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Autore: Koa__    31/05/2017    8 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Essere un pirata

 



Dopo due settimane di navigazione nel mare delle Indie Occidentali, i pirati de la Norbury erano giunti in prossimità dell’isola del tesoro. Stando ai calcoli di Mastro Stamford, salvo imprevisti, non dovevano mancare più di un paio di giornate di viaggio. Ancora poco e la vedetta in cima all’albero maestro avrebbe annunciato che c’era terra all’orizzonte. Osservando con attenzione le precise operazioni portate avanti dalla ciurma, John riusciva a leggere persino in loro una certa vivacità. Dopo tanto tempo di mare aperto, di canti la sera attorno a una bottiglia di rum con un mazzo di carte e qualche novella su tempeste e sirene a rinfrancar lo spirito, giorno dopo giorno, il loro entusiasmo era cresciuto. Tanta era l’allegria, che la prospettiva di un tesoro aveva acceso persino lo sguardo dello burbero Angelo mentre gli ufficiali come Lestrade o Stamford si mostravano cautamente curiosi di capire come sarebbe andata a finire. Persino Sherlock era relativamente ottimista circa la buona riuscita della missione, da più di una settimana andava blaterando di dover far spazio nella stiva e di doversi agghindare per bene per l’approdo. Non lo credeva vanitoso, eppure aveva già sfoderato un armamentario di anelli e collane da far invidia a una dama. Era talmente ansioso di arrivare sull’isola che fremeva come se fosse colto da isteria. Non che fosse inusuale vederlo irrequieto, anzi, in quegli ultimi giorni, John aveva imparato che il termine “sciagura” affibbiato a capitan Holmes aveva una qual certa ragione d’esistere, il che non c’entrava necessariamente con la cattiveria e la brutalità piratesca. Sherlock era forse l’animo più insofferente e facilmente suscettibile alla noia, che il buon Dio avesse partorito su tutta la terra. Tuttavia era quasi certo che ci fosse dell’altro e che una più specifica ragione si celasse dietro al mutismo nel quale cadeva di tanto in tanto, o che l’evitare d’affrontare un qualsiasi discorso nascesse da un qualcosa di serio. Sebbene ne fosse vagamente curioso aveva evitato d’insistere, in fondo si conoscevano da così poco. Però vi aveva rimuginato, probabilmente in maniera eccessiva, ma lo aveva fatto e come se ciò non fosse bastato, a preoccuparlo c’era anche il futuro. Quello stesso futuro al quale per mesi, ad Antigua, mai aveva pensato ma che adesso di più temeva. Nonostante la prospettiva di una cassa piena di dobloni e pietre preziose fosse decisamente allettante, erano giorni che una sorta di inquietudine serpeggiava dentro. Sentiva come un peso allo stomaco che di tanto in tanto gli adombrava i pensieri e che gli faceva volar via lo sguardo. Non era solo il timore di non trovar nulla sull’isola, ma più che altro quello che ne sarebbe stato della sua vita a bordo. Una volta trovato l’oro, che fine avrebbe fatto John Watson? A questo proposito, Sherlock era stato sufficientemente chiaro: non poteva rimanere ad Antigua per via del suo coinvolgimento con dei pirati (coinvolgimento che Moriarty non poteva ormai più ignorare), ma tornando in Inghilterra sarebbe stato al sicuro da accuse di quel genere, protetto dal casato di suo cognato. Il da lui detestato Lord Crockwell, Pari del Regno e via dicendo, sarebbe potuto finalmente tornar utile in qualche cosa. Nonostante ciò, l’idea di andare a casa non era poi così affascinante. Specialmente dopo quanto accaduto tra lui e il capitano, e proprio questo era motivo di ulteriore angoscia. Si poteva dire che, dopo due settimane di baci appassionati e nottate trascorse a parlare di qualsiasi argomento passasse loro per la mente, dopo giornate intere trascorse a sentirlo suonare o semplicemente spendendo del tempo per osservarlo, John non avesse la minima idea di che cosa stessero effettivamente facendo. Lo amava, amava Sherlock ed era un concetto ormai sufficientemente assodato. Lo aveva ammesso a se stesso ormai con una discreta serenità. Per quella che era stata la sua vita sino ad allora, aveva deciso che avrebbe smesso di castrare i propri sentimenti e che avrebbe affrontato quel che provava a testa alta. Amava Sherlock, dunque. Così come adorava il fatto di essere accettato da Victor e che questi addirittura lasciasse loro del tempo da trascorrere assieme, sacrificando il proprio. E proprio quel prezioso tempo, John amava passarlo con Sherlock. Lo amava davvero. Era una gioia il sentirlo raccontare delle avventure passate o anche solo nominare quel certo Mycroft, odiato fratello o Eurus, la prodigiosa sorellina dal buffo nome ma straordinaria qualsiasi cosa facesse. John amava Sherlock e a tal punto che quasi adorava il raccontargli della guerra civile e di come il ricordo dei compagni caduti lo avesse a lungo tenuto sveglio. Mai con nessuno aveva parlato dei campi di battaglia o dell’impotenza provata nel veder la gente morire e non poter fare nulla per evitarlo. Neanche con vecchi compagni d’arme si era aperto tanto, né tantomeno con Harrieth, la quale si era comunque sempre mostrata disinteressata. Secondo lei avrebbe dovuto semplicemente non pensare più a quelle brutte cose e farsi una vita, come se sposarsi potesse cancellare per sempre certi tristi ricordi o la morte di un amico valesse tanto quanto la fiamma d’una candela. No, John non sarebbe mai riuscito a eliminare i brutti sogni dalla propria vita o ricordi dello sciabordio delle spade e dei colpi di cannone che gli riverberavano nelle orecchie, eppure con Sherlock era così facile parlarne! Lui, al contrario di Harry, era diverso. Anzitutto possedeva una smisurata curiosità che lo spingeva a fargli domande in continuazione, oltre che a osservarlo. Spesso, infatti, il capitano studiava il viso di John come se esso celasse chissà quali segreti. Ovunque si voltasse e dovunque si trovasse, John Watson sapeva di avere costantemente gli occhi di capitan Holmes su di sé ed era una sensazione così nuova e piacevole, che delle volte stentava a rendersene conto. Ciononostante, ancora non era accaduto poi molto fra loro. A parte un qualche bacio e un paio di carezze un po’ più spinte, non si erano buttati in nulla di più approfondito. C’era sì una certa consapevolezza in entrambi, però, oltre alla sempre più concreta sensazione che quell’amore stesse diventando sempre un po’ più solido. Ma parlare dei propri sentimenti era cosa difficile, John non aveva ancora trovato il coraggio di spingersi oltre o di dirgli che lo amava appassionatamente. Sebbene Victor non facesse altro che spingerlo verso il grande passo (tanto per dire, poco ci mancava che li chiudesse in cabina e gettasse via la chiave) sia lui che Sherlock ancora evitavano di lasciarsi andare. Certamente aveva qualche grattacapo e non tanto dovuto al fatto che nutrisse del pudore nei confronti dell’intimità, più che altro riguardava il suo ruolo a bordo e quella relazione, segreta a tutti (o quasi) che poteva seriamente metterli in pericolo. Malgrado il buon animo di Victor e ciò che univa uno all’altro, il loro amarsi doveva restar segreto. Come avrebbero reagito gli altri pirati se avessero saputo che il loro capitano intesseva una relazione con un altro uomo? Avrebbero potuto ammutinarsi, uccidere lui e Sherlock e gettarli in pasto ai pesci. Oddio, la prospettiva era terrificante, pensò sussultando vistosamente. Ma se fosse rimasto, che avrebbe fatto su la Norbury? Non aveva idea di come si facesse a fare il marinaio, né possedeva esperienza di quel mestiere e John non era stato abituato a starsene con le mani in mano. Avrebbe potuto imparare a spiegare le vele o anche solo a comprendere quella terminologia?

«Quali profondi pensieri crucciano lo sguardo del dottor Watson?» Fu con voce leggera e forse anche tono vagamente divertito, che Mike Stamford ruppe il fruire di quei ragionamenti. Ricordandosi che era pieno pomeriggio e stava sul ponte principale in compagnia di Redbeard, il quale se ne stava accucciato al suo fianco, John si ridestò prepotentemente. L’equipaggio cantava, notò guardandosi attorno e intonavano di un’isola d’oro e viaggi meravigliosi: “There's a path through the sea for a lass like me, and it leads to a golden isle. And we'll dance and we'll slay and we'll slice our way, through the tale of a thousand trials”. * Sull’isola ha fine il nostro viaggio, dicevano in un canto melodioso e uniti da ritmo. E nel mentre, come spesso facevano, si inerpicavano su per alberi e vele, intenti a calar cime e a far nodi. A John piaceva guardarli lavorare, gli dava un certo senso di pace che mai era riuscito a trovare altrove e che stranamente vedeva in un gruppo di canaglie. La comunione che quegli uomini avevano era incredibile. Il fidarsi ciecamente uno dell’altro e il mettere la propria vita nelle mani altrui e farlo senza batter ciglio, era quanto di più stupefacente avesse mai visto. Quelle erano persone straordinarie, si convinse John al quale, oramai, poco importava di trovarsi tra bucanieri. Oh, se soltanto il se stesso di qualche settimana prima avesse potuto guardare quel futuro e vedersi accarezzare le orecchie di un cane e amare il pirata bianco al calar della notte.
«Stiamo per arrivare sull’isola» esordì dopo un qualche attimo di pacifico silenzio e volgendo il viso oltre la linea del cassero, al di là della balaustra sino al mare aperto.
«E saremo tutti più ricchi grazie a te» li interruppe Lestrade, facendosi più vicino e anch’egli abbassandosi appena per poter accarezzare le orecchie a Redbeard, il quale aveva chiuso gli occhi e adesso si spingeva contro la mano di Greg.
«No, è che mi chiedevo cosa farò una volta trovato il tesoro.»
«Lo sai che il capitano ti ha invitato a restare» gli fece presente Mike, con fare gentile e sorriso bonario. «E che i ragazzi sono ormai ben disposti nei tuoi confronti. Per loro sei già il “Doc” ovvero l’uomo che ha salvato il capitano e che salverebbe anche loro senza indugio.»
«Sì e ne sono davvero felice e, credimi, mai me lo sarei aspettato ma è proprio questo il punto. In queste due settimane non ho fatto poi molto a bordo. Ho solo il timore di essere un peso per voi e che non riuscirò a rendermi utile. Sì, ho fatto qualche visita, ma non mi pare sufficiente a ripagarvi per l’ospitalità.»
«Ah, amico» mormorò Greg, con fare sconsolato e concedendogli una sonora manata sulla spalla. «Credi che fino a qualche anno fa io ne sapessi qualcosa di navi o di come si porta un galeone? E guardami, ora sono nostromo. Se vorrai sapere qualcosa la imparerai, come ho fatto io. Il nostro quartiermastro è il miglior insegnate che tu possa mai sperare di avere. Lui ha studiato gli astri nel cielo, le carte geografiche, le scienze e le cose dell’uomo e della terra. Ma poi tu non dovresti essere da meno, sei pur sempre un medico.» John annuì vistosamente in parte rinfrancato da quel sorriso gentile e dalle maniere pacate, non era altrettanto ottimista ma non si poteva negare che aveva fatto molti studi e che ne sapeva forse più lui di tutti quanti gli uomini della ciurma. Pensò che Lestrade fosse un brav’uomo e lo considerava un vero amico, un qualcuno con il quale svagarsi e chiacchierare. Gli era capitato spesso di cenare al suo fianco o di accettare un po’ di rum, la sera, prima di ritirarsi in cabina (o nella cabina del capitano, ma questi erano dettagli). Non gli aveva detto ancora nulla di lui e Sherlock, ma tra tutti era certo fosse uno dei pochi che sarebbe stato in grado di capire quell’amore così troppo diverso dal normale. Chissà poi quante ne aveva passate prima di giungere su la Norbury, probabilmente tante che nemmeno avrebbe dato peso a due uomini a letto insieme. Anche se, a dire il vero, di nulla era sicuro. Ne sapeva ancora poco della vita passata Lestrade, gli aveva fatto un’ottima impressione fin dal primo momento, ma questo forse poteva dirsi sufficiente? John ricordava le parole di Victor e il fatto che Greg fosse stato mandato da Mycroft, il fratello di Sherlock. Tuttavia,  il prete si era limitato a gettare il sasso senza prendersi la briga di spiegargli com’erano andate esattamente le cose, imprecisione che aveva lasciato John con l’amaro in bocca. Considerato che Victor era sempre restio a parlare del passato e che non era ancora in stretta confidenza con Lestrade, dunque, per giorni aveva evitato d’indagare oltre. E ora si ritrovava lì, in bilico tra l’azzardare o meno quella determinata domanda e roso dai tarli della propria insicurezza.
«Lo sai?» se ne uscì il nostromo de la Norbury un qualche attimo dopo, spezzando quei pensieri col suo largo e generoso sorriso «che fino a qualche anno fa ero a servizio della New Model Army?» **
«Davvero? Non ne avevo idea.»
«Avevo raggiunto il grado di tenente.»
«Oh» annuì incuriosito, anche se ora lievemente distratto dal coccoloso Redbeard che reclamava attenzioni «è per questo che ogni tanto ti chiamano tenente. Adesso è tutto più chiaro, ma scusa, qui come ci sei finito?»
«Per via di Mycroft Holmes» rispose Greg con convinzione. Aveva indugiato. John non ne era sicuro, ma gli era parso di aver notato un tremito appena dopo aver pronunciato quel nome. Antichi e dolosi ricordi stavano tornando a galla, ombreggiandogli il viso di tristezza. Quel sorriso, sempre caldo e rassicurante, era adesso sparito e un ghigno corrucciato gli deformava i tratti del volto. Fu quasi tentato di rassicurarlo e dirgli che non era obbligato a parlare se non lo desiderava. Tuttavia, subito quel velo di malinconia subito scomparve per far posto a un ennesimo sorriso. Forse più forzato, ma di certo contagioso e vitale.
«Vedi» riprese «il fratello di Sherlock è consigliere reale, ha un enorme potere e tanto che già anni fa teneva in mano le sorti del Regno d’Inghilterra. Ero a Londra quando fui introdotto alla sua presenza e a quella di Sua Maestà la Regina, in un incontro che loro definirono “confidenziale”, il che voleva dire segreto, ovviamente. Rimasi di sasso quando mi disse che aveva formalizzato il mio congedo nell’esercito perché voleva che facessi un lavoro per suo conto. Mi diede una lettera e del denaro, tanto denaro che mi sarebbe bastato per una vita e assieme a esso un incarico. Suo fratello minore era fuggito il giorno prima del matrimonio e aveva lasciato la città con Victor Trevor, un prete cattolico che aveva abbandonato il convento e la castità che, a detta della Regina, era già sulla via della scomunica papale. Disse che Sherlock aveva tradito la famiglia, dato un dolore a “maman”, eccetera, eccetera… Non mi diede altre informazioni, ma unicamente lo stretto necessario per poterlo riconoscere e mi fu chiaro che alle mie domande non avrebbe risposto.»
«Cosa voleva da te? Che lo riportassi indietro?»
«Lo credetti anch’io» mormorò Greg con convinzione «ma poi mi resi conto che Mycroft si era arreso alla prospettiva di avere il fratello a fianco per il resto della vita. Secondo lui, Londra era un luogo pericoloso per una mente come quella di Sherlock Holmes e che la sua strafottenza nei confronti delle autorità e la scarsa indole ad adeguarsi ai costumi sociali, lo avrebbero portato a morte certa. Mi implorò di trovarlo e proteggerlo, e ne rimasi colpito. Certo non lo conoscevo, ma Mycroft Holmes non dava di sé l’impressione di chi è abituato a pregare. Ad ogni modo identificai quello sciamannato di Victor a Parigi, grazie a un ritratto che mi portavo dietro da mesi, e una volta convinto lui…  Beh, il resto lo puoi anche immaginare. Naturalmente, Sherlock era furioso di avere lo “scendiletto di quel grassone tra i piedi”, poi però capì che potevo tornargli utile per tener fede al proprio progetto di fuga.»
«Progetto di fuga?» domandò John.
«Rubare un galeone spagnolo, lasciare l’Europa e diventare un pirata. C’è riuscito non credi?» concluse, lasciandosi andare a una leggera risata prima di voltare di scatto lo sguardo, cambiare repentinamente espressione e mettersi a gridare contro un non precisato qualcuno della ciurma.

Lestrade smise di raccontare allora, scusandosi per la brusca interruzione e correndo via e mentre John lo osservava impartire ordini come un cane rabbioso, cominciò a pensare a quanto quell’uomo avesse sacrificato per poter stare lì. Chiaramente non gli era stata concessa l’opportunità di una scelta, un soldato in congedo non serviva a nulla ed era completamente inutile e Mycroft doveva saperlo. Eppure, Greg non si era lasciato abbattere. Chissà chi aveva ancora oggi in Inghilterra e quali notizie erano state date alla sua famiglia, sempre se glien’era rimasta una. Aveva un amore, a Londra? Una donna o una moglie? A giudicare dalle ombre sul suo viso, doveva esser stato un qualcuno di importante, pensò. Però adesso eccolo, a tener fede all’uomo a cui aveva dato più di quanto chiunque sarebbe mai stato disposto a poter dare. Forse, John cominciava a comprendere che cosa volesse dire essere un pirata a servizio di capitan Holmes e come mai i primi giorni era rimasto tanto sorpreso dalla fiducia e dall’affetto sproporzionato che lo stesso Lestrade non aveva nascosto d’avere. “Tutti noi amiamo Sherlock”, così gli avevano detto e no, probabilmente non aveva capito davvero. Soltanto adesso riusciva a vedere in maniera nitida l’affetto sconfinato e quella vita condivisa e vissuta braccio a braccio; già ne faceva parte, si disse convincendosi ma subito adombrandosi alla stessa rapidità con cui aveva sorriso. Se avesse confessato a Sherlock di amarlo cosa sarebbe potuto accadere fra loro? Lo adorava certo, ma era sempre così mutevole, aveva fin troppe facce e al punto che i suoi reali sentimenti sfuggivano alla comprensione altrui. L’uomo timido, ritroso e dolce che la notte si lasciava baciare e toccare in cabina, ai propri pirati si mostrava come duro e sfacciato. L’imperturbabile pirata bianco, era. Le volte in cui era sul ponte o in compagnia dei propri ufficiali sembrava che nulla potesse scalfirlo, nemmeno James Moriarty con la sua flotta e le sue navi sarebbe mai riuscito anche solo a preoccuparlo. Quale lato di Sherlock preferiva la compagnia di John Watson? Si domandò stupidamente, dominato al contempo da un’irrazionale gelosia scaturita da chissà cosa. C’era una qualche differenza? O ciò che faceva vedere ai pirati era niente se non una maschera? Una maniera come un’altra per sopravvivere? O magari Sherlock aveva davvero facce differenti, in fondo gli aveva visto lo sguardo scintillare d’eccitazione mentre venivano inseguiti da un pericoloso nemico, non stentava a credere che un lato di lui fosse attirato dal pericolo. Sì, pensò infine, avrebbe dovuto dirgli che lo amava.

Fu allora che smise di indugiare su certi pensieri e accadde quando la porta che conduceva ai piani inferiori sbatté con violenza facendo sussultare molti di loro, evidentemente non abituati a fatti del genere. Poco dopo, la voce di Victor, carica di furia e rabbia, attirò le sue attenzioni. John si ritrovò a voltare lo sguardo e, sempre con Redbeard a fianco, a spiare giù dalla balaustra con una certa curiosità mista a timore. Sherlock ne era uscito con passo svelto e grazie a poche falcate aveva raggiunto il timone e Mastro Stamford, senza degnare nessuno di uno sguardo. Era turbato, lo erano entrambi ma se da Victor si aspettava questo e altro, era assai raro vedere il capitano agitato per qualcosa. Nonostante evitasse insistentemente il suo sguardo e non lo avesse degnato di una sola parola, gli fu sufficiente notare la postura eccessivamente rigida, come una compensazione fisica a un tentennamento di carattere emotivo, per comprendere il suo stato d’animo. Oltre a quello, a colpire il buon dottore fu lo sguardo freddo e distaccato e grazie al quale capì che non avrebbe ricevuto spiegazioni, non in quel momento.
«Non credere che piangerò per te, dannato bastardo» gridò Victor, rompendo il canto dei marinai e tirandosi addosso gli sguardi di tutti. La ciurma, ora silente, se ne stava attonita. Quasi fosse un essere con un solo cervello e univoci pensieri e sentimenti, lasciava ritmicamente vagare lo sguardo dal prete al capitano, forse in attesa di una reazione o magari sperando in essa. Reazione che non arrivò, dato che Sherlock se ne stava stoicamente voltato e come un bambino che fa i capricci, non aveva intenzione di cedere al proprio sciocco stoicismo. Quella non era la maniera migliore per fare pace, pensò scrollando la testa.
«Sei un idiota» esplose Victor, prima di fuggire ai piani inferiori. John stava quasi per sorridere e non che fosse divertito dall’insulto in sé, più che altro perché “dannato idiota” era ciò che di Sherlock pensava più spesso. Era un idiota, sì, ma era il suo idiota e il più delle volte non ci credeva nemmeno troppo, più semplicemente lo appellava a quel modo come fosse un vezzeggiativo. Quello, però, non sembrava un nomignolo e non aveva idea del motivo per cui Victor fosse così furioso, ma Sherlock era un uomo insopportabile il più delle volte, con un carattere bizzoso e allo stesso tempo era praticamente impossibile decifrare quali fossero i suoi pensieri. Persino padre Trevor, che a bordo era colui il quale lo conosceva meglio di tutti, aveva qualche problema nell’averci a che fare. Perciò John stava per scoppiare ridere, considerando quell’episodio come frutto dell’ennesima stranezza, quando inaspettatamente questi si voltò. Accadde poco prima che scendesse di sotto e fu solo per un attimo, breve ma intenso. Si guardarono negli occhi per un frangente lungo tanto da permetterli di vederlo. Sì, Victor Trevor stava piangendo. Piangendo davvero. Aveva occhi gonfi e rossi, guance rigate di lacrime e un’espressione sconvolta. A John, seppur senza conoscerne le ragioni, mancò il fiato.

 

 

oOoOo


 

Seriamente parlando, John avrebbe dovuto prender da parte il proprio istinto e parlarci con sincerità perché fino a quel momento gli aveva fatto compiere scelte sconsiderate e pericolose. Appena dopo aver visto Victor andarsene dal ponte, infatti, l’idea che gli balenò per la mente fu quella di seguirlo. La parte più razionale del suo animo ebbe ovviamente da ridire, innanzitutto sarebbe stata una pessima scelta d’intenti. Ma davvero brutta. Sherlock si sarebbe potuto anche infuriare e poi erano faccende loro e che certamente non lo riguardavano, lui che c’entrava? D’altro canto, però, sapeva quanto fosse complicato avere a che fare con Sherlock e sottostare ai cambi repentini di umore dati alla noia, sua nemica mortale probabilmente tanto pericolosa quanto Moriarty stesso, non era mai semplice. Qualsiasi cosa lo avesse fatto arrabbiare, Victor non doveva avere poi così torto. Forse aveva bisogno di un amico con cui sfogarsi e parlare, e quell’amico chi altri poteva essere se non dolcezza Watson? L’istinto, di nuovo quel bastardo, lo portò nel giro di pochi attimi a fischiare a Redbeard e ordinargli di seguirlo mentre scendeva dal cassero con agile velocità. L’ultima occhiata che concesse prima di lasciare il ponte, fu proprio rivolta al capitano. Sherlock lo stava guardando adesso, con viva passione e bruciante gelosia mascherata dietro a un velo di freddezza. Quasi fu tentato di tornare indietro e parlare prima con lui, ma appena i loro sguardi s’incrociarono, il capitano subito si voltò dandogli le spalle. Perfetto, adesso persino loro avrebbero avuto di cui discutere. Ciononostante sapeva che quello non era il luogo ideale per palare apertamente, quindi scelse per la via più sensata. Preso un bel respiro, seguì il cane giù ai piani inferiori.

Naturalmente e dato che padre Trevor non aveva pudore alcuno, invece che andare nella propria stanza, si era rintanato in quella di John. La stessa cabina che Victor e Sherlock frequentavano come fosse la propria e dalla quale entravano e uscivano senza domandare il permesso, come se gli spazi personali e l’intimità non esistessero affatto e non avessero alcuna importanza. Pareva che per loro fosse assolutamente normale il prender possesso delle cose altrui senza battere ciglio e che non ci fosse un reale confine tra dove finisse uno e iniziasse l’altro. Aveva addirittura il sentore che se avesse sposato Sherlock, avrebbe di conseguenza sposato un po’ anche Victor. Non che questo fosse possibile, comunque. Ad ogni modo, a quell’ora del pomeriggio la camera di John, quella in perfetto ordine militare, era rivolta sul fianco destro della nave il che la rendeva praticamente una fornace.  *** Eppure nessuno pareva curarsene e se il prete se ne stava col volto affondato tra i cuscini e sotto le coperte come se fossero ai poli invece che ai Caraibi, Redbeard non pareva patire eccessivamente il caldo e già si era accucciato ai piedi del letto, aveva affondato il muso tra le zampe e ora sonnecchiava pacifico. Incuriosito dal silenzio eccessivo e dal fatto che Victor ancora non avesse fiatato, riportò fugacemente lo sguardo al suo ingombrante ospite. Di tanto in tanto sobbalzava e tremava, probabilmente stava ancora piangendo ma per quanto John desiderasse lenire quell’inaspettato dolore, non aveva trovato il coraggio di entrare in cabina. Non era solo il pianto di Victor, a frenarlo, ma la consapevolezza istintiva che stesse per succedere un qualcosa di terribile. Se lo sentiva nello stomaco, era un’impressione che gli scorreva sotto pelle e che non era ben definita, ma che spuntava anche dalle maniere di comportarsi che Sherlock aveva di recente. Era certo che il capitano stesse progettando un piano e che questo fosse sconsiderato e pericoloso. Per quale ragione e di che cosa trattasse questo nello specifico, tuttavia, non lo sapeva.
«Ce ne hai messo per arrivare, dolcezza» blaterò, mentre si levava a sedere e si asciugava le lacrime con la manica della camicia. Ancora fermo sulla soglia e con un passo nel più fresco corridoio, John lo osservava e nel mentre cercava di comprendere quale fosse la maniera migliore per averci a che fare. Un approccio diretto? Uno più sottile? Victor era un terremoto di sentimenti e aveva la sensibilità più spiccata e al tempo stesso nascosta che si fosse mai vista in qualcuno, come poteva esserci un modo migliore e uno peggiore di affrontarlo? Probabilmente avrebbe dovuto essere semplicemente se stesso.
«Non ti preoccupare, Vic, io aspetterò e se non me lo vorrai dire ti offrirò una spalla su cui piangere. Ma non giudicherò te o Sherlock, di questo puoi esserne certo.» Aveva parlato senza mai guardarlo direttamente negli occhi e stando appena un poco impettito e rigido, come un soldato pronto a ricevere ordini e che si mette sull’attenti. Neanche ci aveva riflettuto troppo e aveva soltanto parlato, facendosi trasportare dalle emozioni e ben deciso a fare il proprio dovere di… intermediario? Di uomo nel mezzo? Non lo sapeva davvero e oltretutto quello strano triangolo che lui, Sherlock e Victor formavano conteneva così tanti sentimenti inespressi che avrebbero potuto esplodere da un momento all’altro tutti e tre loro, trascinandosi gli altri due appresso. A sorprenderlo, mentre ancora rimaneva immobile e con lo sguardo puntato a terra, fu la risata di Victor. Non strafottente e beffarda, ma dolce e sincera. Victor che sembrava un bambino quando rideva, a cui s’illuminavano gli occhi e che diventava tutta un’altra persona, un qualcuno di totalmente privo di inutili fronzoli e di maschere da buffone di corte. Victor, che era più bello quando rideva, forse perché sembrava meno gravato da ombre e tormenti.
«Beh, John Watson, sei proprio un bel soldatino.»
«Non dire sciocchezze» borbottò, arrossendo appena, ma pur sempre restando fermo dove ancora stava e non azzardandosi a mettere un piede in avanti.
«Vieni qui, dai, accanto a me» lo invitò, tirandosi più da una parte e facendo spazio sopra le coperte. In risposta, John rimase zitto e limitandosi a inarcare il sopracciglio ma prendendosi la briga di tentar di capire. Padre Trevor era un mistero e lo era in quel momento più che mai. C’era un qualcosa che lo angosciava, anche ora che il suo animo si era alleggerito e che sorrideva con più frequenza, era piuttosto evidente che non gli era passata del tutto e che un qualcosa lo addolorasse.
«Non mi vuoi mettere le mani addosso, vero?» mormorò, facendo scoppiare Victor in una fragorosa e sincera risata che esplose portando il sorriso anche sul viso di John.
«Oh, mia piccola e ingenua dolcezza, certo che sì!» concluse, ammiccando malizioso.
«Che cosa?» pigolò invece lui, tirandosi indietro mentre questi rideva ancor più forte e lasciandosi addirittura scivolare indietro. Lo stava prendendo in giro come al solito e lui si lasciava fregare tutte le sante volte, dannato.
«Dannatissimo…» John s’interruppe allora, nell’esatto istante in cui aveva sentito la risata di Victor spegnersi d’improvviso, un velo di consapevolezza gli aveva di nuovo catturato i tratti del viso. E lui l’aveva vista, così come aveva notato la profondità dei pensieri che faceva e che si intuivano dal suo star fissando il pavimento e dal tremare leggero delle mani, che strinse in due pugni fermi. Vibrò vistosamente e poi si mise diritto e si massaggiò la vista. Soltanto dopo riprese a parlare.
«Giuro solennemente che non ti toccherei mai con un dito, ho davvero buone intenzioni. Anche perché a me piacciono le donne, tesoro caro, quando diavolo lo capirai?» esplose con una certa irritazione, ma pur ancora divertito. «No, seriamente, c’è una cosa di cui ti devo parlare ed è una faccenda grave.»
«Riguarda lui, vero?» annuì, avvicinandosi e lasciandosi cadere sul letto prima che Victor intrecciasse una mano con la sua, forse in un tentativo di lenire il dolore o di aggrapparsi a qualcuno.
«So che ti ha parlato del traditore» esordì a voce traballante e arrochita, prima di prendere un lungo respiro «e che ti ha mostrato di chi si tratta. Sappi che sono mesi che muoio dalla voglia mettere le mani al collo di quel bastardo.»
«Da quanto tempo lo sapete?»
«Lo scoprì l’anno scorso, lo riferì soltanto a me e a quella bellezza di tenente là di sopra e a nessun altro. Ci disse che non lo avrebbe smascherato e che quella era l’occasione migliore per finirla con Moriarty una volta per tutte. Sherlock… lui aveva un piano. Due settimane fa, ad Antigua, era tutta una sceneggiata. Una finta per far innervosire Jim e fargli capire che il pirata bianco fa quel che vuole e come lo vuole e che nemmeno la morte lo può fermare. Solo in pochi sapevano che la reale intenzione fosse provocare l’esercito e Moriarty stesso.»
«Che cosa avete fatto?» domandò John, sorridendo.
«Una sera saltò su sul cassero e fece un discorso alla ciurma. Disse loro che avrebbe tentato di impadronirsi di alcuni documenti di Moriarty che dimostravano affari illeciti con gli spagnoli, approfittando del fatto che questi stava in Giamaica a servizio dell’ammiraglio Penn. Sapevamo esattamente che cosa avrebbe fatto il traditore, che infatti avvertì Moriarty e fece scoprire Sherlock. Il resto era tutto pianificato, il cappio lento, un trucco che avevamo imparato in Francia, la fuga… tutto programmato. Certo non avevamo considerato che un certo dottore dagli occhi dolci spuntasse dal nulla.» ****
«Il confronto avverrà sull’isola, non è vero?» gli domandò con una certa apprensione e quasi sapendo quale fosse la risposta.
«Sì e sarà pericoloso, Moriarty non avrà scrupoli. John, te lo chiedo come fosse una preghiera. Aiutami a proteggerlo perché Sherlock farà di tutto per liberarsi di lui e temo il peggio e lo amo davvero. E già lo so, insisterà perché io rimanga a bordo e perché non mi accada niente. Lui è molto protettivo con chi ama, quasi troppo direi. Mi aiuterai?»

No a quello, John non rispose. Si limitò a lasciarsi cadere contro la parete, ritrovandosi a stringere la mano di Victor con maggior vigore pur senza parlare. Un muto assenso, era quello. Una tacita e leale promessa. Aveva paura, ammise. Per se stesso, per l’equipaggio, per tutti quanti loro. Temeva che Sherlock facesse qualcosa di sconsiderato e che, nel suo volerli tenerli al sicuro, si buttasse in un qualcosa di rischioso. Avrebbe protetto Sherlock? Sarebbe stato in grado di essere un pirata a servizio di capitan Holmes? Un vero pirata? Avrebbe tenuto l’uomo che amava al sicuro da se stesso? Sì, si disse mentre Victor lasciava cadere la testa contro la sua spalla e sospirava leggero, difendere Sherlock anche a costo della stessa vita, era una priorità.

 

 

Continua


 

 





*Frase estrapolata dal testo di “Tale of 1000 years” di Paul Shapara. Ho inserito la canzone nella playlist dedicata alla mia storia, la potete sentire qui.
**Scotland Yard fu fondata nel 1829 e quindi avevo pensato che, per Lestrade, la guardia reale fosse la scelta migliore. Purtroppo però la Coldstream guards è entrata in vigore solo nel 1650, non prima e si ritiene proprio che la New Model Army ne fosse stata l’ispiratrice. Fonti: 1, 2, 3
***Giusto per orientarvi un pochino. Quando parlo di destra e sinistra, riferito ai fianchi della nave, contate che prendo in considerazione d’avere la poppa alle spalle.
****Quello citato è un fatto storico. La Giamaica, e i possedimenti spagnoli, vennero attaccati dall’ammiraglio inglese William Penn nel 1655. Solo nel 1670, però, la Spagna dichiarerà la cessione di Giamaica nel trattato di Madrid. Info.  


Il prossimo capitolo conterrà una scena molto particolare e che di solito mi crea problemi nella stesura, quindi potrei tardare con l'aggiornamento. Intanto ringrazio tutti coloro che hanno letto fino a qui e chi sta recensendo. Grazie a tutti.
Koa

   
 
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