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Autore: Avareil    25/08/2017    6 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nel vento
Aveva corso velocemente incurante della strada e della folla che aveva dovuto malamente spintonare per farsi largo. La vergogna le aveva imporporato le guance mentre il cuore, turbato da quell’inaspettato incontro, non faceva che battere a un ritmo forsennato. Quel dio anomalo l’aveva dominata per tutto il tempo in una danza che molto spesso aveva visto le loro mani sfiorarsi e i loro respiri solleticarsi. “Ade.” Dal profilo affilato e dallo sguardo magnetico.
Più precisamente:
“Ade, mia signora.”
Il ricordare quel tono, quelle parole, il modo in cui la sua bocca si era come arricciata in un sorriso amaro, avevano il potere di farla arrossire, soprattutto perché, ammaliata, era rimasta per un tempo indicibile ad osservare quelle labbra sottili incapace di dare una risposta al dio, una qualsiasi risposta.
Si era limitata a sorridere mentre la folla intorno a loro, compresa la madre, li fissava inorridita e terrorizzata.
Poi era venuta la vergogna, la vera vergogna.
Umiliata al cospetto di tutto il pantheon delle divinità si era data alla fuga, incurante delle voci preoccupate che la richiamavano dalle sue spalle.
Aveva percorso a perdifiato la discesa dell’Olimpo mentre una nuova sensazione simile alla rabbia iniziava a montarle dentro. Correndo senza fermarsi aveva superato di gran lunga il sicuro nido materno nel tentativo di sfogare quell’energia maligna accumulata; aveva girovagato senza meta per molto.  
Solo quando non aveva più udito alcun suono alle sue spalle aveva deciso di fermarsi per riprendere fiato, la terra le dava il suo benvenuto facendo rifiorire dei teneri fiori bianchi ma il cuore della dea, troppo turbato, non vi ci aveva fatto caso.  
Sola coi propri pensieri non riusciva ancora a capacitarsi di quanto successo. Era stata incitata alla fuga da sua madre che, disperata, l’aveva spinta lontano da sé nel vano tentativo di invogliarla alla corsa. Ma esattamente da cosa avrebbe dovuto scappare? Chi mai avrebbe potuto volerle del male, a lei che solo in quella occasione conosceva gli dei?
 
Camminava sovrappensiero, con passo lento e delicato, solo il battito nelle sue vene risuonava nell’etere; si trovava nei pressi del lago Pergusa e quelle zone, sebbene la madre gliele avesse proibite, erano assolutamente sicure per lei che le conosceva – o che almeno così credeva.
Riusciva a scorgere la propria figura proiettata sulle acque placide del lago rischiarate da una luna piena e brillante alta nel cielo: il petto le si sollevava ritmicamente per colpa della lunga corsa, i capelli, un tempo raccolti in una morbida treccia, le ricadevano sulle spalle in un caos di ciocche scomposte e fiorellini, unici superstiti della corona ornamentale.  Il vestito era uno scempio. La veste che sua madre le aveva donato era completamente rovinata, la corsa l’aveva sfrangiato e scucito in alcuni punti ai suoi piedi mentre una preziosa spilla era caduta chissà dove lasciandole buona parte della schiena e la spalla sinistra nuda.
Lì, dinnanzi a quel riflesso che proiettava l’immagine di una dea in fuga, Persefone si era sentita venir meno per la vergogna e la rabbia.
Infastidita per quell’inaspettato corso d’eventi si era mossa con passo leggero verso il lago e, spogliatasi dei resti di quella serata terribile, aveva deciso di lavarsi nelle acque placide.
 
 

“Persefone…si, la dea che oggi ha preso il nome­”, una voce aveva bisbigliato come il vento fra gli alberi.
“Persefone? La figlia di Demetra?”. Un’altra aveva risposto alla prima con fare interrogativo.
“Si! Lei! Non appena ha ricevuto il nome si è fatta sedurre da un dio sconosciuto a molti, un traditore dicono, tanto che sua madre l’ha dovuta cacciare per evitarle disonore!”.  Nuovamente la prima aveva parlato con enfasi.
“Ma sei sicura? La Kore che conosco io non farebbe mai una cosa del genere”.
Due ninfe erano sbucate dalla coltre boschiva intente a parlare sommessamente.
“Sicurissima, ho sentito la notizia da una fonte certa, una dea illustre”. Le giovani, incuranti della presenza di una silenziosa spettatrice, avevano iniziato a girare intorno alle sponde del lago, parlavano con fare civettuolo e pettegolo. 
 La dea oggetto del racconto, stesa a galleggiare sul filo dell’acqua, aveva sbarrato gli occhi non appena aveva sentito quelle parole e, tiratasi immediatamente giù, aveva cercato nascondiglio tra le acque rimanendo in assoluto silenzio. Le vedeva bene, due giovinette intente a chiacchierare di quanto successo poco prima sull’Olimpo; evidentemente le voci della sua fuga non avevano tardato a diffondersi tra le genti ultraterrene.
Un rancore profondo, simile a un fuoco, le artigliava le viscere all’udire narrare i dettagli di una storia contorta che poco aveva a che vedere con la verità. In silenzio, quatta quatta, si era fatta più vicina alle due per sentire i dettagli falsi di quel racconto.
“Demetra era folle di dolore, non poteva credere ai suoi occhi tanto che alla fine ha deciso di mettersi tra i due.” La prima, quella che aveva iniziato il racconto, aveva calato il capo con fare di diniego, dispiaciuta per quanto le era stato riferito e che ora, con suo sommo rammarico, le toccava narrare alla compagna.
“Quel dio … Ade…”.
Al solo sentire pronunciare quel nome Persefone aveva come percepito una strana sensazione alla bocca dello stomaco, come un dolore che non sapeva di sofferenza quanto piuttosto di languore.
“Ade… si dice che abbia commesso le peggiori nefandezze. Un dio cattivo e distruttore di vita che non ha mai esitato a impossessarsi con la violenza sia di cose che di persone.  Vuole lei, l’ha reclamata ufficialmente come premio per la scellerata sorte toccatagli ingiustamente nel profondo Averno”.
“Ma sei sicura di quanto affermi?”. La seconda rispondeva per l’ennesima volta con voce incerta e sofferente.
“Assolutamente, ho udito il dio stesso pretenderla con brutalità al cospetto di Demetra somma e Zeus padre”.
“Ma nessuno ha osato impedire quell’unione a parte Demetra?”.
“No, nessuno ha osato andar contro le parole del dio nero”.
“Ma dicono abbia una schiera di concubine ad allietarlo nel fitto Orco. Perché desiderarne un’altra?”.
“Perché lui è un dio sostenuto dalle Moire, egli può esigere ciò che vuole e prima di tutto il suo cuore brama vendetta. Quella piccola dea verrà usata come trofeo, non come consorte; sicuramente dopo le nozze verrà ripudiata per recare maggiore vergogna al fratello minore e alla sorella che per prima sputò ai suoi piedi rifiudantolo”.
Una coltellata, uno schiaffo in pieno volto. Persefone non sapeva come descrivere l’effetto che quella rivelazione aveva avuto sul suo corpo già sconquassato dalle gelide acque del lago. Tremava mentre la rabbia che aveva provato in principio si andava tramutando in paura.
Ade, il dio dell’Averno la reclamava. Lei che era vita, vita che nasce e cresce, vita che si trasforma, veniva reclamata dal dio che presiede i misteri del sottosuolo dal quale non vi è ritorno. Solo quando le due avevano imboccato un altro passaggio del bosco per perdersi nelle coltri ramose ella era uscita dalle acque ancora tremante e, avvoltasi velocemente nelle vesti stropicciate, aveva iniziato a pensare confusamente sul da farsi. Aveva bisogno di un piano, aveva bisogno di andare via, allontanarsi da quelle terre che la conoscevano e migrare in altre in cui il suo passo si sarebbe potuto confondere con altri. Necessitava di un rifugio, un luogo sicuro in cui quel dio così terribile non avrebbe potuto trovarla. E poco importava che al solo ricordarlo qualcosa dentro di lei si smuoveva facendole battere il cuore forsennatamente; Ade era per lei una condanna a morte, un dio che la reclamava non per amore ma per vendetta e la confinava nel più oscuro dei regni.
Il suo animo avrebbe fatto meglio a dimenticarlo.
Ritornata velocemente nella sua dimora aveva agguantato una veste semplice e pulita, uno scialle pesante e una borraccia di ambrosia e, senza dir nulla, senza lasciar alcun messaggio alla madre ancora assente, era sgattaiolata via perdendosi nel vento.
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Un leggero bussare, quasi delicato, aveva distolto Ade dal suo fissare ininterrottamente l’altare. Non aveva ricevuto alcuna anima quel mattino e poteva chiaramente percepire il sommesso vociare dei trapassati lasciati ad attendere il loro destino al cospetto del fido Cerbero.
“Avanti” aveva risposto distrattamente mentre con una mano aveva ravvivato la chioma lasciata sciolta sulle spalle.
“E’ permesso? Ti disturbo...fratello?” Estia sbucava da dietro la porta con fare timido sebbene un bel sorriso le illuminasse il volto.
Quella visita inaspettata aveva lasciato il sovrano dell’averno leggermente spiazzato tanto che dovettero passare alcuni secondi prima che una sua risposta riempisse l’aria.
“Estia, cosa ci fai qui?”. Nessun convenevole, nessun fare gentile. Ade era andato dritto al punto, con un gesto reverenziale del capo le aveva fatto intendere di accomodarsi nella cella privata del suo tempio.
“Fratello, io vorrei spiegarti perchè-”, aveva camminato con passo lento facendo ondeggiare impercettibilmente la lunga veste smeraldina che le cadeva addosso a mo’ di tunica.
“Non mi devi alcuna spiegazione”, l’aveva interrotta quasi bruscamente ma poi, vedendo il sorriso della sorella ombreggiarsi, aveva cercato di recuperare
“So di cosa vorresti parlare, sorella, ma oggi i miei pensieri sono rivolti altrove”.
Estia non avrebbe potuto giurarlo ma aveva avuto come l’impressione di scorgere su quel viso freddo e distaccato un barlume di sofferenza.
“Piuttosto dimmi: come hai fatto a raggiungermi qui? Varcare le mura nere risulta un’impresa ardua per molte divinità; non credevo che facessi parte di quella piccola cerchia di “fortunati””, l’ultima parola Ade l’aveva pronunciata quasi con scherno, non verso la sorella quanto piuttosto nei riguardi della propria situazione, sovrano di un regno meschino.
“Ade, come ben sai non sono una divinità psicopompa come Hermes o la divina Ecate. Sono stata richiamata in maniera assolutamente sorprendente e… Sei stato tu a farlo”. La dea gli si era fatta vicina, piccola piccola e dalle forme androgine, aveva alzato un braccio verso il suo volto; l’obiettivo sarebbe stato quello di accarezzargli il viso ma quello, restio al contatto – o semplicemente dimentico- si era scansato, mettendo nuovamente tra loro qualche centimetro.
“Io non ti ho richiamata qui”. Aveva guardato altrove, quasi evitando il suo sguardo brillante.
“Oh si Ade, posso giurartelo sullo Stige”. Aveva ribattuto quella con fare allegro.
“Non… Non prendere alla leggera le promesse nel mio regno, dea di superficie! Lo Stige esige il rispetto”. Si era voltato di scatto sollevando un dito verso il suo volto con fare preoccupato e severo.
“Fratello, guarda…”. Stufa di quell’atteggiamento scettico la divina Estia aveva rivolto il proprio sguardo lontano, verso le torce appese ad ogni colonna del tempio avernale.
Aveva poi congiunto le mani e, mormorato antiche parole, aveva fatto tremare leggermente l’aria. Un nuovo odore riempiva la stanza. Una nuova luce rischiarava l’altare presso il quel i dei stavano conversando.
Fuoco. Questo era il frutto del richiamo di Estia.
Un fuoco caldo e brillante che crepitava vivo su ogni colonna e che, infine, trovava sfogo nel grande braciere retrostante lo scranno nero.
“Il tuo cuore così glaciale ha implorato il tepore di un fuoco che sa di …Famiglia”. Estia sorrideva serafica al dio che, ancora più bianco del solito, si era avvicinato lentamente verso una fonte di calore.
“Io… Non vedevo il fuoco da…”.
“Il tuo animo brama amore da troppo tempo”, la dea gli si era posta di fianco, dinnanzi alla luce calda.
“… Ma il tuo cervello grida vendetta”. Gli occhi di Estia si erano incupiti così come la voce, fino a poco prima gioviale.
 “Quale sarà la tua scelta? il fuoco verde e freddo dei morti o quello rosso come il sangue e caldo come un sole di …primavera?”.

Demone di una dea. Primavera non era una parola che aveva scelto a caso.

“Stai forse consigliandomi di perseguire il mio scopo?”. L’aveva fissata dritta negli occhi, un cipiglio dubbioso e, al contempo, speranzoso.
“Ti sto consigliando di smettere di perseguire vendette inutili. Non destinare a quella giovane un destino forse peggiore del tuo”.
 Fattasi più vicina aveva nuovamente allungato le mani verso quelle di Ade che, sebbene fuggitive, vennero braccate con forza da quelle della dea.
“Guardami fratello, anche tu sei molto di più di quello che dai a vedere.”
E, accompagnata da quelle parole, aveva poggiato un fiore secco sul palmo gelido del dio.
Ade aveva sgranato gli occhi, lo riconosceva, era il suo fiore, quello che aveva adornato la corona celebrativa di Persefone.
Stupito aveva fissato prima l’oggetto prezioso tra le sue mani e poi gli occhi luminosi di Estia.
“Questo posto è così lugubre e tetro per quella giovane dea.” Aveva come sospirato rassegnato, pieno di astio per quella sistemazione.
“Tutto quello che occorre ad una sposa è un fuoco domestico dinnanzi al quale riscaldarsi di fianco allo sposo”.

La dea sorrideva materna. Finalmente stringeva tra le proprie mani quelle del fratello.

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Non immaginava che potesse essere così bello.
Erano passati giorni? Forse settimane da quando aveva deciso di perdersi nel vento fresco. Era riuscita più di una volta a eludere le ricerche della madre così come quelle delle altre divinità. Che senso aveva cercarla se poi tanto nessuno avrebbe mai potuto proteggerla da quella sorte così meschina?
Un dio temibile l’attendeva pazientemente nel profondo Averno e lei, lottando con tutta sé stessa aveva deciso di fuggire lontano, lontano dalle carezze della madre… lontano da quei sentimenti che un solo ballo era riuscito a suscitare in lei.
Eppure lei aveva visto qualcosa in quel dio.
Aveva percepito una verità celata da quello sguardo così nebbioso e grigio.
Se il suo cuore non poteva ancora rassegnarsi alla sua sorte tragica, invece gli occhi avevano vagato in lungo e in largo, mai sazi degli spettacoli variopinti della natura. Sospinta da un vento caldo aveva visitato ogni anfratto della sua amata terra: dove udiva preghiere di voci lontane correva, desiderosa di recare aiuto alle sue genti ma, solo quando i suoi piedi raggiunsero Akragas, aveva deciso di fermarsi.
La madre le aveva spesso narrato di quel luogo florido sebbene funestato da un clima torrido che spesso costringeva i propri abitanti alla fame; ma non solo per questo quella città popolava i racconti materni. Demetra la descriveva come un tempio a cielo aperto, un inno agli dei cantato con fede dagli uomini: una via sacra immensa era stata costruita in loro onore e, tra tutti, svettavano i templi del Padre Zeus e della sorella Era, Era licinia per la precisione.
In quel momento, al cospetto dell’entrata della via sacra, la giovane dea era stata fulminata da una riflessione lampante.

Era, patrona dei matrimoni e protettrice delle spose avrebbe potuto proteggerla.
Si sarebbe inginocchiata presso il suo altare e lì, in supplica, l’avrebbe pregata di tutelarla dagli artigli di un dio nefasto capace di prenderla con la forza col solo scopo di vendicarsi di un torno di cui lei non aveva alcuna colpa

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“La vedete mia signora?” l’ancella aveva chinato il capo al cospetto della somma madre di tutti gli dei.
“Certo, fatele varcare la cella, l’aspetterò qui, presso il mio altare.” Grande, imponente e regale, Era fissava l’ingresso del tuo tempio senza batter ciglio. Quella mattina aveva percepito come una fresca brezza proveniente da nord-ovest, un sospiro leggero come quello di un’anima in pena e aveva sorriso: non avrebbe mai creduto che sarebbe stato così facile avere la propria rivalsa. A nulla erano serviti i piani e le macchinazioni complesse, erano bastate due ninfe ben istruite su ciò che avrebbero dovuto dire, il resto era venuto da sé. La partenza di Persefone, il dolore della madre che, dal giorno della celebrazione non aveva avuto più modo di trovare la figlia e, infine, questo risvolto inaspettato, la piccola dea le si presentava al cospetto per chiedere aiuto; a lei che avrebbe fatto di tutto pur di vendicarsi della sua esistenza.
Si era alzata dallo scranno impreziosito di gemme e piume di pavone e, sistemato il diadema sul capo, aveva mosso dei passi in direzione dell’altare: l’avrebbe accolta lì e l’avrebbe fatto nel modo più dolce e materno possibile; poi avrebbe goduto.
“Zia?”. Persefone aveva varcato il portone della grande cella del tempio. La voce era poco più di un sussurro, perfettamente in linea con l’aspetto della giovane: semplice e profumata sebbene in disordine e con le vesti rovinate dai lunghi peregrinaggi.
Cara nipote, vieni avanti, lascia che i miei occhi si beino della tua vista. Una dea come te non dovrebbe vagare per i campi desolati ma stare di fianco a un sovrano”.
Era aveva allargato le braccia con fare amichevole e aveva stretto la nipote lasciandole un casto bacio sulla fronte come si è soliti fare coi bambini.
“Zia, sapessi cosa hanno udito le mie orecchie e cosa deve patire il mio cuore!”. Persefone si era abbandonata tra quelle braccia forti, respirandone il profumo così fresco e simile a quello della madre.
Era, fingendo una completa estraneità ai fatti, l’aveva afferrata per le spalle e, scuotendo la dea leggermente, l’aveva fissata negli occhi con fare interrogativo.
“Persefone… Qualche dio ha osato?”.
“No, assolutamente zia”, in imbarazzo la giovane aveva dissuaso la zia da pensieri poco puri.
“Ho udito delle ninfe al lago, subito dopo la celebrazione del mio nome. Un dio mi reclama, un dio che mia madre odia, un dio che… tutti odiano”. La sua voce si era fatta bassa e triste.
“Ade…”. Era aveva osservato scrupolosamente la reazione della nipote, il volto pallido e la pelle fredda.
“Ade ti ha reclamata come sua sposa”. Le parole avevano il suono di una condanna a morte.
“Si. Io non credevo che lui fosse… quel dio, da tutti i nostri simili odiato e dagli uomini temuto". Persefone aveva sospirato poggiando le mani sull’altare di fianco a lei, era visibilmente affaticata e sofferente.
“Zia io non sapevo dove andare fino a quando non ho visto il vostro maestoso tempio svettare lungo questa via sacra. A piedi scalzi, con le vesti logore e i capelli scarmigliati vi imploro, aiutatemi a fuggire le attenzioni di un dio che vuole solo vendetta e non amore. Voi che siete la patrona dei matrimoni, vi supplico zia”.
Era le aveva dato le spalle.
Sarebbe stata una bugiarda a dire che quell’essere così delicato non era riuscito a muoverla a compassione. Sentiva per quella piccola dea una sorta di affetto innato, forse generato dal loro avere in comune un matrimonio infelice.
Fu tentata per un istate di darle aiuto ma quegli occhi, così gialli e imploranti, l’avevano ricondotta con violenza dinnanzi a una delle verità per lei più dolorose.
Se lei era infelice era anche per colpa di esseri come Persefone, frutto del tradimento delle persone a lei più care.
Era finito il tempo in cui solo lei avrebbe dovuto soffrire, qualcun altro avrebbe preso posto su quel vascello destinato alla rovina.
“Zia?”.
“Persefone, ho solo una domanda da farti”. La regina si era accomodata sul suo trono con fare regale e, inchiodato il suo sguardo sulla figura dinnanzi a lei, aveva utilizzato un tono freddo e distaccato.
“Ditemi”. La dea non era una sciocca e il tono della parente non le era suonato consolatorio tanto da farle indirizzare lo sguardo sulla dea maggiore.
“Sai dirmi per caso chi è tuo padre?".
“Zeus mia regina”. Persefone aveva risposto con prontezza a quella domanda, quasi orgogliosa di vantare una siffatta parentela.
“E sai dirmi chi è il consorte di tua madre, Demetra?”.
“Mia madre non ha mai voluto un consorte, non avrebbe sopportato un legame così vincolante”. Sua madre era stata sempre amante della libertà e aveva deciso di condividerla solo con lei, la sua bambina.
“Tua madre no, ma io sì”, la voce della dea sul trono si era fatta bassa e cavernosa, quasi gutturale.
“Io, dea delle spose e protettrice del sacro legame, vengo pregata, implorata da ogni ragazza affinché le doni un matrimonio pieno di amore e fedeltà e tu, piccola e sciocca dea, vieni a implorare me che ho ricevuto da tua madre, sangue del mio sangue, il più atroce dei tradimenti?”.
Persefone era bianca come un cencio.
 Sembrava di essere come dinnanzi all’oracolo impenetrabile delle tre moire, nessuno mai aveva osato parlarle del suo concepimento in quei termini, frutto di un tradimento. I suoi genitori l’aveva concepita con grande dolore di Era e lei, sciocca e infantile, si era recata da lei, assolutamente all’oscuro di quelle dinamiche.
“ io… Io credevo che-”,
“Cosa pensavi, piccola stupida, che io fossi felice di accettare un’altra figlia illegittima di mio marito al mio cospetto? Credevi che fossi felice dell’unione dei tuoi genitori avvenuta alle mie spalle? Forse ora è giunto il momento che altri, oltre me, soffrano il dolore della perdita e del tradimento”.
Persefone era senza parole. Immobile dinnanzi alla possente Era si sentiva come un cerbiatto braccato da cani da caccia.
“Sarai sposa, la più sfortunata, relegata nell’oltretomba da viva. Una vita promessa alla morte. Non è divertente?”. Era aveva riso di gusto mentre la giovane aveva iniziato a tremare impaurita stringendosi nelle vesti che sentiva troppo leggere per proteggerla da quel freddo che sembrava ghermirla da dentro.
“Vi prego mia regina-”, Persefone le si era gettata ai piedi implorandola ma Era, guardandola dall’alto della sua regalità, l’aveva ripresa con scherno.
“Mi ricorderò di quando la regina dell’oltretomba si è inginocchiata ai miei piedi. Un bel ricordo sicuramente”, e aveva riso, riso di gusto mentre un’aura nera si addensava tra le colonne del suo tempio.
“Faresti bene a rialzarti, il tuo sposo sarà qui a momenti”.
 
Non sapeva nemmeno lei come avesse fatto a scattare in quel modo.
Forse l’istinto di sopravvivenza, forse la cieca paura di sapere che di li a poco la sua vita sarebbe stata distrutta per sempre, aveva abbandonato il tempio della sorella della madre come una gazzella e, iniziando a correre a perdifiato, aveva nuovamente perso la propria essenza nel vento. Lacrime le solcavano le guance dinnanzi alla consapevolezza che nessun posto sarebbe mai stato veramente sicuro per lei. Tutti l’avevano abbandonata e l’unica dea che invece avrebbe sacrificato la sua vita per lei, sua madre, era troppo importante perché qualcuno le facesse del male in sua vece.
Forse avrebbe dovuto arrendersi.
Forse avrebbe dovuto accettare quel destino così perversamente ordito dal fato.
Ormai via dalla zona sacra iniziava a rallentare il passo.
Che senso avrebbe mai avuto correre, fuggire da un dio che, forte e onnipotente, possibilmente le era sempre stato alle spalle aspettando pazientemente una sua resa?
I piedi erano oramai fermi mentre una leggera brezza le faceva svolazzare le vesti rovinate e i capelli sciolti e ricci.
Una dea fuggiasca, ecco cosa era divenuta. Lei, figlia di Zeus, venduta da suo padre, era una dea fuggiasca, timorosa di affrontare il proprio destino.
Kore avrebbe fatto in quel modo, una bambina ingenua e attaccata alle sottane della madre, ma lei ora era Persefone, una dea che avrebbe protetto quanto di più caro a costo della vita.
“Mostrate”.
Aveva mormorato quelle parole tenendo gli occhi ben serrati.
“So che siete qui. Mostratevi e fate vedere il vostro volto, Ade”.
 
vi Una voce da uomo, bassa e cavernosa le aveva solleticato l’orecchio.
“Persefone, finalmente avete accettato il vostro destino.” Il dio si palesava alle sue spalle. Alto, imponente, rivestito di una fulgida armatura nera. Il cimiero era sottobraccio, l’aveva tolto per mostrarsi a colei che lo reclamava.
Ella si era girata lentamente facendo scudo al suo corpo con il leggero scialle che le pendeva scomposto da una spalla.  
“Voi, voi vi siete codardamente nascosto, mi avete inseguita, perseguitata e tutto questo per una vendetta", aveva pronunziato quelle parole con un malcelato astio. Cercava di essere lucida e coraggiosa, ma quella presenza le faceva tremare le gambe dalla paura e nemmeno la diplomazia poteva trarla via da quella spiacevole e terrificante situazione.
 Una risata sommessa aveva riempito il vuoto che la separava dal dio mentre le sue labbra, solitamente tese in una linea rigida, adesso si curvavano impercettibilmente verso l’alto.
“Siete troppo giovane per sapere il profondo significato della vendetta che nominate e-", qui le si era avvicinato ancora di più per ritrovarsi a pochi centimetri dalle sue labbra
“…e siete troppo pura per sapere che il modo migliore di vincere una preda è sfiancarla, portarla al limite delle proprie forze, braccarla ad ogni via d’uscita e condurla dritta tra le braccia del cacciatore”.
Persefone aveva assottigliato lo sguardo facendo un passo indietro.
“Io non cadrò mai tra le vostre braccia”.
 “Fino a qualche tempo fa non eravate così infastidita dalla mia presenza, mia dolce dea bambina…”. Il tono di voce del dio oscuro ora suonava non solo sarcastico ma anche leggermente divertito.
“Non sapevo chi eravate né che intenzioni aveste nei miei riguardi”, aveva esclamato la dea con enfasi.
“E questo cambia il fatto che avete trovato conforto tra le mie braccia? Sapere chi sono cambia ciò che provate quando mi guardate? Sento il vostro cuore battere forsennatamente da qui, piccola dea bugiarda, e lo so perché il mio ne segue il ritmo!”. Aveva parlato a denti stretti.
Nuovamente veniva giudicato prima di essere conosciuto.
Un rumore secco. Una mano si era levata di scatto colpendo il dio al volto. Ade, impassibile, la guardava in cagnesco.
“Come osate darmi della bugiarda quando voi mi reclamate solo per interesse?” Aveva urlato la dea, ancora incredula di averlo colpito al volto con un’ira estranea alla sua indole gentile.
Ade, rimanendo in silenzio le si era fatto dinnanzi non perdendo mai il contatto visivo.
“Bugiarda. Non sapete ciò che dite e intanto difendete il vostro credo ciecamente.”
A quel punto Persefone aveva distolto lo sguardo
“Voi mi avete illuso, sembravate così-” imbarazzata si era morsa la lingua, non avrebbe mai concesso al nemico la vittoria di vederla illusa da un suo studiato ma falso interessamento; ma lui, sfortunatamente per lei, l’aveva interrotta leggendo nel suo sguardo la verità.
“Sembravo interessato?”. Aveva sorriso in maniera sghemba facendosi ancora più vicino al suo corpo; ora ne poteva percepire il profumo inebriante di fiori.
“Non oserete”. Persefone si era stretta al petto il peplo leggero cercando di nascondere il petto che forsennatamente faceva su e giù in balia di un’ansia cocente.
“VOI non oserete opporvi”.  Ade aveva rimarcato il voi come a sottolineare il fatto che lì, al suo cospetto, lei fosse solo una piccola dea inesperta rispetto a lui, sovrano indiscusso di uno dei regni più neri.
 “Non vi prometterò mai la mia esistenza, dio bugiardo e crudele!”. Lei si era ritratta ma il dio, afferratala per un braccio, l'aveva stretta con forza contro il suo petto.
Ade le si era fatto più vicino, nuovamente il volto a pochi centimetri da quello della dea.
“Io non mento mai”. Lo aveva sentito leggermente digrignare i denti mentre proferiva quelle parole che sapevano di sentenza inderogabile.
 “Siete una donna, Persefone, sarete una regina”.
“Sembravate così vero e invece siete soltanto un famelico egoista, non diverso da coloro che sfruttano i più deboli per proprio tornaconto”.
Quelle parole avevano avuto sul dio l’effetto di una pugnalata in pieno petto; la rabbia che aveva tentato di tenere a freno ora premeva per esplodere. Fremeva.
“Voi non siete diversa dagli altri, così sicura di sé e delle proprie convinzioni. Vostra madre aveva ragione, siete solo una piccola Kore, una bambina. Il nome datovi da Zeus non vi rispecchia affatto!”.
Dinnanzi alla freddezza del tono distaccato e formale del dio Persefone aveva come perso colore in viso mentre le lacrime iniziavano a solcarle le guance copiosamente. Non riusciva a proferir verbo, era un susseguirsi di singhiozzi mentre i suoi occhi venivano calamitati da quelli furenti di Ade.
“Io sono come il mio regno, sconosciuto a molti, ma non tutto ciò che si narra di me è vero.”
Solo a quel punto, dopo aver ripreso fiato, aveva estratto da sotto la cappa metallica un piccolo stelo avvizzito e, aperto delicatamente il palmo della giovane, glielo aveva offerto in silenzio.
“Voi siete molto di più di quello che credete”.
Ammutolita lei lo aveva guardato negli occhi in silenzio; avrebbe voluto credere alle sue parole, avrebbe voluto fidarsi di quell’essere così freddo eppure così umano, ma qualcosa in lei la spingeva a non credergli, a non cedere sotto quello sguardo così misterioso e nero.
 Tutti erano fin troppo avvezzi al tradimento della parola data.
“Non sarò mai la regina di un dio senza cuore che cerca solo vendetta”.
“Dal momento che non credete alle mie parole allora vi dovrò convincere anche con la violenza, mia signora”.
Strattonandola più vicina le aveva stretto le spalle nude con le mani gelate e, facendo aderire quel corpo delicato al suo, aveva calato le sue labbra su quelle di lei in un bacio prepotente al quale lei aveva risposto dimenandosi.
Un bacio punitivo, feroce.
Quando lui si fu allontanato da lei percepiva chiaramente i residui delle lacrime della dea bagnargli le guance glabre.
“Io sono Ade, il dio dei morti”, aveva ripetuto lui soffiandolo sulla bocca di lei.
“...E qualsiasi cosa faccia o dica non mento mai”.
 “Vi prego abbiate pietà di me, non costringermi a una vita così triste e infelice nel buio del vostro regno”, si sentiva persa; più si divincolava come un animale che è appena stato catturato, più sentiva le grandi mani del dio artigliarle la pelle.
 La sofferenza, il tormento innescato da quel bacio violento l’avevano sconvolta, tremava.
“Io vi sono stato costretto, non vedo perché voi non possiate fare altrettanto”.
 Ade, incattivito, l’aveva oramai completamente stretta sul suo corpo. Ne sentiva la consistenza tenera e il pulsare frenetico. Provava nei riguardi di quella giovane un miscuglio di sensazioni indefinite: odio, rancore, bramosia, spirito di rivalsa e, finalmente pregustava il sapore della vendetta.
Ma era quello ciò che bramava il suo cuore?
“Risparmiatevi e farò tutto ciò che voi vorrete.” Persefone aveva sollevato il volto verso di lui alla ricerca dei suoi occhi, ora velati da una patina nebulosa che li rendeva ancora più scuri e senza anima.
Quegli occhi.
In quell’istante la dea si era come pietrificata.
Quegli occhi che tanto l’avevano tormentata in sogno, quegli occhi così apatici e angoscianti. Li aveva visti, li aveva sofferti e ora li riconosceva.
“Voi… Cosa mi avete fatto prima di oggi?!”. La voce della dea tremava visibilmente per il terrore, il voi ora le serviva per porre maggiore distanza tra lei e quell’essere.
“Io vi ho già visto nei miei incubi. Cosa avete osato farmi”. Una furia cieca l’aveva come pervasa con violenza da capo a piedi. Ricordava quei dannati occhi, ne ricordava ogni dettaglio fisico così come erano ben vivide le sensazioni malevole che le procurava quella vista.
“Magari era solo il fato a suggerirvi il vostro destino”. Ghignava Ade mentre con forza continuava a stringerla a sé.
“Voi mi avete perseguitava nel sonno. Spregevole di un dio!”. Piangeva dandogli pugni sul petto, scatenata provava a sfuggirgli dalle braccia anche a costo di farsi del male da sola. Quel dio era inespugnabile.
“Ora basta. Voi avete una pessima opinione di me”. Stringendole i gomiti l’aveva leggermente sollevata verso di sé in modo tale da stabilire un contatto visivo.
“Ma forse in fondo avete ragione. Se essere crudele vorrà dire tenervi al mio fianco allora sì, sarò il dio più crudele che voi avrete mai modo di conoscere”.  Aveva alzato la voce proprio davanti il volto riducendola a un ammasso di singhiozzi rabbiosi.
“Io non sarò mai vostra sposa”. Aveva mormorato quelle parole con rancore
“Lo vedremo”. Aveva parlato nuovamente con un tono freddo e distaccato mentre una mano dalle spalle scendeva a cingerle la vita.
“Reggetevi a me, mia signora”.
“Non oserò mai toccarvi”. Le braccia di lei giacevano lungo i fianchi inermi.
“Non aspettatevi lo stesso da parte mia”.
Poco importava sentirla irrigidirsi tra le sue braccia; non avrebbe mai permesso che l’orgoglio fosse la causa di un suo ferimento. L’avrebbe tenuta stretta tra le sue braccia nella lunga discesa verso l’Averno.
Pochi istanti prima che sotto i loro piedi si aprisse la voragine la mano libera del dio era corsa al volto di lei; una leggera e inconscia carezza prima di premere quella testa riccioluta sul suo petto, l’avrebbe protetta col suo stesso corpo se fosse stato necessario.
Una misera delicatezza che, in cuor suo, sperava che lei notasse.

Non avrebbe mai pensato che anche la vendetta avesse un sapore così amaro.
  
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