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Autore: Koa__    10/06/2017    12 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Arrivo all’isola del tesoro
 
 
 


 
"Non ho mai visto il mare calmo intorno all'isola del tesoro.
 Il sole poteva risplendere alto, l'aria essere priva di un alito di vento,
la superficie liscia e azzurra, ma i cavalloni continuavano
a rovesciarsi lungo l'intera costa esterna, rombando e rombando giorno e notte:
e non credo vi sia un solo punto nell'isola dove non giunga il loro fragore."
[Stevenson, L’isola del tesoro]
 




Occorsero diverse ore da che era sorto il sole, prima che l’uomo di vedetta annunciasse terra in lontananza. Sebbene l’alba si fosse levata da tempo, ancora una fitta nebbia circondava l’isola tesoro e tanto che era impossibile scorgerla. Ciononostante, quel poco che dalla cima del pennone più elevato, Bill Wiggins era riuscito a vedere, bastò ad aizzare gli animi e ad accendere nell’equipaggio un’insana ubriachezza. L’istante di confusione fu tanto fugace che John ebbe la sensazione che se lo fosse immaginato, perché subito questa lasciò il passo a un’euforia che mai aveva visto in quegli uomini. I canti che fino a qualche momento prima avevano cadenzato le mansioni di ciascuno, s’interruppero nello stesso istante e quella litania senza parole venne sostituita da grida di gioia. E mentre il giovane Bill con la testa immersa tra nubi troppo basse, ancora urlava, la campana prese a suonare e la voce di mastro Stamford si levò al di sopra di tutte.
«Chiamate il capitano» gridò il buon Mike, ridendo. «Chiamate il capitano perché siamo giunti all’isola tesoro» ripeté, abbracciando John in uno slancio caloroso. Sì, John Watson, il quale sedeva scompostamente sugli scalini che conducevano al cassero di poppa e che sino a quel momento aveva fissato con una punta malinconica amarezza l’orizzonte nebbioso, miseramente schiavo di una paura sempre più solida e concreta, che s’accentuava col passare delle ore. Di tanto in tanto si era ritrovato a concedere un’occhiata ai propri compagni d’avventura o a spiare l’imponente timone, domandandosi se un giorno Fortebraccio gli avrebbe reso l’onore di governarlo. Era stato allora, perso tra mille pensieri che la voce di Wiggins gli era giunta alle orecchie. Così come chiunque altro sul ponte, d’istinto aveva sollevato lo sguardo sino all’estremità più lontana dell’albero di trinchetto, riuscendo però a malapena a scorgerne la cima sopra la quale Wiggins se ne stava appollaiato da ore. Nel momento stesso in cui comprese che cosa stava per succedere, John venne investito da un batticuore violento e da un terrore viscido che sembrava non riuscire a lasciarlo in pace. Una presa allo stomaco lo fece piegare su stesso, mentre il fiato si spezzava in piccoli e tremanti ansiti. In un attimo, ogni domanda, ogni paura e dubbio che dentro di sé aveva gelosamente serbato, prese a vorticargli nel cervello assieme a mille altre questioni. Quanti uomini avrebbe avuto Moriarty? Ci sarebbe stato anche Moran il corsaro? Sherlock sarebbe morto nel tentativo di proteggerli? Li aspettava solo un lotta all’ultimo sangue oppure anche una battaglia navale imperversava all’orizzonte? Fu quasi tentato di chiedere a Lestrade se ne sapeva qualcosa, quando un Victor dall’espressione cupa e tenebrosa, sbucò dalla porta che conduceva ai ponti inferiori. Bastò guardarlo per comprendere quale fosse il suo stato d’animo. E quell’occhiata che Victor gli concesse, gli fece capire che Sherlock richiedeva di vederlo in privato. Senza esitare, John si levò da dove stava e scivolò di sotto.



 
oOoOo



Capitan Holmes se ne stava immobile, a fronte della grande finestra che s’apriva sulla poppa della nave e che facilmente permetteva di scorgere la spuma provocata dalla scia delle onde, agitate dallo scafo. Diede segno d’essersi accorto della sua presenza perché tese la postura, drizzandosi meglio e tamburellando le dita, intrecciate dietro la schiena, in maniera più agitata. Senza parlare o preoccupare d’annunciarsi, John restò fermo dove stava. In piedi sulla soglia. Forse poggiandosi appena contro lo stipite mentre incrociava le braccia al petto e un sorriso gl'increspava le labbra. Sentiva ancora una certa inquietudine dentro di sé e la preoccupazione crescere incontrollata. Eppure non diede segno di volerla ascoltare. Non in quel momento. Rapito com’era dall’attenta opera di osservazione che stava mettendo in pratica, si ritrovò estasiato ad ammirare la figura del pirata bianco e, non troppo segretamente, a goderne. Il primo e ovvio dettaglio che balzò ai suoi occhi, fu che si era cambiato d’abito. Agghindato come non lo aveva mai visto, al punto che più che un pirata, pareva la puttana di un bordello. Ebbe addirittura la sciocca sensazione che si fosse fatto bello per qualcuno, che si trattasse di Moriarty? Che si fosse assunto la briga d’apparire a quel modo per l’imminente sfida? No, non poteva davvero essere così, si impose di pensare mentre tentava di scacciar via un moto violento di gelosia. Qualunque fosse la ragione non si poteva negare che fosse attraente e quando questi si voltò appena, roteando su se stesso, John si lasciò andare a un fischio compiaciuto. Anzitutto v’erano gli occhi, contornati di un trucco di colore nero, passato come in un velo sulle palpebre e che faceva sembrare le iridi ancor più azzurre e penetranti. Calcato sopra testa portava quel suo cappellaccio da capitano, niente di speciale e certamente non pomposo e importante come quello di Lestrade (rubato a un ammiraglio olandese particolarmente severo coi propri sottoposti, così gli aveva raccontato Greg una sera), quello di Sherlock però era comunque particolare. Quantomeno era vissuto. Non sapeva poi molto di come se l’era procurato, ma in più punti era lacerato mentre in altri era stato rattoppato con delle cuciture grossolane e malfatte. Indossava una camicia bianca, tessuta con un lino particolarmente pregiato e che mai John aveva visto prima di allora. Al di sopra e del tutto incurante del caldo opprimente, portava una giacca scura piuttosto lunga e slacciata sul davanti, che lo faceva sembrare ancor più alto e slanciato di quanto non fosse. E sebbene pantaloni e stivali gli calzassero alla perfezione, facendogli meritare un’occhiata più o meno lasciva, John si ritrovò particolarmente interessato alla sfilza di anelli e collane con le quali il capitano si era acconciato. Portava una catenella d’argento, dall’intreccio fine e molto femminile, e con un ciondolo a forma di conchiglia che ricadeva tra le pieghe della camicia. Appena sotto si poteva facilmente notare una croce di pietre rosse, di sicuro preziosissime. Un regalo di Victor, così gli aveva riferito lo stesso prete senza però badare a raccontargli come se l’era procurato. Infine, un grosso doblone spagnolo faceva capolino dai lacci della camicia. Quello era il solo oggetto di cui John conosceva la storia passata in maniera più precisa, poiché gliel’aveva raccontata il capitano stesso con un discreto orgoglio nella voce. Non aveva chissà quale valore, ma si trattava della prima moneta rubata, anni e anni prima, a un dignitario spagnolo. Forse per una sorta di holmesiano attaccamento sentimentale, Sherlock aveva deciso di conservarlo come fosse una reliquia. Nonostante la particolarità di quel vestiario e il trucco sugli occhi, non furono quei dettagli a strappargli un ancor più carico sorriso. Su ogni dito della mano sinistra, il capitano portava un differente anello. In un primo momento l’aveva trovata una bizzarria, eppure si ricordò della lunga e accorata spiegazione che nemmeno qualche giorno prima gli aveva dato in proposito. Con un velo di personale fierezza gli aveva spiegato che ognuno di essi era importante e aveva un uso pratico. John non ci aveva davvero creduto, non fino a quando gli aveva mostrato a che cosa realmente servissero. Uno di essi si apriva e conteneva della polvere, un veleno mortale che aveva il potere di uccidere in pochi minuti. Altri tre erano adatti per ferire e avrebbero facilmente rotto un dente e dovevano essere ottimi in caso di una scazzottata. Nell’ultimo, un meccanismo inventato da Sherlock stesso, faceva comparire un pungiglione della grandezza di quello di un ape. Su questo aveva però mostrato un discreto imbarazzo e specialmente nell’attimo in cui si era detto incerto sul suo utilizzo, praticamente sconosciuto. Per farla breve, lo aveva sì costruito, ricavandolo da un anello di dubbio gusto che aveva rubato tempo prima, ma non aveva ancora capito a che cosa potesse servirgli. Al ricordo di quella buffa conversazione, John sorrise di nuovo e fu allora, di fronte all’incurvarsi prepotente della sopracciglia di Sherlock, forse in un moto di curioso non capire, che tornò alla realtà.

John non poté negare che fu un piacere concedere un’altra generosa e languida occhiata, in special modo mentre riaffioravano i ricordi di quanto avevano fatto quella notte stessa, increspandogli la linea dello sguardo di lieve malizia.
«Mi hai fatto chiamare, bellezza?» s’azzardò a domandare, premurandosi di calcare la mano su quell’appellativo. Forse stava assimilando davvero troppo delle maniere di Victor Trevor, trascorrere così tante ore del giorno in sua compagnia non era una scelta saggia. Eppure, il porsi a quel modo nascondeva in sé un qualcosa di divertente. Era spassosa la sola idea di appellare qualcuno con un nomignolo. Anche se era costretto ad ammettere che se lo faceva con Sherlock, non era soltanto per il desiderio di emulare Victor, ma perché amava il vedere certe reazioni. Smuovere l’animo dell’algido capitan Holmes, farlo imbarazzare con sciocchezze da nulla, era molto più divertente di quanto pensasse. Persino quel mattino e con i freschi ricordi della loro passione a formicolare sulle punte delle dita, bastò quel niente che gli aveva detto per farlo arrossire. Un minuscolo sorrisino fece capolino tra le espressioni dure e severe del pirata bianco, il quale subito distolse lo sguardo volgendolo al pavimento, forse in un tentativo di nascondere un rosa più acceso all’altezza degli zigomi. Quasi temesse di venir giudicato per un po’ di sentimenti o come se faticasse a reggere il ricordo di quanto accaduto fra loro. Di certo faceva impressione a vedersi. Un pirata così pesantemente armato che arrossiva come una ragazzina non era certamente una cosa da tutti i giorni. Già, perché ora che s’era voltato e che gli stava di fronte, si riuscivano perfettamente a notare le due pistole, infilate nella cinta dei pantaloni. Sulla destra, una lunga sciabola spariva nelle pieghe della lunga giacca mentre dall’altra parte, un pugnale era perfettamente infilato dentro la propria custodia in pelle. Pareva pronto per la guerra. Con le gote rosse e lo sguardo lucido, ma avrebbe potuto ammazzar James Moriarty persino ridotto in quello stato. John ne era sicuro. Anche se era così diverso dall’uomo dolce e restio che aveva imparato a conoscere, sapeva che Sherlock Holmes aveva molte facce differenti. Senza riuscire a fare altro se non a goderne, rimase a lungo a fissarlo. Probabilmente fu allora che per la prima volta gli apparve realmente per ciò che era: niente più che un uomo come ce n’erano tanti altri. Fragile, dolce. Ma duro e determinato all’occorrenza. Era un pirata pronto a uccidere e che non avrebbe esitato a farlo per proteggere chi amava. Era il pirata delle storie e delle leggende, quello che i bambini di Antigua si divertivano a catturare per burla. Eppure, si trattava di un pirata le cui guance erano rosse d’imbarazzo e che al ricordo della loro notte insieme, evitava addirittura di guardarlo negli occhi. Quale magnifico controsenso!

«Ho sentito Bill gridare» esordì, accennando al piano superiore e prima di mettersi camminare per la stanza, fintamente occupato. Di tanto in tanto si fermava e prendeva a studiare un determinato oggetto, ma poi proseguiva oltre. Forse era un tentativo di tenere occupata la mente. «Presumo che si veda l’isola» aggiunse, afferrando il cannocchiale che si preoccupò di agganciare accanto al pugnale.
«Dal ponte non ancora, ma ne siamo vicini. C’è molta nebbia» precisò poi John, facendo un passo fin dentro la cabina e chiudendosi la porta alle spalle. Porta, contro la quale si fece cadere.
«Vedo che Lestrade ti ha armato per bene, ottimo» osservò, indicando con un cenno del viso la pistola che compariva dalla cintola dei pantaloni e la sciabola, agganciata su un fianco. Sciabola che (lo sapeva) avrebbe usato ben poco, ma che era comunque felice di possedere. Era una sicurezza, anche se non aveva forza nel braccio e se avrebbe certamente perso uno scontro, l’averla con sé gli dava un certo senso di tranquillità.
«Dovrete esser pronti a tutto, perché gli uomini di Moriarty non avranno pietà.» John udì distintamente la voce tentennare appena e gli occhi di Sherlock indugiare nei suoi forse per un attimo di troppo. Che cosa stava provando? Si chiese. Quali preoccupazioni gli oscuravano il cuore? Anche studiandolo con attenzione, non riusciva realmente ad afferrare tutte le radici dei suoi ragionamenti. Era certo che si stesse nascondendo dietro a una facciata e che avesse indossato un serio e distaccato mascheramento, probabilmente per darsi forza e non patire eccessivamente le paure. Tuttavia sembrava faticasse a mantenersi tale. Quel tremolio della voce, l’indugiare delle parole, ne erano un segno evidente. Avrebbe davvero desiderato di pensarci ancora e magari cercar persino di comprenderlo, ma quando il capitano riprese a parlare, ogni briciola di raziocinio venne spazzata via. Stupidamente si ritrovò suo schiavo.
«Sarà pericoloso» disse, dopo aver atteso un qualche istante di silenzio. «Moriarty potrebbe usare uno di voi per far leva su di me. Lo ha già fatto in passato, rapendo Victor e imponendomi uno scambio, non dubito che sia capace di nuovo di una cosa simile. Anzi, potrebbe rapire entrambi e farmi di scegliere tra voi. Lui ama questi giochetti, divertirsi con le vite e i sentimenti degli altri lo allieta.» A quel punto smise di raccontare e un’ombra di terrore gli oscurò i tratti del viso. Per quanto si sforzasse di atteggiarsi forte e distaccato, Sherlock non gli era mai apparso tanto emotivo come allora. Il suo guardare con insistenza il pavimento non era più dovuto all’imbarazzo, quanto al tentativo di ricacciare indietro ricordi dolorosi. Era evidente dalla piega che le labbra avevano preso, che stesse soffrendo e che temesse Moriarty molto più di quanto si pensasse. Tante erano le cose che John non sapeva del loro passato e da che era salito a bordo aveva sempre avuto la sensazione che una sorta di irrisolto aleggiasse tra lui e Victor, nonostante ciò l’origine di quella sofferenza gli era sempre sfuggita. Ora, invece, era tutto lì. Senso di colpa, anzitutto, ma anche dolore e rabbia. Tutti quei sentimenti, troppi, vorticavano incontrollati nello sguardo del pirata bianco e gli facevano tremare la voce.
«Hai parlato del passato e di uno scambio» gli rispose il dottore, poco più tardi. Non voleva forzarlo, ma ugualmente si decise a farsi avanti e senza temere una reazione negativa. Sapeva che sarebbe potuto succedere l’irreparabile perché Sherlock era imprevedibile dal punto di vista emozionale, tuttavia, giunti a questo punto e con l’imminente minaccia all’orizzonte, era necessario che sapesse. Se quel dannato criminale mascherato da soldato avesse rivangato vecchi rancori, John si sarebbe trovato in mezzo a un qualcosa che non comprendeva. E non voleva che nulla gli impedisse di proteggerlo.
«Non sei tenuto a dirmelo» aggiunse «ma se davvero un qualcosa del vostro passato potrebbe esser usato nuovamente contro di noi, è importante che io lo sappia.»

«Vivian Norbury» * annuì a quel punto il capitano, forse convinto dalla logicità del ragionamento. Fondamentalmente, Holmes era un uomo razionale e non si faticava a credere che la prospettiva di un John in svantaggio verso il nemico, lo avesse convinto a parlare. Ad ogni modo e qualunque fosse il motivo, finalmente e dopo un teso silenzio, riprese il proprio discorso. Lo fece voltandosi appena verso la finestra, così da nascondere quel velo di angoscia che davvero non riusciva a celare. «Era una prostituta, giovane e bellissima. Aveva dei capelli rossi così strani e lavorava in un bordello a Montserrat. ** Certe sue abilità la fecero entrare nelle grazie di Jim, tanto che ben presto ne diventò la preferita. La conobbi due anni fa e le chiesi di aiutarmi, sapevo che quel capitano nascondeva qualcosa, accordi segreti con la Spagna, assalti illegali alla stessa marina britannica e più di una morte sospetta tra le nostre fila di ammiragli, comandanti e dignitari. Tanti sospetti, ma nessuna prova. L’ultima volta che ho avuto modo di parlare con Mycroft (e facendolo ho quasi rischiato il collo) mi ha detto che la stessa Regina sospetta di Moriarty, ma finché non ci sono prove a sostegno, quelle che circolano rimangono illazioni. Di fatto, Sebastian Moran è il suo assassino personale. Di fatto, lui fa quel che vuole da qui all’Inghilterra come se ogni territorio delle Indie Occidentali gli appartenesse di diritto. James Moriarty è una sciagura che va fermata e nessuno gli è mai stato più vicino di Vivian Norbury, nessuno tranne lei ha mai avuto modo di entrare nelle sue stanze da letto e trovare le prove necessarie.»
«Che successe? Con la ragazza intendo.»
«Ci incontravamo la notte, era abbastanza facile camuffarmi e fingermi il cliente di un bordello e per un po’ è stato persino divertente. Questo accadeva una volta al mese, più o meno per un anno andammo avanti a quel modo. Spesso quelle che mi portava erano cose da niente, le sue preferenze sul cibo o le parole che più spesso ripeteva. Ma a me non interessava che fosse poco, se riguardava quel bastardo tanto mi bastava. Fino al giorno in cui lui lo venne a sapere. Una notte, eravamo sulla terraferma, tese una trappola a Victor e lo rapì. Successivamente mi fece recapitare un messaggio, nel quale diceva che in cambio della sua vita avrei dovuto dargli la testa di Vivian. Non intendeva in senso figurativo, voleva che la uccidessi e decapitassi e se non lo avessi fatto, Vic mi sarebbe stato riportato pezzo dopo pezzo.»
«Oh, Cristo!» imprecò a quel punto John, senza trattenersi. Stupidamente si era convinto che gli screzi con padre Trevor riguardassero dell’altro e che non avessero risvolti così tetri e drammatici. Ora capiva molte cose, come la ritrosia di Victor nell’aprirsi a questo proposito, per esempio. Ma anche il senso di colpa che nutriva e la sofferenza che gli oscurava il viso di tanto in tanto, come fossero ondate di dolore impossibili da gestire.
«Mi sono chiuso in questa cabina per giorni così da trovare una soluzione e a un certo punto ho anche stupidamente creduto di poter salvare entrambi. E ci ho provato» ammise il pirata bianco, ora voltandosi verso di lui e mostrandosi per ciò che era. Un uomo distrutto dal solo ricordo, profondamente segnato da quello che ancora considerava come un errore. Sì, John ne rimase sconvolto, era sufficiente vederlo per esserne colpiti. Conosceva le profondità dell’animo di Sherlock, ma quell’immagine che ora aveva di fronte era dolorosamente vera. Tanto da far male.
«Per prima cosa e senza neanche prendere in considerazione l’idea di fare una scelta, ho messo in atto un piano. Niente di complicato, ma avrebbe funzionato. A tutt’oggi ne sono certo. Moriarty mi anticipò, smascherandomi e confesso che ancora non so dire come io abbia fatto a fuggire quella volta. Non riuscivo a capire come fosse possibile che mi avesse scoperto con così tanta facilità, insomma sapevo che era un uomo intelligente, ma che lo fosse fino a quel punto… io stentavo a crederci. Fu in quel periodo che mi resi conto che a bordo c’era un traditore.»
«Ma come hai fatto?» lo interruppe John, incredulo e sbigottito. A dirla tutta non riusciva a immaginarsi Sherlock prendere una decisione del genere, gli pareva incredibile che ci avesse anche solo pensato. Così come assurdo era il fatto che un essere umano, e il special modo un capitano a servizio di Sua Maestà, potesse arrivare a simili livelli di barbarie. «Come hai potuto prendere una decisione? A scegliere per Vic a discapito di quella ragazza?»
«John» sussurrò Sherlock, facendo un passo in sua direzione e distogliendo nuovamente lo sguardo, ancora rivolto al pavimento «ho sempre saputo di essere un mostro e confesso c’è stato un momento in cui mi sono ritrovato col coltello in mano, pronto a sgozzarla. Non l’ho fatto, ma ci ho pensato perché la paura di perdere Victor mi oscurava talmente il raziocino, che arrivai persino a ponderare l’idea di uccidere me stesso e farla finita. La verità? Non ho saputo proteggere nessuno, non ne sono stato capace e quale capitano fa questo, eh? Quale capitano non sa prendere una decisione? Vuoi sapere com’è andata? Vivian si uccise davanti ai miei occhi. Lei non riusciva a sopportare che la vita di un’altra persona fosse a rischio a causa sua mentre io… io rimasi a guardare, pietrificato. Cristo, John, sai cosa ho pensato? Mentre la vedevo morire una parte di me era felice perché Victor, il mio Victor, sarebbe stato salvo. Sono un mostro. Niente altro che un mostro» concluse, lasciandosi finalmente andare e sfogandosi in un pianto leggero.

John non impiegò nulla per azzerare la distanza che li divideva. In un attimo gli fu addosso, l’istante più tardi lo stringeva in un abbraccio soffocante. E mentre gli baciava appena le guance, come in una tenue carezza, continuava a ripetergli che nulla in lui era mostruoso e che quella che tanto lo faceva soffrire, altro non era che umanità.
«I sentimenti sono terrificanti, Sherlock.»
«La colpa è mia» lo interruppe lui, allontanandosi appena e ora gridando con più forza mentre negava vistosamente col capo. Come se tentasse di convincere se stesso d’esser un demonio e ancora e dopo tanto tempo non riuscisse a perdonarsi. «Io trascinai Vivian in tutto questo, io l’ammazzai e fui sempre io a dare a Moriarty la sua testa. Il nome di questa nave, la Norbury, il ricordo che porta è un monito a me stesso. Mi rammenta tutti i giorni dell’errore che costò la vita di una persona e che mi portò a un passo dal perdere per sempre Victor.» ***
«Oh, no. Sherlock, no.»
«Volevo evitare di dirtelo» mormorò, di nuovo fuggendo dalla sua vista e placando pianto e rabbia, sfumandolo in un mormorio leggero e indistinto «fino all’ultimo ho sperato che non fosse necessario e che tu non vedessi che razza di persona sono, con che individuo hai scelto di dividere il letto e di fare l’amore. Ma se te l’ho detto è perché la tua vita, qui e ora, vale più del mio orgoglio. So che Jim lo rifarebbe. Per questo, e anche se mi costa fatica, vi consentirò di venire ma a una condizione.»
«Condizione?»
«Farete qualsiasi cosa io vi dica di fare, qualsiasi. Promettimelo, John, è importante che io sappia che ti fidi di me.»
«Oh, certo che mi fido di te e non hai bisogno di domandarmi queste rassicurazioni. Adesso taci per un secondo, vuoi?» mormorò, avvicinandosi in pochi passi e stringendolo di nuovo per la vita mentre lo attirava appena contro di sé. Ignorò le proteste sul fatto che dovessero andare e che non fosse quello il momento per certe smancerie, e non si preoccupò minimamente di obbedirgli quando lo sentì dimenarsi. Semplicemente decise che baciarlo sarebbe stata un’ottima idea e che accarezzargli la schiena con movimenti lenti e pacati, magari prima di risalire su sino a riuscire a infilargli le dita tra i ricci dei capelli, non sarebbe stato affatto male. Fu ciò che fece, concedendo loro un lungo e approfondito bacio che finì poco più tardi in un sospiro frammentato. Sentirlo rilassarsi appena e lasciarsi andare, vederlo arrossire di poco non fece altro che consentire a John di poterlo abbracciare con maggiore comodità.
«Vorrei avere tutto il tempo del mondo e lo userei per dirti quanto mi sia piaciuto fare l’amore con te. Lo impiegherei per farti capire che non sei un mostro, ma una persona meravigliosa e buona.»
«Anche a me è piaciuto» ne rise appena Sherlock «ed è per questo, cioè, sì è anche per questo che volevo darti una cosa» aggiunse, allontanandosi di poco prima di sfilarsi una delle collane che aveva addosso. «Per te» disse. Poi infilò al collo di un attonito John, quello stesso monile delicato e femminile che tanto gli era piaciuto. Lo stesso che aveva un ciondolo della forma di una conchiglia e che aveva fini intarsi e una lavorazione pregiata.
«È stupenda» balbettò John, sempre più incredulo ed emozionato.
«Era di mia madre, me l’ha data il giorno prima che me andassi da casa. Disse che avrei dovuto darlo alla mia sposa e io… io lo do a te, ecco. Spero ti piaccia» gli spiegò, rigirandosi il ciondolo tra le dita prima di far scattare un gancio «si apre e...»
«Questa è una ciocca dei tuoi capelli!» esclamò, incredulo mentre non riusciva a levare gli occhi da quel piccolo ricciolo scuro posato con cura. «Cosa significa?»
«Nulla è solo un regalo» borbottò, allontanandosi brutalmente e scattando indietro con fare brusco. Quasi violento.
«Sherlock, io…»
«Solo un regalo» ripeté il capitano, con determinazione mentre indietreggiava ancora. L’ultima cosa che fece, prima di correre su per le scale, fu di afferrare la mappa del tesoro. Dopo, non lo degnò più di uno sguardo.

Era ancora fermo al centro dell’ampia cabina del capitano, quando un boato di urla festose gli arrivò alle orecchie. L’equipaggio scalpitava e fremeva in attesa di ordini. Ma lui non badò alla ciurma, non era quello il momento di pensare all’imminente futuro. Perché con lo sguardo ancora rivolto a quel piccolo dono prezioso, una lacrima che gli pizzicava gli occhi prese a scendere lentamente. Lo amava e, da perfetto idiota qual era, ancora non gliel’aveva detto. Eppure era così facile, come poteva non adorarlo? Aveva cuore già pericolosamente avvinghiato a quell’uomo là di sopra sbraitava comandi con l’imperiosità di un Re e la dolcezza di una dama. No, ancora non gli aveva detto di amarlo, pensò John amaramente. Poi, anche lui scappò via.


 

Continua
 
 
*No, non sono impazzita. Ho dato a Vivian Norbury lo stesso nome di quella della serie, ma non immaginatevi la stessa attrice e nemmeno lo stesso carattere. Praticamente è un OC in tutto e per tutto, ma potete anche chiamarlo “trollone alla Moffat” se vi suona meglio. A me suona meglio, chissà perché…
**Montserrat, isola delle piccole Antille. Divenne rifugio per cattolici inglesi nel 1632 e fu al centro di grandi contrasti tra Francia e Inghilterra a causa della posizione strategica.
***Una precisazione. Il nome della nave non è “Norbury” ma “la Norbury”.

Dunque, la sola ragione per cui sono riuscita ad aggiornare oggi è perché ho fatto un leggero cambiamento nella struttura del capitolo e quella che avrebbe dovuto essere la seconda parte, diventerà la prima del prossimo. Mi sono resa conto che era già completo così e rischiavo di essere troppo sbrigativa nel finale. Per i prossimi aggiornamenti, ve lo dico, non è detto che saranno sempre di sabato. Ma comunque, voglio ringraziare chi sta ancora seguendo questa storia. Non siete in molti come prima, ma vi ringrazio per essere rimasti. Non sapete quanto mi faccia piacere sapere che avete letto fino a qui.
Koa
   
 
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