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Autore: Luana89    22/06/2017    1 recensioni
«Misha, sai cosa dicevano i navajo mentre camminavano in questo preciso luogo?» Sophia ci guardò come se si aspettasse una risposta, io scrollai semplicemente le spalle dando l’ennesimo tiro alla mia sigaretta. La sua voce divenne improvvisamente bassa, era l’eco di ogni mio battito. «Con la bellezza dinanzi a me avanzo. Con la bellezza dietro di me avanzo. Con la bellezza sotto di me avanzo. Con la bellezza sopra di me avanzo – l’aria si fermò improvvisamente, quasi ascoltasse anche lei – Finisce nella bellezza. Finisce nella bellezza» Sophia chiuse gli occhi come se cercasse di assaporarne meglio le parole. Misha corrugò la fronte probabilmente riflettendo sul senso di quel discorso. «E perché me lo stai dicendo?». Il silenzio ci assordò per qualche attimo.
«Sostituisci la parola ‘’bellezza’’ con ciò che ami di più, e avrai la risposta al quesito» gettai a terra la sigaretta allontanandomi da loro, mentre il mio riflesso diveniva simile ad un miraggio.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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ACT XX

 
Il tempo mi era ormai nemico, lo sentivo scorrere tra le mie dita tremanti e capii che attendere oltre avrebbe solo nuociuto a tutti coloro che amavo. Dopo la strana chiamata nel cuore della notte, Sophia sembrava sparita. Continuavo a tenerla d’occhio, continuavo a preoccuparmi per lei ma non le apparvi più davanti agli occhi. Se avesse avuto bisogno, se avesse capito soprattutto, sarebbe stata lei stessa a venire da me. Il varco ormai non aveva più confini e linee, era stato oltrepassato e tutto ridefinito e rimischiato. Non restava altro che attendere.
Sergej mi chiamò, in piedi a fissare il panorama notturno dalla grande vetrata di casa mia risposi. Quella notte il mio piano iniziò ufficialmente.
 
– Hai scoperto dove si trova Sophia?
– Si.
– Non disfarti del suo corpo, fallo apparire come un incidente voglio che la salma venga portata qui; qui dove posso averla vicina.
 
C'era qualcosa di tremendamente sbagliato, quasi perverso, in quelle parole; un padre ordina di uccidere la figlia, quello stesso padre non vuole che soffra, e sempre lui la vuole morta ma abbastanza vicina da poterle portare dei fiori. Sorrisi.
 
– Ho ucciso io Andrej. L'ho ammazzato sfigurando il suo viso, e dopo mi sono disfatto del corpo. E lo farò ancora se necessario.
 
Il silenzio fu talmente prolungato da farmi quasi pensare che dall'altro capo non ci fosse più nessuno, poi ecco un sospiro.
 
– Perché mi stai facendo questo?
– Perché è arrivato il momento che io paghi i miei debiti. Mi sto ufficialmente licenziando.
– IL TUO DEBITO CON ME VERRA' SALDATO IL GIORNO DELLA TUA MORTE. O LO HAI DIMENTICATO?
– Affatto. Ecco perché sto accelerando i tempi, Sergej.
– Ti ha aiutato Misha, vero?
– No, non sa neppure che Andrej è morto, non me lo avrebbe permesso.
– Prima Sophia, ora tu. Quanti altri figli dovrò perdere?
– Mi stai dicendo che mi consideri un figlio? Ricordo bene le tue parole anni fa ''Alcune persone nascono semplicemente per essere dei mostri, e tu mio piccolo Shùra sei il migliore''. Hai allevato un figlio, o un mostro?
– Avevo grandi progetti per te.
– I nostri progetti si concludono qui, suppongo.
–  ‘’Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno. Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire’’. Lo ha detto tuo padre, e io aggiungo: Basterà che tu apra gli occhi e vedrai la ricompensa dei malvagi.
 
Ricordai il mio incubo e finalmente lo capii, capii in quel momento la differenza tra mio padre e l'uomo che ne aveva preso il posto; la capii con una chiarezza talmente disarmante da essere oltre che dolorosa anche liberatoria.
 
– Il varco. E' lì che aspetto anche te, non ho paura di morire perché sarò io a decidere come farlo.
 
Chiusi così quella chiamata, un’ambulanza passò in quell’istante col suo fragore, sembrava quasi un messaggio criptato tutto per me. Ascoltai il silenzio assordante della mia casa, ripensai al piccolo Aleksandr Petrov, colui che dovevo in qualche modo ritrovare, pensai alla mia morte imminente e alla liberazione di Misha e Sophia. Sarebbe andato tutto secondo i miei piani. Dopo vent’anni sarei riuscito forse ad essere un uomo ‘’giusto’’, e porre fine a qualcosa che non sarebbe mai dovuta esistere.
 
Ho posizionato talmente bene la mia trappola da non ricordarne più il luogo, e adesso mi chiedo ..cosa succederebbe se dovessi cadervi dentro anch'io?
 

Mikhail POV

 
Avvinghiato a Nadja sobbalzai al rumore fastidioso del cellulare. Mi ero concesso il lusso di non dormire a casa quella notte e tanto per cambiare qualcuno si prendeva la briga di rompermi i coglioni. Certo, il discorso cambiava lievemente se a rompermeli altri non era che Sergej. Fissai il numero e poi Nadja adesso sveglia, scosse il capo come a dirmi ‘’non so nulla’’ e allora risposi:
 
– Di solito mi chiami solo per rimproverarmi.
– Già Misha, chi avrebbe mai immaginato che invece avrei chiamato per farti i complimenti.
– A cosa devo la tua improvvisa adulazione? Per quanto ci pensi non è molto credibile.
– Sai cosa mi ha detto Aleksandr? ... Ha detto di avere ammazzato Andrej. E non mi pare di averlo mai inserito nella lista nera. O sbaglio?
 
Il silenzio fu interrotto da me, mentre deglutivo la mia stessa saliva che sembrò volermi fare scivolare l'ennesimo masso giù lungo la gola.
 
– ...Non sbagli, Sergej.
 
L'avevo detto sul serio?
 
– Ho sempre pensato che saresti stato tu il primo a tradirci Misha, poi Shùra avrebbe dato di matto e ti avrebbe seguito, Sophia se ne sarebbe fatta una ragione ma non avrebbe mai potuto voltarmi le spalle. E invece guarda cosa è successo... buffo, non trovi?
 
Sergej sembrava istericamente divertito, un sospiro qualche secondo più tardi sembrò invadermi l'orecchio. Lo immaginai dietro di me, con gli occhi pieni di vendetta e le lame che a furia di stringerle gli squarciavano le dita.
 
– Non va mai come ci aspettiamo che vada, vecchio mio.
–Non fare troppo lo spiritoso Misha. Per fortuna ho ancora te. Uccidi Aleksandr al posto mio.
– Sai anche tu che questo è improbabile. O dovrei dire impossibile?
 
Perché l'aveva fatto? Perché Aleksandr aveva detto la verità a Sergej? ...Mi aveva tradito. Si era preparato a lasciare tutto senza nemmeno avvisarmi. Parlava di piani, di strategie, ma non avevo messo in conto che la parola chiave di queste ultime fosse la morte. Fui costretto a rispolverare l'odio che tenevo dentro.
Non capivo, ma mi agitavo. Sergej poteva sentirlo.
 
– Nulla è impossibile per me, Misha. E tu lo farai, credimi. Non mi volterai le spalle stavolta e sai perché?
– ...Sentiamo.
– So dov'è Irina. Ce l'ho in pugno, a breve sarà in viaggio per Mosca, ah... le ragazzine sono così ingenue al giorno d'oggi. Mi è bastato fare il tuo nome.
 
La pausa che seguì fu estenuante. Sbarrai gli occhi, non riuscivo a ricordare quale fosse il movimento giusto per riuscire a respirare.
Non lo vedevo, ma sentivo il sorriso agghiacciante di Sergej provocarmi brividi lungo la pelle, poi continuò.
 
– ..Uccidi Shùra e la rivedrai senza nemmeno un graffio. Lascia quel serpente traditore vivo e la ragazzina morirà impiccata come tua madre.
 
Non mi diede il lusso di rispondere, non mi diede neppure il tempo di metabolizzare la notizia. Irina era nelle mie mani ed io in quelle di Sergej.
Non seppi dire cosa fosse peggio.
La morte, era quella la parola chiave. "Pensa Misha, pensa"; continuavo a ripetermelo come una cantilena.
Passò un po' di tempo prima che potessi capire la risposta, in quel momento tutto fu chiaro.
La morte.
Dissi quella semplice parola con la testa china puntata al pavimento ed una lacrima che scivolò lungo la guancia mi fece rinsavire, era l'unica fonte di calore che avevo in quel momento, seppure impercettibile sembrò volermi ricordare che avevo appena finito d'essere una persona, per iniziare ad essere un mostro.
Capii.
La morte, era quella a cui tutti agognavano e che tutti avrebbero avuto. Compreso me.
 
***
 
– Il mio Misha che mi chiama per primo? Quale onore.
– Lieto di vederti così di buon umore.
– Sono gli antidolorifici, è una pacchia.
– Aspetta che ti faccio tornare io dal fantabosco alla realtà.
– Misha, ti capita mai anche per sbaglio di non sentire l'impellente bisogno di rompermi il cazzo?
– Mi ha chiamato Sergej, dobbiamo parlare.
– Sbaglio o stai facendo l'ometto maturo?
– Sbaglio o vuoi farmi incazzare?
– Okay, dove e quando?
– A casa. Subito.
– Ora non posso, ho delle cose da sbrigare, se riesco nel tardo pomeriggio di domani.
– Vai. A. Farti. Fottere.
– La gente reagisce sempre come penso, finirò per annoiarmi.
– Parli di me?
– No, parlo di Sergej.
 
 

Sophia POV
 

Dopo aver trovato i soldi all’interno del libro passai le due notti seguenti a fissarlo,mi sorrideva e mi seguiva ovunque. La terza notte capii.  Ecco dove avevo sbagliato. Ecco dove avevo sempre sbagliato. Uscii di casa nel cuore della notte con addosso una felpa dai colori tristi ed una giacca altrettanto triste. Ai piedi portavo solamente calze bianche ormai nere per quanto sporche. Sentivo le piante dei piedi scontrarsi con violenza contro il cemento della stradine notturne di quella città silenziosa e mite. Il freddo risaliva lungo le mie gambe e mi faceva sentire viva più che mai. Fermai un taxi ma il conducente si rifiutò di farmi salire.
«Il venerdì sera riaccompagno ragazzini ubriachi a casa, non barbone». Fossi stata in un altro contesto quell’orgoglio da principessa viziata mi avrebbe portata a tirare i capelli a quel vecchio che di capelli neanche l’ombra aveva, ma mi limitai a tirar fuori una banconota da duecento dollari sventolandogliela davanti, con disperata convinzione.
«Ho detto che DEVO salire sul suo maledettissimo taxi». Si zittì, afferrò la banconota, la controllò e mi fece cenno di salire in macchina, cosa che non mi feci ripetere due volte.
Mi scaricò di fronte all’edificio che ospitava quel mucchio di ricordi felici. Le luci erano spente. Erano a casa? Non erano di certo così stupidi da rimanere sempre lì, no? No, certo che no. Esitai un momento.
ʺSophia, davvero lo vuoi fare? Vuoi ricominciare da zero per la terza volta? Scappa, torna indietro, sparisci per sempre e viviʺ.
Come avrei potuto vivere se quel peso mi opprimeva costantemente senza mai permettermi di respirare? Eppure ero lì ad esitare, ancora, con la paura di sbagliare di nuovo, di ferire qualcuno, di restare ferita, di scappare, scomparire, decompormi. Non era di certo la mia coscienza ad impedirmi d’avanzare, bensì la mia paura folle di non uscirne più. Avevo poco tempo a mia disposizione. Sapevo che il mattino dopo se non mi avessero trovata sul mio divano, pronta a ricominciare una lunghissima giornata fatta di sedute e colloqui, avrei solamente peggiorato la situazione. Il tempo era come oro. Il tempo non perdonava.
Mi addentrai nell’edificio. Salii gli scalini nostalgicamente ed arrivai davanti alla porta. Deglutii. L’indice si posò sulla tastiera mentre il mio cervello elaborava i ricordi: il codice della porta. Esclusi a priori quello che conoscevo già e mi concentrai su altre date, numeri a caso. Provai la prima volta e sbagliai.
La seconda volta e sbagliai ancora. Non rimaneva che un solo tentativo, l’ultimo prima dell’allarme. Digitai il vecchio codice: 12 12 9, ovvero S S M.
Lo spioncino verde s’accese, la serratura della porta si sbloccò e la porta si aprì per poi richiudersi alle mie spalle. Un odore di chiuso pizzicò il mio naso. Gli occhi si abituarono lentamente al buio. Quel telefono che risaliva al paleolitico si rese utile illuminando il corridoio che collegava le tre stanze alle cucina. Sul pavimento vedevo siringhe, bottiglie, polvere, accendini, vestiti sporchi ed avanzi di cibo andati a male da chissà quanti giorni. Quello che prima era un appartamento pulito ora non era altro che un cimitero di ricordi e rifiuti. L’unica stanza intatta, immacolata era la mia, la stanza di una ragazza chiamata Sophia.
Col cuore in gola attraversai il corridoio e mi diressi verso la cucina notando con tristezza che la desolazione aveva colpito persino il frigorifero. Ricordavo tutte le volte passate in cucina a sfornare torte, una più brutta e deforme dell’altra per far piacere a Misha. Ogni giorno che passava diventavo un poco più abile e ogni giorno che passava Misha mangiava la fetta che gli rifilavo senza mai far troppe storie. Poi divenni brava, o meglio, le mie torte divennero commestibili e quasi buone ma sparii senza poter continuare.
Nella tasca della giacca avevo mezza barretta di cioccolato fondente, il preferito di.. Misha? Volevo chiamarlo così tra i miei pensieri. La posai sul tavolo accuratamente coperta ed abbandonai anche quella stanza. Se solo avessi potuto avrei cucinato per lui, ancora e ancora.
A dividermi dall’ultima stanza c’era il salottino che attirò la mia attenzione. L’imponenza di Misha era come L’Empire State Building, impossibile da confondere, eppure quella notte non c’era. Nel silenzio più totale sparii inghiottita dal buio, diretta verso la camera più importante.
La conoscevo bene quella stanza. Quante notti passate nel letto di Aleksandr, tra una risata e l’altra, a contemplare i miei calzini dalle strane stampe o a parlare del più e del meno. “Shùra, posso venire a dormire con te?”, “Che domande”. Mi chiedevo se fosse ancora lì, se stesse bene, se quella ferita facesse così male. Mi chiedevo così tante cose che finii col perdermi nei miei stessi pensieri annegando nei sensi di colpa. Ecco da dove nasceva tutto, dove finiva tutto. Vedevo la sua figura stesa sul letto; sentivo il silenzio solenne interrompersi ogni due secondi a causa del suo respiro. Lo guardai per qualche istante accontentandomi di quel poco che i miei occhi riuscivano a vedere, poi mi ricordai del tempo rimanente, di tutto quel che non avrei potuto più permettermi una volta abbandonata nuovamente quella casa.
Mossi un primo passo e la distanze s’accorciarono. Mossi un secondo passo e le distanze si annullarono. Con delicatezza estrema mi poggiai sulle lenzuola fresche, fiancheggiando un corpo che non sentivo da troppo tempo. Viso contro viso. Se solamente Shùra avesse potuto vedermi probabilmente si sarebbe perso nei miei occhi che avrebbero parlato per me. Sentivo il suo alito fresco scontrasi contro le mie labbra così come sentivo la coscienza impaziente di voler prender voce. E così fu. In soffio impercettibile iniziai a parlare da sola, senza aspettare una risposta che probabilmente mai avrei ricevuto.
«Sono tornata a casa, anche se per poco. Sono qui con te, e vorrei non andarmene più via. Ho provato a ricominciare da capo, ho provato ad odiarvi, ma è stato inutile. Ho provato a ferirvi e.. mi dispiace. Mi dispiace per quella volta, per tutte le volte. Ora ho capito. Hai perso tuo padre, eri solo. È per questo che hai accettato di diventare un mostro? “Mostro” è sempre meglio di niente. Ci credi se ti dico che non volevo farti del male? Che non era mia intenzione ferirti così? Mi sono sentita così disperata che ho creduto di star meglio vendicandomi, e ho sbagliato. Perché non me l’hai detto prima? Perché non mi hai detto che si prova tutto quel dolore.. ?». Quel pallido riflesso di voce che mi usciva si spezzò per un breve istante cambiando immediatamente tonalità.
«Shùra.. ricordi quando venivo a bussare alla tua porta? Ti dicevo sempre che avevi il sedere così grosso che a furia di mangiare non saresti più entrato nei jeans. Ricordi quando guardavamo assieme il Lago dei Cigni? Mi dicevi sempre che non sarei mai potuta diventare una ballerina perché sono “una scimmia bassa, grassa e scoordinata”. E ti ricordi la prima volta al McDonald’s? O quando ti ho tirato i capelli in macchina. E l’Arizona? Io mi ricordo di tutto.. anche della tua faccia mentre mangiavo piccante e piangevo, al ristorante. Ricordo quando ti ho detto di amarti.. Shùra, ti amo. Perdonami per quel che ti ho fatto e per quel che ti farò. Perdonami»
 

 

Aleksandr POV

 
Quanto era passato dall'incidente? Continuavo a chiamarlo così: ''incidente''. Come se questo sottile eufemismo bastasse a cancellare gli occhi di Sophia carichi d'odio e disprezzo rivolti verso di me. ''Non alzi mai la voce tu, ma sai odiare benissimo con gli occhi'', questo avrei voluto dirle ogni notte insonne passata a rigirarmi nel letto, e questa era una di ''quelle'' notti. Mi alzai per andare in bagno, avevo curato la mia ferita da solo e a causa di questo era andata infettandosi, se continuavo a trascurarla la setticemia non me l’avrebbe tolta nessuno, e non potevo permettermi di morire, non adesso. Non quando Misha era completamente perso, ormai vi era solo Nadja con lui, e chi cazzo era quella? Una donna apparsa da poco, una che non sapeva nulla di lui di ciò che voleva, sperava, amava, sapeva solo ciò che poteva sapere qualcuno che condivide con te le lenzuola facendovi dentro delle belle capriole. Francamente preferivo screditare quella storia d'amore, forse per gelosia fraterna, o forse perché avevo visto la mia andare a farsi fottere. Era la consolazione di un povero coglione, la mia per la precisione. Spruzzai la soluzione direttamente sulla ferita imprecando sottovoce, osservandola allo specchio, guardarla mi affascinava e rendeva quasi catatonico; stavo lì ore a fissarla dallo specchio con la paura di sbattere le palpebre e vederla scomparire, era pur sempre una traccia di Sophia quella. Avevo pagato col sangue ciò che le avevo fatto, tutte le cose taciute per proteggere lei e anche Misha. Ma chi proteggeva me? Se neppure la donna che diceva di amarmi era riuscita a non odiarmi, a non guardarmi con disprezzo per poi tentare di ammazzarmi, chi altri avrebbe potuto proteggermi? Nessuno. Non avevo comunque bisogno della protezione di qualcuno. Osservai lo specchio rotto ormai da settimane, il mio viso scomposto apparve nei riflessi, gli occhi non cambiavano mai, che fosse il primo riflesso a destra o l'ultimo a sinistra: avevo gli occhi della morte. Misi la garza e il cerotto tornando nella mia stanza, senza neppure guardare il sudiciume nella quale eravamo piombati. Dormivo con l'arma sul comodino, adesso che il mio piano era iniziato non potevo neppure stare tranquillo in casa mia, Sergej voleva la mia testa e aveva già chiamato Misha, pur non avendogli ancora parlato ne ero certo. Come un gatto che aspetta il suo topo al varco, così attendevo Sergej.
Avevo chiuso gli occhi da cinque minuti, o forse erano cinquemila anni non potevo dirlo con precisione, quando sentii chiaramente dei passi nel corridoio. Socchiusi gli occhi osservando la porta chiusa, la mano andò dritta al comodino afferrando la pistola, la nascosi sotto il cuscino tenendola stretta, tornando a ''dormire''. Chiunque fosse entrato sarebbe marcito insieme a me nella casa. Sentii la maniglia abbassarsi, il mio cuore non provò alcun guizzo d'emozione, ormai non ne era più in grado: paura, timore, terrore erano cose sconosciute, se l'era portate via Sophia pochi giorni prima in quel parcheggio. Qualcosa nell'aria cambiò, riconobbi il profumo, come potevo confonderlo? Lillà e Primavera.
''Sono davvero andato in setticemia e ho le visioni?'' pensai anche a quella possibilità lasciando andare l'arma per poi uscire la mano da sotto il cuscino, poggiandola sulle lenzuola fresche. Il mio respiro divenne regolare, avrei persino potuto addormentarmi cullato da quell'odore che sapeva di tutto ciò che pensavo d’aver perso, tutto ciò per cui avevo lottato, tutto ciò che amavo e si era sgretolato davanti ai miei occhi. Poi la visione parlò. La sentii chiaramente, ogni sillaba, ogni promessa infranta, ogni rimorso, ogni dolore, scorreva dalla bocca di lei alla mia pelle come fosse acido. Mi corrodeva rendendomi agonizzante - eppure vi era la pace. Sophia portava sempre la pace. Avrei voluto aprire gli occhi, la sentivo così vicina, solo un altro po'. Ancora un po'. Non andare via, resta qui, resta in questa città desolata, le vedi le macerie? Resta qui con noi, anche noi siamo ormai macerie abbandonate senza di te.
Aprii lentamente gli occhi, Sophia stava ritta contro il letto, le ginocchia toccavano il materasso, pochi centimetri e avrei potuto toccare anche il suo braccio; voleva andar via, stava per lasciarmi di nuovo. Il movimento della mia mano fu talmente veloce da risultare invisibile nell'oscurità, le afferrai il polso strappandole un gridolino di sorpresa.
«Quando si fa visita a qualcuno è buona educazione salutare, non pensi?» la voce mi uscì bassa e roca, per nulla impastata di sonno così da farle capire quanto fossi sveglio al momento. Al tentativo di lei di scappare rinforzai la presa sul polso, stringendovi le dita incurante del dolore che potesse sentire, avrei preferito staccarglielo piuttosto che mollarla. La strattonai facendola cadere sul letto accanto a me, bloccandole le gambe con la mia, muovendomi lentamente ma in maniera decisa fino a sovrastarla completamente. Abbassai lo sguardo su di lei sorridendo nell'oscurità.
«Cos'è questo? Hai preso quest'orrenda abitudine di venire come una ladra, osservi e poi vai via. Ripetimi ancora quello che avevi da dire, e stavolta fallo guardandomi negli occhi. Io sono qui». ''Io sono qui'', lo avevo detto anche giorni prima mettendomi sulla traiettoria della lama, quale coltello mi avrebbe infilzato quella notte? La luna rifletté l'immagine di lei, delineando ombre sul suo corpo; a me non importava del buio, ero comunque in grado di vedere il suo viso perfettamente, era accecante come il sole. Lei era il mio sole.
«Ora sono qui. Ma per poco. Sono venuta per chiederti scusa e per dirti che..». La voce le si spezzò. Arricciò il naso come a voler nascondere il dolore che provava.
«Ti amo. Ti ho fatto tanto male, non è così.. ? Hai disinfettato la ferita? Cambiato le bende? Consultato Nadja?». Per una frazione di secondo il tempo si fermò e ci riportò al passato: nulla era cambiato. La mano di Sophia cercò la mia guancia. Le sue dita si posarono lì, lasciandovi una delicata e soffice carezza, nulla che avesse a che vedere con la coltellata infertami giorni prima.
«Sei venuta per darmi anche tu la pillola di bugie bagnata nello zucchero. Sei venuta per dirmi ''ti amo'', ''mi dispiace'' per poi varcare quella soglia e continuare a massacrarmi. Ieri la denuncia, oggi il coltello, domani cosa sarà? Ti resta solo da sparire e avrai raggiunto il tuo scopo, mi avrai massacrato del tutto». La mia rabbia come un fiume in piena sgorgava da quelle parole. Percepii ancora il palmo caldo della sua mano sulla guancia e chiusi gli occhi trattenendo le lacrime che sembravano volermi annientare; serrai con forza la mascella temendo di scheggiare anche l'altro dente. Nonostante la sovrastassi temevo comunque di vederla sgattaiolare via, o peggio dissolversi come fumo nei miei occhi. Non potevo permettermi di perderla, non di nuovo. Avevo sognato di tenerla stretta a me ogni notte, ogni lacrima versata per lei, ogni dolore sopportato, ogni pezzo di cuore che si era strappato senza potersi più ricomporre. A chi avrei dovuto chiedere lo scotto per tutto quello? Forse a lei, o forse a me stesso. Come quindici anni prima anche quella notte avrei dovuto dire addio ad un altro pezzo del mio cuore? Non riuscivo neppure a concepirlo: ''Papà ho trovato qualcuno che amo più di te, come faccio a mandar via anche lei''. Ma nessuno mi rispose lasciandomi in balia del dolore. Aprii gli occhi poggiandomi completamente sulla sua mano, godendomi quel contatto che mi era mancato. In quella carezza non avvertivo nessuna paura e negli occhi di Sophia non vedevo il terrore, non mi rivedevo come un mostro. Le mie dita allentarono la presa e scivolarono lungo la sua mano lasciando che le dita si unissero.
«Non andrai via da me, non ancora, finirai ciò che hai completato, stanotte. Non riesco a sopportare di vivere senza te. Non riesco a tollerare l'idea che tu mi abbia abbandonato così. Ho fatto tutto per te, avrei dato la mia vita per te.. Ma che posso farci? Sono un peccatore. Lo sei anche tu. Lo siamo tutti, in maniera diversa. Le mie colpe sono peggiori di quelle altrui, quindi se devo ricevere una punizione voglio che a darmela sia tu». Non dissi altro, non le lasciai neppure il tempo di replicare mentre mi avventavo sulle sue labbra incollandole alle mie, schiudendogliele quasi a forza, con violenza ed un pizzico di sadismo verso lei e me stesso. Un bacio sofferto, così lo avrei ricordato. Lo attendevo da così tanto e lo temevo con altrettanta intensità. La sentii esitare mentre cercava d’allontanarmi, ma alla fine cedette. Ricambiò ogni singolo movimento e non scappò, non in quel momento. Aveva bisogno di me e io di lei, ora più che mai. Scappare significava uccidersi, soffocare quell’amore malato e dolce al contempo. Scappare significava dirsi addio. Riuscii a vedere un pizzico del paradiso che Dio mi avrebbe negato in futuro, ma fu una questione di secondi. Tutte le cose belle dovevano avere una fine: la mia mano si mosse lenta arrivando sotto il cuscino, raggiungendo la revolver silenziosa che tenevo sempre a portata di mano. Continuavo a baciarla, a respirare dalle sue labbra, a guardarla come fosse l’ultima volta. Ero avido di ricordi, avido di lei. Estrassi la pistola che scintillò alla luce della luna, l’avvicinai al suo viso che si ritrasse spaventato,  le sorrisi scuotendo appena la testa.
«Non sono come te. Non riuscirei a scalfirti neppure con un fiore. Non potrei mai ucciderti, è per questo che mi sono offerto volontario .. volevo allungare la tua vita. Ma non è servito a niente, e io sono stanco, quindi finisci tu il lavoro. Completalo. Uccidimi tu perché non voglio vivere un'intera vita senza di te. Non riesco a dormire, non riesco a mangiare, non riesco neppure a respirare. E' proprio qui, mi comprime qui e mi sento morire». La mia voce si spezzò nel continuo tentativo di reprimere il pianto. Lo fece lei al posto mio. Afferrò la pistola con rabbia. L’afferrò e la portò all’altezza del mio cuore. Sul cuore dell’uomo che forse pensava l’avesse ridotta in quello stato. Aveva la possibilità d’uccidermi, di liberarsi una volta per tutte di quel gran peso che era il suo passato, di ricominciare da capo. L’occasione perfetta per lei, per i servizi anti-mafia. Abbandonò la mia mano e caricò l’arma, premette la canna sul torace, posò l’indice sul grilletto e.. con un gesto rapido mirò verso la parete in cemento armato che si presentava alle nostre spalle. Sparò. Le tre pallottole, le uniche tre, si persero sparendo nell’oscurità proprio come quella notte a casa sua. Lasciò cadere l’arma a terra e con rabbia, vera rabbia, portò le mani tremanti attorno al colletto della mia maglia strattonandomi verso di se. Urlava a piangeva, urlava e mi amava, urlava e tirava deboli pugni contro il mio petto.
«HAI PROMESSO CHE AVREMMO AVUTO UNA FAMIGLIA, NOI DUE. HO PERSO NOSTRO FIGLIO PER COLPA MIA E NON HO INTENZIONE DI PERDERE ANCHE TE. NON DEVI LASCIARMI MAI PIÙ DA SOLA. MAI PIÙ ALEKSANDR BELOV, CHIARO?». Avevo atteso la morte  credendo realmente che premere il grilletto avrebbe risolto tutto quanto.  
«I mostri non sono più mostri quando sono amati, ed io ti amo. Ho bisogno di te. Perdonami se ti ho fatto male, ti prego, perdonami.. Sono disposta a sopportare il peso del tuo dolore e tutte le loro responsabilità se me ne darai l’occasione». Per qualche secondo il silenzio si frappose tra noi. Era un silenzio particolarmente pesante.
«Sto provando disperatamente a mantenere la mia promessa, nonostante tu mi abbia abbandonato ho continuato su quella strada come se di lì a poco ti avrei vista apparire nuovamente sul mio cammino. Non c'è cosa che io abbia fatto, da quel pomeriggio, che non fosse un modo per permettermi di ritrovarti e ritrovarci. Sistemerò tutto, abbi fede in me Sophia». Non restava altro che quello: la fede. Fede in cosa? Nel Dio che avevo rinnegato, in me stesso, in Sophia, in Misha, nell'amore che provavo per entrambi, talmente diverso ma acuto e doloroso allo stesso modo.
«Sonech’ka vediamoci tra una settimana al parco, ti aspetterò lì alle tre del pomeriggio». La morte ci circondava perennemente. Lei era onnipresente, certa, ora più che mai. Eppure eravamo insieme adesso e ora la nostra vita non era altro che una questione di Fede.
 
“Suicidio”: lasciarmi andare al caldo abbraccio di Sophia. Questa era una prima interpretazione di quel concetto troppo complesso. Avessi potuto passare il resto della mia vita tra le sue braccia lo avrei fatto senza farmelo ripetere.
“Purgatorio”: l’agonia continua procurata dalla lontananza, dalla consapevolezza che forse quello sarebbe stato il nostro ultimo abbraccio. Nessuna scelta era facile e tutto quanto comportava dei sacrifici. Una vita per una vita.
 
«Tra una settimana al parco, alle tre. Ti aspetterò»
 
***
 
Il cielo si tinse di un rosso acceso, varcai la soglia di casa dirigendomi in terrazza, sapevo che lui stava aspettandomi in quel posto da ore; lo trovai lì effettivamente , le braccia conserte e l'espressione arcigna. Gli sorrisi divertito andandogli incontro.
«Bella maglia, è la stessa che indossi da due giorni animale, quando ti deciderai a lavarti?» Mikhail mi guardò torvo.
«Aleksandr che cazzo stai facendo?». La domanda non ebbe risposta mentre mi allontanavo lentamente, la ferita tirava da morire, sedendomi sul parapetto senza smettere di guardarlo.
«Sapevo avrebbe chiamato te, quel bastardo è fottutamente prevedibile» risi di gusto facendo dondolare i piedi, avrei voluto una voragine al posto del pavimento.
«Aleksandr che cazzo stai facendo?» mi ripeté la domanda come un disco rotto, sospirai incrociando le braccia, l'espressione stranamente serena.
«Cosa pensi io stia facendo? Non lo hai ancora capito?» Misha sbuffò inferocito portando le mani sui fianchi, fulminandomi con lo sguardo.
«Era questo il tuo piano? Farmi ordinare il tuo omicidio? Sai che non lo farò, non lo farò mai». Sorrisi osservando il cielo e quando riabbassai lo sguardo Misha aveva sette anni, mi guardava con la stessa espressione truce, aveva la maglia sporca e sbrindellata la mano sinistra tremava appena, lo faceva sempre quando era nervoso; un me stesso appena più grande gli andò vicino fermando quella piccola mano, muovendo il capo in gesto di diniego ''Non far vedere le tue debolezze Misha, o gli altri bambini se ne approfitteranno''. Sbattei le palpebre e la visione svanì, Misha era tornato uomo e la sua mano non tremava più.
«Abbiamo meno di due settimane circa, ci incontreremo nella nave mercantile che parte da San Pietroburgo, io sarò un fuggiasco e tu il cacciatore» lo vidi deglutire spaventato.
 «E poi?». Era chiaro che ormai ci fosse dentro fino al collo, mi avrebbe seguito anche nella tomba se necessario.
«E poi io ti sparerò, e tu mi sparerai. Morirà Aleksandr Belov insieme a Mikhail Volkov». Un attimo di silenzio spezzato solo dai nostri respiri intossicati dal dolore.
«E poi?» Misha ebbe la forza di chiedermi il continuo, mi venne da ridere, avrei volentieri risposto: ''e poi ritornerà Aleksandr Petrov, il bambino adesso uomo rimasto intrappolato in quello specchio del quinto Soviet in un giorno qualsiasi di un mese qualsiasi''.
«Ti fidi di Nadja?». La domanda non fu casuale e Misha lo sapeva, annuì semplicemente sicuro di se stesso, e anche della donna che adesso amava. Sorrisi scendendo dal parapetto.
«Vediamoci nel suo appartamento, ci servirà anche lei».
La clessidra aveva iniziato a scorrere e prima che tutti loro se ne rendessero conto saremmo arrivati all'atto finale. Ci saremmo incontrati, io e lui, a quel varco troppo spesso citato; quel varco che avrebbe donato la libertà o la morte. In entrambi i casi, saremmo comunque stati insieme.

 
  
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