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Autore: ChocoCat    22/07/2017    1 recensioni
REVISIONE IN CORSO
"Hermione raccolse la borsetta di perline dalla sedia accanto alla propria e si avviò verso il piano di sopra per entrare nella prima camera che avesse trovato. Si ritrovò davanti al letto sfatto di Ron; sul davanzale della finestra c’era una boccia di vetro vuota, il vecchio Deluminatore e la sua bacchetta. I ricordi la sommersero; in quella stanza, strategie, ansie, affetti, paure, e ancora gioie, disappunto, e amori senza fine…"
Seguiamo le vicende di una Hermione che sta per cambiare definitivamente la rotta della propria vita (e se non lo sapete ancora, sappiate che non andrà come previsto!), un vivace Ronald pronto a tutto - anche a un'avventura nella jungla nera in mezzo ai ragni-, una Ginevra alle prese con il vaiolo magico brasiliano e un passato pronto a ribollirle contro, un Seamus con il suo più grande sogno inconfessato, ed infine... Harry, che dovrebbe avere la mente vuota e non sentire mal di testa da un bel po', ma è risaputo... nella vita... non si sa mai cosa ci aspetta!
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Il trio protagonista, Luna Lovegood, Michael Corner, Seamus Finnigan | Coppie: Harry/Hermione
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Keepsake Tales'
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Dal capitolo precedente:

"Era una crisi parziale complessa." Esclamò Ginny. "Herm, da quando Harry è epilettico?"
Lei non rispose. Scostò appena il bavero per vedere la voglia, pastrugnata malissimo con il suo unguento, allargarsi a vista fino alla clavicola. Ginevra non capiva. La guardava e scuoteva il capo, disperata. All'improvviso si alzò, appellò il minimo indispensabile per rivestirsi e andare via da lì. Hermione sfoderò la bacchetta, ma prima di cominciare gli incantesimi su Harry, le lanciò un ultimo sguardo interrogativo.
"Non posso Hermione, non posso più. Mi dispiace, devo andare. Conto su di te. Prenditi cura di Harry."

47.
Aprendo le palpebre, Harry ebbe la sensazione di avere della sabbia negli occhi. Da quanto tempo dormiva? E perché vedeva nero?
“Sono cieco.” Disse, ad alta voce, spaventato.
Una voce femminile gli rispose, ma non riuscì a capire il significato delle parole. Era tutto un garbuglio informe. Ebbe la sensazione di essere spazzato dalla folata calda di un qualche incantesimo. Quella voce lo richiamò… ma non proveniva da davanti a sé, come un attimo prima.
“… Harry, che cosa ci fai qui?”
C’era odore di fogliame, di sottobosco.
Di feci di qualche grosso carnivoro.
E l’umidità era spaventosa, così come il freddo che lo faceva rabbrividire. All’improvviso, di fronte a lui, apparve il suo riflesso. Doveva avere quattordici anni, al massimo quindici. Sotto alla veste e al maglione di lana indossava un pigiama a righe. Il vento gli spostava i capelli e lasciava vedere la cicatrice, e i suoi occhiali erano leggermente storti, a dirla tutta… ma non riuscì a soffermarsi su quei dettagli perché i suoi occhi si spostavano automaticamente sulla sua bocca, sulle sue clavicole che si vedevano a malapena dal colletto del pigiama, e nonostante fosse certo di essere cresciuto almeno un pochino dopo la scuola, si osservava dal basso, e il suo corpo gli parve perfino
un po’ imponente.
Harry il giovane parlava, ma non riusciva a sentirlo. Aveva una sfumatura colpevole, negli occhi, che non gli sfuggì. Cominciò ad avvertire agitazione, sconforto, e un inconfondibile batticuore.
Il mio segreto… il mio segreto.
Scomparve tutto quanto, e riapparve un altro fantasma di Harry: questa volta giocherellava con il boccino sul prato seduto accanto a Ron, molto lontano da lui, quasi a strapiombo sulle sponde del Lago.
Non cadere, Harry.
Il cuore gli arrivò in gola, martellando come un forsennato, mentre la sua vera coscienza, il suo vero io, si malediceva in tutte le lingue del mondo. Aveva odiato suo padre: ed ora eccolo lì a fare il deficiente con il boccino in mano, lasciandolo andare, riacchiappandolo rapidamente, con un’aria completamente ridicola. Se non per quel ciuffo in fronte, così audace, e gli occhi verdi spensierati, e il sorriso luminoso, le risate inconfondibili di Ron che abbracciavano il momento di complicità e rendevano il tutto meno goffo, più sensato… era un ricordo bellissimo. Se ne era dimenticato. Ma chi era? Chi lo stava guardando? Chi? Non poté voltarsi, non poté cercare indizi guardandosi la veste o le mani, perché il mondo lasciava spazio a un vortice scuro e potente…
“Harry!”
Aprì gli occhi per bene, stavolta, sentendoli bruciare, ma la cecità era scomparsa. Il tepore dei ricordi lo abbandonò quasi del tutto mentre scivolava di nuovo nel presente.
“Hermione, sei tu?”
Si alzò a sedere, confuso, stropicciandosi il viso. Hermione lo guardava costernata. Era pallida, con lo sguardo vigile di quando tornava dopo una notte di ronda nella tenda, ai tempi della ricerca degli Horcrux.
“Mi dispiace, Harry. La pozione ha bisogno di più tempo di quanto tu disponga. Io… io non so cosa fare. Vuoi andare al San Mungo?”
“Cosa dici, sto benissimo.” Gracchiò, rassettandosi appena, mentre si rialzava, seguito da Hermione che sembrava pronta a raccoglierlo in caso cedesse nuovamente.
Si guardò intorno. Non capiva. Poi ricordò.
“Senti, Hermione. Mi ha lasciato.”
Si trascinò sul divano e si gettò la coperta addosso. Hermione gli tese un bicchiere d’acqua che doveva aver preparato quella notte.
Bevve a piccoli sorsi, sentendo la gola pizzicare e contrarsi. Lei gli prese la mano, sedendosi, e tirò un po’ di coperta sulle proprie gambe.
“Vuoi parlarne, Harry?”
“Avevi ragione tu, mi sa.” Mormorò. “Le stavo troppo addosso.” Stringeva il bicchiere fra le dita. “Mi ha detto che io ero una specie di porto sicuro. Lei… lei preferisce la tempesta.”
“Vi siete voluti molto bene.” Hermione tentò di scostargli i capelli dagli occhi, ma quelli ricaddero subito al loro posto con uno sbuffo. “Sono cose che succedono. Terribili. Ma succedono.”
“Non devono succedere. Se non sei innamorato, perché fai perdere tempo a qualcuno? Piuttosto resta da solo. Piuttosto prenditi le tue responsabilità. Io… io la odio.”
Si scostò bruscamente, e appoggiò il bicchiere sul tavolino davanti al caminetto con forza, ma poi tornò ad affondare nello schienale. Si voltò a guardare Hermione da dietro i ciuffi scuri, e forse complice la sudata post-convulsioni, quando li sollevò all’indietro loro rimasero impettiti.
“Non perdere tempo a odiare. Non serve a niente.” Hermione gli rivolse uno sguardo dolce, che lui non registrò, occupato com’era a provare rancore.
“Hai idea di quante sere ho passato da solo su questo divano a guardare il soffitto? A pensare a lei?” Sorrise, poi, con mestizia. “Ora mi sento un perfetto imbecille.”
Hermione gli rivolse un sorriso gentile. Se solo lui avesse saputo di lei e Ronald!
“Adesso dobbiamo pensare a come proteggere il tuo cervello, perché stai cominciando a dare i numeri.”
“Hai ragione ma… a dirla tutta, sono un po’ stufo. Di ogni cosa, intendo. Questa frenesia, il da fare, il tempo che corre. Ti dirò che… i miei sogni, ultimamente, sono un grande conforto. A volte vorrei non svegliarmi, restare imprigionato e…” Arrossì, sentendosi invaso da quei sentimenti così semplici da apparire, ai suoi occhi, tremendamente potenti. I sentimenti di quella che, indubbiamente, lo amava più di ogni altra cosa al mondo. Niente a che vedere con Ginevra.
Hermione soppesò le sue parole, incerta se collegarle ai lapsus, ai jamais-vu, alle crisi convulsive o ancora alla macchia che si apprestava a crescere e a ricoprirlo del tutto.
Povero Harry. La vita proprio non riusciva a lasciarlo in pace.
“Come ti senti?” disse, tentando di cambiare discorso. Non voleva che lui si adagiasse in quei pensieri assurdi: doveva restare ben ancorato alla realtà. Il più a lungo possibile, il tempo di somministrargli quella dannata pozione per farlo tornare quello di prima. “Riesci ad alzarti? Dovresti riposare, ma…”
“Che giorno è oggi?”
“Lunedì.”
“Ho dormito tutta la notte per terra e tu sei rimasta qui?”
“Avevo paura di svegliarti, non volevo che tornassi in crisi. Quando durano troppo a lungo, possono danneggiare irrimediabilmente le connessioni… potresti… potresti perdere la testa.”
Harry serrò la mascella. “Non dovevi, hai fatto fin troppo per me. Non so come ringraziarti.”
Il sorriso che lei gli rivolse lo confortò: “Portami ad aggiustare la bacchetta e non parliamone più!”



48.
Erano passati pochi giorni, dalle ultime vicende che avevano scombussolato la vita un po’ a tutti. Senza ombra di dubbio, Seamus Finnegan, nonostante il fervore in Accademia, passava più tempo da solo rinchiuso nella sua stanza che a chiacchierare sulle voci che giravano in seno allo studentato, e aveva le sue buone ragioni.
Se quello che pensava era vero, se ci aveva visto giusto, non solo rischiavano la vita moltissime persone, fra maghi e Babbani, ma anche il suo cerchio più stretto di amicizie. Quando gli era stato proposto se seguire le vie convenzionali o sbarellare del tutto per una strada più dritta, più giusta, ma molto più pericolosa, lui non aveva avuto tutti questi dubbi. Era pronto da una vita, per questo momento. Lì, proprio dove serviva di più, eccolo comparire al momento giusto, con gli strumenti giusti: non era forse un segno? Lui aveva imparato a domare il fuoco… aveva imparato la pazienza, la perseveranza, l’umiltà… e la passione.
Non dormiva da almeno tre notti, perché dedicava ogni momento libero allo studio del caso: qualcuno aveva gettato un incantesimo, una maledizione senza perdono, sul suo compagno di corso, e per nascondere le prove lo aveva avvelenato. Il tutto esattamente quando si stava delineando la possibilità che ci fosse una spia fra i ranghi, una spia destinata a seppellire le accuse e a cancellare i nomi sulla lista degli ultimi scalpori avvenuti un po’ dappertutto nel mondo, ma in particolar modo quelli che avevano coinvolto Ginny Weasley in Brasile appena la settimana prima, ricollegando Magie Sinister’s con una ipotetica massiccia trama a tela di ragno pregna di illegalità, dilagante dai sobborghi di Londra verso tutte le direzioni. Era la giusta occasione: incastrare Sinister’s, ripristinare lo splendore dell’Accademia, rendere giustizia alle famiglie spezzate e non ultimo… seppellire finalmente gli ultimi Mangiamorte sopravvissuti. Ambizione era un eufemismo, per i grandi progetti di Seamus: soprattutto perché aveva l’intenzione di coinvolgere meno persone possibili.
Le sue ultime collaborazioni di certo non lo aiutavano, potendo agire solamente nell’ombra. Era lui l’unica pedina giocabile. E doveva giocare se stesso, giocarsi da solo.
Seamus bevve un lungo sorso di caffè, svuotando la tazza fumante, spandendo qualche goccia sulla scrivania, prontamente asciugandola con le maniche del maglione. Voltò pagina, cominciando a leggere i nomi dei primi indagati sulle scie della pista brasiliana, ma qualcuno bussò sommessamente alla porta del suo dormitorio, e in qualche secondo richiuse tutto e lo ficcò rapidamente nel primo cassetto, chiudendolo a chiave.
Calciò qualche abito sparso sotto al letto, facendosi strada, e aprì la porta a Ron, che aveva la peggior faccia da funerale che lui avesse mai visto.
“Ciao, amico. Vieni dentro.” Accese la plafoniera e spense la lampada ad olio che illuminava poco prima la sua scrivania.
Ron, senza troppi scrupoli, si sedette ai piedi del suo letto, torcendosi le mani. Vedendo che non accennava a parlare, Seamus cominciò a fare due rapidi calcoli guardando l’orologio.
“È ora di mangiare, ti va di scendere in mensa e di discuterne davanti a una zuppa e un po’ di arrosto?”
Ron sembrò riprendersi all’idea; forse aveva avuto ragione, rivolgersi a Seamus non era stato l’ennesimo errore.

“Seamus, posso stare in stanza con te per un po’ di tempo?”
Ron doveva essere a digiuno da qualche giorno, a giudicare dal suo appetito, ma non era quello che aveva sconvolto di più Seamus, durante il pranzo.
“Da me?”
Era evidente che non si aspettava una proposta del genere. Ron alzò lo sguardo da dietro al bicchiere, mentre Seamus prese a bere un lunghissimo sorso.
“Solo il tempo di riprendermi. La tua è l’ultima camera doppia con un posto libero. O meglio, ce ne sarebbe un’altra, ma i miei superiori e io abbiamo qualche problema in questo periodo.”
“Ron, posso solo chiederti per quale motivo? Tu non…” abbassò la voce, posando il bicchiere. “Non abiti più con Hermione?”
“Ci siamo… ci siamo lasciati.”
La pausa convinse Seamus a voltarsi nella stessa direzione che interessava tanto Ron: comparvero in mensa Megan, Adam e Rex, in sedia a rotelle, con una serie di sacche galleggianti che lo seguivano come palloncini festosi.
“Sembra ancora un cadavere.” Commentò Seamus.
“Se la caverà, se la cava sempre.” Ribatté Ron, troppo velocemente. “Cosa ne pensi di andare a berci una birra?”
“Devo intendere che non hai ancora vuotato il sacco…”
Seamus si pulì la bocca col tovagliolo e si alzò immediatamente, riflettendo sul da farsi.
Ron poteva essere un freno, nella sua situazione: come avere una telecamera sempre puntata in camera sua. Era davvero il caso di accettare? Oppure… oppure poteva far girare la cosa a suo favore.
“Birretta sia. Sento che abbiamo un po’ di cose da dirci.”

Alla quinta birra, perfino i più lontani rancori erano sopiti: Seamus e Ron erano diventati, come un tempo, i migliori amici che ci siano. Stavano facendo una gara a braccio di ferro, ma dagli altri tavoli sembrava più che altro uno stringersi convulsamente la mano in maniera cameratesca. Tuttavia, nonostante le parecchie ore passate nel teporoso buio della taverna, avevano finito per girare intorno agli argomenti prefissati, preferendo parlare delle loro squadre di Quidditch preferite. Probabilmente, però, il quinto calice fu quello di troppo.
Ron cominciò a tentennare, con gli occhi umidi, e Seamus, che gli teneva ancora saldamente la mano in pugno, strinse più forte la presa, prima di abbandonarsi sul tavolo appiccicoso, rivolgendogli uno sguardo compassionevole dal basso.
“Dimmi tutto, amico.”
“Prometti… prometti che rimane fra noi, o giuro che…”
“Prometto solennemente!”
Ron fece una pausa ad effetto, forse non tanto voluta quanto necessaria per prendere fiato e far arrivare un briciolo di ossigeno al cervello. I ricordi delle ultime settimane lo travolgevano turbinando, e lui non riusciva
proprio a fare chiarezza.
“Sono andato a letto con Megan, e poi con Hermione. E poi ci siamo lasciati! E avevo l’anello pronto, stavo per chiederle di sposarmi… ma lei non mi vuole, e nemmeno l’altra. Nessuna mi vuole. Cos’ho che non va?”
Nonostante l’ottundimento, Seamus esibì un’espressione stupita. Lasciò il pugno dell’amico per stringere la sua manica, visibilmente impressionato.
“Tu non hai niente che non va amico, sei riuscito a portarti a letto l’eroina del mondo magico e quella
figa da paura della tua senior di rango. Tu, mio caro, sei un mito!”



49.

Dopo nemmeno una settimana di discussioni burocratiche, era riuscita ad ottenere esattamente quello che voleva: tutto, dalla restituzione del premio alla cameretta nel dormitorio femminile dell’ospedale. Perfino il lasciapassare di sua madre, che tuttavia rimaneva fermamente convinta della sua posizione: Ginevra, tu stai scappando, e stai dicendo troppe bugie ai tuoi cari. Ginevra, le bugie hanno le gambe corte. Ginevra, perché copri tuo fratello? Non si fa più vedere qui e non da segni di volerlo fare. Ginevra, perché non vuoi parlarne? Ginevra, che cosa è successo, davvero, in Brasile?
Era stato molto semplice, alla fine, scomparire e trasferirsi in quella cameretta angusta, con una finestra sola che dava sul cortile interno e i bagni in comune con tutto il piano. Era un sabato, il suo primo giorno di turno di guardia, da quando aveva ripreso le lezioni.
Ginevra si infilò nella fessura dell’uscio, silenziosa come un gatto. Indossava gli abiti da lavoro: una casacca e un paio di pantaloni di un colore vinoso. I suoi capelli lunghi erano legati in una solida treccia che partiva dalla cima del capo. Si avvicinò al Medimago turnista senza guardarlo in volto, ma osservando immediatamente il loro primo paziente.
Il suddetto mago, in tutta risposta, le fece a malapena un cenno della testa e cominciò l’esame obiettivo generale, prima palpando, poi passando in rassegna il corpo inerme con la bacchetta illuminata.
“Preparami un’infusione di fluidi tiepidi e un catetere endovenoso. Vado a vedere com’è la situazione di là, sta arrivando un’urgenza.”
“E se si sveglia?” Ginny indicò la donna addormentata, esangue, con un’occhiata eloquente.
“Poi ci penso io.”
Si voltò a guardarla, senza sprecare più di qualche secondo a indugiare sul suo volto, fra gli occhi e la bocca. Senza altre spiegazioni voltò i tacchi. Ginevra sospirò. Sperava in una personalità più cordiale, ma dopotutto era stata sciocca. I medimaghi urgentisti erano
tutti così. Freddi e burberi e… e avvenenti. Era giovanissimo, non poteva avere più di tre anni in più di lei.
Con la bacchetta collegò la bottiglia di vetro contenente i fluidi per la sua paziente ai tubi che l’avrebbero reidratata e riscaldata. Preparò l’ago, un laccio emostatico e si apprestò a tastare per cercare la vena che scorreva lungo l’avanbraccio.
“Non così.” La voce perentoria alle sue spalle la raggiunse e la fece irrigidire. La guardava appoggiato allo stipite, con le braccia conserte. Che stizza.
Aveva fatto quell’operazione centinaia di volte, in Brasile. Andava
benissimo così.
“Ferma, che cazzo fai. Ora ti faccio vedere.”
La scostò di peso, invadendo i suoi spazi personali senza un briciolo di pudore e mormorò un Revelio, impugnando la bacchetta attraverso la sua mano e costringendola a fare l’incantesimo.
“Puntalo sul braccio. Si fa di prassi.”
“Ma io non ho mai sbagliato una vena in vita mia.” Mormorò lei, impietrita.
“Sbaglierai, sbaglierai.” Lui esplose in una risata, prima di gettarsi stancamente su una sedia per osservarla di sottecchi mentre lei si dava da fare a finire il lavoro. “Eccome se sbaglierai.”
Ginny non rispose ma serrò le labbra, nessuno l’aveva mai approcciata con delle maniere così rudi. Sentiva l’orgoglio ferito ruggirle dal petto.
“Ed è giusto così.” Il cambiamento nella sua voce, dal canzonatorio al dolce, la fece voltare per incontrare, per la prima volta, gli occhi di lui. Non la prendevano più in giro: anzi, sembrava imbarazzato dal suo improvviso interesse, dall’aria seria e indagatrice di quella giovane apprendista focosa.
Ginny era
folgorata. Il turnista era un ragazzo, anzi un uomo, visibilmente atletico, dall’aria sana, ma con delle occhiaie tremende. Aveva un paio di occhi marroni dal taglio sottile, che affilavano lo sguardo, con le ciglia e le sopracciglia nere. Portava un taglio corto e comodo, elegante anche se spettinato, e si intravedeva qualche ciocca argentea nella miriade di capelli neri come la pece. Il sorriso storto, ancora un po’ provocatorio, era affascinante, torceva le guance magre e dava vita a due enormi fossette. L’uniforme era uguale alla sua, ma più sgualcita, usata; scivolava troppo bene sulle sue braccia nude. Ginny si sentì arrossire fino ai capelli. Era troppo giovane, per farle da mentore. E troppo attraente perché lei non perdesse la concentrazione.
“Vieni, ti faccio visitare il reparto.”
“Non c’era un’urgenza in arrivo?”
“Morto prima di arrivare.” Rispose lui, con tono neutro. “Come hai detto che ti chiamavi?”
La virata nella banalità la stupì, ma ormai non sapeva più cosa pensare.
“Non abbiamo avuto l’occasione di dircelo. Mi chiamo Ginevra.”
“Piacere, io sono Matthew.”


50.
Seamus si svegliò con un sapore disgustoso in bocca, improvvisamente remore della sbornia epocale che aveva condiviso con Weasley quel pomeriggio, che era poi stata prontamente prolungata fino a sera. Non ricordava se non confusamente come si erano trascinati fino alla camera, e in modo più particolare al letto. Aveva il braccio dell’amico a peso morto sulla trachea. Lo spostò tossicchiando e si alzò malgrado il mal di testa. Ron smise di russare e aprì gli occhi in un minuscolo spiraglio, per accertarsi che non ci fossero troppe luci accese. Distinse vagamente la figura di Seamus davanti a lui, in piedi, appoggiata appena al muro troppo vicino al letto.
“Scusami.”
“Non ti preoccupare, non fa niente. Ti faccio preparare il letto però, che non diventi un’abitudine.” Disse poi ridacchiando.

Quando tornò in camera, Ron era ancora addormentato nella stessa posizione, col braccio messo di traverso, come lo aveva spostato lui alzandosi.
Dietro di lui entrò un letto, levitando, che andò a fondersi con il suo allungando notevolmente i suoi piedi, e poi una scaletta che si fissò in fondo, su un lato.
“Cosa ne pensi?”
Ron si alzò a sedere, ottenendo una sonora zuccata contro le doghe di legno.
“Che è meglio se dormo di sopra, la prossima volta. Grazie di tutto, Seamus. Se posso fare qualcosa per te…”
Lo disse spontaneamente, quasi senza pensarci, con un sorriso sincero dietro le espressioni rammollite dalla sbronza. E Seamus decise, in quel momento, che sarebbe stato più facile affrontare tutto, con qualcuno al suo fianco.
“Forse qualcosa c’è.”
“Ovvero?”
“Sto lavorando su un caso, e penso che questo caso ti stia a cuore. Probabilmente anche a Harry. Ne parliamo domani, con calma. Devo pensarci. Tieniti pronto.”
“Dammi tempo, Seamus. Sono uno straccio… ma domani… domani sarò pronto. Te lo prometto”


51.
“Di nuovo.”
Avis.”
Due uccellini apparvero dal nulla, mentre Hermione, visibilmente spazientita, si lasciava cadere per l’ennesima volta nel buco del divano di Harry.
“È inutile, non mi accetta. Guarda che brutti che sono! E quello è anche spelacchiato!” indicò con la bacchetta l’uccellino più storpio, che si allontanò timoroso, appollaiandosi fra il disordine di Harry al di sopra del caminetto spento.
Harry avvicinò le ginocchia al petto per farle spazio. La bacchetta di Hermione era in riparazione, e ci sarebbe voluta qualche settimana per rimetterla in sesto, secondo Olivander.
Così, in sostituzione, Hermione aveva guadagnato una bacchetta terribilmente simile a quella che usava Ronald ai primi anni, e che non le era per niente affine: salice e crine di unicorno.
“Come ha potuto pensare che questo obbrobrio potesse sostituire la mia bacchetta?”
“Sembra che siano le più reperibili, al momento. E le più adattabili in linea generale. Mi dispiace, Hermione, porta pazienza. Devi solo prendere confidenza. Riprova.”
Avis. Vedi?” Un altro uccellino si appollaiò accanto ai suoi fratelli, con aria circospetta.
“Proviamo a cambiare incantesimo.”
“Abbiamo già appellato tutto il tuo armadio stamattina.”
“Qualcosa di più complicato, prova il Patronus.”
Hermione chiuse gli occhi per concentrarsi qualche secondo, e pronunciò l’incantesimo. Tuttavia avvertì subito la difficoltà farsi strada nelle sue membra.
“Non riesco.”
“Devi stare tranquilla.” Harry si alzò e la raggiunse, per metterle le mani sulle spalle. “Sei sempre stata capace di farlo. Ci devi riuscire anche oggi. Non preoccuparti.”
“Non posso.” Quando alzò gli occhi, Harry capì perché: stava per mettersi a piangere.
“Scusami, ti ho spinta io a farlo. Non era il momento giusto.”
Si pentì immediatamente, dopotutto forse neanche lui sarebbe stato in grado di produrre un Patronus in quelle condizioni. I ricordi felici erano smembrati dal presente.
“Mi dispiace.”
Si sedettero entrambi, sconsolati.
“Hermione, vuoi parlare?”
“Di cosa?”
“Del fatto che non abbiamo più nominato Ron nell’ultima settimana… del fatto che hai quasi sempre dormito qui, praticamente incastrata in fondo al divano, insieme a me, invece di stare a casa tua? E anche… di altro, se c’è dell’altro. Io non sto
così male da aver bisogno del tuo controllo costante.” Cercò di guardarla negli occhi, ma lei sbatteva le ciglia rapidamente e sembrava evitare il suo sguardo. “Perché sei qui con me, Hermione?”
“Forse… forse mi sento un po’ sola.”
“Mi vuoi dire che cosa è successo?”
Hermione si asciugò gli occhi con le dita e finalmente si decise a guardarlo, con le guance intrise di pianto.
“Mi ha tradita e se n’è andato.”
Harry sentì la mascella cedere. Non era semplicemente possibile. Non Ron, non con Hermione. Loro erano delle persone fantastiche. Nessuno dei due avrebbe mai potuto ferire l’altro in una maniera così infima.
“Il peggio…” singhiozzò “è che non sono nemmeno triste. Mi sento semplicemente… sola. Ma non è colpa sua. È solo colpa mia.” Si avvicinò timidamente, sussultando, e Harry la accolse nel suo abbraccio, adagiandosi con la testa contro il bracciolo, i capelli di Hermione ovunque a offuscargli la vista. I suoi singhiozzi gli facevano tremare il petto.
Pezzo dopo pezzo, stava crollando tutto il suo passato, sgretolando le basi del presente. Non c’erano parole per confortarla, nulla che fosse in grado di esprimere. Si lasciò contagiare dalla sua sofferenza, chiudendo gli occhi, sperando che qualche carezza potesse farle capire che, se era da sola, almeno era da sola con lui. E lui non l’avrebbe mai, mai e poi mai abbandonata. Sperò con tutto il cuore che lei lo percepisse, perché non si sentiva in grado di esprimerlo diversamente. Con il cuore pesante e la mente sempre più vorticosa, riuscirono a trovare un punto fermo nel limbo, nella tempesta, addormentandosi in mezzo a tutto quel pericolare di vite intorno, freddando pensieri e ipotesi sciocche, smerciando il tutto per qualche istante di pace.



   
 
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