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Autore: Nina Ninetta    29/06/2017    2 recensioni
Roberta è una giornalista caparbia, sicura di sé e del suo talento che aspira al successo, ma il suo caporedattore le affida un compito che lei ritiene degradante e indecoroso per una con la sua competenza: scrivere la biografia di uno sportivo.
Terza classificata al contest "Stelle d’Oriente” indetto da Dollarbaby sul forum di EFP, a pari merito con "Il destino di un boia" di Airalila". Premio speciale "Cuore del Dragone" nello stesso contest.
Quinta classificata al contest "Zodiac Game" indetto da Emanuela.Emy79 sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2
Margherite

"... e gli amanti..."
 
Adagio la tazza ormai vuota sul tavolino accanto al portatile acceso, lo screensaver impazza sul desktop. Prendo la sua biografia e sfoglio le prime pagine, scorrendo le righe dell'introduzione:
 
“Fabrìcio Joaquim De Sousa Cruz è una di quelle persone che non ti aspetti.
È una forza della natura, una forza buona, come il sole che
sa donarci i colori, anche dopo una tempesta. Sa regalarci l'arcobaleno.
Voleva che gli insegnassi tante cose sull'Italia, ma alla fine è stato
 lui ad insegnare qualcosa a me:
mi ha insegnato a essere una persona migliore.
Come disse Victor Hugo: c'è uno spettacolo più grandioso del mare, ed è il cielo,
c'è uno spettacolo più grandioso del cielo, ed è l'interno di un'anima”.

 
Ricordo ancora quando gli consegnai la prima bozza del libro. Avevo il cuore che batteva forte e mi sudavano le mani per l'emozione. Eravamo seduti al solito tavolo, nel solito locale, gli porsi i fogli della prima stesura e mi guardò con fare interrogativo. Gli dissi di leggere. Lui tentò, ma dopo un po' (dopo che avevo rischiato un infarto in pratica!) alzò quei suoi occhietti indagatori su di me, scuotendo il capo.
«Non ci riesco. Non è come l'altro libro che mi hai dato» sbuffai innervosita e gli strappai i fogli da mano. Lui replicò.
«Ehi! Ma che modi!» Io intanto li riponevo nella bustina di cellofan per posarli in borsa.
«Lascia stare! Non si può fare niente con te! Sei un disastro!»
Ero arrabbiata perché avevo passato tutta la notte a chiedermi se avessi dovuto inserire quelle frasi nella prefazione oppure no. Tutta la notte a crucciarmi se lasciargliele leggere oppure no. Tutta la notte a pensare a lui e alle reazioni che avrebbe potuto avere per quelle quattro righe.
In una parola? Tutta la notte a pensare a lui.
Presi quaderno e matita e guardandolo gli dissi:
«Allora, di cosa mi vuoi parlare oggi? Cavalli? Tatuaggi? Fidanzate?»
Lui incrociò le braccia al petto e mise il broncio, sostenendo che voleva sapere cosa c'era scritto su quei fogli. Gli risposi che non erano affari suoi.
 
Il pomeriggio che seguì la triste e patetica parentesi di Marco all'Osiride Club, quindi il bacio e il pugno che ne scaturì, Fabrìcio si presentò con un leggero ritardo al nostro consueto appuntamento, tuttavia questa volta non infierii. Prese posto accanto a me e notai subito il suo labbro gonfio. Mi sentii in colpa, manco se a mollargli quel pugno fossi stata io, ma sapevo di esserne responsabile, seppur indirettamente.
«Robbie» mi salutò, senza sorridermi.
Robbie. Mi aveva chiamata Robbie. Adesso toccava a me.
Tentai di abbozzare una specie di sorriso e mi augurai che non fosse troppo brutto da vedere.
«Come va?» Gli domandai, indicando il labbro inferiore con la matita.
«Oggi all'allenamento tutti mi chiedevano con chi avessi fatto a pugni» mi sentii anche peggio «Quando ho risposto che una menina mi aveva bejio per fare un dispetto al suo amigo e che questi mi aveva preso a pugni, mi hanno riso e face» pronunciò la frase con più vocaboli brasiliani che italiani, ma non mi fu difficile intuirne il senso.
Non so per quale motivo mi stesse raccontando quell'aneddoto: se per farsi commiserare; se per farmi sapere che si aspettava una spiegazione (magari delle scuse) o semplicemente per menzionare il bacio che gli avevo dato e che avevo finto di dimenticare.
Ah, ma io ero più che pronta a quell'evenienza. Non ci avevo dormito la notte per essere preparata ad ogni sua supposizione scomoda su quel bacio. Io l'avevo si baciato per prima, ma a mettermi la lingua in bocca non ero stata io.
«Ti ho portato una cosa per farmi perdonare» mi sembrò davvero meravigliato, probabilmente lo era più per il fatto che, finalmente, gli avevo dato del tu. Presi un libro con la copertina colorata dalla borsa e lo posai sul tavolo. Lo guardò con curiosità, chiedendomi cosa fosse.
«Mi avevi detto che volevi imparare l'italiano, no? Per i tuoi tifosi» il suo sguardo s'insospettiva sempre di più. «Ecco! Questo ti aiuterà!»
«È un libro para infantil» non conoscevo molto bene la sua lingua madre, giorno dopo giorno stavo migliorando molto, in ogni caso mi fece notare che era un libro per bambini e io sorrisi divertita.
«Esatto! É un libro che i bambini italiani usano in prima elementare per imparare a leggere e scrivere. É perfetto per te!» Fabrìcio non riusciva a staccare gli occhi da quelle pagine colorate con disegni e vignette grossolani.
«Mi prendi per il culo?!» Questo però lo aveva imparato in fretta, pensai.
Con pazienza gli mostrai gli esercizi semplici e le parole facili che poteva apprendere e, dopo le sue mille occhiate supplichevoli, gli promisi che avremmo speso un po' di tempo insieme per fare quei compiti.
Mi parve sollevato e io con lui.
Quello stesso pomeriggio mi parlò di quando il Santos - una delle società calcistiche più famose al Mondo - comprò il suo cartellino; della festa che sua madre organizzò invitando parenti e vicini. Peccato che la splendida notizia comportò anche sacrifici: innanzitutto abbandonò il lavoro al maneggio, però quando poteva faceva un salto a salutare i "suoi" cavalli. Di conseguenza, senza un lavoro giornaliero i soldi iniziarono a scarseggiare.
«Mia mamma nascondeva quei pochi real che guadagnava per me. Avevo bisogno di cibo per sostenere gli allenamenti.»
«E i tuoi fratelli non mangiavano?» Chiesi sbigottita, lui rispose con un'alzata di spalle. Non riuscivo ad immaginare una madre che dovesse scegliere tra nutrire l'uno o l'altro figlio, eppure avevo la prova vivente davanti ai miei occhi. Per fortuna il gioco era valso la candela adesso che Fabrìcio Cruz era diventato uno sportivo professionista. Lasciare il Brasile a venti anni per trasferirsi in un club tedesco si era rivelato alquanto complicato, più di quanto si aspettasse mi confidò. Quello che più di tutto mi stupii fu la naturalezza con la quale mi raccontava la sua infanzia tutt'altro che felice, manco fossimo stati amici di vecchia data. Lo ascoltavo rapita, cominciando a vedere un mondo immenso, profondo e sconosciuto prendere forma oltre quel suo sguardo esuberante e a tratti impudente.
Mi chiesi se io fossi mai stata capace di cotanta forza.
 

 
Robbie stava cambiando e me ne rendevo conto giorno dopo giorno.
Nonostante tutto io non fui meravigliato o stupito: sapevo che era molto meglio della ragazza arrogante e scontrosa che si era presentata a me nei primi e grigi pomeriggi. Lo avevo letto nei suoi occhi azzurri. Una persona con degli occhi così belli non può essere una cattiva persona.
Si arrabbiava ancora con me, tuttavia cominciai a comprendere che quella era una caratteristica del suo carattere, non lo faceva perché ero io, Facrìcio Cruz, ma solo perché era così e basta. Si spazientiva soprattutto quando iniziavo a parlare nella mia lingua madre, guardandomi da sopra gli occhiali mi chiedeva:
«Ma li stai facendo gli esercizi su quel libro?» Io ridevo e le rispondevo:
«Sì, professor» la vedevo roteare gli occhi al soffitto e sospirare e mi sentivo bene.
Nessuno dei due toccò più l'argomento bacio. Devo ammettere che dopo gli incontri successivi a quell'assurda serata provai a tirare in ballo il bacio che mi aveva dato, nonostante sapessi che l'aveva fatto per ingelosire il suo amigo. Ma Robbie è una tosta e non si è mai lasciata sfuggire una parola e, a lungo andare, smisi di lanciarle quelle frecciatine.
Ci vedevamo quasi tutti i giorni, eccetto il sabato e la domenica, oppure quando avevo impegni con la squadra, però due week end successivi al bacio - o al pugno, come preferite - accadde qualcosa di strano.
Ero particolarmente irritabile quel lunedì. Il giorno precedente avevo disputato una pessima gara e, come se non bastasse, avevamo perso una partita fondamentale. Arrivai con qualche minuto di ritardo, notando da lontano Robbie smanettare con il suo cellulare.
Mi incuriosirono due cose: la prima era il fatto che non stesse scrivendo o leggendo, la seconda che parve agitarsi vedendomi e, prontamente, abbandonò il telefono sul tavolo. La salutai senza sorriderle, lei al contrario abbozzò un sorrisino stentato.
Il suo cellulare continuava a squillare e ogni volta Robbie arrestava la chiamata. Iniziavo ad arrabbiarmi davvero.  All'ennesimo tentativo di telefonata afferrai quel cellulare e lessi il nome sul display: Marco. Alzai lo sguardo su Robbie che mi strappò il telefono dalle mani, era leggermente arrossita e teneva lo sguardo basso.
«Ci sei tornata insieme?» Il mio timbro di voce era allibito, glielo chiesi senza rifletterci e quella stessa sera nel letto, ripensando alla nostra discussione, me ne pentii.
Aveva avuto ragione lei: non mi riguardava!
«Diciamo...»
«Ti ha tradito. Ma ce l'hai un po' de dignidade?» Fu un colpo basso per lei, una persona così orgogliosa, l'avevo ferita, me lo dissero gli occhi freddi e duri che mi fulminarono.
«Non ti riguarda!»
«Quel tipo mi ha dato un pugno in faccia dopo che-» mi fermai.
«Che cosa? Aventi dillo! Abbi il coraggio di dire quello che ti passa per la testa!»
“Dopo che tu mi hai baciato e mi hai lasciato come un idiota” erano queste le parole che stavo per pronunciare, ma non lo feci e con un gesto della mano le dissi di lasciar perdere.
Incrociai le braccia e poggiai la schiena alla sedia, distendendo le gambe sotto al tavolo. Non mi andava di cominciare quella conversazione, non quel giorno e con la rabbia che provavo.
«Nada! Fai quello che vuoi!»
«Esatto! Farò proprio quello che voglio!» Sbottò seccata.
«Brava!» Aggiunsi schernendola con un applauso sarcastico.
«Che c'è? Siamo nervosi oggi?» Affondò lei.
«Em caso afirmativo?».
Abbozzò un sorrisetto, dicendomi che, evidentemente, quel dannato libro di italiano per bambini non lo stavo nemmeno aprendo. La mia indignazione crebbe. Le risposi a tono, affermando che forse non le avrebbe fatto male imparare a conoscere la mia lingua!
La battuta fu abbastanza infelice. Il passo per il doppio senso era breve, glielo lessi in faccia. Molto probabilmente una parte di me aveva voluto quell'ambiguità. Una parte di me esigeva di sapere cosa era realmente accaduto quella sera.
La vibrazione del cellulare smorzò quell'imbarazzo che si era venuto a creare. Questa volta rispose alla chiamata e io mi alzai dal tavolo per rinfrescarmi il viso (e le idee) in bagno. Da lontano la sentì dire «Ciao Marco» e ne fui disgustato.
Quando tornai stava annotando qualcosa sul suo quaderno. Mi accomodai al mio posto e mi chiese una cosa che non mi aspettavo.
«Allora, perché sei così nervoso oggi? Cos'è successo?» Ero troppo furioso per vedere la genuinità di quella domanda e le risposi con asprezza.
«Adesso mi fai anche da psicologa e amica? Una volta mi dicesti che non saresti mai stata né l'una né l'altra per me» cominciò a riordinare le sue cose.
«Sai una cosa, Fabrìcio? Per oggi è meglio finirla qua! Prima che-»
«Che mi baci o che mi prendi a pugni?» Non riuscivo più a tenere a bada le parole.
«Che la situazione peggiori!» Mi guardò dall'alto, fulminandomi con quei suoi occhi glaciali, quindi prese le sue cose e uscì dal bar. Per la fretta e la collera aveva dimenticato di pagare il suo caffè. Lo feci io per lei. Almeno ero riuscito ad offrirle qualcosa.
 
Quella stessa sera mi chiamò Giovanni De Angelis, il caporedattore della testata giornalistica. Mi disse che aveva una cosa urgente da comunicarmi e che mi aspettava l'indomani nel suo ufficio. Fui certo che Robbie aveva dato le dimissioni per quel lavoro della biografia. Quella notte non riuscii a chiudere occhio.
Robbie era già lì quando quella mattina giunsi in redazione.
La segretaria, ammiccante per tutto il tempo, mi accompagnò nella sala riunioni.
Un ragazzo giovane e con enormi occhiali da vista sedeva sul divanetto in pelle, tenendo la testa china e le mani intrecciate gli ricadevano inermi oltre le ginocchia.
Roberta era in piedi e stava discutendo animatamente con il suo superiore, entrambi si arrestarono quando la segretaria annunciò il mio ingresso. Augurai il buongiorno a tutti. Giovanni mi accolse porgendomi la mano e con un gran sorriso tirato, ma pur sempre un sorriso. Robbie non si voltò neanche a guardarmi in faccia.
Mi chiesi se fosse ancora in collera per la sfuriata del pomeriggio precedente o per qualcos'altro, magari aveva di nuovo litigato con Marco. Indossava una gonna che le arrivava alle ginocchia e una camicia rosa. I capelli erano legati in una treccia.
La stavo ancora osservando quando il caporedattore mi invitò a sedermi, continuando ad avere quel sorriso stentato sul viso mi indicò il ragazzo occhialuto alla mia sinistra, annunciandomi che quello sarebbe stato il nuovo autore della mia biografia.
Non mi sarei dovuto sorprendere, in fondo l'avevo sempre saputo che io e Robbie non saremmo resistiti a lungo. Eravamo troppo diversi: lei un Purosangue Inglese, io un Mustang indomito.
La guardai di soppiatto: Roberta teneva lo sguardo basso e le braccia conserte, si stava morsicando il labbro inferiore. Una volta quelle stesse labbra avevano sfiorato le mie, ma quello era stato solo un incidente di percorso. Mi ritrovai a pensare che forse avrebbe baciato chiunque si fosse trovato a passare di lì in quel momento.
Tornai con l'attenzione sull'uomo di fronte a me, annuii con il capo e aggiunsi:
«Okay, per me è uguale».
Robbie proiettò il suo sguardo furente nei miei occhi, vi lessi delusione ed ebbi l'impressione che fossero lucidi, poi sentii solo il ticchettio dei suoi tacchi sul pavimento e la porta che sbatteva.
Cosa avevo fatto?
 
Mi chiedo perché proprio in questa notte i ricordi mi perseguitano. Forse è a causa della pioggia. Questa pioggia incessante che non vuole smettere di venire giù; questa stessa pioggia che scandì i momenti salienti della nostra storia. Fisso il soffitto nella penombra.
Mi domandai per tutta la giornata cosa cavolo avessi combinato.
Il caporedattore mi aveva detto che quel ragazzo sarebbe stato il mio nuovo scrittore personale e io gli avevo risposto che per me andava bene, che era uguale.
Ma chi volevo prendere in giro?
Uguale? Davvero quell'individuo avrebbe potuto sopperire la presenza di Robbie nei freddi e uggiosi pomeriggi autunnali?
Ero convinto che fosse stata lei a dare le dimissioni e a proporre a De Angelis di affidare a qualcun altro quel lavoro, eppure avevo imparato a conoscerla abbastanza per sapere che lei non si sarebbe mai tirata indietro, neanche dinnanzi a qualche mio comportamento incollerito. D'altra parte mi sembrava di avere tutti i diritti per essere arrabbiato con lei.
E allora perché continuavo a sentirmi così?
Se solo fosse stata un po' meno complicata e scontrosa ne avremmo potuto parlarne. Quella stessa sera tornai al famigerato locale Osiride Club dove tutto era cominciato e - paradossalmente - anche finito. Un bacio. Uno stupido e fugace bacio che sarebbe stato meglio non avercelo mai scambiato. Passai i primi minuti a guardarmi attorno, sperando di vederla; dopo un paio di birre decisi che dovevo assolutamente parlarle.
Colpa dell'alcool in circolo per il mio corpo? Non credo, però di sicuro servì a darmi quel po' di coraggio che mi mancava per dirigermi a casa sua, a qualche isolato di distanza. Non so cosa speravo di ottenere facendo così; mi dicevo che se avessi trovato il portone chiuso mi sarei arreso e sarei tornato a bere qualche altra birra, ma il portone era spalancato e le mie gambe mi condussero lungo la rampa di scale. Suonai il campanello e attesi, mi sembrava di poter sentire i battiti accelerati del mio cuore. Nulla. Mi indispettii e bussai di nuovo, colpendo la porta anche con il pugno. Nada.
Che stolto ero stato! Di sicuro era in giro con il suo fantoccio di nome Marco.
Come aveva potuto dare un'altra chance a quell'imbusto arrogante e presuntuoso?
"A volte non c'è nessun altro" mi aveva detto dopo avermi disinfettato il taglio al labbro. Strinsi i pugni. Era una bugia. Qualcun altro c'era, era lei a non volerlo vedere.
«Che ci fai qua?»
La sua voce mi rimbombò in testa e nell'ambiente silenzioso parve troppo alta. Quando la vidi mi ritrovai senza parole. D'improvviso il motivo che mi aveva spinto ad andarla a cercare mi sembrò futile e insulso. Sospirò e la osservai in silenzio salire gli ultimi gradini e inserire la chiave nella serratura. Aprì la porta d'ingresso e accese la luce nel piccolo salone. Le chiesi se potessi entrare. Si disfò del giubbotto gettandolo sul divano, rispondendomi che la porta era aperta e lasciò la frase in sospeso. Lo presi come un sì.
Chiusi la porta alle mie spalle e la raggiunsi in cucina. Aveva messo a bollire dell'acqua, quindi prese due bustine di tè dalla credenza e due tazze. Aveva i capelli legati in una coda alta, indossava una felpa rosa e bianca aperta su una canotta immacolata, ma il mio sguardo si posò sul didietro messo in risalto dal fuseaux nero. Avvertii un sussulto nelle parti basse e mi costrinsi a distogliere lo sguardo. In verità non ci riuscii fin quando la sua voce non mi riportò sulla terra ferma.
«Sto aspettando» il suo tono era piatto.
«Como?» mi sentivo un imbecille, sospirò di nuovo e incrociò le braccia, poggiandosi al lavabo.
«Se sei venuto fin qui immagino che tu debba dirmi qualcosa».
In realtà questo era il piano, peccato avessi la mente bacata. Quella sera era particolarmente affascinante, senza un velo di trucco sul viso, con le guance arrossate per la corsa, era genuina e autentica.
«Sei andata a fare jogging? Non ti facevo una menina sportiva» accennai un sorriso sperando di alleggerire l'atmosfera.
Lei fece un risolino sarcastico e si sciolse i capelli che le caddero sulle spalle. Sotto quella luce emanavano riflessi ramati, con i pantacollant e la maglia aperta sul seno il mio amigo laggiù mi stava inviando segnali chiari e nitidi. Dovevo sedermi prima che si accorgesse del leggero rigonfiamento nei miei jeans. Robbie mi diede le spalle e cominciò a preparare il tè, continuando il discorso.
«Sei venuto qui solo per dirmi che non mi facevi una “menina sportiva”?» Fece una pausa. «Non credo proprio. Quindi di' quello che devi dire» mi porse una tazza di liquido fumante e prese posto di fronte a me. Guardarla negli occhi era dannatamente difficile, cosa resa ancor più complicata dal fatto che ero attratto da lei come non mai.
«Oggi in ufficio mi sei sembrata arrabbiata. Volevo assicurarmi che non fosse per colpa mia» avrei voluto che mi interrompesse come faceva di solito, mi stavo arrampicando sugli specchi, non sapevo più cosa dirle, ma lei rimase in silenzio e fui costretto a proseguire. «Sei stata tu a voler lasciare questa storia della biografia, quindi non capisco-» mi interruppe (finalmente).
«Oh, no, no, no! Sei stato tu a dire “per me è uguale”. Prenditi le responsabilità delle tue parole!» Non capivo. Responsabilità? Ma di cosa stava parlando. Scossi il capo interdetto e lei riprese. «Ti troverai benissimo con Clark Kent, vedrai. Diventerete ottimi amici. D'altro canto io l'avevo detto a Giovanni che si sarebbe pentito della sua scelta di lasciar scrivere a lui la biografia di un politico, non ha le basi poverino. Quindi, adesso, tutto torna nell'ordine universale delle cose, come sarebbe dovuto essere dall'inizio: lui scriverà di te e io scriverò del grande uomo di politica italiana» sorrise per schernirmi. «L'hai deciso tu!»
Continuava a darmi la colpa per una decisione che avevo preso senza rendermene conto: la situazione cominciava a farsi sempre più chiara.
Iniziavo a comprendere come erano andate le cose: il giornalista (che Robbie si ostinava a chiamare Clark Kent) non era stato in grado di scrivere la biografia di un politico e il caporedattore aveva ben pensato di fare uno scambio di ruoli. Ciò nonostante se avessi risposto che no, per me non era uguale e che volevo che fosse Robbie a continuare il mio libro, tutto sarebbe rimasto com'era.
«È quello che hai sempre voluto, no? Quindi dovresti essermi grata» vidi un lampo di collera nei suoi occhi. Nessuno dei due aveva ancora toccato il suo tè.
«Non avrai la migliore per il tuo libro...»
«Sopravvivrò» non era vero, le stavo mentendo, avrei voluto dirle di tornare a occuparsi della mia biografia e non perché era la migliore, tuttavia Robbie aveva innalzato di nuovo quel muro fra noi. Non riuscivo ad essere me stesso.
«Bene!» Esclamò sorseggiando dalla tazza, poi la suoneria del suo cellulare prese a strimpellare. Si scusò e uscì dalla cucina, da lontano la sentì affermare che era appena rientrata, sì, aveva dimenticato il telefonino a casa e che era dispiaciuta, ma aveva urgente bisogno di una doccia. Tornò da me e abbozzò un timido sorriso, quindi riprese posto dall'altra parte del tavolo, iniziando a giocherellare con la tazza ancora piena.
«Non gli hai detto che ero qui?»
«Credi che ne sarebbe stato contento?» Quella risposta mi confermò che al telefono fosse Marco. Provai una punta di fastidio. Oramai era chiaro che Robbie mi faceva un certo effetto, mi piaceva, e se non fosse stata lei - così com'era - l'avrei già invitata a uscire. E quel Marco poi, cosa ci trovava in lui? Lo amava?
In fondo chi ero io per giudicare?
Mi alzai e lei mi seguì con lo sguardo, scusandomi per non aver bevuto il suo tè, era stata molto gentile ad offrirmelo, ma a me non piace il tè. Si offrì di accompagnarmi fino all'uscio. Mi voltai a guardarla un'ultima volta, oramai fuori da casa sua:
«Per quel che vale» iniziai, senza neanche sapere bene quello che avrei detto «Marco non ti merita. Lo so che pensi che a volte non c'è nessun altro, ma forse sei tu a non volerlo vedere quell'altro».
Non rispose alla mia provocazione, semplicemente mi augurò la buona notte e chiuse la porta con delicatezza; rimasi qualche altro secondo a fissare il legno scuro, illudendomi di vederla riaprirsi. Se fosse successo sarebbe cambiato tutto ciò che ne seguì di lì a qualche minuto, ma ciò non avvenne e mi chiesi se ci saremmo più rivisti.
Lo avremmo fatto eccome, sicuramente non nelle condizioni che mi sarei augurato.
Non in una austera camera d'ospedale.
 

 
Chiudo il libro e lo ripongo sul tavolino, tiro su le ginocchia poggiandovi sopra il mento.
Un brivido di freddo mi percorre tutta, nonostante la coperta a quadri mi copra le spalle come un mantello. Sento ancora lo scroscio forte della pioggia e qualche altro tuono in lontananza. Anche in quella dannata notte dell'incidente pioveva a dirotto.
Quando lo vidi imbambolato sul pianerottolo di casa mia stentai a credere che fosse davvero lui. Per un attimo mi illusi che fosse venuto a dirmi che non gli andava affatto bene che fosse quell'invertebrato a scrivere la sua biografia, ma non sono una persona che vive di illusioni e mi costrinsi a porre un freno alla mia speranza. Certo, avrei potuto fare io il primo passo e fargli sapere che non volevo abbandonare il lavoro (non volevo abbandonare lui), peccato che il mio stupido orgoglio non me lo concesse.
Il cuore mi batteva forte, e non per i 50 minuti di corsa, per niente, a dirmelo fu la sensazione di vuoto allo stomaco che provai alla sua vista.
Cielo e se era bello visto da là, quattro o cinque gradini più giù: la sua carnagione color caramello, i suoi ricci sbarazzini, il fisico da atleta, il tatoo che spiccava sul dorso della mano. Mi intrigava tutto di lui. Tutto! Oramai anche la cadenza da America Latina che i primi giorni mi scocciava era diventata una specie di droga.
Eppure non riuscivo ad essere me stessa in sua presenza, diventavo impaziente e questo mi portava ad essere antipatica. Sentivo che se non avessi fatto così gli sarei saltata addosso, come era accaduto quella sera al pub, quando ogni mia parola contro Marco era stata progettata per far in modo che avessi potuto baciarlo, con l'alibi della ripicca.
Sedemmo dinnanzi a tazze di tè fumante e non mi disse mai di tornare a lavorare per lui. Ero così delusa e amareggiata. Quando il mio cellulare trillò mi assentai per rispondere: era mia madre. Fabrìcio mi chiese se gli avessi detto che era lì con me, era ovvio che dava per scontato che a telefono fosse Marco e io glielo lasciai credere, così come gli avevo lasciato credere che eravamo tornati insieme. Il mio ex fidanzato mi stava facendo una corte sfrenata, ma non mi sarei mai sognata di dargli una seconda chance,  a causa del tradimento certo, ma soprattutto perché non ero più innamorata di lui.
Sulla soglia di casa mi disse che Marco non mi meritava, che non era l'unico, che c'era qualcun altro, se solo mi fossi sforzata di vederlo. Se gli avessi sfiorato il viso e baciato la bocca (così come desideravo) avrei evitato l'incidente, ma ancora una volta a scegliere per me fu l'orgoglio.
O forse no, forse stavo confondendo la codardia con l'orgoglio.
Adagiai la fronte contro quella dannata porta che ci separava. Una voce insistente mi urlava di riaprirla e di dirgli che non doveva mandarmi via, perché volevo continuare a scrivere di lui e con lui, al "Bar del Borgo", seduti al nostro tavolo. D'istinto riaprii la porta con slancio.
«Fabrìcio!» Mi sentii dire al nulla, ma lui non c'era più, era già andato via. La richiusi e mi lasciai scivolare contro di essa, sul pavimento. Rimasi così, con lo sguardo puntato al soffitto sforzandomi di non piangere. Lui era appena andato via e già sentivo la sua mancanza.
Ero frustrata e triste.
Uguale: per lui non c'era differenza fra me e Clark Kent e cosa mi sarei dovuta aspettare? Era quello che meritavo! Eppure avrei voluto sentirgli dire che no, Robbie non si toccava, Robbie doveva rimanere la sua scrittrice.
Ero completamente assorta nei miei pensieri quando il campanello trillò, seguito da due colpi di pugno. Letteralmente balzai in piedi.
Era lui! Era tornato!
Spalancai la porta con un gran sorriso sul volto, ero felice.
«Fabrì-» le parole si strozzarono in gola.
Dinnanzi a me c'era Marco, inviperito, rosso in viso per la rabbia, gli occhi spiritati.
«Puttana!» Esclamò e feci per chiudergli la porta in faccia «Che c'è? Ti fai sbattere dal brasiliano adesso?» Spinsi con quanta forza avevo in corpo per chiuderlo fuori casa, però era troppo forte e con un colpo secco spalancò la porta, scaraventandomi a terra, e quando la sentii sbattere con un tonfo provai una paura viscerale. In un attimo fu su di me.
«Alzati, troia!» Sbottò, afferrandomi sotto l'ascella per rimettermi in piedi. Mi stava facendo male, scuotendomi avanti e indietro. «L'ho visto sai, il tuo amichetto, uscire dal palazzo!» Mi spiava? Da quando?
Urlai di lasciarmi andare e lui, in tutta risposta, mi lanciò contro il divano. Avvertii una fitta alla base della spina dorsale. Ero totalmente scioccata e sopraffatta dal terrore. Lo conoscevo fin troppo bene e i suoi occhi striati di rosso mi confermarono che aveva bevuto, il suo alito ne era la prova concreta e quando era ubriaco era capace di tutto…
«Vattene Marco. Lasciami in pace!»
«Non vuoi tornare con me perché ti sei innamorata del calciatore famoso? Eh, lurida puttana da quattro soldi, è così?»
Era come se le mie parole non gli fossero mai giunte. Cercai con gli occhi una via di fuga, ma quando feci per muovermi la schiena inviò squarci di dolore acuto e mi arrestai. Mi porse la mano, era sull'orlo delle lacrime e questo mi spaventò ancor di più.
«Torna con me, Robbie. Io ti amo.»
«Te lo ripeto per l'ultima volta: vattene! Esci da casa mia e dalla mia vita!»
La sua mascella si indurì, con la stessa mano protesa verso di me mi schiaffeggiò. Un rivolo di sangue prese a scorrermi dal sopracciglio destro lungo la guancia. Il dolore fu istantaneo, ma ancor di più lo fu la mia reazione. Puntellandomi contro la spalliera del divano gli restituii lo schiaffo. Marco parve non accusarlo nemmeno, mi sorrise tracotante e mi afferrò il volto attirandomi contro di sé. Le nostre labbra si sfioravano, potevo sentire distintamente l'odore di alcool trasudare da ogni poro della sua pelle e il suo respiro umidiccio mi finiva in faccia. Aveva l'espressione di un pazzo.
«È più bravo di me a fotterti?»
Gli sputai in faccia. Era riprovevole e mi chiesi come avessi fatto a stare con una persona come lui per ben due anni!
Probabilmente perché davvero non c'era nessun altro.
Mi baciò con cattiveria, continuando a stringere le mie guance, serrai la bocca per evitare che la sua lingua vi entrasse dentro, però fu del tutto inutile. La schiena mi doleva e la ferita sul sopracciglio pulsava e avevo tanta, tanta paura. Con la mano libera mi stritolò un seno, provocandomi una nuova fitta, poi lo sentì scendere lungo il ventre e quando fece per entrare nei fuseaux iniziai a dibattermi, le lacrime iniziarono a bagnare il mio viso. Si arrestò sopra le mutandine e finalmente allontanò la sua bocca dalla mia.
«Ti piacerebbe farti scopare ancora da me, vero? Ma non ti darò questo piacere!» Estrasse dalla tasca dei pantaloni un coltellino svizzero e lo spinse dentro il mio ventre.
Mi accasciai al suolo, premendo il palmo contro la ferita e inzuppandolo in un attimo di sangue. Lo vidi aprire la porta e andare via, senza richiuderla. Calai lo sguardo sulla mano bagnata del mio stesso sangue, ciò nonostante la prima sensazione che provai fu sollievo: era andato via e questo mi bastava. I miei respiri erano rantoli, sangue e lacrime si mischiavano sul pavimento sopra il quale ero riversa, qui iniziava a formarsi una pozzanghera rossa e la vista si stava annebbiando. Con le poche forze che mi rimanevano mi trascinai nella mia camera da letto, afferrai il cellulare sul comò e composi il 118. L'ultima immagine che si formò nella mia mente, prima di perdere i sensi, fu il ricordo del mio primo e unico bacio dato a Fabrìcio Cruz.
 
Seduta su questo divano, in questa fredda notte piovosa, mi sembra ancora di sentir correre sulla mia pelle le emozioni e le sensazioni che provai incrociando i suoi occhi dispiaciuti e insieme furenti sull'uscio di quella camera d'ospedale, con un fascio di margherite in mano, quasi a disagio.
Quando riaprii gli occhi feci fatica a comprendere la situazione. Mi guardai attorno, spaesata, inequivocabilmente era una stanza d'ospedale. Il mio era l'unico letto in quella piccola camera rigorosamente candida, con le pareti di un verdino tenue. E tenue era la luce che filtrava attraverso le veneziane.
Potevo sentire il dolce fragore della pioggia.
Ad entrambi i lati del letto, sul quale me ne stavo sdraiata a pancia in su, torreggiavano  flebo che finivano la loro corsa direttamente nelle mie vene: una sacca conteneva del liquido rosso scuro, l'altra un liquido trasparente. Piano piano mi stavano tornando in mente le scene della sera precedente: avevo avuto una discussione con un Marco ubriaco che mi aveva pugnalata con il suo coltellino svizzero. Non ho mai approvato che se ne andasse in giro con quell'affare in tasca.
E Fabrìcio. Già, anche lui era venuto a casa mia. Distesa in quel letto scarno ed essenziale desiderai ardentemente di vederlo e di sentire la voce di quest'ultimo.
La porta della camera si aprì e un'infermiera intorno ai cinquant'anni ne fece capolino, spingendo con sé un carrello colmo di medicine e bende. Mi sorrise e mi disse che era contenta di vedermi sveglia, controllò la flebo di destra affermando che l'avevo scampata per un pelo, un po' più giù e avrei potuto riportare danni letali. Senza smettere di sorridere la vidi fare il giro del letto per controllare la sacca rossa, quindi aggiunse che avevo perso molto sangue, per questo mi sarebbe servita almeno una trasfusione. Rigirò intorno a me e prese un aggeggio per misurarmi la temperatura corporea, la osservai in silenzio contare i secondi sull'orologio da polso e fare una piccola smorfia:
«Hai un po' di febbre, ma questo è normale» tornò a sorridermi e mi accarezzò la testa. «Allora, piccola, chi vuoi chiamare per dirgli della tua situazione?»
Il primo nome che mi venne in mente fu quello di Fabrìcio Cruz, ma telefonarlo per dirgli che ero in ospedale mi parve azzardato. Avrebbe potuto rispondermi che non gliene poteva fregar di meno o credere che volessi essere compatita. La verità è che ancora una volta ebbi paura a mostrare la mia debolezza.
Guardai la signora bionda, ancora in attesa della mia risposta.
«Il mio capo. Devo dirgli che non andrò a lavoro oggi.»
La donna parve delusa, si limitò a porgermi il mio cellulare che, mi spiegò, stringevo ancora in mano quando i ragazzi del pronto soccorso erano venuti in casa e mi avevano trovato ai piedi del comò, priva di sensi, in una pozza di sangue fresco.
La ringraziai e aspettai che fosse uscita dalla stanza per chiamare Giovanni.
Passai le ore successive a fissare il soffitto. Avevo le braccia che mi formicolavano a causa dei lavaggi e la ferita iniziava a pulsarmi. Avrei voluto piangere, però mi resi conto che non avevo lacrime da versare. Stanca di guardare all'insù voltai lo sguardo fuori dalla finestra, dove il cielo era plumbeo e non smetteva di piovere, proprio come dentro di me: solo grigiore e tanta paura.
E se Marco fosse tornato? Come lo avrei fermato?
Sapevo bene che se ero ancora viva era solo per un colpo di fortuna e nient'altro.
Giovanni De Angelis passò a trovarmi all'ora di pranzo, accompagnato dalla segretaria. Mi baciò la fronte e vidi che aveva le lacrime agli occhi. È un brav'uomo e si era affezionato davvero a me, forse ancora tuttora che non lavoro più nella sua testata giornalistica. La ragazza che era con lui piangeva senza riserva. Mi abbracciò facendomi quasi male alla ferita, ma trattenni il gemito di dolore, nonostante l'avessi sempre trattata con amarezza era lì e stava piangendo per me. Avrei voluto informarmi su come procedeva il lavoro di Clark Kent, però questo significava implicare - seppur indirettamente - il nome di Fabrìcio e non mi andava. Parlammo dell'altra biografia invece, quella che avrei dovuto cominciare a scrivere di lì a qualche giorno. Il caporedattore mi disse che dovevo solo pensare a guarire, la data di pubblicazione di quel libro poteva anche slittare.
Andarono via e mi sentii di nuovo sola.
Quel pomeriggio dormii profondamente, senza alcun sogno, probabilmente a causa degli analgesici per il dolore, perciò fui grata a quei medicinali: preferivo dormire piuttosto che passare il tempo a rimuginare sulla mia vita.
La sera successiva la solita, dolce infermiera (con la quale avevo stretto un rapporto quasi materno e che spesso veniva a farmi visita anche fuori dall'orario di servizio), mi stava cambiando la flebo e ricordo che sorridevo per un aneddoto buffo su un suo vecchio paziente. Quando sentimmo un toc-toc sulla porta la vidi alzare lo sguardo in quella direzione e gli occhi le brillarono. Batté le mani sul grosso seno ed esclamò:
«Oh cielo! Sono bellissime!»
Molto lentamente (avevo la schiena ancora indolenzita a causa della botta contro il divano) mi voltai in direzione della porta. Fabrìcio era fermo sulla soglia, con un piede dentro e uno fuori, in mano stringeva un fascio di margherite bianche. Il mio sorriso morì sulle labbra e il cuore iniziò a battere più velocemente. Avevo avuto una così grande voglia di vederlo che in quel momento non mi parve vero che potesse essere davvero lì.
I nostri sguardi erano come incollati, vidi come in un sogno la donna cinquantenne dirgli qualcosa, lui le sorrise e le rispose, ma non riuscii a intercettare il loro breve dialogo, poi lei gli tolse i fiori dalle mani e scomparve nei corridoi dell'ospedale.
Lo osservai, impossibilitata a muovermi, sia per la sua presenza, sia per il dolore alla spina dorsale, stava avanzando verso di me, aveva l'aria imbarazzata, l'aria di un bambino dannatamente sexy. Quando fu accanto al letto indicò con il pollice alle sue spalle.
«Ti avevo portato dei fiori, ma la signora me li ha presi» si voltò indietro, forse per evitare il mio sguardo. «Ha detto che serviva un vaso» si girò di nuovo verso di me. Non riuscivo a parlare, avevo la gola secca e inoltre ero consapevole del fatto che non appena avessi aperto bocca sarei scoppiata in un pianto isterico. Adesso Fabrìcio era lì con me e mi sentivo protetta, potevo anche abbassare le difese, eppure continuava ad essere così maledettamente difficile. Si avvicinò ancor di più, aveva uno sguardo dolcissimo, mi sfiorò il cerotto sul sopracciglio con le dita.
«È stato Marco?» Niente giri di parole pensai e mi voltai dall'altro lato, intimidita anche da quel tocco. Fissai la pioggia cadere fuori dalla finestra, da troppe notti non vedevo le stelle. Sentii la prima lacrima rigarmi la guancia destra. Non potevo asciugarla, se ne sarebbe accorto.
«Robbie, è stato Marco?» Il suo tono s'indurì e io non poté fare altro che annuire con il capo, lo sentì sospirare. «L'hai detto alla polizia?» Questa volta scossi la testa in segno di negazione. Oramai le lacrime non si contavano più.
L'infermiera irruppe con la sua solita allegria, adagiò il vaso proprio davanti ai miei occhi,  notò il mio volto bagnato dalle lacrime e con discrezione andò via, chiudendo la porta dietro di sé. La vista di quel fascio di margherite bianche fu il colpo di grazia. Mi coprii il viso con le mani (come meglio potevo perché i lavaggi limitavano i movimenti) e piansi.
Sentii la sua mano calda e rassicurante posarsi sul mio capo e delicatamente se lo portò contro l'addome. Tutto quello che mi serviva era con me in quella desolata camera d'ospedale.
«Devi dirlo alla polizia, devi denunciarlo!» Scossi la testa e mi allontanai dal suo abbraccio accogliente, asciugandomi le guance con i palmi. «È successo dopo che sono andato via?» Annuii con un cenno del capo. «Gli avevi detto che ero stato da te?»
Sospirai. Era tempo di parlare.
«No, ti ha visto uscire da casa mia» si sedette ai piedi del letto, mi guardò con aria interessata e io proseguii. «Mi stava spiando».
«No entendo» avevo dimenticato il fatto che lui credesse che io e Marco fossimo tornati insieme. Abbozzai un sorrisino timido, sembrava sinceramente preoccupato e fui sul punto di carezzargli il volto.
«Non ci sono mai tornata con Marco. Quella sera, al telefono, era mia madre» avevo una paura tremenda che si potesse arrabbiare, ma lui rimase seduto lì dinnanzi a me, a scrutarmi con attenzione. «Marco si è indispettito perché ti ha visto uscire dal palazzo e… si è fatto delle strane idee… su di noi».
Lasciò dondolare il capo un paio di volte, fissando i miei occhi con intensità; era ora di cambiare argomento, perciò lo ringraziai per i fiori, ma lui non abboccò.
«… e per il bacio» aggiunse raggelandomi.
Mi guardai le mani e gli risposi di sì, Marco si era indispettito anche per il bacio, o meglio, da lì era cominciato tutto. Per un attimo calò il silenzio, poi decisi di continuare quel discorso taciuto per troppo tempo.
«Senti Fabrìcio, riguardo a quella sera, volevo dirti che-» mi fermò subitaneo.
«Tranquilla, lo so» davvero? Lo sapeva? «L'ho capito: era per far ingelosire Marco».
Lo fissai incredula. Non sarei mai riuscita a dirgli la verità, ossia che quel bacio era stato ponderato e cercato. Sorrisi in segno di assenso.
Rimase lì a tenermi compagnia per le due ore successive. Quando si alzò per andare via si chinò a baciarmi una guancia, poi disse una cosa che mi rese la paziente più felice del mondo.
«Ho detto a Giovanni che mi piacerebbe che a scrivere la mia biografia fossi tu. Lui mi ha risposto che avrei dovuto chiedere a te... »
«Vuoi la migliore, non è vero?»
Sorrise in maniera disarmante.
«Ci tengo al mio nome» concluse che sarebbe passato il pomeriggio seguente per riprendere i nostri consueti incontri. Non chiedevo altro.
Una cosa è certa: non mi sarei mai aspettata che Marco si facesse vivo di nuovo, come un ladro torna nella casa che ha derubato o come un assassino sul luogo del delitto e il cadavere ancora caldo. Non ebbi paura per me, quanto per Fabrìcio e fu in quel momento che compresi quanto tenessi a lui: molto, molto di più di quello che volevo credere e accettare. Quel pomeriggio capii che c'era qualcosa di ancora più importante della mia stessa vita: la sua.
 
  
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