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Autore: Warlock_Vampire    15/07/2017    0 recensioni
"Io, che ho conosciuto molto presto cosa fossero dolore e odio e che solo dopo molto tempo ho compreso l'amore; io, che ho imparato ad uccidere prima ancora di saper vivere; io, che ho vissuto per secoli nella profonda convinzione che ognuno può ottenere ciò che vuole, sempre e comunque, sacrificando tutto, se necessario; dopo così tanto ho davvero bisogno di mettere nero su bianco i fatti."
In queste memorie Katherine Pierce si racconta, dalla sua fragile umanità alla trasformazione in Vampiro, ripercorrendo tutte le tappe più significative della sua lunga esistenza.
AVVERTENZA: La lettura di questa storia è un contributo, una spin off, di The last challenge (il nostro crossover). Pertanto, consigliamo la lettura di The last challenge, anche se non è essenziale.
Inoltre, essendo la "nostra" Katherine, le vicende in cui è coinvolta sono frutto dell'immaginazione degli autori e nulla hanno a che vedere con la Katherine di The Vampire Diaries, pur ricalcandone l'aspetto e il carattere.
Precisato questo, buona lettura!
Genere: Azione, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Elijah, Katherine Pierce, Klaus, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Versailles, 1683 (2)
 
Da quel giorno, io e Luigi XIV passammo molto tempo insieme. Era una compagnia piacevole, la sua. Si parlava di amore, di vita, di morte, di cosa fosse l’esistenza e di tante questioni morali ed etiche. Immaginavamo persino come potesse essere la nostra vita se lui non fosse stato il re di Francia e io non fossi stata Katerina, nipote della Marchesa De Valençon.
«Io sono nato per essere re, Katerina» mi rispose, quando gli chiesi che ne sarebbe stato di lui se invece di nascere Luigi XIV fosse nato Jaques in una provincia dimenticata a sud del regno.
«Il mio futuro era scritto già da prima che nascessi. Dovreste allora piuttosto chiedermi cosa sarei adesso se la mia intera famiglia e tutti i miei antenati non fossero stati di stirpe reale».
E si continuava così, discorrendo, ipotizzando, fantasticando.
Rose, naturalmente, vide la pericolosità della cosa e affrontò il discorso un mattino di aprile, tre mesi dopo il nostro arrivo con la Marchesa.
«Sono certa che conosci già da te i rischi dell’essere… qualunque cosa tu sia per il re» mi disse, senza riuscire a nascondere un certo rimprovero nel tono di voce.
«Credi che io mi diverta col re di Francia?!» esclamai. Avevo le sopracciglia inarcate per lo stupore.
«Oh, be’, io non l’ho detto» balbettò Rose in evidente imbarazzo, «però ti conosco abbastanza da sapere che ne saresti capacissima. In fondo sei sempre stata con uomini potenti. Però vorrei farti notare –insomma, sono certa che lo sai già- che il re sicuramente prende la Verbena e che quindi è molto rischioso…».
«Oh, ti prego» la fermai, «io e Luigi XIV siamo solo confidenti».
«Cioè?».
«Parliamo. E basta» chiarii, «piuttosto, dimmi di te e di quel damerino che ti fa le fusa».
Era il giovane Duca di Nonsocosa e faceva la corte a Rose da quando eravamo arrivate. Dopo due settimane di banchetti e festini in cui lei non lo aveva degnato che di qualche sguardo imbarazzato, una sera le misi nelle mani un bicchiere di brandy e le ordinai di andare a parlarci. Ce lo avevano già presentato, per cui non sarebbe stato per niente sconveniente se Rose gli si fosse avvicinata anche solo per accettare di ballare con lui.
Non avevo rivisto Rose fino alla tarda mattinata del giorno seguente, quando era entrata nei miei alloggi col volto arrossato e una strana luce negli occhi.
«Mio Dio» avevo esordito, «non guardarmi con quella faccia».
L’avrei stuzzicata non poco per tutta quella faccenda che le creava un tale imbarazzo, ma che per me era spasso allo stato puro.
Quando l’avevo vista prendere fiato per parlare, l’avevo preceduta dicendo: «no no no no no! Non voglio i particolari! Non dirmi niente, Rose Foster, non voglio sapere delle tue perversioni! Credo che non riuscirei più a guardarti con gli stessi occhi».
«Oh, finiscila!» mi aveva redarguita lei, ridendo.
«Com’è che si chiama?» le dissi in quel momento, quanto mai desiderosa di allontanare la discussione dai discorsi tra me e il re di Francia, «Denis, Devis…».
«David!» mi corresse lei.
«David, sì». Poi aggiunsi: «sarà bene che anche tu faccia attenzione. Qui sono in tanti a sapere dei Vampiri e a prendere precauzioni al riguardo».
«Lo so», poi abbassò il capo e mi chiese a bassa voce: «lo ucciderai?».
La sua domanda mi sorprese, ma dissi solo: «se vuoi che lo uccida, lo farò».
«No, io non voglio che tu lo uccida!».
«E allora, perché mi fai queste domande?».
«Io… pensavo solo che… niente, lascia perdere».
«Credi che io voglia ucciderlo solo perché è un rischio tremendo avere una relazione con un umano che quasi certamente sa dei Vampiri? O pensi che io sia gelosa di te e non voglia la tua felicità?» la attaccai, «non sono un mostro, Rose. Cioè, fondamentalmente lo sono, ma non con te. Io sono felice, se tu sei felice, e non lo ucciderò mai a meno che tu non me lo chieda esplicitamente, capito? E poi, il rischio fa parte della vita e del divertimento. Se ci saranno problemi a riguardo in futuro, li risolveremo».
«Grazie, Kat» sospirò.
«Ringraziami per altro, non per questo. Ah, un attimo… Rose? Due cose: non lo soggiogare mai e non bere il suo sangue, ma soprattutto, non ti innamorare di lui».
Ci guardammo per un lungo minuto, poi lei annuì e lasciò la stanza. Io mi spostai verso la finestra, pensando a Lorenzo e a quanto mi mancasse in quel momento.
Fuori c’erano nobili che passeggiavano e poi Luigi XIV, seguito immancabilmente dagli uomini invisibili. Discorreva con un paio di Marchesi, Conti o quel che erano e parlava animatamente, gesticolando un poco e muovendo la testa di continuo. La sua parrucca sarebbe di certo caduta se continuava così. Che servissero a quello gli uomini invisibili? A raccoglierla da terra?
 
Col passare dei giorni i problemi divennero ben altri. Per la testa non avevo più solamente le riflessioni di Luigi e le diatribe amorose di Rose, ma anche la questione Verbena. Infatti, continuavo a prenderla ogni giorno per quella questione dell’immunità che era iniziata con Nikolaj quando mi aveva rubato il Diamante Oscuro. Ormai i suoi effetti sul mio organismo erano quasi del tutto annientati e dopo accese discussioni con Rose ero riuscita a convincerla a prendere anche lei la Verbena ogni giorno.
Il piccolo grande problema del vivere in un posto come Versailles, praticamente ermetico a qualsiasi minaccia soprannaturale, era l’impossibilità di rifornirmi proprio della Verbena che era necessaria per mantenere l’immunità del mio organismo al suo potere. Le scorte stavano finendo e non sapevo come fare per procurarmene dell’altra.
Razionai i dosaggi per me e Rose e intanto arrivai alla conclusione che quasi di certo in un posto come Versailles dovesse esserci almeno una pianta di Verbena. Come avrebbero potuto altrimenti fornire le dosi che giornalmente il re e tutta la corte assumevano per proteggersi dal soprannaturale? Per questo motivo, pensai che l’unico che poteva condurmi alla presunta piantagione di Verbena, fosse proprio il re di Francia.
Iniziai a fingere un estremo interesse per la botanica, nel tentativo di indurre il re a mostrarmi tutte le piante di Versailles, Verbena compresa. Ma i tentativi andarono a vuoto e fui costretta a razionare nuovamente i dosaggi per me e Rose, passando da un sorso ogni due giorni a un sorso ogni quattro.
Paradossalmente, fu la morte della regina a offrire l’occasione propizia.
Nel luglio di quell’anno infatti, Maria Teresa si ammalò e dopo una settimana di agonia, morì. Io e Rose non intervenimmo per evitare che accadesse –avevo già imparato con Elisabetta I che i regnanti vanno lasciati alla Natura- e, se anche avessimo voluto, non saremmo mai riuscite ad avvicinarci a lei. Per quella settimana di malattia, i suoi alloggi furono così affollati di medici, preti e dame in preghiera, che sarebbe stato del tutto impossibile fare qualcosa per aiutare la regina.
Io e Luigi XIV riuscimmo a riprendere le nostre passeggiate pomeridiane solo due settimane dopo la morte di Maria Teresa. Il re si era fatto pensieroso, scuro in volto, ma non triste nel senso vero del termine.
«Abbiamo qualcosa in comune, ora» mi disse un giorno. Camminavamo lentamente tra le piante di agrumi, seguiti come sempre dagli uomini invisibili a cui ormai non facevo più caso.
«Siamo vedovi entrambi» chiarì.
«Amavate la regina?» gli chiesi io.
«No, non l’amavo. Ma avevo grande rispetto per lei».
«Allora non abbiamo proprio nulla in comune, Maestà».
«Certo», sorrise con una certa malinconia, «voi amavate molto vostro marito».
«Nessuno sa cosa sia l’amore» gli ripetei, dicendo le stesse cose che gli avevo detto la prima volta in cui avevamo parlato.
«Immagino che lascerete Versailles» osservò Luigi, cambiando discorso.
«Dovrei?».
«La Marchesa non ha più motivo di rimanere qui, ora che la regina è morta. Voi ve ne andrete con lei e vostra cugina, Mademoiselle Rose, o sbaglio?».
Non ci avevo pensato. Ma sì, ora che la Marchesa se ne andava, di certo saremmo dovute andare via anche io e Rose.
«Non sbagliate, mio Re» convenni.
«Katerina, prima ho bisogno di mostrarvi una cosa» disse lui, facendosi serio d’improvviso.
Mi condusse fino a una zona dove non si vedevano nobili a passeggiare, ma solo guardie in perlustrazione. Oltrepassammo i cancelli di un’area recintata e preclusa agli ospiti della corte reale. Uno degli uomini invisibili si inchinò davanti al Re e gli chiese sottovoce se fosse saggio portarmi lì. Ma Luigi liquidò l’uomo con un gesto annoiato della mano, mi offrì il braccio e mi accompagnò fino ad una piccola costruzione dentro la quale stavano file e file di piantine coltivate in vaso.
Riconobbi diverse specie di Aconito, altrimenti conosciuto come Strozzalupo, e lì, in fondo, proprio cinque o sei piante di Verbena. Ebbi un tuffo al cuore e dentro di me esultai per la felicità. Eccola, la scorta reale. Una Strega avrebbe venduto l’anima al Diavolo pur di mettere le mani su tutte quelle piante.
Luigi mi condusse proprio verso le piante di Verbena. Ne staccò una fogliolina e se la passò tra le dita, ne annusò il profumo… temevo che me la porgesse per fare lo stesso. A quel punto sarebbe emersa la verità su di me, perché per quanta Verbena assumessi ogni giorno, la mia pelle non era di certo immune al bruciore da contatto.
Ma Luigi lasciò cadere a terra la fogliolina e si portò la mano alla giacca di broccato che indossava. Ne estrasse un pacchettino e, apertolo, mi mostrò cinque splendide fialette piene di liquido ambrato.
«Queste, cara Katerina, sono fiale di Verbena. Da questa pianta si ricava questo liquido e, se lo prendete ogni giorno, vi può proteggere dal Male» mi spiegò.
«E’ un dono molto prezioso» attaccai, ma lui d’un tratto si era fatto furtivo e sembrava voler concludere l’affare il più presto possibile.
«La scomparsa di mia moglie, la Regina, mi ha scombussolato. Lo so che il Male a cui mi riferisco non c’entra niente con la sua morte, però, ora che mi avete confermato la vostra volontà di partire, voglio farvi questo piccolo regalo perché fuori da Versailles è tutto molto pericoloso. Voi siete una viaggiatrice, Katerina, e viaggiando si incorre in molti pericoli. Non vorrei mai che mi giungesse la notizia della vostra morte. Abbiamo parlato molto in questi mesi, condiviso riflessioni… non vi dimenticherò mai».
Presi il pacchetto e lo misi al sicuro nella mia borsetta.
«Allora, ne prenderete un sorso ogni giorno?».
«Lo farò, ve lo prometto» gli risposi.
«Bene. Credo che non sia rimasto altro da dirci, allora».
Tornammo fuori in silenzio e riprendemmo il viale da cui eravamo venuti, diretti alla reggia. Quando venne il momento di separarci, gli diedi il mio ultimo addio:
«Il vostro nome è scritto nella Storia, Luigi. La Storia non vi dimenticherà e nemmeno io».
Uno degli uomini invisibili alle nostre spalle ebbe un singulto quando pronunciai per la prima volta il nome del Re, come se avesse ingoiato una nocciolina intera e gli fosse andata di traverso. Ma il Re, come altre volte, non dimostrò di rimanere sconvolto da tanta audacia.
«Un Re non ha amici; ma voi, per me, siete stata la cosa più simile ad un’amica che si possa sperare, considerata la mia posizione», fu il suo saluto.
Ci inchinammo reciprocamente e poi ci separammo definitivamente.
Il giorno dopo i miei bagagli erano già sulla vettura che avrebbe portato me, Rose e la povera vecchia Marchesa lontano da Versailles. 
  
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