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Autore: TheSlavicShadow    03/08/2017    2 recensioni
Caso: Terra-3490.
Il 47esimo modello pacifico ha beneficiato principalmente dalla relazione tra Capitan America, Steve Rogers, e Iron Woman, Natasha Stark.
Agendo da deterrente per i comportamenti più aggressivi degli altri, ha consentito al Reed Richards di questa Terra di portare a termine con successo il programma di registrazione dei supereroi e di avviare l’Iniziativa dei 50 Stati.
{Il ponte - Capitolo due da Dark Reign: Fantastic Four n. 2 del giugno 2009}
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wherever you will go'
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Agosto/Settembre 2005

 

Dopo la sua conferenza stampa, che aveva fatto perdere diversi punti in più in borsa alla sua società, Obadiah Stane le aveva consigliato di stare lontana dai riflettori. Non sperava in nulla di meglio. Aveva avuto il tempo di migliorare il reattore arc e sostituire quindi quello vecchio che sapeva si stesse lentamente esaurendo. Era potente, ma come aveva previsto quando lo aveva costruito, il suo nucleo di palladio si era esaurito fin troppo quando lo aveva sfruttato per far funzionare l’armatura. Costruirne uno nuovo era stata una passeggiata grazie a tutte le risorse che aveva a disposizione nella propria officina. E se proprio qualcosa le fosse mancato, bastava fare un salto fino alla sede delle Stark Industries prendere tutto ciò di cui aveva bisogno.

La cosa più divertente del nuovo reattore era stata far avere un mezzo infarto a Pepper quando aveva chiamato la donna per aiutarla a cambiare quello vecchio. In realtà avrebbe potuto tranquillamente farlo da sola con l’aiuto di uno specchio, ma era molto più divertente vedere la propria assistente personale avere un mini attacco di panico. Sarebbe stato ancora più divertente se avesse chiesto a Steve di aiutarla, ma solo per vederlo diventare bordeaux mentre lei era a petto nudo.

Anche se lo evitava e gli aveva chiaramente detto di non avere bisogno di lui, Steve era presente in continuazione. La prima sera, dopo che le aveva preparato la cena, e Pepper e Happy avevano cenato con loro, Steve era rimasto. L’aveva mandata a dormire e dopo mille proteste era salita nella propria stanza. Aveva sentito il rumore della lavastoviglie e aveva chiesto a J.A.R.V.I.S. di tenerla informata su cosa stesse facendo Steve. A quanto pare aveva anche acceso la lavatrice per lavare i vestiti che erano rimasti nel borsone e poi aveva guardato un po’ di tv. Era preoccupato. Era lo stesso modus operandi che aveva assunto quando erano morti i suoi genitori. Aveva paura a lasciarla da sola.

Il giorno dopo lo aveva trovato addormentato sul divano. E si era arrabbiata più del dovuto dicendogli che non lo voleva in casa sua. La sua rabbia non aveva nulla di razionale, se ne era resa conto nel momento in cui Steve l’aveva guardata ferito. Era brava solo a ferirlo e nient’altro. E tutto perché non riusciva a controllare sé stessa e le proprie emozioni. Aveva fatto un sogno, un incubo tremendo. Riviveva in continuazione l’esplosione in mezzo al deserto e non era una cosa per nulla piacevole svegliarsi di soprassalto per ritrovarsi a guardare la propria camera da letto e non riconoscerla per diversi minuti. J.A.R.V.I.S. aveva parlato piano, ripetendole un paio di volte che ora fosse e dove si trovassero.

Era stata una notte pessima e trovare Steve nel proprio salotto non l’aveva aiutata a calmarsi. Solo che Steve doveva essere un qualche santo che qualche essere soprannaturale e non esistente doveva aver messo sul suo cammino. L’aveva mandata a farsi una doccia, era riuscito a convincerla mentre lei se ne stava ai piedi delle scale come se vi avesse messo radici. E quando era ritornata al piano di sotto aveva trovato la colazione sul tavolo, ma di Steve non c’era traccia. Come se non fosse mai stato lì. L’unica prova erano i suoi vestiti lavati e la colazione preparata. J.A.R.V.I.S. l’aveva informata che il Capitano Rogers se n’era andato un minuto esatto prima che lei scendesse. L’intelligenza artificiale le aveva anche fatto notare che il suo comportamento nei confronti dell’uomo non era stato dei migliori. Lo sapeva anche senza che J.A.R.V.I.S. glielo dicesse, ma non sapeva come chiedergli scusa e ringraziarlo per quanto aveva fatto per lei.

Aveva trascorso due giorni senza dormire. Si era mossa per la casa in modo quasi maniacale mentre reimpostava il sistema di sicurezza e al computer si metteva a fare un progetto che non aveva idea se mai avrebbe realizzato, ma stava studiando la pianta della casa per vedere se era possibile creare una safe room da qualche parte. Non aveva senso una cosa simile. Nessuno poteva neppure superare il cancello se J.A.R.V.I.S. non lo permetteva. E se anche avesse distrutto il portone e fosse arrivato fino alla casa, non avrebbe potuto entrare. La porta era antisfondamento, le finestre con vetri antiproiettile, e la polizia sarebbe stata avvertita all’istante se qualcuno avesse sfondato il portone. Era stata paranoica quando aveva costruito quella casa, ma in sua difesa poteva dire che non era molto capace di intendere e volere in quel momento della sua vita. Aveva anche lasciato New York senza una parola all’uomo con cui stava avendo una relazione. Già questo doveva bastare per capire che non stava bene all’epoca.

E ora voleva costruire una safe room. Poteva anche trasformare la sua officina in una safe room. Era grande, spaziosa, e aveva a portata di mano tutto ciò che poteva servirle. C’erano anche i suoi robot e loro riuscivano sempre a metterle calma. Anche quando Dum-E non capiva nulla di quello che lei gli chiedeva di fare.

Aveva anche incontrato Rhodes. Non riusciva a dormire e aveva bisogno di vedere una faccia amica. Solo che Rhodes non rispondeva alle sue chiamate e sapeva di averlo messo in una posizione scomoda decidendo di non produrre più armi. Aveva messo tutti in una posizione scomoda con quella sua dichiarazione. Ma non ci riusciva. Il solo pensiero di vedere altre armi con il suo nome stampato sopra le stava mettendo la nausea. Magari un giorno le sarebbe passata. Magari un giorno avrebbe potuto costruire delle armi davvero intelligenti e davvero utili, e non solo qualcosa capace di seminare morte.

Solo che erano armi. Non potevano fare altro che uccidere, come aveva detto Obadiah.

Aveva sorriso quando Rhodes le aveva detto che aveva bisogno di tempo per riprendersi. Continuava ad essere molto brava nel sorridere anche quando non ne aveva alcuna voglia. Quella era un’arte che aveva imparato molto presto. Quando sorridi freghi chi ti sta di fronte. Se sorridi puoi spiazzarli. Anche se dentro stai urlando.

Era così che si era sentita per tutto il tragitto fino a casa. Aveva acceso la musica a tutto il volume e aveva corso fin troppo, superando il limite di velocità di fin troppo. Se qualcuno l’avesse fermata in quel momento le avrebbe tolto la patente, ne era quasi sicura. Forse ne avrebbe avuto bisogno. Almeno una punizione per qualcosa. E non solo belle parole. Non aveva bisogno di riposare o di tenere un profilo basso. Aveva solo bisogno di riprendere in mano la propria vita e riprendere da dove l’aveva lasciata qualche mese addietro. Aveva bisogno di rimettersi a lavorare su qualcosa, tenere testa e mani occupate. Aveva bisogno di notti immerse in progetti e il cervello annegato nel caffè. Aveva bisogno di cibo cinese alle tre di mattina perché non aveva mangiato per tutto il giorno e stava morendo di fame. Aveva bisogno di musica sparata a volumi assurdi che faceva tremare le vetrate della sua officina e di addormentarsi con la faccia sul tavolo da lavoro per poi svegliarsi con macchie di non sapeva cosa sulla pelle.

Era per occupare la mente che si era messa a lavoro per migliorare il prototipo di armatura che aveva abbandonato nel deserto. Quell’armatura era troppo pesante. Era di ferro. Era pesante e difficile da manovrare. Aveva servito allo scopo per cui l’aveva creata ma era obsoleta. Si era davvero ispirata a RoboCop quando aveva pensato a come uscire da quella caverna. A lui e alla vecchia armatura che Howard teneva nel suo studio nella casa a Long Island. L’aveva smontata una volta mentre suo padre era via per lavoro per qualche giorno. L’aveva smembrata pezzo per pezzo per studiarne tutte le giunture. Aveva provato ad infilarci un braccio, ma era troppo piccola e magra allora, e tutto quel ferro pesava. Aveva messo la mano nel guanto, ma non era neppure riuscita a piegare le dita. Jarvis l’aveva sgridata quando l’aveva trovata per terra circondata da pezzi di metallo e il suo blocco di carta su cui stava annotando qualcosa. Aveva solo 7 anni e RoboCop era da poco uscito al cinema. E lei voleva una sua armatura. Ora poteva averla. Poteva avere un’armatura fatta su misura per lei. Resistente e leggera.

Era un progetto per tenere la mente occupata. Qualcosa su cui lavorare mentre il mondo attorno a lei non riprendeva un senso. Chiudersi in officina era sempre stato il suo modo di affrontare la vita. Aveva iniziato la costruzione dagli stivali. Aveva fatto fare a J.A.R.V.I.S. tutte le misurazioni e poi si era messa a lavorare sui vari circuiti che avrebbero composto l’esoscheletro, avrebbe in seguito lavorato sul ferro e acciaio con cui lavorare la copertura. Voleva prima vedere se poteva funzionare un’armatura high tech che si metteva e toglieva da sola.

Dagli stivali era passata a costruire i guanti che le sarebbero arrivati al gomito, con dei repulsori direttamente collegati al reattore arc. Voleva vedere cosa poteva fare con quel reattore. O semplicemente se sarebbe stata capace di volare. Il prototipo, che postumo aveva battezzato come Mark I, era semplicemente saltato in aria. Avrebbe dovuto esserne capace. Un volo breve che le sarebbe servito solo per superare la montagna. Aveva volato di più solo grazie alla spinta che le aveva dato l’esplosione di tutte le armi ammucchiate davanti alla caverna in cui era imprigionata. Ora voleva volare davvero. Voleva che la sua prossima armatura fosse più leggera e aerodinamica.

Erano passate tre settimane da quando era tornata a casa. Era riuscita a costruire la Mark II e fare un primo disastroso tentativo di volo.

Ma non si era arresa. Non era da lei arrendersi e sarebbe riuscita a costruire un’armatura perfetta.

Era scesa in cucina passandosi una mano tra i capelli. Dopo la quasi disfatta della sera prima aveva pensionato la Mark II e stranamente aveva fatto una doccia prima di infilarsi a letto. Si era detta che avrebbe pensato il giorno dopo a trovare una soluzione al congelamento del ferro. Avrebbe dovuto pensarci subito, ma era stata così presa dalla costruzione che non le era passato neppure per l’anticamera del cervello. La struttura andava bene. Era la copertura che aveva bisogno di un upgrade.

J.A.R.V.I.S. l’aveva informata che il Capitano Steve Rogers era in cucina. Aveva detto a Steve che non voleva più vederlo, e l’uomo davvero non si era più fatto vedere. Anche se ogni mattina trovava la colazione pronta in tavola e un post-it attaccato al forno a microonde che la informava che anche il pranzo era pronto. Bastava premere un pulsante. Un paio di volte aveva portato dei fiori, mettendoli in salotto. Oppure le aveva portato dei cioccolatini che sapeva lei avrebbe divorato. E così aveva fatto. Li aveva divorati in officina la sera in cui Obadiah era tornato da New York comunicandole che il consiglio d’amministrazione aveva mosso un’ingiunzione contro di lei. Erano stati un ottimo palliativo alla rabbia che stava provando.

“Tasha, c’è un buco che dal tetto arriva alla tua officina.” Steve si era voltato verso di lei quando l’aveva probabilmente percepita arrivare. Non era mai stata molto brava nel coglierlo di sorpresa. Si era bloccato, l’aveva guardata da capo a piedi e solo allora lei si era resa conto di cosa avesse addosso. Dei pantaloncini molto corti con dei scudi disegnati sopra che facevano parte di un pigiama di Capitan America e una canottiera che le stava troppo grande. E ovviamente non indossava alcun reggiseno sotto di essa. “No, forse non voglio sapere cos’è successo. Ora vado a lavoro e tu riposi.”

L’aveva osservato darle le spalle e se fosse stata una mattina diversa, una mattina lontana nel tempo, gli si sarebbe avvicina e avrebbe passato le braccia attorno alla sua vita. Erano passati solo cinque anni, ma le sembravano molti di più e lei si sentiva più vecchia dei suoi venticinque anni.

“Mi sono appena alzata. E voglio il caffè.” Aveva mosso qualche passo dentro la cucina, per recuperare da sola una tazza e riempirla di caffè appena fatto. La stava proprio aspettando e non sapeva quanto la cosa le facesse effettivamente piacere.

“Dovresti iniziare a bere altro. Ho preparato anche una spremuta d’arancia, fresca, sana e ricca di vitamine.” L’uomo non la stava guardando. Era impegnato ad imburrare delle fette biscottate e a nascondere un leggero rossore sulle guance.

“Rogers. Caffè. O ti pianto quel coltello da burro da qualche parte.” Steve era in quel momento l’unico ostacolo fisico tra lei e la caffettiera.

“Va bene, ho capito. Ma siediti e magari guarda la tv. C’è il notiziario adesso.”

Aveva alzato gli occhi al cielo e aveva alzato il volume della tv. A Steve piaceva leggere il giornale o guardare il telegiornale mentre faceva colazione. E quello voleva dire che quella mattina non se ne sarebbe andato come al solito. Sapeva che stava alloggiando in un motel poco distante e anche se aveva ordinato a J.A.R.V.I.S. di non farlo entrare, la sua intelligenza artificiale aveva ignorato il suo ordine. J.A.R.V.I.S. riteneva la presenza di Steve un bene, le aveva detto, e fino a quando non lo avesse ritenuto una minaccia lo avrebbe sempre fatto restare.

“Stamattina sei strano, Steven. Hai fumato erba? Ma poi, che ci fai qui ogni mattina? Fury ti ha licenziato? Vuoi un lavoro come gigolò? Conosco un paio di signore che potrebbero essere molto interessate ad un delizioso bocconcino come te.” Si era seduta, ma era tutta voltata verso Steve, appoggiando il petto contro lo schienale della sedia.

“Sono solo preoccupato per te e…” Si era voltato ed era arrossito di più. “Devo andare.”

“Steve, hai la febbre?”

“Sì, non sto bene. E’ meglio che vada ora e...per Dio, Tasha, copriti.”

“Oh, quindi sono le mie gambe?” Aveva fatto un ghigno enorme mentre alzava le gambe in aria, reggendosi forte sulla sedia. Sentiva la stoffa della maglietta che si spostava e forse stava scoprendo anche un po’ il petto. Ma era troppo divertita.

“No, non sono assolutamente le tue gambe, sono solo stanco. Forse ho dormito troppo poco.”

“Sono tutte lisce, sai?”

“Tasha, ti prego, smettila.” Si era passato una mano sul viso ed evitava di guardarla.

“Perché? Ti fanno ancora questo effetto?” Aveva appoggiato le gambe sul tavolo mentre continuava a guardarlo.

“Sono pur sempre un uomo, Natasha, e tu sei una donna. Una bellissima donna.”

“Ma le hai viste centinaia di volte. Mi hai anche vista nuda. Diverse volte.” Aveva ghignato ancora e non sapeva neppure lei a che gioco che stava giocando.

“Natasha, ti prego!”

Lo aveva guardato e forse aveva davvero esagerato. Aveva abbassato le gambe e si era seduta composta. Prenderlo in giro era sempre stato divertente, solo che effettivamente non sapeva se poteva farlo ancora.

“Frequenti qualcuno ora?”

“No, al momento no. C’è stata una persona, ma è finita quasi subito. A quanto pare ero più preso da Fury che da lei.” Lo aveva osservato sospirare, probabilmente cercando di calmarsi, e poi le aveva servito il caffè. Si era voltato di nuovo verso il piano di lavoro e lo vedeva mettere le fette biscottate su un piatto.

“Dovresti sposare Fury. Forse è lui la tua anima gemella.” Aveva sorseggiato il caffè e aveva perso la voglia di prenderlo in giro. Steve aveva avuto una relazione. Questa cosa l’aveva colpita. Era ovvio che avesse avuto qualcuno. Un uomo come lui non poteva restare da solo.

“Però Coulson mi ama di più.” Steve si era seduto nella sedia accanto alla sua dopo aver messo la colazione in tavola.

“Agente è sempre stato il mio più grande rivale.” Aveva bevuto altro caffè, prendendo anche qualcosa da mangiare, solo per non sentirle da Steve. “Steve, perché sei qui?”

“Pepper mi ha detto del consiglio d’amministrazione e dell’ingiunzione. E anche del fatto che stai costruendo qualcosa e che hai anche fatto saltare in aria un pezzo dell’officina con un propulsore. Non sono qui come agente dello S.H.I.E.L.D., ma solo come Steve.” Aveva mosso una mano verso di lei, ma si era fermato prima di toccarla. “Siamo solo preoccupati per te.”

“Rhodey non mi vuole parlare.” Aveva spostato lo sguardo sulla tv. Stavano ancora parlando di lei e ne era stanca ormai, ma poteva immaginare quanto la sua dichiarazione avesse scosso tutti. “Sono andata a trovarlo alla base la settimana scorsa, e mi ha praticamente mandata via. Volevo fargli vedere a cosa sto lavorando. Quella che volevo fargli vedere l’ho anche già pensionata a dire il vero. Il buco che attraversa la casa è opera sua.” Si era passata una mano tra i capelli. Non sapeva quanto potesse dirgli in realtà. Non sapeva di chi potesse fidarsi in quel momento. Forse non poteva fidarsi neppure di sé stessa. “Devo fare qualcosa per me, per passare il tempo, per sentirmi in qualche modo al sicuro. O anche solo per volare. Ho volato ieri notte. Poi l’armatura si è ghiacciata perché a volte so essere anche molto stupida e il mio QI va a quel paese. So benissimo che il ferro non è fatto per temperature molto alte o molto basse, ma non ci ho pensato e allora si è ghiacciato tutto. Ma no, sto bene. Non mi sono sfracellata al suolo come puoi vedere. Sto di nuovo parlando troppo senza alcun senso, vero?” Aveva appoggiato la schiena completamente contro la sedia, alzando la testa e guardando il soffitto. “Non so cosa sto facendo, Steve. Mi vogliono togliere anche l’azienda perché credono che io non sia più in grado di gestirla. Solo perché non voglio più fabbricare armi.”

La mano di Steve aveva sfiorato la sua in modo titubante, prima di stringerla un po’. Lo aveva guardato e lui le aveva sorriso debolmente. Odiava il modo in cui con Steve sembrava non essere mai cambiato nulla. Le sorrideva sempre. Anche quando lei aveva mandato tutto alle ortiche e aveva distrutto l’unica cosa buona che avesse mai cercato di far funzionare.

“Fai un passo alla volta, Tasha. Ora telefono a qualcuno affinché sistemi almeno il tetto e i pavimenti. Poi fai quello che preferisci per oggi. Prenditi il tempo per fare una nuotata o guardare un film. Oppure chiuditi in officina e lavora sulla tua armatura.”

Lo aveva guardato e aveva girato la mano per poter stringere la sua a sua volta. Avrebbe voluto dirgli tante cose in quel momento. Avrebbe anche voluto chiedergli scusa per come si era comportata in passato. Ma non ci riusciva. Aveva un nodo in gola che non le permetteva di dire quello che voleva. Era sempre così. Non ci riusciva mai. E quelle poche volte che aveva esternato i suoi veri sentimenti e pensieri aveva sempre avuto paura che qualcosa sarebbe andato storto immediatamente.

“Sì… Andrò in officina. Devo anche controllare se mi arriva oggi la spedizione speciale di oro e titanio con cui rivestire la nuova armatura.” Aveva guardato le loro mani e si era sempre stupita di quanto la sua mano sembrasse ancora più piccola quando quella di Steve gliela stringeva. Amava le sue mani. Le aveva sempre amate.

“Va benissimo. Tu lavora e non pensare ad altro. Io mi occuperò di tutto il resto.” Steve le sorrideva dolcemente e lei sapeva di non meritare affatto quell’uomo. In nessun senso.

 

✭✮✭

 

Aveva passato delle settimane strane. Aveva passato quasi tutto il proprio tempo rinchiusa in officina. Steve scendeva ogni tanto a controllare cosa stesse facendo e a portarle qualcosa da mangiare o bere. Restava ogni tanto con lei, in assoluto silenzio. La osservava lavorare, a volte disegnava qualcosa. Di tanto in tanto si alzava e guardava le macchine parcheggiate in ordine. Ancora soffriva per la macchina su cui era atterrata. Se avesse distrutto solo la carrozzeria sarebbe anche stata capace di ripararla in pochissimo tempo. Ma aveva completamente distrutto il motore. Ridotto ad una poltiglia di ingranaggi e olio.

Alzare lo sguardo e distrarsi dal proprio lavoro per vedere Steve seduto su una sedia o sul divano con un blocco da disegno in mano le aveva fatto provare molta nostalgia. A New York Steve lo faceva sempre. La raggiungeva in officina e restava con lei in assoluto silenzio per non distrarla. Ora faceva lo stesso mentre lei era infilata nel buco che stava costruendo per utilizzarlo come supporto alla vestizione dell’armatura. U e Dum-E cercavano di aiutarla, anche se Dum-E era chiaramente distratto dalla presenza di Steve. Lo era sempre. Soprattutto perché Steve gli parlava in continuazione, ogni volta che gli era accanto. Steve era una delle poche persone che aveva sempre trattato i suoi robot come degli esseri umani. Lei parlava con loro perché, per quanto fosse deprimente da ammettere, spesso aveva avuto solo loro. Soprattutto Dum-E che era stato il suo primo robot. Dum-E era il prototipo di quello che aveva costruito dopo e per quante volte lei minacciasse di smontarlo, buttarlo o donarlo a qualche università, non avrebbe mai potuto farlo.

Ogni tanto Steve usciva. Le aveva detto che andava alla sede californiana dello S.H.I.E.L.D. e quando tornava era sempre pieno di borse della spesa. Alla fine gli aveva fatto preparare una delle stanze degli ospiti. Non aveva cuore a fargli passare altre notti in un motel di dubbio aspetto.

Steve non aveva voluto accettare. Come sempre aveva questo suo codice morale a cui aggrapparsi. La casa era fin troppo spesso attorniata da giornalisti e lui non voleva che si potesse speculare di nuovo su una loro possibile relazione. Diceva che lo faceva per lei. Perché in quel momento non aveva bisogno anche della circolazione di quel tipo di notizie. Da un lato aveva ragione. Ma aveva anche paura che Steve non volesse più avere a che fare con lei. Ne avrebbe avuto tutte le ragioni in fondo. Lei se ne era andata. Lei lo aveva lasciato senza nessuna spiegazione. Per cinque anni si era comportata come se tra di loro non ci fosse mai stato nulla. E ora Steve era di nuovo nella sua vita.

“E questo?”

Aveva alzato lo sguardo e spento la saldatrice che aveva in mano per vedere Steve con in mano un prototipo di plastica. Circolare. Con fogli colorati attaccati sopra.

“Nostalgia e vodka. Non farti domande.” Si era tolta gli occhiali protettivi e aveva osservato Steve che scuoteva la testa con quello che doveva essere lo scudo di Capitan America in mano. Ne aveva avuto uno, costruito in acciaio, ma lo aveva lasciato a Long Island. Ed erano cinque anni che non era tornata in quella casa. Ogni volta che doveva andare a New York dormiva in qualche albergo. C’erano troppi ricordi alla Stark Mansion. Belli e brutti. E quelli che più la spaventavano erano i ricordi belli. Quelli che coinvolgevano l’uomo che aveva di fronte.

“Non credo di voler sapere in effetti.” Aveva appoggiato lo scudo non finito sul tavolo su cui lo aveva trovato e si era avvicinato a lei, inginocchiandosi e guardandola. Natasha stava ancora lavorando al suo buco armadio che l’avrebbe aiutata ad indossare l’armatura. “Devo assentarmi per qualche ora, mi prometti di non fare nulla di stupido?”

“Definisci stupido?” Si era tolta anche i guanti e si era seduta bene.

“Stupido è anche saldare mentre sei in short e canotta, se proprio devo essere sincero.”

“Capitano Rogers, ho provato a dirle di indossare qualcosa di più appropriato, ma parlare con un muro e convincerlo a fare qualcosa sarebbe più semplice.” La voce di J.A.R.V.I.S. aveva riempito la stanza, e Natasha aveva solo sorriso.

“In Afghanistan avevo meno protezioni e non mi è successo nulla.”

“Su questo avrei da ridire, signorina Stark. Il suo referto medico dice diversamente.”

“Muto, J.”

Steve l’aveva guardata. Non le aveva mai chiesto dell’Afghanistan, non una sola volta. Le preparava da mangiare. Stava attento che bevesse abbastanza liquidi che non fosse caffè. Cercava di farle avere degli orari di sonno più o meno umani. Ma non le aveva mai chiesto cosa fosse successo durante la prigionia. Forse non ne aveva nemmeno bisogno.

“La cena è in frigo, basta che la riscaldi. Ho preparato altro caffè e ti ho lasciato anche un frullato che ha uno strano colore verde scuro. Pepper ha detto che fa bene alla pelle, ma se non vuoi berlo posso capire.” Si era alzato e aveva sospirato. “Spero di tornare presto.”

“S.H.I.E.L.D. o appuntamento?” Si era pentita nel momento stesso in cui aveva pronunciato quelle parole. Non aveva alcun diritto di fargli una domanda simile. Steve poteva fare quello che preferiva. Poteva uscire con chiunque avesse voluto e lei non aveva alcun diritto di essere gelosa.

“S.H.I.E.L.D., Tasha.” Aveva fatto un debole sorriso e aveva distolto lo sguardo. “Credo che nessuna donna vorrebbe uscire con me sapendo che in questo momento sto a casa tua.”

“Se dici così mi sento ancora più in colpa ad averti qui. Ti spedisco da Fury per sempre.” Era uscita dal buco e lo aveva guardato anche se Steve non la guardava. “Ti sto rovinando la vita sessuale come facevo con quella di Rhodey? Sono vista come una minaccia?”

“No, perché non sto uscendo con nessuna, ma forse un po’ potresti essere una minaccia.”

“Non avevo dubbi.” Aveva piegato le labbra nel suo sorriso caratteristico, e solo allora Steve l’aveva guardata. Era davvero cambiato tutto tra di loro, e contemporaneamente non era cambiato assolutamente nulla. “Vai, Capitano, altrimenti a Fury salirà la pressione se sei in ritardo.”

Lo aveva osservato andarsene. Si era voltato verso di lei prima di uscire dall’officina e salire le scale. Era strano. Il tempo sembrava essersi riavvolto, ma non si ricordava di aver fatto un salto temporale quando aveva raggiunto le 88 m/h qualche settimana prima.

“Signorina Stark, il Capitano Rogers ha delle idee su cosa le sia successo in Afghanistan.”

“Avevi dubbi, J.? Steve è un soldato. Sa come funzionano queste cose.” Sospirando si era seduta alla propria postazione aprendo uno dei file della Mark III. Lavorare in segreto su qualcosa la faceva sentire di nuovo una ragazzina quando faceva le cose di nascosto da Howard. “I materiali sono arrivati tutti?”

“Certamente, signorina. Aspetto solo il suo ordine per iniziare la fabbricazione della copertura del telaio.” Davanti ai suoi occhi J.A.R.V.I.S. aveva fatto comparire il disegno di come sarebbe diventata una volta finita. Un’armatura totalmente dorata.

“Cosa ne pensi, J.?”

“Che così decisamente non darà nell’occhio. E’ un colore davvero molto sobrio.”

Aveva sorriso alla punta di sarcasmo nella voce dell’intelligenza artificiale. Lo adorava quando era così.

“J.A.R.V.I.S. alza il volume.” Aveva notato il nome di sua madre comparire sulla tv accesa. Lo aveva fatto quasi per sbaglio, alzando gli occhi giusto in quel momento dal computer alla tv. Era settembre. A settembre si teneva la serata di gala annuale della Maria Stark Foundation. Sua madre era sempre stata molto attiva nella beneficienza. E lei continuava a finanziare tutte le cose di cui si era occupata Maria. Non partecipava mai alle varie serate. Tranne che alla serata del Maria Stark Foundation. “Perché non sono stata avvertita? Dov’è il mio invito?”

“Non ha ricevuto alcun invito, signorina.” J.A.R.V.I.S. aveva risposto dopo qualche secondo in cui stava sicuramente cercando qualcosa al riguardo.

“Magnifico.” Aveva guardato gli speaker che si chiedevano se si sarebbe presentata o meno. Li ascoltava blaterare su esaurimento nervoso, sindrome da stress post traumatico, ferite fisiche che la tenevano bloccata a casa. “Aggiungi del rosso fuoco sull’armatura e mandala in produzione.”

“Rosso. Ottima scelta per essere ancora più anonima.”

Aveva sorriso mentre si alzava dalla propria postazione e controllava l’ora. Se si sbrigava poteva essere in ritardo il giusto. Il suo classico ritardo di un paio d’ore a cui tutti erano abituati. E lei adorava essere in ritardo per quelle occasioni perché così si evitava ore di inutili conversazioni. Arrivava. Beveva qualcosa. E trovava qualcuno con cui passare la serata. Era un pattern perfetto che seguiva ogni volta.

Questa volta voleva invece solo capire perché non avesse ricevuto nessun invito. Per assurdo per una propria festa. Non aveva alcun senso non essere stata invitata, non aver ricevuto alcun invito. Aveva capito tutta l’antifona del tenere un profilo basso. Lo aveva fatto. Non era uscita di casa. Aveva lasciato a Pepper tutta la responsabilità di gestire la stampa per quanto la riguardava. Obadiah si occupava dell’azienda. E Steve di tutto il resto. Lei era solo rimasta a casa a trastullarsi al sicuro nella propria officina.

Aveva ignorato tutte le speculazioni sulla propria salute. Aveva ignorato anche tutti i gossip che riguardavano Steve, perché ovviamente lo avevano fotografato mentre entrava in casa sua. E ovviamente lo avevano riconosciuto come l’uomo con cui usciva quando era una ragazzina. Ma c’era qualcosa che non andava. C’era qualcosa che non le tornava, e non sapeva se era paranoia o istinto.

Si era infilata un vestito da cocktail nero dopo aver fatto una doccia. Per fortuna aveva nell’armadio un vestito che le copriva completamente il petto così aveva potuto nascondere il reattore arc. Si era truccata velocemente e aveva indossato delle scarpe col tacco. Voleva apparire al top. Non permettere a nessuno di vedere che il terreno le si sgretolava sotto i piedi ad ogni passo che stava facendo.

Era fatta di ferro. Era sempre stata fatta di ferro. Poteva piegarsi. Poteva soccombere sotto varie pressioni e avere modi di reagire non molto salutari. Ma era fatta di ferro.

Aveva premuto l’acceleratore dell’Audi, sfrecciando per le strade di Los Angeles come forse non aveva mai fatto prima. Voleva solo arrivare alla Disney Hall e capire per quale motivo il suo invito non era stato recapitato.

Aveva praticamente inchiodato davanti al red carpet, scendendo subito dalla macchina e lanciando le chiavi al ragazzo che si occupava del parcheggio. In un attimo tutti i flash delle macchine fotografiche erano su di lei, ma era una cosa che aveva messo in conto. Con passo sicuro si era diretta verso Obadiah Stane che stava parlando davanti ad una telecamera e aveva ignorato ogni giornalista che le aveva messo un microfono davanti. Questo lo faceva sempre.

“Interessante doversi imbucare alla propria festa, non credi Obie?” Aveva sorriso guardando l’uomo che per un solo istante l’aveva guardata come se avesse visto un fantasma, prima di fare un enorme sorriso e guardare di nuovo verso la telecamera.

“Ecco qui la nostra preziosa Tasha! Come potete vedere gode di ottima salute.” Le aveva messo una mano attorno alle spalle e l’aveva stretta a sé. Ricordava quando era piccola. Howard era sempre stronzo, e Obadiah la difendeva sempre. Ora le faceva schifo essere toccata da lui. Lo aveva visto sorridere alla telecamera e poi voltarsi verso di lei, continuando a sorridere. “Tasha, non dovresti essere qui.”

“Giusto, dovrei essere a casa a pretendere di soffrire di solo dio sa cosa ed essere tagliata fuori da tutto. Tenere profilo basso, fatto. Ma questo non vuol dire che puoi tenermi chiusa nella mia bella casetta.”

“Non è un profilo tanto basso se si sta di nuovo speculando te e Rogers.”

“Quello che faccio con Steve è solo affar mio.” Aveva sorriso, spostandosi di un passo e guardandolo poi negli occhi. “Ora vado là dentro e vedo se il mio nome vale ancora qualcosa anche se sono senza invito.”

Si stava già allontanando quando Obadiah l’aveva fermata stringendole un braccio. Quel gesto aveva fatto scattare qualcosa e aveva avuto la tentazione di voltarsi e reagire. Colpirlo con tutta la forza che aveva e poi scappare. Ma qualcosa l’aveva fermata. Era riuscita a controllare una reazione che probabilmente sarebbe stata eccessiva in quel momento.

“Fai attenzione a come ti comporti. Dentro c’è mezzo consiglio di amministrazione.” La voce di Obadiah era bassa e seria, e le aveva fatto correre un brivido lungo la schiena. Qualcosa non andava. Qualcosa era fuori posto. Ma non riusciva a mettere insieme il puzzle e vedere tutto nella propria completezza.

“Vado solo a sbronzarmi e trovare qualcuno da portarmi a casa stanotte. Non ho intenzione di far scoppiare una faida all’interno dell’azienda. Sono una ragazzina, ma non sono così stupida.” Aveva sorriso e aveva liberato il braccio. Lo aveva guardato negli occhi e si era allontanata velocemente, entrando nella grande sala in cui si svolgeva la serata. Era piena come ogni anno. Tutta gente famosa e piena di soldi, che lei stava ignorando e si dirigeva al bar. Voleva solo bere qualcosa e farsi passare la sgradevole sensazione che aveva avuto quando Obadiah l’aveva toccata.

“Signorina Stark, posso parlarle?”

Le era quasi andato di traverso il whisky che aveva appena ordinato.

“Agente. Perché sei qui? Perché lo S.H.I.E.L.D. è qui? No, non credo di volerlo sapere. Dimmi solo che non c’è Fury con te. Ti prego, la serata è iniziata male e se lo vedo sarà peggio.”

“No, il Colonnello Fury non c’è. E’ a Washigton in questo momento, ma ha lasciato me qui nella speranza di riuscire a parlarle.” Phil Coulson le sorrideva lievemente, e lei odiava Fury che sapeva bene che i due si erano scambiati informazioni quando Steve Rogers dormiva congelato. “E’ andato perduto il referto del medico che l’ha visitata in Afghanistan.”

“Non ho idea di cosa tu stia parlando. Insinuate che sia finito nelle mie piccole delicate manine?” Aveva sorseggiato ancora un po’ di whisky.

“Il Colonnello Fury è solo preoccupato per lei e le consiglia di parlare con qualcuno dei nostri. Abbiamo un ottimo team di psicologi con cui poter parlare.”

“No, grazie. Rifiuto assolutamente.” Si era voltata lievemente. Steve. Steve parlava con Pepper. Steve rideva con Pepper. E lei ne era gelosa. Sì, quella era chiaramente gelosia. Quell’emozione schifosa che le si stava diramando in ogni vena del corpo era gelosia.

“E poi c’è anche l’incognita della sua fuga, signorina Stark. Almeno questo lo possiamo sapere? Come ha fatto a oltrepassare le montagne? Come ha fatto ad uscire dalla caverna? Ci sono troppe domande senza risposta alla sua fuga.”

“Coulson, perché Steve è qui?” Non riusciva a togliere gli occhi dal viso di Steve. Le aveva detto che era uscito per lavoro. Perché allora era vicino a Pepper? Perché la sua assistente sembrava così a proprio agio con Steve? Non che lei avesse ormai un qualche diritto di essere gelosa. Steve poteva fare quello che voleva.

“Lavoro, signorina Stark. Tra lui e la signorina Potts non c’è assolutamente nulla.” Coulson l’aveva guardata e aveva sorriso. “Crede davvero che dopo aver passato quattro mesi a cercarla nel deserto ora abbia cambiato l’oggetto del suo interesse? Non sta a me dirlo, ma dovrebbe farsi una bella chiacchierata con il Capitano.”

“Non capisco mai se sei mio rivale o mio complice.” Aveva inarcato un sopracciglio guardando prima l’agente e poi aveva di nuovo guardato Steve. Aveva l’uniforme militare. Adorava quando lo vedeva con l’uniforme e tutte quelle medaglie attaccate sopra. E nessuno aveva ancora capito che era il vero Capitano Rogers, e non un parente come lo S.H.I.E.L.D. lo aveva fatto passare.

Steve l’aveva guardata e lei aveva alzato il bicchiere in segno di saluto. Lo aveva visto aggrottare le sopracciglia ed essere di fronte a lei in poche falcate. Con un gesto veloce le aveva tolto il bicchiere di mano e lo aveva appoggiato al bancone.

“Steven, è solo il primo. Sono appena arrivata.”

“Signorina Stark!” Pepper Potts era arrivata subito dopo Steve e l’aveva guardata confusa. “Cosa ci fa qui? Obadiah mi aveva detto che non sarebbe venuta e di non chiederle nulla di questa serata?”

“Obadiah cosa?”

“Mi aveva detto che quando le ha parlato della festa lei gli ha detto che non sarebbe venuta, che non se la sentiva e di non parlargliene ulteriormente.” La donna la guardava e dal suo sguardo poteva dire che qualcosa stava puzzando anche a lei.

“Ok, sentite. Io non avuto alcun invito e ho saputo della festa un paio di ore fa guardando la tv dopo che il qui presente Steve Rogers mi ha detto che andava a lavorare. Bel modo di lavorare, Stevie.”

Steve aveva alzato gli occhi al cielo prima di porgerle una mano e sorride un po’.

“Signorina Stark, mi concede questo ballo?”

“No, perché mi hai mentito. Ma sì, perché l’uniforme ti sta da dio. Portala anche a casa, ti prego.” Aveva stretto la sua mano come se fosse la sua ancora di salvezza. Steve non le aveva detto nulla, portandola semplicemente in mezzo alla pista da ballo. Era da molto tempo che non ballavano insieme. Sentire la mano si Steve sulla sua schiena le aveva fatto battere il cuore come la prima volta in cui aveva ballato con lui quando era solo una ragazzina.

“Non sapevo che fosse questo il lavoro di stasera. Coulson me l’ha detto solo quando sono arrivato in sede.”

“Di cosa parlavi con Pepper?” Era ridicola. Era gelosa e non ne aveva né diritto né motivo.

“Tasha, sei gelosa?” Steve aveva fatto un lieve sorriso, come se fosse stupito anche lui dalle parole che aveva appena pronunciato.

“Cosa? No! Tu… Tu sei libero di fare quello che vuoi. Non stiamo insieme. Sì, vivi a casa mia da qualche giorno. E i giornalisti scrivono cose. Ma no… non stiamo insieme.” Aveva abbassato lo sguardo perché non riusciva a guardare Steve. Se lo avesse guardato solo un attimo più a lungo avrebbe finito per piangere dal nervoso e dalla frustrazione odiandosi poi per questo, e ancora peggio avrebbe potuto dirgli che era davvero gelosa.

“Ma non ci stavo provando con Pepper e neppure lei con me. Stavamo parlando di te e del fatto che sei incredibile, in positivo e negativo ovviamente. Mi ha detto che le regali sempre delle scarpe per farti perdonare.”

“Le donne amano le scarpe. Anch’io amo le scarpe. Sai che amo le scarpe, vivevi con me. Hai visto il mio armadio per le scarpe. Quindi perché non regalar tante scarpe anche a Pepper. Guarda le scarpe che ho addosso io. Non mi ricordavo neanche di averle, se devo essere sincera. Probabilmente mi piacevano e le ho comprate nell’enfasi del momento. Lo faccio sempre in realtà. Sto davvero parlando di scarpe e della mia ossessione per loro? Oddio, domani su tutti i giornali ci saranno le foto di noi due che balliamo. Dimmi che non sono arrossita, ti prego.” Aveva alzato lo sguardo e se non era rossa fino a quel momento, ora lo era. Steve la guardava con dolcezza e sorrideva lievemente.

“Sei davvero bellissima.” Steve sorrideva ancora. Aveva lasciato la sua mano e le aveva accarezzato una guancia con il dorso delle dita. “A me non importa cosa scriveranno i giornali domani. Possono scrivere quello che vogliono.”

Steve la guardava intensamente e bastava così poco per baciarlo e sentire di nuovo quell’emozione che le facevano provare sempre i baci di Steve.

“Ho… Ho bisogno di bere qualcosa. Qualcosa di forte. Molto forte. Acqua naturale con ghiaccio e limone andrà benissimo.”

Steve aveva riso, lasciandola andare solo dopo averle accarezzato la guancia ancora una volta.

“Torno subito.”

Lo aveva seguito con lo sguardo mentre si allontanava. Ci era andata vicina. Stava davvero per baciarlo. Avrebbe potuto farlo. Avrebbe davvero potuto farlo. Ma non sapeva se era la cosa giusta e se sarebbe mai stata pronta ad affrontare le conseguenze di quel gesto. In passato era andata abbastanza bene. Non benissimo. Se fosse andata benissimo probabilmente sarebbero già sposati con mezza dozzina di bambini a carico. Aveva fatto una smorfia al suo stesso pensiero si era passata una mano tra i capelli.

“Ma guarda chi abbiamo qui. Natasha Stark.”

Si era voltata e aveva di fronte a sé il giornalista di Men’s Health. Pessima scelta. Aveva scritto un articolo davvero cattivo su di lei.

“Clark…?”

“Christopher.” L’uomo aveva inarcato il sopracciglio. In realtà sapeva benissimo come si chiamava, ma non voleva dargli la soddisfazione di ricordarsi di lui. E fare quella battuta che aveva capito solo lei l’aveva fatta sorridere. Non era da lei dare soddisfazioni agli uomini con cui aveva dormito solo una volta per puro divertimento e alcun trasporto emotivo. Il trasporto emotivo a letto apparteneva soltanto ad un uomo nella sua vita. “Hai una bella faccia tosta a presentarti in pubblico, lo sai?”

“C’è il mio cognome sul nome della festa, sai com’è. Un salto era d’obbligo. Anche se dovrò fare più attenzione a chi vengono spediti gli inviti.” Aveva con lo sguardo cercato Steve. Era ancora al bar. Stava dicendo qualcosa a Pepper e Coulson.

“Sai, mi ero bevuto il tuo discorsetto da figlia dei fiori che decide di chiudere con la fabbricazione e conseguente vendita di armi. L’avevi fatto credere a tutti. Era solo una trovata pubblicitaria?”

“Non so di cosa tu stia parlando. Le Stark Industries hanno chiuso con la fabbricazione delle armi. Abbiamo un momento di stallo, ma poi inizieremo con l’energia pulita e altre cose che ho già in mente.”

“Conosci un posto chiamato Gulmira?” Christopher l’aveva interrotta da quello che poteva diventare un soliloquio davvero lungo e aveva tutta la sua attenzione in un attimo. “E’ vicino a dove eri prigioniera, stando alle fonti. Un piccolo villaggio tra le montagne. Tieni. Il logo su queste armi è ben conosciuto. E guarda, non è il missile Jericho quello?”

Aveva subito preso le foto dalla mano dell’uomo e le aveva guardate con orrore. Case distrutte. Persone a terra. Il Jericho. Le sue armi.

“A quando risalgono?”

“Ieri.”

“Non ho approvato alcuna vendita di armi. Da quando sono tornata ho chiuso tutti i contratti di armamenti.”

“La tua società a quanto pare li ha approvati.”

“Io non sono la mia società!” Aveva alzato la voce e in quel momento le era tutto chiaro. Tutti i pezzi erano tornati al proprio posto.

“Ci sono problemi qui?” Steve era entrato nel suo raggio visivo. Stava sicuramente guardando male Christopher e se in quel momento non fosse stata così scossa probabilmente avrebbe trovato la situazione molto eccitante.

“Ha venduto il Jericho ai terroristi.” Sapeva di aver parlato, ma la sua stessa voce le era sembrata così distante. Aveva guardato le foto ancora una volta prima di dare le spalle ad entrambi gli uomini e andare in cerca di Obadiah Stane. Sapeva che era stato lui. Ne era certa. Senza prove, ma con la certezza che fosse lui.

Lo aveva trovato ancora all’esterno. Parlava con uno dei loro investitori. Uno di quelli che non era molto contento del cambiamento che lei voleva per la società. Uno di quelli che l’aveva sempre vista come solo una ragazzina da tenere sotto controllo per evitare che i suoi scandali si ripercuotessero sulle Stark Industries.

“Cosa significa?” Avevo ignorato tutto e tutti, sbattendo le foto contro il petto di Obadiah. “Perché il Jericho è in mano loro?”

Aveva visto Obadiah fare un sorriso tirato all’altro uomo, prima di metterle una mano attorno alle spalle e allontanarsi di qualche passo.

“Tasha, siamo armaioli. Te l’ho detto un migliaio di volte.”

“Questi sono terroristi! Questi sono gli stessi che hanno rapito me! Tu gli hai venduto il Jericho che io non volevo costruirgli!”

“Potevano essere una spina nel fianco per gli affari della società. Come lo sei diventata anche tu.” Natasha lo aveva guardato e quel poco terreno che ancora aveva sotto i piedi si era sgretolato del tutto. “Chi credi abbia mosso l’ingiunzione contro di te? Sono stato io. E gli altri non aspettavano altro. Torna a casa, non sei mai stata tagliata per guidare questa azienda.”

Aveva guardato Obadiah allontanarsi. Sorrideva ai giornalisti e si metteva in posa per i fotografi. E in quel momento sapeva di dover far qualcosa, perché non avrebbe permesso che quello fosse il suo unico retaggio.

 
   
 
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