fosse vero oro.
“Lukasiewisz” il cuore fa un sobbalzo, il corpo rimane immobile “Vorrei parlarti un momento” esita un secondo. La voce del maestro gli era sembrata dura come piombo. Deglutisce e, senza desiderarlo, volta i piedi e cammina. Il maestro sembra meno alto di come ricordasse, i baffi hanno qualcosa di triste. I suoi occhi smorti e vecchi. Polonia lo guarda negli occhi, si meraviglia di essere riuscito a farlo. Non lo fa mai con nessun estraneo. L’uomo si sfrega le palpebre coi polpastrelli. Polonia si sente più rilassato, non sa bene il perché “Vede, io sono un povero insegnante e fino alla mia morte non ho dato altro che la vita per insegnare alla Polonia e ai suoi bambini” qualcosa dentro Polonia si sblocca e fa rilassare i muscoli “Sono fiero di quel che ho fatto nella mia vita, ma ho ancora molti dubbi riguardo tutto ciò che ho visto e che i miei figli hanno vissuto” prende una paura, smette di carezzarsi le palpebre. Lo guarda negli occhi, che brillano come in un prossimo pianto “Perché lei non ha tentato di salvare i suoi cittadini e soldati? Esiste un motivo che noi morti non conosciamo?”.
Polonia sente il cuore cadere sullo stomaco. Guarda negli occhi il maestro e crede di star per piangere come lui. Ma sente il corpo freddo come bronzo e non comprende se stesso. Si sente freddo ed impassibile. Certo che ho provato a salvarvi! Non ho pensato ad altro che a voi!, pensa di dire. Apre la bocca, ma qualcosa parla prima di lui “Il nostro obbiettivo era quello di garantire un giusto trionfo alla Polonia. La morte di qualche civile non ha particolare importanza, se la vittoria rimane mutilata” conclude freddamente la voce dentro di sé.
“Ah… capisco” abbassa la testa per un attimo, il maestro. Polonia è ancora insensibile “Allora direi che io possa comprendere il mio sacrificio… anche se mutilato” Polonia chiude le palpebre e le riapre d’un colpo. Il maestro è svanito come aria. Si scongela, si getta una mano sulla sua bocca. Spalanca le palpebre, ritornate alla normalità, i piedi ritornano impazziti sotto le sue ginocchia. Si stringe la mascella con forza incredula. Quello non può averlo detto lui. Quello non voleva dirlo veramente. Si volta con la testa abbassata. Cala la mano dalla sua bocca, non comprendendo ancora chi abbia parlato attraverso di lui. Perché quello non l’ha pronunciato per davvero. Lui non l’avrebbe mai detto.
La maniglia viene girata e Polonia le si getta addosso come se la stanza dietro di sé possa distruggersi.
 
 
 
 
 
Chiude la porta freneticamente, vede buio e malinconia. C’è troppo silenzio. Polonia si guarda attorno e dimentica di guardarsi le spalle. Ha troppa paura per farlo. Se si voltasse ora, se guardasse la porta, avrebbe nuovo terrore. Lo sa bene e cammina innanzi a sé, con una nuova apparente calma. C’è troppo silenzio per avere paura di qualcosa.
La strada sotto i suoi piedi scricchiola. Calpesta le foglie secche, spezza il silenzio senza veramente distruggerlo. Fa freddo qui fuori, come se stesse per nevicare. I ciottoli sotto alle suole strusciano contro la terra sterile e nera. Fuori dalla finestra della scuola era mattino, brillava l’azzurro del cielo, prima che la classe venisse distrutta. Prima che mortificasse il maestro. Questo posto è buio, il sole è calato. Fa troppo freddo. Si stringe le braccia e se le sfrega. Continua a camminare. I ciottoli si fanno grigi e spessi, insensibili ai suoi stivali. Non affonda più il cuoio nel terreno. Il tacco tintinna sulla pietra della scalinata. Polonia scala i cinque gradini come se il suo corpo pesi il doppio del solito. Con le spalle alte e le braccia nude nascoste sotto alla mantella, guarda in alto. Una chiesa bianca. La chiesa di Dorota.
Si meraviglia che riesca a vedere in quel groviglio di oscure carcasse, tra la legna spezzata e oltre l’altare lucente di luce sua. Dorota era cieca in questa chiesetta abbandonata. Polonia vede, come se avesse occhi di lupo. Non filtra nemmeno luce dalle finestre nere, nemmeno un bagliore di una luna finta. Eppure vede. Cammina lungo la navata. I suoi stivali schioccano sul tappeto disfatto. È timido, curvo, vergognoso. Non vorrebbe fare alcun suono. Vorrebbe essere un venticello inutile come prima. Con la vergogna sulla schiena e le braccia avvolte sotto alla mantella, supera le panche disordinate e scomposte. Qualcuno ha tagliato il legno dei sedili, immagina.
Si guarda a destra, non sentendo altro che silenzio. Queste panche sono intatte, il legno lubrificato, lucido e brillante. Non sembrano combaciare con quello che ha visto finora. I piedi s’impuntano sul tappeto, le braccia scivolano, le dita si congiungono e si carezzano l’ombellico. Polonia fa un respiro profondo: ha sentito l’aria mancargli. Gli cadono anche le spalle: i banchi ospitano forme di corpi e lenzuoli che li coprono. Guarda in alto, vede lineamenti di volto sotto il telo vergine. Ha un abbaglio, che passa di fronte ai suoi occhi. Lo sguardo gelido e stanco di Tymek avanza sopra le coperte grigiastre. Apre la mano e la poggia su quella insensibile di Wala. La carezza, la divisa gli sembra stare troppo grande, gli occhi non hanno più voglia di vivere. Polonia ha le gambe fredde come se le avesse immerse in acque ghiacciate. Non riesce a muoversi.
Il velo sottile di Jan si adagia sulla pelle come una maschera. Guarda in basso, più vicino a sé. Le gambe sono spezzate. La saliva si fa dolce sotto i denti di Polonia. Ripristina le gambe e avanza con lentezza. I capelli lunghi di Dorota cadono fino a terra, sotto il lembo bianco. Li guarda, paiono grigi e crespi, come i vecchi capelli finti di una bambola di porcellana. L’occhio si alza e incontra il collo. Il drappo è cencioso, il vermiglio alla testa macchia il bianco candore. Fili di capelli sono pezzi di freddo sangue asciutto da mesi. La seconda pelle della bella cerva è logora. Il volto deforme non è affatto invisibile. Passa avanti.
Ewa ha il volto bianco, come dovrebbe essere. Le braccia sporgono da sotto il velo, mostrano osso e vene ferme. Polonia sussulta e dà un pesante colpo di ossigeno ai polmoni. Liquido familiare corre sotto alle gambe secche. Il parto sbagliato, il ventre lacerato. Polonia batte due volte i polmoni con nuovo ossigeno e passa avanti. Si è staccato un pezzo del soffitto ed è cascato addosso a Feliks. Vede il grosso masso spezzare il corpo minuto, picchiare sulla sua pancia, scoppiare il suo cuoricino. Non c’è vermiglio. C’è polvere e frammenti di soffitto. E la testa schiacciata del bambino, come un limone in mano ad un uomo. Polonia poggia le mani alla bocca. Non deve vomitare. Passa avanti. Volta piano la testa. Un breve frammento di memoria: la testa scoppiata di Tymek. Gira ancora di nuovo la testa, si schiaccia le palme sugli occhi e seguita. Non deve guardarlo. Un garbuglio di orrore e disgusto si mescola nel suo stomaco. Respira profondamente. Lo sparo. Rosso. Grigio. Carne. Cervello sul muro. Pezzi di umori e cervella che scivolano dal muro grigio, come sanguigne assetate. Si preme le mani alla bocca. Respira con più velocità. Non deve vomitare. Non deve assolutamente vomitare.
Singhiozzi vicini a lui. La meraviglia sostituisce il ribrezzo. Lo stomaco smette di girarsi sotto la sua pancia. Si toglie le mani dal viso. Alza la testa stupefatto. La scura giacca di Wladymir lo colpisce, le lacrime di Darek lo deprimono. Sono in piedi, sono vivi. Polonia si avvicina e i suoi passi si fanno leggeri come aria. Si sente fluttuare e condurre quasi involontariamente a loro. Li guarda. I due lacrimano tristezza. Guardano sulla panca. Polonia vede un cumulo di ceneri grigie come pellicce di ratto. Alza gli occhi e capisce cosa sia. I due piangono, Polonia deglutisce bile e pezzi di cuore spezzato.
“M-Mi dispiace”
“Perché hai lasciato morire mia figlia?” singhiozza Wladymir, senza nemmeno voltarsi, con le mani agli occhi e gli occhiali pendenti dal suo naso. I capelli disfatti di Darek scattano verso di lui. Polonia non immaginava nemmeno di riuscire a guardarlo negli occhi. Il soldato lo guarda penoso e tragico, ma non vendicativo. A Polonia si gelano le braccia. Darek lo guarda come se lo conoscesse.
“Perché hai lasciato che mio figlio si sparasse?” Polonia si sente freddo, ma non insensibile. Batte le palpebre e i due scompaiono, ma sa che sono ancora lì. Li sente alla spalle e non ha forza di voltarsi “Ora Tymek sarà all’Inferno per essersi strappato la vita” sente rabbia nella voce di Darek, ma per le sue orecchie era anche disperazione.
“E anche mia figlia, che non è stata nemmeno battezzata” Wladymir era freddo, con lacrime amare nella gola. Polonia sente il proprio volto contrarsi, le sopracciglia abbassarsi e i propri occhi appannarsi. Batte le palpebre. Sono in mezzo alle panche. Polonia a malapena li distingue.
“Non ci ricongiungeremo mai ai nostri cari” dice Darek, con rabbia.
“Nessuno si ricorderà mai di noi… per questo siamo in questo limbo” singhiozza Wladymir.
“Resteremo bloccati qui per sempre, senza nessuno che possa vendicare i nostri spiriti” urla affatto iroso Darek, di nuovo scomparsi, eppure vicini a lui.
“Resteremo per sempre soli” a Wladymir cade una lacrima sul labbro “Questo per colpa tua” dice con qualcosa di simile a rassegnazione e dolore. Polonia ritorna con un briciolo di forza. Si sente colpito fin dentro le ossa. Vorrebbe che siano arrabbiati con lui, non che accettino quel che ha fatto. Scuote con più debolezza la testa, non avendo la forza nemmeno di controbattere.
“No, io… io…” sussurra più flebilmente del vento sotto la sua divisa. Non ha detto una parola per discolparsi. Vuole cancellare dai suoi occhi i due morti. Non capisce perché non siano aggressivi con lui. Non capisce perché siano tanto buoni con lui, anche se furiosi. Non capisce e scuote la testa ai due. Batte gli occhi, si sforza di non far cadere una lacrima. Wladymir e Darek sono spariti, due panche si sono riempite. Polonia le guarda debolmente. Darek ha le spalle più robuste di come ricordasse. Le salme sono macchiate fino a dimenticare il proprio colore reale. Il sangue pare nero sopra la pelle dei due. Distoglie lo sguardo dalla pancia strappata di Darek e dalla costellazione di proiettili sul corpo di Wladymir.
Col cuore pesante, avanza.
 
 
 
 
 
Riconosce Varsavia ancora prima di aprire gli occhi. È sempre la solita violentata città. I soliti palazzi cedenti e le solite stradine melmose. Odora di zolfo e fumo. Solo questo. Nient’altro.
Il petto gli pesa e lo condanna a piegare la schiena. L’aria è soffocante. Per qualche motivo fa fatica a respirare. Si poggia d’istinto la mano guantata sulle narici. Respira ed inspira. L’aria sotto al guanto sa di terra, ma comunque respirabile. Il fumo gli entra negli occhi. Avanza con le palpebre abbassate. Bruciano meno di quel che crede, ma ora gli è insopportabile tutto questo. Non vuole stare lì. Vuole ritornare nel bianco latteo della nebbia di carta. Insieme a Toris. Insieme a qualcuno. La tempia tuona, ricorda Prussia, con una sfumatura più affranta. Ha smarrito anche la rabbia per lui. Si sente deluso e triste. Avanza ancora e la puzza, con gli crepitii degli stivali nel lerciume, svanisce.
Apre gli occhi, fa cadere la mano dal naso. Respira aria fredda. Penetra rudemente nei polmoni, li fa protestare. Polonia tossisce poca aria. Il suo fiato crea nuvolette di vapore bollente che svaniscono nel freddo invernale. Il buio della chiesa era inquieto ed angosciante. Il buio della sua città è mesto e addolorato. L’occhio si volta, capisce di stare su una collina arida. Nemmeno un fascio d’erba indifeso, né una qualche foglia secca d’autunno. L’istinto lo fa voltare. La panchina è ancora qui, intatta come l’aveva lasciata. Si trascina i piedi dietro e vi ci siede.
Il cuoio degli stivali si rilassa sullo spiazzo di terra compatta. La panchina è rovinata, scomoda, eppure lo tiene stretto a sé. Polonia ci appoggia la schiena. Si sente protetto, senza un vero e proprio motivo. Lascia un respiro carico di tutto ciò che ha visto fino ad ora. Resta fermo, tra il legno schiacciato e il gelo della città in lontananza. Non succede nulla, non accadrà nulla. Lascia un altro sospiro, più triste. È un sollievo, ma non una certezza. Vuole stare solo, ha bisogno assolutamente di stare solo e a non pensare a nulla. Vuole andarsene, rannicchiarsi in una spiazzo bianco e stare in pace. Si sentirebbe molto meglio che stare su questa panchina, con la città catastrofica di fronte a lui, che pare minacciarlo di non aver fatto nulla per salvarla.
Quand il me… ses bras… tout bas… je vois la…” Polonia stropiccia gli occhi pesanti. Deglutisce, si guarda attorno. Pareva la voce strascicata di una radiolina. Ricorda di aver visto Francia con una di quelle, anni prima. Ricorda che gli fece vedere, fiero, di poter armeggiare come un mago quella scatoletta metallica. Ricorda che la musica era dolce. È stanco e stancamente si guarda i piedi e dietro le caviglie “…dit des mots… de tous les… me fait quelque chose…” la trova. È piccola come una scatola di scarpe per bambini. La mano trema quando l’afferra. Il metallo lucido fra poco gli sfugge dalle mani. Continua a mormorare e a mangiare parole. La poggia sulle sue ginocchia. La città è silenziosa, nemmeno l’albero spoglio alle sue spalle sussurra parole stentate. La radio è disincronizzata. Poggia la scatoletta in equilibrio. Afferra entrambe le manopole e le gira. Non può fare altro. Con cautela gira le dita della mano destra, come gli ha insegnato Francia, quand’era paterno con lui “…entrè dans… un part… bonh-… je con-…” non va bene. Muove anche le dita alla sinistra. La linea continua a singhiozzare su e giù “…c’est lui pour… pour lui… vie…” un colpo di pollici. La radio canta, canta per davvero. La donna intona la sua canzone “C’est toi pour moi. Moi pour toi. Dans la vie, il me l’a dit, l’a jurè pour la vie…
La radiolina ha colore, nota solo ora. Di un ocra zecchino, capisce. Brilla più di qualsiasi altra cosa qui, su questa collina abbandonata dal mondo. La donna canta come un usignolo. Polonia è chino sul colore e lascia alle spalle la Varsavia  distrutta, i detriti, forse il sangue e le vita spezzate attorno a sé. Vorrebbe dimenticare la collina orribile dov’è ora. La radiolina prende energia e Polonia ne perde. Sente il cuore pesante come un mattone e lo trascina con più foga sulla canzone. Immagina la donna con uno di quei leggeri e vivaci vestiti francesi. Forse con le spalle scoperte, forse col seno esposto, non gli importa. Immagina la gonna di fiori estivi, i capelli morbidi e pregiati come seta che cadono sulle spalle magre, una collana di perle, un fermaglio dorato e stravagante. La donna canta. Polonia si guarda la divisa molto più sciupata di come ricordasse, gli stivali raschiati dal freddo e dalla lordura delle strade, la mantella smorta. Respira e l’aria gli pare molto più gelida di come immaginasse “Et des que je l’apercois. Alor je sens en moi. Mon coeur qui bat” la musica si ferma. Ritorna il silenzio. Polonia muove entrambe le manopole della radio. Non sa perché lo faccia. Non lo vuole fare. Le mani sono ferme e sembrano cercare veramente qualcos’altro. Polonia ne è quasi spaventato. Non sta muovendo lui le sue dita.
Bentor-… a tutti… me Patrick e… -rabile Celine!” Polonia non controlla più le sue dita e non se ne spaventa nemmeno, non come aveva fatto la sua voce col maestro di Feliks. C’è qualcosa di consapevole nei movimenti delle sue mani. Gira, rigira, allineano perfettamente. Si fermano all’improvviso, così come si sono mosse “Continueremo a trattare della seconda Grande Guerra insieme a tutti voi…” Polonia si guarda le dita, incredulo. Le scuote, tremano così come tremavano insieme a lui. È attonito “… insieme alle rappresentazioni dei paesi vincitori. Salutate qui in studio la Francia e l’Inghilterra!
Bonjour à tous, Parigi. Qui c’è la vostra rappresentazione a dir poco magnifique!” schiocca un bacio alla radio, Francia. Polonia si scuote, come presa una scossa da dentro il suo cuore. Riconoscere la voce di Francia fa male. Gli trillano le orecchie, quasi non credeva di risentirla. Sente uno sbuffo dall’altro capo della radio.
Buongiorno a tutti voi” risponde imbronciato, Inghilterra. Polonia lo immagina con lo sguardo basso, le spalle alte, gli occhi truci sull’alleato. Prende la radiolina fra le mani. Gli batte forte il cuore e vorrebbe che sia felicità quella che sente, ma la confusione la precede e la annebbia completamente.
A te la parola, Celine. Iniziamo con le domande
Subito!” risatina leggera, imbarazzata. Un altro schiocco, labbra su pelle. Francia deve averle baciato la mano e Inghilterra ha di nuovo sospirato con ira. Rumori di carte, una penna che batte su di un tavolo “Dunque, questa domanda è particolarmente richiesta dalle lettere nel nostro studio…” un'altra risatina, Francia ne ha fatta un'altra delle sue “Allora, sappiamo che la Grande Guerra scoppiò in seguito all’attacco della Germania verso la Polonia, portandola fino alla sua distruzione. Conoscevate, messieurs, questa Nazione, prima che morisse? È stato un vostro caro collega o c’è altro che dobbiamo sapere?” silenzio, solo brevi interruzioni della rete scarna della radiolina.
Scusi, chi?” le dita di Polonia si muovono. Una debole scossa le ha prese. Una risata confusa, sempre della donna.
Ah, la Polonia, intendo. Ricordate?” un colpo di tosse da parte di Inghilterra. È imbarazzato, non sa cosa rispondere “Lei, monsieur France?”
In verità mi chiedo anch’io chi sia” dice con sicurezza e un lieve disagio. A Polonia tremano le mani, le stesse che tengono in mano la radiolina. La risposta di Francia fa molto più male di quella di Inghilterra “E’ davvero morto? Uh, Angleterre?
No, non credo. Immagino di… ecco… Francia?” esclama alla fine. Francia non controbatte, non sa neanche lui cosa dire. Polonia stringe forte la maledetta scatola. D’un tratto la odia. Le braccia tremano e le dita stringono malamente come artigli. Sente una fitta al cuore. Fa male quello che hanno detto. Il petto è ancora più pesante. Le ossa sono bollenti. Le dita più indispettite. Quello che ha nello stomaco sa di tradimento, di inganno, di rabbia e tristezza. La radiolina cade dalle sue mani. Si alza in piedi, fulmineo.
Perdonateci, cher, ci devi dare una mano” la voce di Francia ha qualcosa di innocuo. Fa alzare lui stesso il piede di Polonia.
Celine…!” si sente in lontananza dentro la scatoletta, sotto il cuoio dello stivale del ragazzo.
Oh, non fa niente! Sapete, non ha molta importanza…” un altro colpo pesante. La radiolina si piega a metà “…dimentichiamo la Polonia
Giusto, sarebbe meglio dimentica-…” lo stivale è affondato pesantemente nel metallo. Uno brillo incandescente sembra aver illuminato la scatola di ferro e poi ha smesso di parlare. Polonia dà un calcio alla radiolina. Non la vede nemmeno, la sente rotolare, muta, lungo la collina. Il rumore assordante del metallo squarcia in due in silenzio come un coltello. Non gli importa. Non vuole e non deve piangere. Guarda per terra e vorrebbe che la vista non sia così offuscata e così disgraziatamente ovvia. Non vuole piangere. La gola protesta e singhiozza. Il naso si fa bollente e inizia a lacrimare bile. Le lacrime pungono sotto i suoi occhi. Polonia ora vede questa cosa come uno scherzo orribile. Uno scherzo fatto ad uno che non può fare nulla per impedirlo. Si sente ancora in trappola dentro le sue ossa, dentro questo mondo falso. La radiolina non tintinna più. Ritorna il silenzio. Al ragazzo spuntano denti appuntiti, occhi rossastri e cuore impazzito.
“Non è vero, è tutta colpa vostra!” urla a Francia e ad Inghilterra, dietro ad una scatoletta rotta lungo la collina, sotto uno strato di zolfo e polvere. Tira su il naso, sente fin troppa saliva nella sua bocca “Voi mi avete portato qui! Dovevate aiutarmi, dovevate salvarmi, avevamo un accordo!” la gola singhiozza e non lo fa parlare. Polonia si asciuga gli occhi, prima di ritornare a scagliarsi contro l’ignoto sotto di lui. Si sente patetico ad urlare così, senza nessuno che lo ascolti. Si sente ancor più tradito e solo. E morto “Voi mi avete ucciso!” il silenzio tace, interessato “Per colpa vostra sono morto! Per colpa vostra Liet si è quasi ammazzato! È tutta colpa vostra…” finisce esausto, con la voce guasta. Si poggia le mani al volto, non vuole che qualcuno possa guardarlo. Si sente disgustoso e brutto, d’un tratto. E infantile. Non gli piace questo lato di sé. Consuma il pianto tra i guanti. I capelli s’impiastricciano nelle lacrime, si fanno scuri e mostruosi anche loro. Si sente solo e grigio e brutto come la sua Varsavia. Vuole qualcuno che lo consoli, che lo abbracci. Vuole Liet più di qualsiasi altra cosa al mondo ora.
 
“Capisco… allora perché non mi racconti tu una storia?”
 
Il cuore di Polonia sussulta. Una freccia di ghiaccio fa breccia dentro di sé e lo riempie di gelo. Ma è un gelo dolce, allora ne vuole altro. La voce era chiara, cristallina, non filtrata dietro il macchinario di una radio o di un telefono. Polonia non la sentiva da anni. Si toglie gli strati di lacrime sulle sue guance. La voce era lontana, ma chiara in questo silenzio opprimente. Polonia si volta, si gira e rigira. La voce di Liet l’ha gelato, l’ha come schiacciato.
 
“I-Io?! Uh… Ma allora come dovrei chiamarti?”
 
Un'altra freccia traditrice. Sente ora la carne squarciarsi sotto il gelo e l’emozione. Non ha più fiato. Segue quel filo di voce fino a calpestare ogni angolo della collinetta. La panchina non ha nulla da offrirgli, deve cercare altrove. Un lampo di comprensione lo coglie. Si sporge dal terreno e guarda in basso, oltre la nube di fumo sotto di lui. Lì è dove la radiolina è precipitata ed è sparita.
 
“Io sono Lituania! Siamo venuti fin qui per discutere riguardo al matrimonio tra il nostro Granduca e la vostra sovrana”
 
Da laggiù proviene la voce. Polonia non prova nemmeno a fermare le lacrime, già le vede staccarsi dai suoi occhi e precipitare lungo la collinetta. I piedi fremono, il cuore palpita. Si stringe i pugni. Ha paura, davvero tanta paura. Liet non può essere qui. Vedrà qualcosa di orribile su di lui.
 
“Cosa?! Beh, allora ti chiamerò ‘Po’. Quindi, puoi smettere di chiamarmi ‘ehi tu’, se vuoi…”
 
Ma la voce è troppo viva e il suo cuore è troppo emozionato. Si getta in basso. Appena tocca terra inizia a correre. Non immagina nessun inganno, come quelli visti fino ad ora. Non immagina nulla di atroce, nemmeno ricorda quel che ha visto o sentito. La voce di Lituania non la sente da chissà quanti anni. Ed è troppo viva e familiare per essere falsa. Si precipita dentro al fumo, non volendo nient’altro che qualcuno che possa salvarlo da questo posto e da tutte queste illusioni.
 
“Negli scacchi sono imbattibile, è impossibile che tu riesca a sconfiggermi!”
 
 
 
 
 
 
Il fumo ha rivelato pietra. Pestarla gli ha gelato il sangue. Ha sentito la schiena irrigidirsi e i piedi hanno addirittura smesso di correre. Si sente in qualche modo osservato. Si volta e fa avanzare la vista più di quanto faccia di solito. Non c’è nessuno, solo pietra scura e nemmeno una luce che possa filtrare, eppure vede, vede chiaramente. Non sente più la voce di Liet.
Il tavolo non sembra avere un vero colore e se ne possegga qualcuno allora è nascosto per il buio. Le sedie le guarda con distrazione e perplessità. Hanno qualcosa di agghiacciante. Finalmente muove i piedi. Si sposta con cautela, sente ancora occhi invisibili su di sé. Poggia il palmo della mano sulla sedia e lo fa percorrere con lentezza. È un vecchio gioco, nulla di più. Lo fa con tutte le sedie della prima fila. Finisce al capotavola, a malapena si accorge del sedile ben più alto degli altri, senza nulla che li distingua gli uni dagli altri. Ritira la mano, la guarda incerto: trema di vera paura. La voce di Liet è completamente svanita.
Sente gli occhi invisibili diventare ancora più aggressivi. Polonia irrigidisce le spalle e alza gli occhi con terrore. Non c’è nessuno. Appare un portone. Di sicuro è apparso ora, immagina il ragazzo. Non l’aveva visto prima. La sensazione di smarrimento gli fa bloccare il fiato. È già stato in questo posto e in qualche modo ne ha paura. Non può far altro che esplorare e pregare che non gli accada nulla di terribile. Deglutisce, si porta una ciocca ribelle dietro l’orecchio, respira profondamente e spalanca la pesante entrata.
Nella sala del trono pare essere caduta l’oscurità di una notte senza luna. Guarda il tappeto sotto i suoi piedi e gli sembra ben più polveroso e vecchio. Avanza lungo il percorso. Il tappeto è stato strappato e mordicchiato da qualcosa. Un filo di disgusto e ghiaccio percorre la sua spina dorsale. Non vuole assolutamente pensarci. Lo sguardo è diventato ora tirannico addosso a lui. Polonia si sente servo e miserabile, per questo alza piano gli occhi e tiene la fronte bassa. Qualcuno è seduto sul trono. Polonia realizza chi sia e la testa si alza, la timidezza si placa. Si sente confuso, incredulo, terrorizzato da quello sguardo di lince. Non sente più le palpebre.
Avanza sul tappeto, ora guarda fisso di fronte a sé. I suoi piedi riconoscono la sala e i gradini, quasi volano sopra la pietra. Polonia si sente leggero, come se il suo corpo non avesse più una vera compostezza. Si sente inutile aria, sente che i piedi potrebbero fluttuare ad un palmo da terra. Non sente più nemmeno il suo cuore, gli fanno troppo male gli occhi per pensare al battito incalzante. I passi superano i gradini, camminano per un po’ e si fermano, terrorizzati di stare troppo vicini a questa persona. Ha il gomito appoggiato al manico del trono, qualcosa gli dà un’aria arrogante e arrabbiata. Il mantello rosso non lo nota nemmeno, non sembra avere nemmeno questo una luce. Un tallone è addossato al ginocchio, non sembra importargli se la tunica possa scoprirlo. Polonia è rapito, incatenato. Gli occhi lo fanno impallidire: non hanno fatto altro che seguirlo fino ad ora. Il personaggio lo guarda dal basso verso l’alto, ma Polonia ha l’impressione di essere basso almeno un’altra spanna. Questa cosa lo terrorizza. Non sa cosa dire, rimane a guardarlo, incredulo, tradito dalle piume che ha bruciato. La persona sospira, con qualcosa di simile all’impazienza, eppure desiderando di trattenere un’ira che Polonia non comprende. Abbassa il mento, si passa le dita bianche tra i lunghi capelli. Quel gesto lo faceva spesso quand’era ragazzino, ricorda Polonia. Deglutisce, prende coraggio.
“Tu… tu chi sei?”
“Ti sei totalmente fottuto il cervello?” lo interrompe bruscamente, mangiando qualche sua lettera. Smette di lisciarsi i capelli biondi e soffici, sbatte la testa con rabbia verso di lui “Sono te, idiota! Non riconosci più te stesso?” pare urlare, a malapena trattenendo la calma. Polonia non capisce perché ce l’abbia con lui. I piedi sono ancora premuti sul pavimento e non riescono a muoversi. Non può scappare. Si guarda attorno, cerca di non sentirsi colpevole della furia del suo sosia. Non c’è nessun’altra porta per scappare. Deglutisce ancora. Ha ancora paura.
“Sai come uscire da qui?” chiede con una voce fin troppo timida per essere sua. Gli occhiacci verdastri del sosia si socchiudono. Non sembra arrabbiato, ma nemmeno benigno. Le sopracciglia si alzano, il gomito viene smosso e le braccia abbandonate sul trono. Ha un’aria di sufficienza.
“No. E perché dovrei farlo? Non hai fatto altro che ignorarmi da tipo sempre e tu ora vorresti il mio aiuto per uscire dallo schifo in cui ti ci sei totalmente buttato da solo? Cioè, col cavolo!” non urla, ma per Polonia sembra quasi un rimprovero furioso. Si sente soffocare, stretto in una morsa troppo asfissiante. Alza le spalle, tende le mani sopra alla pancia. Sente come di aver ricevuto un pugno al torso. Urla di tedeschi. Nessun nascondiglio. Nessuna via d’uscita. Urla dietro alla porta. Paura. Terrore. Piume al cielo. Inferno di fuoco. Caduta nel buio.
“H-Ho dovuto farlo. Non volevo…”
“…Farti ammazzare?” la sua schiena si adagia meglio sul trono. Sbuffa contrariato, con qualcosa di simile all’ironia crudele. Il tallone lascia il ginocchio “Po, ti ricordo che sei già morto e, beh, morire un’altra volta sarebbe tipo impossibile” respira profondamente. Gli occhi s’inclinano, abbassa piano le palpebre. Vede giusto un filo di verde smeraldino che lo aggredisce con ira nascosta “Te la sei totalmente fatta addosso e hai cercato il modo migliore per scappare” lascia un respiro più triste. Abbassa completamente le palpebre. Gira la testa di lato. Vede la guancia bianca e liscia come perla “…come in ogni guerra” Polonia sente il bisbiglio volontario e scatta, colpito dentro. Si sente più sicuro di sé.
“Non è vero, la scorsa guerra ho dato il meglio di me!”
“Già, e il meglio di te è stato buttarsi addosso ai russi e farsi totalmente mitragliare da quel bastardo di Russia” non sorride, nemmeno per ironia malsana, eppure Polonia ha giurato che l’avrebbe voluto fare. Alza solo un piccolo angolo delle labbra. Lo aggrediscono ancora gli occhi. Sono magnetici, non riesce a togliere lo sguardo da questi. Polonia non immaginava di poter dare una forma così agghiacciante al suo sguardo. Si accorge con fatica del misero, ironico, deluso applauso “Ottimo lavoro, Polska…” smette subito, riabbassa le mani. Anche da ragazzino odiava applaudire. Sbuffa, rigira ancora la testa “…Hai anche ucciso un bel po’ di gente, ti ricordo” Polonia scatta ancora, preso nel cuore. I Lukasiewisz a tavola. Feliks viene sbeffeggiato da Tymek. Darek rimprovera suo figlio. Dorota sorride imbarazzata. Ewa mangia e rimprovera il piccolo. Wladymir ridacchia e arrossisce. Jan guarda la scena, non ricordando come sia scoppiata, e sorride, sinceramente felice. Klara dormicchia sul divano, calma. Polonia si sente pugnalato al cuore.
“Io… non immaginavo che…”
“Che cosa? Cioè, ma che credevi? Credevi che i tedeschi ti avrebbero risparmiato perché eri tipo ‘un totale e dolce scemo’ che non valeva nemmeno la pena di bombardare in testa…” Feliks sotto le macerie della scuola “…o di sparare in mezzo agli occhi?” Dorota sparata in testa dai tedeschi. Polonia sente freddo. Il suo sosia non cambia espressione, la ammorbidisce soltanto. Non è pietà per lui, glielo legge perfettamente “Polska, la guerra ammazza tutti. Potevi salvare quella famiglia, così come potevi salvare Liet” l’ultima frase non la nasconde, nemmeno la bisbiglia fra sé. Un battito prepotente di rabbia lo accende come una fiaccolata. Mostra i denti.
“Io l’ho salvato! Ora sta bene ed è felice! Lui è il mio migliore amico!”
“Oh, certo, ovvio” annuisce freneticamente, con sufficienza. Polonia stringe i pugni, monta ancora la rabbia. Il sosia bisbiglia ancora, gli mostra ancora la guancia “Bel amico…”
“Ma che dici? Liet è il miglior amico che esista al mondo!”
“Stavo parlando di te” la fiammata di rabbia si quieta del tutto. La risposta lo lascia senza parole, la sicurezza cade. L’altro lui sospira sonoramente, con vera calma. Alza gli occhi, lo guarda come se fosse un bambino particolarmente stupido “Po, tu non hai salvato Liet: hai solo pagato il tuo debito. Sei stato un totale bastardo con lui sin da quando eravate piccoli e quell’avanscoperta da Russia l’avresti potuta fare anche prima” Polonia si spegne completamente. Ricorda la guerra contro Russia. E contro il suo Lituania “Se Liet non fosse un santo avrebbe già pisciato sul tuo cadavere e baciato gli stivali di Germania” sospira ancora, con un briciolo di tristezza “Avresti potuto salvarti, così Liet non avrebbe sofferto così tanto” Lituania lo porta nel bosco lontano casa. Si veste elegante. È bello, il suo Liet. È agghiacciante, la sua felicità. Gli mostra il coltello. Terrore. Angoscia. La lama viene portata al polso. Polonia perde colore alle guance. I suoi occhi non sanno dove soffermarsi.
“Non avrei potuto fare niente per impedirlo”.
Il sosia lo fissa intensamente. Rimane ancora congelato di fronte agli occhi intraducibili. Gli angoli delle labbra si muovono verso le guance. I denti bianchi, puliti, scintillano. I canini si scoprono. Gli occhiacci smeraldini sembrano brillare di una nuova luce meschina “Perché non lo chiedi a Liet?”
Uno squillo inconfondibile di telefono fa sobbalzare Polonia. Lo fa voltare di scatto. Vede qualcosa in fondo alla sala, forse un tavolino. Si volta ancora verso il trono. È vuoto. 
Lo squillo strappa di nuovo la tranquillità del silenzio. Polonia avanza, col cuore pesante. Si trascina le gambe fino al tavolino. Il tappeto è raschiato dalla polvere, eppure non è ancora cremisi come lo ricordava. Si avvicina, guarda esitante. Lo squillo sembra più quieto, meno aggressivo di come l’ha udito col suo gemello crudele. Il color oro della cornetta lo risveglia. Non c’è nessun filo a collegarlo alla corrente. Un altro squillo. Alza la mano, l’avvicina. Trema quando afferra la cornetta del telefono. La porta all’orecchio, con vera paura. L’occhio gli cade in basso: questo non è un tavolino. Ricorda di aver avuto un comodino vicino al suo letto simile a questo. La stringe con entrambe le mani. Ha paura. La voce nella cornetta sussulta.
“Ah!” sobbalza gentilmente “Polonia, sono io, Lituania. S-So che può sembrarti assurdo, ma è appena arrivato Prussia a Mosca! Dice che vuole invaderti e Russia sembra voler accettare…” l’orecchio si è già fatto sordo. La mano ha smesso di avere paura e si poggia sulla bocca. Non deve piangere. Respira a pieni polmoni. Il cuore gli si è fatto bollente come carbone. Capisce che quel che parla è veramente lui. Sente l’emozione e la memoria scavargli nella testa come una trivella maledetta. Non immaginava all’epoca che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe parlato con Liet. Sente una crepa formarsi nel cuore. Si sente solo “P-Polska, ma stai piangendo?” chiede preoccupato. Polonia tira su il naso. Ora odia l’essere altruista di Liet
“N-No, non sto piangendo…” tira ancora su il naso. La sua voce sembrava dannatamente infantile. Si vergogna e arrossisce. Non riesce a far smettere le lacrime di scorrere. E bruciano maledettamente.
“Polska, non avere paura! Non è ancora troppo tardi! Puoi farcela, devi solo armarti e potrai difenderti a dovere!” annuisce fra sé e sé, confortato fin dentro le ossa. La sua voce lo fa sentire al sicuro. E a casa. Obbedirà a Liet e andrà tutto bene.
“Sì, sì, lo farò. Farò tutto quello che mi hai detto, Liet” afferma sincero. Rimane a fissare ancora il muro di fronte a sé. Liet non risponde ancora. Nemmeno si chiede se stia bene.
“Tu… tu mi hai creduto, vero?” Polonia si sente preso al cuore.
“Ma è ovvio, Liet! Cioè, perché non dovrei crederti?” Io mi fido totalmente di te!, urla dentro la sua testa, senza avere tempo per aprire bocca. Lituania non dice ancora nulla. Il silenzio non lo calcola, non pensa che alla voce di Liet che manca. Vorrebbe che lo portasse lontano da questo posto. Vorrebbe stare con lui. Vorrebbe cancellare ciò che è realmente successo in quella telefonata e alla sua risata cattiva quando gli ha riattaccato. Non ha più sentito la sua voce da quel giorno. Il silenzio si spacca.
Non è un po’ troppo tardi, Polonia?
Non sapeva di star sorridendo fino a quel momento. Gli angoli della bocca si sfaldano. Gli si spengono gli occhi lacrimevoli. Rimane ancora in attesa, non c’è nessuna risposta. Lituania ha smesso di parlargli. La mancanza di lui è pesante, gli blocca il respiro. Anche la mano cade. Sa che non dirà più nulla. Le dita si sentono deboli e fanno precipitare la cornetta. Questa è ignorata, ondeggia affianco al comodino, come la lancetta di un veloce pendolo. Polonia si sente pesante come un macigno, quando si volta. Il suo sosia lo guarda cripto, non sa cosa stia pensando di lui. Lituania non gli ha mai risposto. Il mantello lo avvolge come un abbraccio. Polska lo guarda, bianco come la pancia di un pesce. Attende la risposta a quelle parole a lui comprensibili ed incomprensibili. Non dice nulla, ha lo stesso sguardo, con la stessa pelle rosea e morbida. Volta il collo con lentezza. Resta a guardare il trono. Polonia non vuole più comprendere, ma non riesce a fare a meno di guardare anche lui. Gli si apre il cuore e una cascata di emozioni circonda nelle sue vene. C’è Liet. Sorride, i piedi scalpitano, sembra che il mondo si sia rovesciato, ma in meglio. L’istinto lo fa correre verso di lui.
“Liet!” allunga la corsa sul tappeto. Il suo cavaliere rimane fermo, anche se l’ha visto. È lui, è sicuramente lui. Ha i suoi occhi celesti, i suoi capelli scuri, l’uniforme verde come l’aveva visto l’ultima volta. Eppure… Il passo rallenta, non riesce a salire gli scalini. Lituania ha uno sguardo incomprensibile. I suoi occhi sembrano grigi. È triste e qualcos’altro che ora Polonia non capisce, ma intuisce. Resta fermo sotto la gradinata. Vuole abbracciarlo e sentirsi abbracciato “Liet, sono io, sono Polska! Sono vivo!” Lituania rimane immobile, solo il capo si muove di lato e le palpebre cadono.
Vivo…” ripete, come un qualche vecchio giocattolo, ma con una voce distrutta. Polonia la sente e sente che ha ripetuto quel che ha detto e ha detto quel che voleva dire. Un passo si poggia sul gradino, fa avanzare il corpo più avanti. È ancora euforico, vuole stringerlo e premere il suo viso sul collo dell’amico. Ma gli occhi grigi di Liet lo fermano. Sorride ancora, smorzato dall’aria fredda tra loro.
“Sì che sono vivo! Non sei tipo felice di questo?” Lituania sembra essere stato pugnalato al cuore. Gli occhi si sgranano, il grigio nell’iride si mostra con più tristezza.
Felice di questo?!” ripete. Per Polonia è come se gli parlasse per davvero. Gli si spezza il sorriso. L’emozione che l’ha avvolto lo ha abbandonato. Il trono alle spalle dell’amico pare in rovina, con le foglie ormai secche e gli steli spezzati. È orribile quel che sta vedendo. Fa un altro passo sulla scalinata, non capendo e non volendo capire. Vuole solo essere muto e sordo e affondare il naso sul collo di Liet.
“Ma perché mi parli così? Non siamo stati amici fino ad ora?” Lituania pare sussultare e chiudere le palpebre lucide. Le ombre sotto ai suoi occhi inglobano le palpebre. Sembra un qualche teschio. Polonia lo osserva e non immaginava che fosse ancora così magro. Scuote la testa e anche Liet fa lo stesso.
Amici… Fino ad ora?!” Polonia sente il cuore battergli in petto. Tutto questo che sta accadendo è sbagliato. Liet non dovrebbe piangere di fronte a lui. Non l’ha mai fatto. Vede lacrime d’argento scavare nella sua pelle. Tutto questo è terribile. Un altro passo sulla scalinata. Si sente pesante e colpito.
“Liet, siamo sempre stati amici, questa è la totale verità!” Lituania scuote la testa e Polonia non si arrabbia. Il panico di quello che gli sta facendo intuire il suo amico lo fa tremare “N-Non è così? Lietuva, questo non è vero! Ti ho sempre voluto bene! Non ci sei stato altro che tu!” sembra volersi voltare e andare via, col suo sguardo basso e quella poca carne che ha attorno alle ossa. Sembra star male, il suo Liet e questo lo fa soffrire ancor di più. Scala i gradini, Lituania si volta, la schiena è in vista. Polonia la guarda e non ha più parole da pronunciare.
Non ci sei stato altro che tu!” urla dietro le spalle magre. Polonia ha ancora le labbra socchiuse. L’uniforme alla schiena è strappata, la carne e le ossa esposte. Polonia vede tagli di coltello. Sangue lacrimante dalle ferite aperte. Carne strappata più volte. Polonia vede carne viva gemere e sputare vermiglie cascate. Una è stata aperta e riaperta con ira. Vede attraverso di essa rigature grigiastre e bianco sporco. L’osso esposto non lo meraviglia, non lo disgusta più di quanto immaginasse. Polonia ha le lacrime agli occhi.
“Non ti ho fatto io questo, Liet! È… E’ stato Russia!” mormora appena, quando Liet si volta. I suoi occhi sono contratti. Sembra arrabbiato o desiderare di mostrarsi arrabbiato, fallendo in parte. Vede ancora le sue lacrime e i suoi denti sporgere, mortificati. Allarga le braccia strappate. Mostra la vena del braccio. I rigagnoli di sangue cadono a terra, senza nemmeno un rumore. Fiume di sangue, laghetto cremisi. Polonia ricorda e sgrana gli occhi.
E’ stato Russia?!” urla, metà fra scherno e orrore. Polonia non ha nemmeno tanto orrore, ma disgustosa sorpresa. I tagli creati di fronte a lui, desiderando di essere preso e portato in Paradiso, gli strappano ogni scusa possibile. Però apre comunque la bocca.
“Non sono stato io!” Sei stato tu!, ferma in tempo, incredulo del suo stesso pensiero. Non può averlo pensato veramente. Liet sgrana gli occhi, s’infiammano, come in battaglia s’incendiavano di valore. Polonia spalanca gli occhi. È ira fluita fin dentro la carne. La sente infrangersi su di lui.
Sei stato tu!” urla, l’eco si percuote in ogni angolo della sala. Polonia poggia i guanti lerci sugli occhi. Piange. La testa cade nella coppa creata dalle sue mani. Le gocce salate insozzano di più i guanti. Sa che Lituania se n’è andato, non serve guardare, ha imparato questo orribile scherzo. Nonostante ciò piange e un frammento di verità fa aprire un scomparto segreto nel suo cuore. Non capisce perché tutto questo non possa smettere. Sente la presenza silenziosa e crudele del suo sosia. La verità non può essere questa.
“Non ho mai voluto Liet morto…” lo sente affianco a sé. Sente le sue braccia cingergli i fianchi. Lo abbraccia. Questo calore lo conforta e lo disprezza. Ma non se ne stacca. Ne ha veramente bisogno. Lo sente sospirare vicino al suo orecchio.
“Strano, io ricordo un episodio totalmente diverso, Po” lo canzona. Non vuole ricordare il sogno e la casetta in mezzo alla neve. Ferma i ricordi sul nascere, gli si spezzerà il resto del cuore se continuerà a vedere e a ricordare i suoi errori. L’abbraccio si fa più stretto. Sente il suo profumo. Sa di mirtilli e fragole di bosco. Non riesce a non pensare al piccolo Liet e a quando erano bambini. Scuote la testa, non vuole accettarlo.
“Sta’ zitto! Io… non ucciderei mai qualcuno…” le mani di seta del gemello sembrano raffreddarsi. La stretta attorno a sé si scioglie, ma solo in una mano. Polonia fa cadere le mani dagli occhi gonfi e appannati. Immagina già le sue guance bruciare come tizzoni ardenti. Il sosia poggia una mano su suo viso e lo fa voltare. Occhi contro occhi. Smeraldo contro smeraldo. Gli occhi del sosia brillano, i suoi sono cupi e lucidi. Il dito della sua mano si muove. Gli pulisce una lacrima, incastrata sotto le ciglia. Polonia rimane incredulo. Il gemello sorride, indecifrabile, forse nemmeno sincero.
“Davvero, Polska?” sussurra con una qualche bizzarra ed innaturale dolcezza. Polonia rimane incantato e servile. Il pollice segna un terzo e quarto percorso sulla sua guancia. Si sente abbandonato a lui. Le sue mani sembrano vera seta e non un banale paragone. Morbide e preziose. Una piccola fila di denti si scopre, la lingua sotto al palato scocca “E dov’è Toris?”
A Polonia sembra cadere un intero mondo sotto ai suoi piedi. L’aria nemmeno entra nei suoi polmoni. Non pensa nemmeno ad una risposta. Il sorriso del gemello si allunga, serafino. Il suo pollice gli prende un ciuffo di capelli che non immaginava nemmeno di avere e lo poggia dietro al suo orecchio, conoscendo la strada perfettamente. Polonia si sente fra le braccia del diavolo. Gli tremano i piedi, il cuore palpita “Che cosa gli hai fatto?” il sosia sghignazza, con il volto contratto.
“Io?” continua a ghignare, coi denti che paiono affilati come quelli di una qualche disgustosa bestia. Polonia lo guarda non comprendendo e tremando dentro i suoi stivali. La mano di seta si fa tenaglia di artigli. Stringe forte l’osso della mascella. Polonia sobbalza, sente dolore improvviso. Fa scattare il suo collo dove ora lui sta guardando, lì dove per la prima volta ha visto Liet. C’è qualcosa di bizzarro accasciato in terra. Grigio, brutto e spennato. Polonia vede un becco appuntito e realizza “Lo abbiamo ucciso insieme, Polska!”
L’urlo si alza fino al soffitto della sala. Polonia si libera della presa del doppione, corre e s’inginocchia. Toris è poggiato sulla schiena, il collo spezzato, le ali aperte come in caduta, come quelle anatre sparate in aria da un cacciatore. Le piume non hanno più un velo di colore. Polonia ha le mani che tremano, il fiato che sussulta di dolore. Non ha lacrime, ma vorrebbe urlare ancora, fino a strapparsi la gola. Ha paura di toccarlo, di fargli ancora più male o di strappargli involontariamente qualche altra penna. Il gemello, principesco e calmo, scende le scale. Polonia prende coraggio e gli stringe fra i guanti la testolina cava. È fin troppo leggera. Gli si spezza la schiena, mentre urla di dolore.
Toris bambino gonfia le guanciotte rosse per la corsa inutile. Polonia lo tira in alto, leggero come una piuma. Stretti i piedini nudi, corre nel bianco del nulla. Il bambino esulta e ride per la gioia. A Polonia viene voglia di fare il cattivo e lascia i piedini nella corsa. Il bambino si capovolge, impallidisce di paura. In aria diventa falcone. Polonia si ferma, Toris si poggia sulla spalla. Afferra col becco il suo orecchio e tira, infuriato. Polonia ride ancora. Adora questo fratellino speciale.
Le lacrime s’impigliano nelle piume maltrattate e nei solchi dove sono state strappate. Non ha la forza nemmeno di coprirsi il volto. Non ha la forza di smettere. Ha perso tutto. Ha perso anche l’unica persona che aveva vicino in questo luogo abbandonato da Dio. Il sosia poggia la sua mano ironica sulla sua testa. Sente le sue dita fini impigliarsi fra le ciocche morte. È disgustoso. Un conato di vomito ferma per un secondo le sue lacrime. Le dita sottili fanno cerchi sul cranio lesionato “Perché piangi? Non volevi vendicarti di Prussia e vedere Liet?”
Sta’ zitto, bastardo!, urla la sua mente, senza però formare le parole. Vorrebbe che togliesse la mano dalla sua testa. La sua mano è morbida, ma in qualche modo nella sua testa è come se fosse scheletrica e raccapricciante. La mano si chiude sulle ciocche bionde e sporche, alza la testa di Polonia con un’incredibile forza. Polonia non riesce a guardarlo negli occhi e ha paura di farlo. Gli occhiacci di gatto sembrano scavati dentro ad un cranio bianco.
“Non mi dare del bastardo!” gli urla ad un palmo dall’orecchio. Questo diventa sordo per un attimo, scioccato che sia riuscito ad ascoltare i suoi pensieri. La presa alla testa si fa più prepotente. Polonia sente vero dolore, ma non pensa nemmeno di riuscire a fermare la mano che gli sta strattonando fili e fili di capelli “Sei tu il bastardo. T      u hai voluto tutto questo. Tu hai voluto fare l’idiota con Liet. Tu hai voluto vendicarti di Prussia, ammazzando altri del tuo popolo” Polonia sussulta per il dolore al cuore. Si vergogna delle sue lacrime. Sente le ginocchia penzolare dal terreno. È incredulo della forza del suo gemello “Non c’è spazio in Paradiso per bastardi come te” spalanca gli occhi, il sosia non ha cambiato espressione. È raccapricciante “L’hai voluto tu l’Inferno… e adesso ti ci anneghi, Polska”.
Il calcio allo stomaco è stato violento ed inaspettato. Polonia chiude gli occhi. Non vuole vedere più niente. Si sente scivolare e cadere. Da sotto le palpebre vede nero. Le lacrime sembrano staccarsi dalla sua pelle e volare lontano da lui.
 
“Non potresti comunque avere Lituania, Polonia. Tu non andrai nello stesso luogo dove andrà lui…”
 
Apre gli occhi di scatto. Il cuore spruzza di terrore. Vede un fitto cielo grigio. Vede la pioggia scendere dal cielo e cadere. Si sente umido e sporco. Guarda altrove, non ci riesce. Si rende conto di non riuscire a muovere il collo. Né le braccia, né le gambe. Il suo corpo è paralizzato. Il panico scivola dentro la sua spina dorsale. Non riesce nemmeno a tremare. La pioggia lo lava dal fango e dalle lacrime. Non sente nessun odore nell’aria. È intrappolato lì, sulla sua schiena. Sente dei passi. Il cuore sussulta e solo lui può sussultare veramente. Sente le suole pesanti calpestare il fango in cui si è immerso. L’ombra nera lo inghiotte, Polonia può solo guardare in alto. Impallidisce, urlerebbe se potrebbe.
“Bentornata, principessina!” gracchia Prussia, sorridente, coi denti che sporgono dietro alle labbra e l’aquila nera sulla spalla. Il pennuto lascia subito la spalla del comandante. Polonia ha la bocca paralizzata, come il resto di sé “Non sai che avventura che ho avuto per ritrovarti! Il Magnifico di solito non spreca tante energie per una sola persona. Dovresti ringraziarmi, sai?” Polonia non ride e nemmeno Prussia, che sembra capire che non riesca a muoversi. Gli occhi rossi si fanno seri, lo squadrano dagli stivali fino ai capelli. Polonia vorrebbe sprofondare nel terreno. Prussia sparisce dalla sua vista “Bene, principessina, andiamo nella nostra nuova casa” dice, senza un vero sentimento nella voce. Polonia non capisce, ma sente parte di sé sollevarsi. Vede di nuovo Prussia, curvo e di spalle, con i suoi piedi tra le mani. Lo sta trascinando per le gambe.
Le braccia, incontrollate, già incominciano a tendersi sopra la testa. Si lasciano trascinare anche i capelli. S’incastrano fra lerciume e ramoscelli. Prussia non dice una parola. L’aquila nera sembra sparita. La pioggerella sembra picchiettare più forte sul suo viso. Qualche goccia finisce tra le sue ciglia. Sono fredde, come un temporale autunnale. Gli occhi non riescono a concentrarsi su nulla, non c’è nulla da vedere. Il panico monta in gola a Polonia. Non sa cosa sta per succedergli. Prussia rallenta la camminata, in qualche modo sembra addolorato “Siamo arrivati”.
Polonia deve sforzarsi per vedere il cancello di ferro battuto. Sente un fulmine schizzare in lontananza, nei cieli. Non illumina la scritta bizzarra incisa lassù, ma riesce comunque a leggerla. Prussia non si ferma e non guarda in alto.
Arbeit Macht Frei. Il lavoro rende liberi.
Polonia immagina ghiaccio, un trono di stalattiti nordici, il signore infernale seduto sul trono coi traditori di Cesare e del Signore inchiodati ai lati dell’immenso e terribile paesaggio. Polonia immagina che il cancello sia rossastro e che citi qualcosa che lesse nei libri antichi di Italia. È all’Inferno.
 
 
 
 
 
“Cosa vuoi, Bielorussia?”
“…Come ‘cosa vuoi?’!? Te ne devi tornare a casa da mio fratello e subito”
“Tornerò a casa, dopo che sarò stato a Varsavia”
“Ho detto subito, coglione!”
 
“Sono felice di avere una compagnia così giovane sul mio carretto” esclama il vecchio, curvo, magro e rugoso. Ha qualcosa che l’ha inasprita sin dalla prima volta che l’ha visto. Ha quel qualcosa di felice e sereno che a Bielorussia dà sui nervi. Le regala molta più agitazione, anche senza guardarlo in faccia. Lituania sorride o finge di sorridere, non saprebbe dire. Alza di poco lo sguardo, e vede solo la curvatura delle guance. La infastidisce, riabbassa la testa.
“La ringrazio, anche se dovremmo ringraziare voi” la sua voce è dolce. Bielorussia pensa che sia fasulla, come qualsiasi cosa di questo nuovo lui. Involontariamente ringhia sotto i baffi. Detesta il vecchio, ma detesta anche Lituania che lo prende per i fondelli, solo per un passaggio.
“Figurati, ragazzo. È un piacere vedere un compaesano ritornare in patria” Bielorussia s’irrigidisce. Lo stomaco s’inclina in una piega disgustata. Che razza di schifoso insetto che è questo vecchio ingenuo, con la carrozzina che definisce carretta.
 
“Biela, ti devi calmare”
“Tu non mi dici quando devo calmarmi o no! Mio fratello sta per sbattere la testa contro il muro, solo per un bastardo ingrato come te che ad un certo punto della giornata alza il culo e se ne va di casa!”
“Non capisci niente, Biela”
“Io capisco benissimo, invece”
“No, non capisci. Secondo te perché avrei dovuto portarmi dietro i resti di Polonia, se avessi voluto scappare?”
“Ma… ma che ne so! Ti dico che devi venire con me e chiedere come minimo il perdono in ginocchio a mio fratello per quello che gli stai facendo!”
“Lo farò, Biela. Ti dico che tornerò a casa, ma fra pochi giorni. E ora abbassa quel coltello, sei ridicola”
“Me ne fotto, bastardo!”
 
“Come ti è parsa Vilnius dopo tanti anni? Hai detto che da quando eri un ragazzino che non la vedi” interrompe i suoi pensieri la voce racchia del vecchio. Sbatte le palpebre più volte. Lituania, di fronte a lei, seduto, ha ancora una gamba abbracciata al baule e l’altra che ondeggia per aria. Sbuffa, Lituania sembra indifferente a tutto. Le dà ancora più fastidio. Lui le dà fastidio, sin da quando la guerra si concluse. Ha quell’anormalità stampata ovunque sul suo corpo. Il piedi smette di fare il pendolo e si poggia a terra con la punta. La rabbia smette. Tira su un respiro profondo.
“Beh, è cambiata moltissimo” uno sbuffo di risata, stranamente adulto. Suo fratello talvolta sbuffa una risata simile a questa. Rimane ad ascoltare “Me l’aspettavo, insomma… dopo tanti anni è normale che la propria città cambi, soprattutto dopo la guerra, però… non mi aspettavo questo” piccola pausa. Fa un respiro profondo, la voce ora sembra meno falsa “Non c’è più la stessa atmosfera che si respirava quand’ero piccolo” Biela si spazientisce, quando sente l’ultima parola. È falso, come al solito “Ora sembra una qualsiasi città russa che io abbia visto in questi anni. Anche Vilnius sembra essere presa completamente dal comunismo”.
C’è silenzio. A Biela non piace molto, forse preferisce di più il chiacchierio antipatico di prima. Un’aria fredda congela la serenità. E’ appena stata pronunciata una triste verità. Alza lo sguardo. Vede la mano fasciata di Lituania e una goccia di rosso spuntare timidamente dalla benda. Gliel’ha dovuta fasciare lei, quella ferita. Contempla il basso, di nuovo. Guardare di nuovo gli occhi maledetti del ragazzo le risulta insopportabile.
“Sì, è vero, ora siamo molto più simili ai russi, ai lettoni o ai bielorussi” sobbalza sentendo il nome del suo popolo. Il vecchio continua a guidare la carrozzina e i due cavalli con le stringhe “Con le relazioni negative che abbiamo con gli Stati Uniti di sicuro ci siamo chiusi molto in noi stessi” Lituania abbassa lo sguardo sulla sua benda. Vede il rosso e pensa che debba cambiarla. E che dovrà farlo Biela “Ma in fin dei conti non si sta così male” lui alza lo sguardo, lei lo riabbassa. Non lo ascolta quasi più “Mio nonno coltivava la terra come me e che io ricordassi non ha mai imparato a scrivere, se non il suo nome. Ogni cosa costava cara e i suoi padroni gli davano del denaro giusto per dare da mangiare a lui, a mio padre e a me. Questo carretto è suo, lo tengo più per ricordo che per altro. E’ vero che i russi ne hanno fatte di tutti i colori alla Lituania, ma ora posso fare più o meno tutto ciò che voglio e che mio nonno non credeva di poter mai fare” sospira, sembra pensarci molto, forse col suo solito sorriso che a Biela irrita tanto “Ad esempio posso mandare i miei figli a scuola senza dover pagare nemmeno un libro, oppure ora sono riuscito a guarire dal mio problema al fegato senza sborsare un centesimo” alza la mano e si gratta la schiena “I tedeschi, venendo qui per invaderci, dicevano che quaggiù non ci fosse la libertà e che morivamo tutti di fame. Beh, io ora ho la pancia piena ed è vero che non ci sia tanta liberta, ma immagino che non esista nemmeno da loro. Col loro capitalismo, se non hai del denaro, ti lasciano morire di fame per strada. Qui basta solo saper fare il mestiere che si desidera e tutto si risolve” si volta verso Lituania. Biela guarda solo il vecchio, sorridente come al solito. Non le dà tanto peso ora, questo suo sorriso sciocco “Hai ragione, siamo diventati un pezzetto di Russia, ma credo che anche dall’altra parte della barricata stiano diventando tutti americani” Lituania sembra pensarci su. Lo vede annuire leggermente. Ha una voce diversa.
“Sì, forse ha ragione”
 
“Tu fai soffrire mio fratello tutti i giorni! Perché dovrei crederti?”
“Biela, a me non importa che tu mi creda. Voglio solo portare a casa Polska. Nulla di più”
“Non ti credo. Te ne vuoi scappare, così come hai fatto anni prima, quando te ne sei andato a leccare il culo ad America!”
“Biela, mi conosci da secoli. Sei stata nella nostra casa anche prima di entrare nell’Unione Sovietica. Tu dormivi nella stanza accanto alle nostre, quando non esistevano ancora i fucili e i carri armati”
“E questo che cazzo c’entra?”
“Ti ho mai mentito, Biela?”
 
“Ah, siamo arrivati!” la carretta si ferma, i due cavalli nitriscono per la frenata. Alza finalmente lo sguardo. Vede la fine del bosco e lontano da loro solo giallo e verde di colline e campi di grano “Vi devo lasciare qui. Devo consegnare gli ortaggi a sud” Lituania ha la stessa voce diversa che non sente da anni.
“Non sappiamo come ringraziarvi” Biela scende di corsa. Non vedeva l’ora. Si aggiusta la gonna e il cappotto. Lancia un altro sguardo al nulla di fronte a loro. C’è un cartello e leggerlo le fa male al cuore. Lituania scende anche lui, col baule sotto braccio, come se non pesasse nemmeno un grammo.
“Figurati, compaesano. Buona fortuna in Polonia!” e parte, con la carrozzina ingombrante e cadente. Biela sbuffa, non lo guarda nemmeno più. Inizia a camminare. Lituania la segue. Legge anche lui il cartello. Sente il suo respiro profondo dietro le sue spalle. Sembra più umano di quel che immaginasse. È strano, ma sollevante. Significa che è più debole e che tentennerebbe di farle del male, se solo lo pensasse.
 
“Senti, questo è il piano: noi ora andiamo a Varsavia, lasciamo lì il corpo e poi torniamo a casa dal fratellone, che riapra gli occhi o no non m’importa”
“Va bene, Biela. Credimi, aprirà gli occhi”
“Non ci credo per niente in questa storia… ma credo che portare a casa questo morto farebbe veramente pena…”
“Grazie, Biela…”
 
Guardano entrambi il cartello e entrambi sanno che tutto questo sta per finire.
Warszawa


  
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