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Autore: tixit    11/08/2017    3 recensioni
Una ragazzina torna a casa e cerca di adeguarsi alla vita in famiglia.
Breve storia minore su personaggi minori che non è diventata originale.
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sorelle Jarjeyes, Victor Clemente Girodelle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Sigyn la rossa'
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Si cercano i ricordi migliori

Sbatté le palpebre e decise che un gigante dispettoso aveva afferrato la sua stanza e l’aveva ruotata senza troppi riguardi, deformandola.
Poi, pian piano ricordò: era a Palazzo Jarjayes, non a casa, era corretto che la luce filtrasse da tutta un'altra parte, e quando si era addormentata c’era Oscar accanto a lei. 

Ora era sola, aveva le bocca secca e le labbra screpolate.

Il silenzio le parve rassicurante, sgusciò fuori dal letto appoggiando i piedi nudi sul marmo ed il freddo le sembrò piacevole sulla pelle appiccicosa. Poteva sentire che i riccioli umidi le scappavano da tutte le parti - si passò le dita tra i capelli per sistemarli un pochino senza troppo successo - bevve a piccoli sorsi l’acqua ormai calda del bicchiere sul tavolino. Oscar, forse. O, più probabilmente, André, il migliore amico - l’unico - di sua sorella.

La chemise di lino bianco le arrivava fino alle ginocchia, zuppa di sudore e lacrime lungo la scollatura; incerta soppesò la certezza - assoluta - che non gliene importava niente, ma proprio niente, che la vedessero con le gambe nude in giro per casa. 
Aprire un baule e frugarci dentro le sembrava una fatica peggiore di quella del tizio che per punizione spingeva un masso su per la salita - Clément avrebbe saputo di sicuro dirle il nome e che colpa stava espiando. 
Non era solo questione di fatica, di mezzo c’era anche l’assurdità. 
Di spingere un masso lungo il fianco di una montagna sapendo che poi sarebbe comunque rotolato giù.
Di pensare che un paio di calze di seta avrebbero fatto la differenza in tutta quella devastazione.

D’altro canto l’istinto di sopravvivenza le intimava di non peggiorare la sua posizione: ci mancava solo che il Generale la accusasse di ignoranza delle regole del bien vivre. O di spudoratezza. O di spudorata ignoranza - ammesso che l’ignoranza potesse esserlo. Spudorata.

Stanca, con la testa che le girava, si inginocchiò accanto a un baule e ne estrasse con tanta fatica un banyan verdeblù con un motivo più chiaro - damasco di seta. E che improvvisamente le parve rassicurante per tutte le storie intricate che portava con sé.

Lo zio Antoine-Benoit le aveva spiegato che la forma di quel capo di abbigliamento somigliava a quelli dei kimono che gli Europei avevano scoperto in Giappone, ma il nome veniva da una parola indiana, banya, che voleva dire “mercante”. Le aveva fatto vedere su un atlante tutta la strada che quella parola aveva fatto per arrivare fino in Europa. E le aveva dato un libro da leggere.

Lo zio Jean-Claude non si interessava di vestiti, ma quando lei aveva scelto di cucirsi un banyan tutto da sola - quasi - le aveva raccontato tutto dell’evangelizzazione del Giappone, iniziata da Francesco Saverio, un gesuita missionario, proprio come lui, e poi delle persecuzioni, della rivolta di Shimabara e dell’assedio del castello di Hara, dove gli assediati, invece di colpire gli assedianti, facevano piovere nel campo nemico gli yabumi, frecce, cioè, con fogli arrotolati attorno, dove spiegavano per iscritto le loro ragioni. 
Avrebbero perso e lo sapevano - volevano solo poter dire la loro.

Questa, della libertà di culto, era una cosa che avrebbe irritato il Generale: a lui premeva un Popolo, un Re, una Religione.
Invece per il Nonno le cose stavano diversamente, e così ne aveva approfittato per farle tradurre Flavio Giuseppe per via di Masada, un altro assedio, di un’altra epoca, sempre di persone con l’intima insradicabile convinzione di aver diritto alla propria opinione anche se non era quella di tutti gli altri.

Il Generale non era facile, rifletté, ma anche il Nonno e lo zio Jean-Claude non scherzavano.

Quanto al suo banyan: la stoffa veniva alla Cina, solo che era stata creata in modo che venisse incontro ai gusti europei in fatto di tappezzeria. Cineseria e non cinese.
Non era una fantasia piccola ripetuta, ma una grande, che, probabilmente, su una tenda, avrebbe fatto un figurone.
Il disegno centrale era un bruciatore di incenso, glielo aveva spiegato il Nonno, che poi l’aveva portata da un suo amico che ne faceva collezione e che le aveva lasciato toccare tutto.
Il resto del motivo erano delle foglie che probabilmente non esistevano in natura. La versione cinese delle foglie di acanto - acanteria e non acanto pensò con un sogghigno, un po’ come le immagini degli elefanti che circolavano in Europa tanto tempo prima, fatte da artisti che non ne avevano mai visto uno - lo zio Antoine-Benoit le aveva mandato una lettera con il disegno di un elefante autentico. L’avrebbe fatta incorniciare, decise. In camera sua ci metteva quello che voleva.

Il banyan era un pochino troppo corto, oramai, ma era stato il suo primo esperimento di cucito, guidata dall’Asciutta che le diceva di prendersi tutto il tempo per bien faire perché la velocità sarebbe venuta con la pratica, ma la precisione doveva esserci da subito.
Non l'avrebbe mai gettato: le ricordava verbi greci, parole di altri mondi, uno studio che non le era affatto pesato e le persone che le erano più care.
Si ricordava che l'Asciutta all'inizio aveva brontolato perché era troppo ampio, ma lei si era divertita tanto a girare su se stessa nello studio del Nonno, e poi saltare su e giù dalla sua scrivania solo per vedere l’effetto di quella stoffa in movimento. Fino a che non l’avevano beccata.

Se lo sistemò addosso, lisciando con cura le pieghe nella penombra. Dopo un attimo di indecisione, recuperò dal baule anche una cuffietta leggera di pizzo - il Nonno avrebbe approvato - ma le calze... quello era davvero chiederle troppo.

Scivolò nel corridoio di servizio tramite la porta nascosta e lo percorse a piedi nudi fino alla stanza di sua madre, immersa nel buio. 
I teli sui mobili sembravano fantasmi minacciosi di una vita che una volta c’era ed ora non più - un giorno Madame Marguerite se ne era andata senza tanto chiasso e di lei erano rimaste solo delle boccette di profumo di Grasse (vuote, ovviamente) e qualche libro che non le era davvero interessato. 
Altrimenti lo avrebbe portato con sé, così come aveva fatto con la châtelaine da appendere in vita, quella con le rose piccoline, o con gli orecchini pendeloques con la parte superiore alla marquise e l’aggancio posteriore, tutti di diamanti.
O come aveva fatto con i piccoli portaprofumi d’oro punzonati - erano stati avvolti con cura nel velluto e poi riposti nel portagioie di cuoio che odorava di polvere d’iris e rose, tra mille raccomandazioni.

Tutto per servire la Regina.

Mère non era andata a Versailles per divertirsi - avrebbe potuto eh! gran bei balli - ma per qualcosa che a Sigyn sfuggiva, qualcosa di stupido, ma stupido al modo degli adulti, qualcosa che a lei che era piccola era concesso di non capire.
Quello che aveva capito, invece, era che la Sala da Musica non era stata più la stessa e così la Serra, mentre il Generale era diventato più distante e le bacchettate sempre più stizzite.

Così lei se l’era filata a casa, in Normandia. 
Non per le bacchettate, quelle le poteva sopportare, ma per quella sensazione desolante di aggirarsi tra cumuli di macerie, che tutti facevano finta di non vedere - Joséphine era stata pure entusiasta: ancora un altro incarico che portava onore alla famiglia Jarjayes. 
Joséphine probabilmente era pazza, decise Sigyn sfiorando i teli con le dita.
 
Aveva chiesto ad Oscar di venire via con lei, prima di andarsene. Era il minimo. 
Ed André era stato ovviamente incluso nel pacchetto senza nemmeno bisogno di dirlo - il Generale un giorno aveva deciso che Oscar doveva crescere assieme ad un amico per diventare un maschio perfetto, così Nonnina gli aveva procurato André, suo nipote, ed il Generale lo aveva assunto per una cosa che quello avrebbe fatto gratis: André aveva adottato Oscar, come fa un cane con il suo padrone.
Tutto molto bello, a parte l'idea di comprare un amico e a parte la follia (di tutti) di pianificare la trasformazione di una bambina in un bambino, una cosa da fuori di testa completi.
Clément le aveva prestato una tragedia di un inglese una sera, una cosa tremenda: alla fine morivano tutti, segno che l’autore aveva esaurito le idee e non sapeva più che pesci pigliare.
Comunque il protagonista ad un certo punto esclamava qualcosa del tipo “C’è del marcio in Danimarca!” e a lei era venuto da commentare “Mica solo lì! Pure Palazzo Jarjayes si difende bene, che ti credi?”.

Ecco a volte le pareva che Amleto - era così che si chiamava! - l’avrebbe capita. Lui si che sapeva cosa era il degrado di una famiglia, le macerie di una casa, e la consapevolezza che al peggio non c’era limite.

Comunque lei non era stata egoista ed aveva invitato Oscar ed André a scapparsene via. 
Nonnina no - l’Asciutta l’avrebbe uccisa annodandole quel mestolo maledetto intorno al collo, prendendosi tutto il tempo per bien faire.

Ma Oscar non usciva da Palazzo, in pratica, e amava la sua famiglia solo con il permesso del Generale, come un cane ben addestrato - quanto a Madame Marguerite, se quella tra Mère ed il Generale era una guerra, si sapeva già da che parte sarebbe stata sua sorella: di certo non da quella delle femmine.

Aprì con circospezione un cassetto e ne estrasse con cura una boccetta di ceramica ormai vuota, ma che ancora conservava le tracce del profumo che una volta conteneva. Era stupenda, aveva la forma di un mazzolino di fiori, con le rose del colore della stessa varietà rosata che coltivava Madame Marguerite. E con dei fiori di gelsomino delicatissimi. Poi si avvicinò al letto, studiando i ricami dei tendaggi pesanti, che riproducevano i leoni dei Jarjayes e le rose di Madame Marguerite.

Si arrampicò sul letto, richiudendo con cura i teli attorno a sé, per essere perfettamente al buio. 
Nascite, matrimoni, morti, capitavano tutti lì, su un materasso. E sotto un baldacchino, come si addiceva alle cose solenni; in fondo non sarebbe stato naturale restarci per sempre? 
Peccato che Amleto non esistesse, sarebbe stato di gran conforto, adesso, seduto lì accanto a lei. Si sarebbero consolati a vicenda.
Si raggomitolò come un riccio e annusò il profumo incrostato nella boccetta, tenendo gli occhi chiusi, sentendosi un pochino meno sola.

Forse se fosse rimasta lì abbastanza a lungo forse ad un certo punto si sarebbero dimenticati completamente di lei. Tanto erano già sulla buona strada. 

Forse se fosse rimasta lì abbastanza a lungo il dolore se ne sarebbe andato.  


Si svegliò di colpo. 

Rimise la boccetta al suo posto, richiudendola con cura, e se ne uscì da dove era arrivata. 

Fu a quel punto che sentì il brusio che proveniva dallo Scalone. 
Sistemò il banyan ed andò ad accoccolarsi in terra, seduta su un fianco, il viso incastrato tra le colonne panciute della balaustra, ripensando a quando sua madre - in fondo solo pochi mesi prima - le aveva riempite di ghirlande di edera. Sentì che gli occhi cominciavano a pizzicarle, così si concentrò sulle persone sotto di lei, intente a scambiarsi pettegolezzi e saluti: sua sorella Joséphine, Margot-Pur-Beurre la cameriera nonché sicofante privata di sua sorella, ed Alo - Alexandre de Girodelle - Lingua di Vipera, il fratello di Clément.

Se avesse dovuto scommettere avrebbe detto che erano stati a teatro, forse erano partiti insieme o forse si erano incontrati lì. Margot era il lasciapassare della inappuntabilità di sua sorella, prossima a fidanzamento e nozze e i Girodelle erano considerati “compagnia appropriata” soprattutto perché Oscar era ancora troppo piccola per fare “il fratello di scorta, protettore della rispettabilità dell’incolumità delle sue sorelle”. Concetto che sarebbe sembrato un mot d'esprit senonché il bello era che era proprio vero: sua sorella era l'Erede - e quindi maschio - fin dalla nascita, per volontà del Generale.

Joséphine era splendida, vestita di una robe-à-la-française, di seta lucida, di almeno un paio di toni più pallida rispetto al colore dei suoi occhi, il famoso azzurro-jarjayes. La stoffa era a fiori e Sigyn si ritrovò a pensare che al posto di Joséphine avrebbe preferito una stoffa di un solo colore, molto semplice, giocando di più sulle rouches, tono su tono, opera di bravura con ago, filo e progettazione nella ripiegatura della stoffa - sapeva che quel vestito aveva delle decorazioni ad “S”, ma si perdevano in quella fantasia minuta.

Capiva però sua sorella, la fanatica dell’onore dei Jarjayes: quel tipo di stoffa non era di moda, ma di stra-moda e Joséphine ci teneva ad essere ben vestita, meglio di tutte le altre, ma nel modo in cui erano ben vestite tutte. Era più una questione di applicare alla perfezione una serie di regole riconosciute dal resto del mondo che contava, insomma - molto Jarjayes, indubbiamente. E molto poco castello di Hara - poco Reynier, insomma
Con i capelli sollevati, dorati sotto la luce delle lampade ad olio - forse anche per via della cipria, pensò Sigyn critica - valeva tutto il denaro della sua dote.

Lui, stilosissimo, era vestito di nero, con una spolverata minima di ricami argentati.

Fu un attimo, Alo alzò lo sguardo e la vide, anche da nascosta. Divertito, le strizzò l’occhio, mentre Sigyn arrossiva e sistemava il banyan in modo che le coprisse i piedini - era stata proprio sciocca, un paio di calze di seta avrebbero fatto davvero la differenza. E delle scarpine? ne voleva parlare?

Sentì lo sguardo da spettro di Alo farsi severo, lo vide aggrottare le sopracciglia e Sigyn abbassò lo sguardo rattristata - doveva esserci qualcosa in lei che proprio non andava se finiva per disgustare tutti quanti.

Joséphine risalì lo scalone con eleganza, dando il braccio ad Alo, per poi fermarsi davanti a lei. Il sorriso le parve quello svagato di circostanza, di quando non si sa bene cosa dire, o, pure peggio, lo si sa benissimo, ma sarebbero solo scortesie.

“E così non è esatto che dormi in continuazione. A quanto pare di notte ti aggiri per casa di nascosto.” Il tono era deluso e Sigyn non replicò nulla, in imbarazzo.

Aveva due scelte davanti a sé: o si alzava in piedi, mostrando i suoi piedini nudi, e le caviglie, su fino quasi (quasi!) alle ginocchia che spuntavano dal banyan - che scandalo! - per poi andarsene dignitosamente da dove era venuta, sfuggendo alle grinfie di Joséphine.
Oppure se ne restava lì, sirena o forse granchietto su uno scoglio, con le ginocchia al sicuro sotto la stoffa verdeblù. Sperando che Alo avesse una gran fretta di andarsene da casa loro per filarsela a giocare d’azzardo a Parigi.

Una soluzione faceva schifo e l’altra pure.

“Non ti imbarazza poltrire tutto il giorno invece di migliorare te stessa? Dovresti combattere la prigrizia - è incomprensibile come tu riesca ad esser soddisfatta di ciò che sei.”

“E cosa sarei di grazia?”

“Una nullità.”

Sigyn non osò guardare Alo, che aveva taciuto per tutto il tempo, si limitò a raddrizzare le spalle - Joséphine non era una ipocrita, questo glielo doveva riconoscere, ma accidenti… picchiava duro.

“L’hanno rispedita qui dalla Normandia - è un esperimento che non è riuscito.” scosse la testa, infierendo. 

Di solito quando a Joséphine prendeva proprio male e diventava una vipera a lei non importava più di tanto, ma ora le sembrò che qualcuno le stesse irrorando di succo di limone una qualche ferita, proprio dentro al cuore.

“Come tutti noi, chi più chi meno.” replicò Alo con un tono freddo.

Joséphine fece un gesto elegante “Mi spiace per nostro Padre.” mormorò, "Un altro peso da sopportare..." Poi si inchinò per il commiato e veleggiò per il corridoio.

Sigyn non disse niente, ma quando alzò lo sguardo Alo era ancora lì, che la stava osservando, imperscrutabile.

“Ho fame,” gli sentì dire e poi lo vide scendere le scale senza voltarsi.

   
 
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