Dal
capitolo precedente:
"Era
una crisi parziale complessa." Esclamò Ginny. "Herm, da
quando Harry è epilettico?"
Lei non rispose. Scostò appena
il bavero per vedere la voglia, pastrugnata malissimo con il suo
unguento, allargarsi a vista fino alla clavicola. Ginevra non capiva.
La guardava e scuoteva il capo, disperata. All'improvviso si alzò,
appellò il minimo indispensabile per rivestirsi e andare via da lì.
Hermione sfoderò la bacchetta, ma prima di cominciare gli
incantesimi su Harry, le lanciò un ultimo sguardo
interrogativo.
"Non posso Hermione, non posso più. Mi
dispiace, devo andare. Conto su di te. Prenditi cura di Harry."
47.
Aprendo
le palpebre, Harry ebbe la sensazione di avere della sabbia negli
occhi. Da quanto tempo dormiva? E perché vedeva nero?
“Sono
cieco.” Disse, ad alta voce, spaventato.
Una voce femminile gli
rispose, ma non riuscì a capire il significato delle parole. Era
tutto un garbuglio informe. Ebbe la sensazione di essere spazzato
dalla folata calda di un qualche incantesimo. Quella voce lo
richiamò… ma non proveniva da davanti a sé, come un attimo
prima.
“… Harry, che cosa ci fai qui?”
C’era odore di
fogliame, di sottobosco.
Di feci di qualche grosso carnivoro.
E
l’umidità era spaventosa, così come il freddo che lo faceva
rabbrividire. All’improvviso, di fronte a lui, apparve il suo
riflesso. Doveva avere quattordici anni, al massimo quindici. Sotto
alla veste e al maglione di lana indossava un pigiama a righe. Il
vento gli spostava i capelli e lasciava vedere la cicatrice, e i suoi
occhiali erano leggermente storti, a dirla tutta… ma non riuscì a
soffermarsi su quei dettagli perché i suoi occhi si spostavano
automaticamente sulla sua bocca, sulle sue clavicole che si vedevano
a malapena dal colletto del pigiama, e nonostante fosse certo di
essere cresciuto almeno un pochino dopo la scuola, si osservava dal
basso, e il suo corpo gli parve perfino un
po’
imponente.
Harry il giovane parlava, ma non riusciva a sentirlo.
Aveva una sfumatura colpevole, negli occhi, che non gli sfuggì.
Cominciò ad avvertire agitazione, sconforto, e un inconfondibile
batticuore. Il
mio segreto… il mio segreto.
Scomparve
tutto quanto, e riapparve un altro fantasma di Harry: questa volta
giocherellava con il boccino sul prato seduto accanto a Ron, molto
lontano da lui, quasi a strapiombo sulle sponde del Lago.
Non
cadere, Harry.
Il
cuore gli arrivò in gola, martellando come un forsennato, mentre la
sua vera coscienza, il suo vero io, si malediceva in tutte le lingue
del mondo. Aveva odiato suo padre: ed ora eccolo lì a fare il
deficiente con il boccino in mano, lasciandolo andare,
riacchiappandolo rapidamente, con un’aria completamente ridicola.
Se non per quel ciuffo in fronte, così audace, e gli occhi verdi
spensierati, e il sorriso luminoso, le risate inconfondibili di Ron
che abbracciavano il momento di complicità e rendevano il tutto meno
goffo, più sensato… era un ricordo bellissimo. Se ne era
dimenticato. Ma chi era? Chi lo stava guardando? Chi? Non poté
voltarsi, non poté cercare indizi guardandosi la veste o le mani,
perché il mondo lasciava spazio a un vortice scuro e
potente…
“Harry!”
Aprì gli occhi per bene, stavolta,
sentendoli bruciare, ma la cecità era scomparsa. Il tepore dei
ricordi lo abbandonò quasi del tutto mentre scivolava di nuovo nel
presente.
“Hermione, sei tu?”
Si alzò a sedere, confuso,
stropicciandosi il viso. Hermione lo guardava costernata. Era
pallida, con lo sguardo vigile di quando tornava dopo una notte di
ronda nella tenda, ai tempi della ricerca degli Horcrux.
“Mi
dispiace, Harry. La pozione ha bisogno di più tempo di quanto tu
disponga. Io… io non so cosa fare. Vuoi andare al San Mungo?”
“Cosa
dici, sto benissimo.” Gracchiò, rassettandosi appena, mentre si
rialzava, seguito da Hermione che sembrava pronta a raccoglierlo in
caso cedesse nuovamente.
Si guardò intorno. Non capiva. Poi
ricordò.
“Senti, Hermione. Mi ha lasciato.”
Si trascinò
sul divano e si gettò la coperta addosso. Hermione gli tese un
bicchiere d’acqua che doveva aver preparato quella notte.
Bevve
a piccoli sorsi, sentendo la gola pizzicare e contrarsi. Lei gli
prese la mano, sedendosi, e tirò un po’ di coperta sulle proprie
gambe.
“Vuoi parlarne, Harry?”
“Avevi ragione tu, mi sa.”
Mormorò. “Le stavo troppo addosso.” Stringeva il bicchiere fra
le dita. “Mi ha detto che io ero una specie di porto sicuro. Lei…
lei preferisce la tempesta.”
“Vi siete voluti molto bene.”
Hermione tentò di scostargli i capelli dagli occhi, ma quelli
ricaddero subito al loro posto con uno sbuffo. “Sono cose che
succedono. Terribili. Ma succedono.”
“Non devono succedere. Se
non sei innamorato, perché fai perdere tempo a qualcuno? Piuttosto
resta da solo. Piuttosto prenditi le tue responsabilità. Io… io la
odio.”
Si scostò bruscamente, e appoggiò il bicchiere sul
tavolino davanti al caminetto con forza, ma poi tornò ad affondare
nello schienale. Si voltò a guardare Hermione da dietro i ciuffi
scuri, e forse complice la sudata post-convulsioni, quando li sollevò
all’indietro loro rimasero impettiti.
“Non perdere tempo a
odiare. Non serve a niente.” Hermione gli rivolse uno sguardo
dolce, che lui non registrò, occupato com’era a provare
rancore.
“Hai idea di quante sere ho passato da solo su questo
divano a guardare il soffitto? A pensare a lei?” Sorrise, poi, con
mestizia. “Ora mi sento un perfetto imbecille.”
Hermione gli
rivolse un sorriso gentile. Se solo lui avesse saputo di lei e
Ronald!
“Adesso dobbiamo pensare a come proteggere il tuo
cervello, perché stai cominciando a dare i numeri.”
“Hai
ragione ma… a dirla tutta, sono un po’ stufo. Di ogni cosa,
intendo. Questa frenesia, il da fare, il tempo che corre. Ti dirò
che… i miei sogni, ultimamente, sono un grande conforto. A volte
vorrei non svegliarmi, restare imprigionato e…” Arrossì,
sentendosi invaso da quei sentimenti così semplici da apparire, ai
suoi occhi, tremendamente potenti. I sentimenti di quella che,
indubbiamente, lo amava più di ogni altra cosa al mondo. Niente a
che vedere con Ginevra.
Hermione soppesò le sue parole, incerta
se collegarle ai lapsus, ai jamais-vu, alle crisi convulsive o ancora
alla macchia che si apprestava a crescere e a ricoprirlo del
tutto.
Povero Harry. La vita proprio non riusciva a lasciarlo in
pace.
“Come ti senti?” disse, tentando di cambiare discorso.
Non voleva che lui si adagiasse in quei pensieri assurdi: doveva
restare ben ancorato alla realtà. Il più a lungo possibile, il
tempo di somministrargli quella dannata pozione per farlo tornare
quello di prima. “Riesci ad alzarti? Dovresti riposare, ma…”
“Che
giorno è oggi?”
“Lunedì.”
“Ho dormito tutta la notte
per terra e tu sei rimasta qui?”
“Avevo paura di svegliarti,
non volevo che tornassi in crisi. Quando durano troppo a lungo,
possono danneggiare irrimediabilmente le connessioni… potresti…
potresti perdere la testa.”
Harry serrò la mascella. “Non
dovevi, hai fatto fin troppo per me. Non so come ringraziarti.”
Il
sorriso che lei gli rivolse lo confortò: “Portami ad aggiustare la
bacchetta e non parliamone più!”
48.
Erano
passati pochi giorni, dalle ultime vicende che avevano scombussolato
la vita un po’ a tutti. Senza ombra di dubbio, Seamus Finnegan,
nonostante il fervore in Accademia, passava più tempo da solo
rinchiuso nella sua stanza che a chiacchierare sulle voci che
giravano in seno allo studentato, e aveva le sue buone ragioni.
Se
quello che pensava era vero, se ci aveva visto giusto, non solo
rischiavano la vita moltissime persone, fra maghi e Babbani, ma anche
il suo cerchio più stretto di amicizie. Quando gli era stato
proposto se seguire le vie convenzionali o sbarellare del tutto per
una strada più dritta, più giusta, ma molto più pericolosa, lui
non aveva avuto tutti questi dubbi. Era pronto da una vita, per
questo momento. Lì, proprio dove serviva di più, eccolo comparire
al momento giusto, con gli strumenti giusti: non era forse un segno?
Lui aveva imparato a domare il fuoco… aveva imparato la pazienza,
la perseveranza, l’umiltà… e la passione.
Non dormiva da
almeno tre notti, perché dedicava ogni momento libero allo studio
del caso: qualcuno aveva gettato un incantesimo, una maledizione
senza perdono, sul suo compagno di corso, e per nascondere le prove
lo aveva avvelenato. Il tutto esattamente quando si stava delineando
la possibilità che ci fosse una spia fra i ranghi, una spia
destinata a seppellire le accuse e a cancellare i nomi sulla lista
degli ultimi scalpori avvenuti un po’ dappertutto nel mondo, ma in
particolar modo quelli che avevano coinvolto Ginny Weasley in Brasile
appena la settimana prima, ricollegando Magie Sinister’s con una
ipotetica massiccia trama a tela di ragno pregna di illegalità,
dilagante dai sobborghi di Londra verso tutte le direzioni. Era la
giusta occasione: incastrare Sinister’s, ripristinare lo splendore
dell’Accademia, rendere giustizia alle famiglie spezzate e non
ultimo… seppellire finalmente gli ultimi Mangiamorte sopravvissuti.
Ambizione era un eufemismo, per i grandi progetti di Seamus:
soprattutto perché aveva l’intenzione di coinvolgere meno persone
possibili.
Le sue ultime collaborazioni di certo non lo aiutavano,
potendo agire solamente nell’ombra. Era lui l’unica pedina
giocabile. E doveva giocare se stesso, giocarsi da solo.
Seamus
bevve un lungo sorso di caffè, svuotando la tazza fumante, spandendo
qualche goccia sulla scrivania, prontamente asciugandola con le
maniche del maglione. Voltò pagina, cominciando a leggere i nomi dei
primi indagati sulle scie della pista brasiliana, ma qualcuno bussò
sommessamente alla porta del suo dormitorio, e in qualche secondo
richiuse tutto e lo ficcò rapidamente nel primo cassetto,
chiudendolo a chiave.
Calciò qualche abito sparso sotto al letto,
facendosi strada, e aprì la porta a Ron, che aveva la peggior faccia
da funerale che lui avesse mai visto.
“Ciao, amico. Vieni
dentro.” Accese la plafoniera e spense la lampada ad olio che
illuminava poco prima la sua scrivania.
Ron, senza troppi
scrupoli, si sedette ai piedi del suo letto, torcendosi le mani.
Vedendo che non accennava a parlare, Seamus cominciò a fare due
rapidi calcoli guardando l’orologio.
“È ora di mangiare, ti
va di scendere in mensa e di discuterne davanti a una zuppa e un po’
di arrosto?”
Ron sembrò riprendersi all’idea; forse aveva
avuto ragione, rivolgersi a Seamus non era stato l’ennesimo
errore.
“Seamus, posso stare in stanza con te per un po’
di tempo?”
Ron doveva essere a digiuno da qualche giorno, a
giudicare dal suo appetito, ma non era quello che aveva sconvolto di
più Seamus, durante il pranzo.
“Da me?”
Era evidente che
non si aspettava una proposta del genere. Ron alzò lo sguardo da
dietro al bicchiere, mentre Seamus prese a bere un lunghissimo
sorso.
“Solo il tempo di riprendermi. La tua è l’ultima
camera doppia con un posto libero. O meglio, ce ne sarebbe un’altra,
ma i miei superiori e io abbiamo qualche problema in questo
periodo.”
“Ron, posso solo chiederti per quale motivo? Tu
non…” abbassò la voce, posando il bicchiere. “Non abiti più
con Hermione?”
“Ci siamo… ci siamo lasciati.”
La pausa
convinse Seamus a voltarsi nella stessa direzione che interessava
tanto Ron: comparvero in mensa Megan, Adam e Rex, in sedia a rotelle,
con una serie di sacche galleggianti che lo seguivano come palloncini
festosi.
“Sembra ancora un cadavere.” Commentò Seamus.
“Se
la caverà, se la cava sempre.” Ribatté Ron, troppo velocemente.
“Cosa ne pensi di andare a berci una birra?”
“Devo intendere
che non hai ancora vuotato il sacco…”
Seamus si pulì la bocca
col tovagliolo e si alzò immediatamente, riflettendo sul da
farsi.
Ron poteva essere un freno, nella sua situazione: come
avere una telecamera sempre puntata in camera sua. Era davvero il
caso di accettare? Oppure… oppure poteva far girare la cosa a suo
favore.
“Birretta sia. Sento che abbiamo un po’ di cose da
dirci.”
Alla quinta birra, perfino i più lontani rancori
erano sopiti: Seamus e Ron erano diventati, come un tempo, i migliori
amici che ci siano. Stavano facendo una gara a braccio di ferro, ma
dagli altri tavoli sembrava più che altro uno stringersi
convulsamente la mano in maniera cameratesca. Tuttavia, nonostante le
parecchie ore passate nel teporoso buio della taverna, avevano finito
per girare intorno agli argomenti prefissati, preferendo parlare
delle loro squadre di Quidditch preferite. Probabilmente, però, il
quinto calice fu quello di troppo.
Ron cominciò a tentennare, con
gli occhi umidi, e Seamus, che gli teneva ancora saldamente la mano
in pugno, strinse più forte la presa, prima di abbandonarsi sul
tavolo appiccicoso, rivolgendogli uno sguardo compassionevole dal
basso.
“Dimmi tutto, amico.”
“Prometti… prometti che
rimane fra noi, o giuro che…”
“Prometto solennemente!”
Ron
fece una pausa ad effetto, forse non tanto voluta quanto necessaria
per prendere fiato e far arrivare un briciolo di ossigeno al
cervello. I ricordi delle ultime settimane lo travolgevano
turbinando, e lui non riusciva proprio
a fare chiarezza.
“Sono andato a letto con Megan, e poi con
Hermione. E poi ci siamo lasciati! E avevo l’anello pronto, stavo
per chiederle di sposarmi… ma lei non mi vuole, e nemmeno l’altra.
Nessuna mi vuole. Cos’ho che non va?”
Nonostante
l’ottundimento, Seamus esibì un’espressione stupita. Lasciò il
pugno dell’amico per stringere la sua manica, visibilmente
impressionato.
“Tu non hai niente che non va amico, sei riuscito
a portarti a letto l’eroina del mondo magico e quella figa
da paura
della tua senior di rango. Tu, mio caro, sei un mito!”
49.
Dopo
nemmeno una settimana di discussioni burocratiche, era riuscita ad
ottenere esattamente quello che voleva: tutto, dalla restituzione del
premio alla cameretta nel dormitorio femminile dell’ospedale.
Perfino il lasciapassare di sua madre, che tuttavia rimaneva
fermamente convinta della sua posizione: Ginevra, tu stai scappando,
e stai dicendo troppe bugie ai tuoi cari. Ginevra, le bugie hanno le
gambe corte. Ginevra, perché copri tuo fratello? Non si fa più
vedere qui e non da segni di volerlo fare. Ginevra, perché non vuoi
parlarne? Ginevra, che cosa è successo, davvero, in Brasile?
Era
stato molto semplice, alla fine, scomparire e trasferirsi in quella
cameretta angusta, con una finestra sola che dava sul cortile interno
e i bagni in comune con tutto il piano. Era un sabato, il suo primo
giorno di turno di guardia, da quando aveva ripreso le
lezioni.
Ginevra si infilò nella fessura dell’uscio, silenziosa
come un gatto. Indossava gli abiti da lavoro: una casacca e un paio
di pantaloni di un colore vinoso. I suoi capelli lunghi erano legati
in una solida treccia che partiva dalla cima del capo. Si avvicinò
al Medimago turnista senza guardarlo in volto, ma osservando
immediatamente il loro primo paziente.
Il suddetto mago, in tutta
risposta, le fece a malapena un cenno della testa e cominciò l’esame
obiettivo generale, prima palpando, poi passando in rassegna il corpo
inerme con la bacchetta illuminata.
“Preparami un’infusione di
fluidi tiepidi e un catetere endovenoso. Vado a vedere com’è la
situazione di là, sta arrivando un’urgenza.”
“E se si
sveglia?” Ginny indicò la donna addormentata, esangue, con
un’occhiata eloquente.
“Poi ci penso io.”
Si voltò a
guardarla, senza sprecare più di qualche secondo a indugiare sul suo
volto, fra gli occhi e la bocca. Senza altre spiegazioni voltò i
tacchi. Ginevra sospirò. Sperava in una personalità più cordiale,
ma dopotutto era stata sciocca. I medimaghi urgentisti erano tutti
così.
Freddi e burberi e… e avvenenti. Era giovanissimo, non poteva avere
più di tre anni in più di lei.
Con la bacchetta collegò la
bottiglia di vetro contenente i fluidi per la sua paziente ai tubi
che l’avrebbero reidratata e riscaldata. Preparò l’ago, un
laccio emostatico e si apprestò a tastare per cercare la vena che
scorreva lungo l’avanbraccio.
“Non così.” La voce
perentoria alle sue spalle la raggiunse e la fece irrigidire. La
guardava appoggiato allo stipite, con le braccia conserte. Che
stizza.
Aveva fatto quell’operazione centinaia di volte, in
Brasile. Andava benissimo
così.
“Ferma, che cazzo fai. Ora ti faccio vedere.”
La
scostò di peso, invadendo i suoi spazi personali senza un briciolo
di pudore e mormorò un Revelio, impugnando la bacchetta attraverso
la sua mano e costringendola a fare l’incantesimo.
“Puntalo
sul braccio. Si fa di prassi.”
“Ma io non ho mai sbagliato una
vena in vita mia.” Mormorò lei, impietrita.
“Sbaglierai,
sbaglierai.” Lui esplose in una risata, prima di gettarsi
stancamente su una sedia per osservarla di sottecchi mentre lei si
dava da fare a finire il lavoro. “Eccome se sbaglierai.”
Ginny
non rispose ma serrò le labbra, nessuno l’aveva mai approcciata
con delle maniere così rudi. Sentiva l’orgoglio ferito ruggirle
dal petto.
“Ed è giusto così.” Il cambiamento nella sua
voce, dal canzonatorio al dolce, la fece voltare per incontrare, per
la prima volta, gli occhi di lui. Non la prendevano più in giro:
anzi, sembrava imbarazzato dal suo improvviso interesse, dall’aria
seria e indagatrice di quella giovane apprendista focosa.
Ginny
era folgorata.
Il turnista era un ragazzo, anzi un uomo, visibilmente atletico,
dall’aria sana, ma con delle occhiaie tremende. Aveva un paio di
occhi marroni dal taglio sottile, che affilavano lo sguardo, con le
ciglia e le sopracciglia nere. Portava un taglio corto e comodo,
elegante anche se spettinato, e si intravedeva qualche ciocca
argentea nella miriade di capelli neri come la pece. Il sorriso
storto, ancora un po’ provocatorio, era affascinante, torceva le
guance magre e dava vita a due enormi fossette. L’uniforme era
uguale alla sua, ma più sgualcita, usata; scivolava troppo bene
sulle sue braccia nude. Ginny si sentì arrossire fino ai capelli.
Era troppo giovane, per farle da mentore. E troppo attraente perché
lei non perdesse la concentrazione.
“Vieni, ti faccio visitare
il reparto.”
“Non c’era un’urgenza in arrivo?”
“Morto
prima di arrivare.” Rispose lui, con tono neutro. “Come hai detto
che ti chiamavi?”
La virata nella banalità la stupì, ma ormai
non sapeva più cosa pensare.
“Non abbiamo avuto l’occasione
di dircelo. Mi chiamo Ginevra.”
“Piacere, io sono
Matthew.”
50.
Seamus si svegliò con un sapore
disgustoso in bocca, improvvisamente remore della sbornia epocale che
aveva condiviso con Weasley quel pomeriggio, che era poi stata
prontamente prolungata fino a sera. Non ricordava se non confusamente
come si erano trascinati fino alla camera, e in modo più particolare
al letto. Aveva il braccio dell’amico a peso morto sulla trachea.
Lo spostò tossicchiando e si alzò malgrado il mal di testa. Ron
smise di russare e aprì gli occhi in un minuscolo spiraglio, per
accertarsi che non ci fossero troppe luci accese. Distinse vagamente
la figura di Seamus davanti a lui, in piedi, appoggiata appena al
muro troppo vicino al letto.
“Scusami.”
“Non ti
preoccupare, non fa niente. Ti faccio preparare il letto però, che
non diventi un’abitudine.” Disse poi ridacchiando.
Quando
tornò in camera, Ron era ancora addormentato nella stessa posizione,
col braccio messo di traverso, come lo aveva spostato lui
alzandosi.
Dietro di lui entrò un letto, levitando, che andò a
fondersi con il suo allungando notevolmente i suoi piedi, e poi una
scaletta che si fissò in fondo, su un lato.
“Cosa ne
pensi?”
Ron si alzò a sedere, ottenendo una sonora zuccata
contro le doghe di legno.
“Che è meglio se dormo di sopra, la
prossima volta. Grazie di tutto, Seamus. Se posso fare qualcosa per
te…”
Lo disse spontaneamente, quasi senza pensarci, con un
sorriso sincero dietro le espressioni rammollite dalla sbronza. E
Seamus decise, in quel momento, che sarebbe stato più facile
affrontare tutto, con qualcuno al suo fianco.
“Forse qualcosa
c’è.”
“Ovvero?”
“Sto lavorando su un caso, e penso
che questo caso ti stia a cuore. Probabilmente anche a Harry. Ne
parliamo domani, con calma. Devo pensarci. Tieniti pronto.”
“Dammi
tempo, Seamus. Sono uno straccio… ma domani… domani sarò pronto.
Te lo prometto”
51.
“Di nuovo.”
“Avis.”
Due
uccellini apparvero dal nulla, mentre Hermione, visibilmente
spazientita, si lasciava cadere per l’ennesima volta nel buco del
divano di Harry.
“È inutile, non mi accetta. Guarda che brutti
che sono! E quello è anche spelacchiato!” indicò con la bacchetta
l’uccellino più storpio, che si allontanò timoroso,
appollaiandosi fra il disordine di Harry al di sopra del caminetto
spento.
Harry avvicinò le ginocchia al petto per farle spazio. La
bacchetta di Hermione era in riparazione, e ci sarebbe voluta qualche
settimana per rimetterla in sesto, secondo Olivander.
Così, in
sostituzione, Hermione aveva guadagnato una bacchetta terribilmente
simile a quella che usava Ronald ai primi anni, e che non le era per
niente affine: salice e crine di unicorno.
“Come ha potuto
pensare che questo obbrobrio potesse sostituire la mia
bacchetta?”
“Sembra che siano le più reperibili, al momento.
E le più adattabili in linea generale. Mi dispiace, Hermione, porta
pazienza. Devi solo prendere confidenza. Riprova.”
“Avis.
Vedi?” Un altro uccellino si appollaiò accanto ai suoi fratelli,
con aria circospetta.
“Proviamo a cambiare
incantesimo.”
“Abbiamo già appellato tutto il tuo armadio
stamattina.”
“Qualcosa di più complicato, prova il
Patronus.”
Hermione chiuse gli occhi per concentrarsi qualche
secondo, e pronunciò l’incantesimo. Tuttavia avvertì subito la
difficoltà farsi strada nelle sue membra.
“Non riesco.”
“Devi
stare tranquilla.” Harry si alzò e la raggiunse, per metterle le
mani sulle spalle. “Sei sempre stata capace di farlo. Ci devi
riuscire anche oggi. Non preoccuparti.”
“Non posso.” Quando
alzò gli occhi, Harry capì perché: stava per mettersi a
piangere.
“Scusami, ti ho spinta io a farlo. Non era il momento
giusto.”
Si pentì immediatamente, dopotutto forse neanche lui
sarebbe stato in grado di produrre un Patronus in quelle condizioni.
I ricordi felici erano smembrati dal presente.
“Mi dispiace.”
Si
sedettero entrambi, sconsolati.
“Hermione, vuoi parlare?”
“Di
cosa?”
“Del fatto che non abbiamo più nominato Ron
nell’ultima settimana… del fatto che hai quasi sempre dormito
qui, praticamente incastrata in fondo al divano, insieme a me, invece
di stare a casa tua? E anche… di altro, se c’è dell’altro. Io
non sto così
male
da aver bisogno del tuo controllo costante.” Cercò di guardarla
negli occhi, ma lei sbatteva le ciglia rapidamente e sembrava evitare
il suo sguardo. “Perché sei qui con me, Hermione?”
“Forse…
forse mi sento un po’ sola.”
“Mi vuoi dire che cosa è
successo?”
Hermione si asciugò gli occhi con le dita e
finalmente si decise a guardarlo, con le guance intrise di
pianto.
“Mi ha tradita e se n’è andato.”
Harry sentì la
mascella cedere. Non era semplicemente possibile. Non Ron, non con
Hermione. Loro erano delle persone fantastiche. Nessuno dei due
avrebbe mai potuto ferire l’altro in una maniera così infima.
“Il
peggio…” singhiozzò “è che non sono nemmeno triste. Mi sento
semplicemente… sola. Ma non è colpa sua. È solo colpa mia.” Si
avvicinò timidamente, sussultando, e Harry la accolse nel suo
abbraccio, adagiandosi con la testa contro il bracciolo, i capelli di
Hermione ovunque a offuscargli la vista. I suoi singhiozzi gli
facevano tremare il petto.
Pezzo dopo pezzo, stava crollando tutto
il suo passato, sgretolando le basi del presente. Non c’erano
parole per confortarla, nulla che fosse in grado di esprimere. Si
lasciò contagiare dalla sua sofferenza, chiudendo gli occhi,
sperando che qualche carezza potesse farle capire che, se era da
sola, almeno era da sola con lui. E lui non l’avrebbe mai, mai e
poi mai abbandonata. Sperò con tutto il cuore che lei lo percepisse,
perché non si sentiva in grado di esprimerlo diversamente. Con il
cuore pesante e la mente sempre più vorticosa, riuscirono a trovare
un punto fermo nel limbo, nella tempesta, addormentandosi in mezzo a
tutto quel pericolare di vite intorno, freddando pensieri e ipotesi
sciocche, smerciando il tutto per qualche istante di pace.