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Autore: Alicat_Barbix    18/09/2017    1 recensioni
Nel 2130 il mondo non è più contaminato dalle diversità. Diversità che hanno portato a lotte e guerre sanguinose nel corso dei tempi. La nuova società si impegna ad eliminare tutti gli Incompleti. Il diverso deve essere schiacciato. Ma come in ogni organizzazione, anche in questa c'è una falla.
Sherlock Holmes e John Watson si incontreranno quando meno se l'aspettano, ma saranno dalla stessa parte? Ma se così non fosse, cosa comporterebbe la nascita di qualcosa di forte, qualcosa di pericoloso?
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 5

 
Aprì la porta barcollando, mentre alle sue spalle si diffondeva quella risata che adorava ascoltare. Rischiò di inciampare sul gradino, ma fortunatamente le case sono fatte di muri, e di conseguenza sono fatte di punti d’appoggio per due ubriachi.
Era stata una serata magica. La festa per il loro primo anno di convivenza. Anno tutt’altro che facile da affrontare tra il lavoro di entrambi alla fattoria, Harriet e la strage che veniva consumata regolarmente sotto gli occhi di una popolazione di assoggettati. L’idea era stata di Sherlock – avvenimento alquanto sorprendente –. Un drink in diversi bar – il progetto iniziale era un drink in un locale di ogni strada in cui avevano prelevato un gruppetto di Incompleti – ma quando l’alcol ti entra in circolo non riesci più a distinguere la differenza fra un boccale assaporato in un posto significativo o meno. Quindi no, i nobili piani di Sherlock Holmes non erano stati seguiti proprio alla lettera. O almeno, non del tutto.
Si appoggiarono alla parete accanto alle scale senza smettere di ridere. “E’ stata la cosa più folle che abbia mai fatto.” esordì John cercando di contenere l’ebrezza.
“Eppure hai creato un covo di nemici dello stato.” replicò Sherlock guadagnandosi un buffetto alla spalla da parte del medico.
Si staccarono dal muro, con l’intento di salire al piano superiore, ma Holmes inciampò nei suoi stessi piedi. Nel corso di pochi attimi, si scatenò un putiferio. Sherlock cadde, John era davanti, Sherlock borbottò qualcosa durante la caduta, John si voltò, Sherlock cercò disperatamente di aggrapparsi, John provò invece a sostenerlo lui stesso…
Risultato? Un John Watson supino sulle scale e uno Sherlock Holmes sopra di lui. La situazione avrebbe dovuto perlomeno generare imbarazzo, disagio, farfugli di scuse e di non fa niente. Invece rimasero lì, i corpi premuti l’uno contro l’altro, a ridere.
“Sei un idiota.” beffeggiò John.
“E tu non reggi bene l’alcol.”
“Sei tu che mi sei caduto addosso!”
“Dipende dai punti di vista. Magari sei stato tu a farmi cadere di proposito sopra di te.” ribatté Sherlock ridendo.
“Morivo dalla voglia di essere schiacciato da… Dio, Sherlock, ti stai addormentando?!”
Holmes rimase con gli occhi chiusi e la guancia appoggiata al petto di John. “Sto comodo.”
“Bè, io no.”
Con un movimento dettato dal suo istinto da soldato, John fece rotolare il corpo quasi inerme di Sherlock accanto a lui. Rimasero così per qualche istante, le loro schiene a contatto.
“Credi che ci abbia visti qualcuno?” farfugliò l’ex inquisitore dopo un po’.
“In quella scomoda situazione che tu hai provocato? Spero di no.”
“Mi riferivo al bere. Dici che qualcuno ha visto che mi sono ubriacato?”
“No, certo che no, abbiamo solamente girato ogni pub di Londra! Perché qualcuno dovrebbe averti visto?”
“Dannazione! Io ho una fama internazionale.” si lamentò Sherlock voltandosi appena verso John con espressione stizzita. “Tu non hai una fama internazionale?”
“No, non penso.” rispose il medico.
“Esatto. Però non mi ricordo perché ce l’ho… Forse perché sono figlio di…”
“Ragazzi!” esclamò una vocetta petulante. Nel campo visivo dei due comparve la figura della signora Hudson avvolta dalla vestaglia e dalla camicia da notte. “Credevo rincasaste più tardi.”
“Perché, che ore sono?”
“Siete stati fuori solo due ore.” concluse lei portando fuori la spazzatura.
A quelle parole, Watson e Holmes si alzarono il più in fretta – e indolore – che il loro organismo imbottito di alcol consentisse loro. Salirono le scale goffamente, abbracciati da un’atmosfera allegra e rilassata.
Predisposero tutto per uno di quegli stupidi giochi di cui Sherlock andava matto: indovina chi. Scrissero su due post-it la parola che l’altro avrebbe dovuto indovinare e li attaccarono sulle rispettive fronti. Sherlock Holmes poco sopra gli occhi di Sherlock e Melissa Wild – una cantante in voga in quel periodo – su quelli di John.
“Sono un vegetale?” cominciò Watson con la voce impastata e lo sguardo vacuo.
“Tu o… la cosa?” domandò a sua volta Holmes ridacchiando.
“Divertente.”
“Grazie.”
“Dai…”
“No, non sei un vegetale.” rispose finalmente Sherlock accomodandosi meglio sulla poltrona.
“Tocca a te.”
“Sono umano?”
John fece schioccare la lingua e sorrise tra sé e sé per quel quesito. “Certe volte.”
“Così non vale.” ribatté Sherlock. “O è o è no.”
“Sì, sei umano.”
“Bene… Sono un uomo?”
“Sì.”
“Simpatico?” continuò Holmes.
Watson gli rifilò per un istante un’occhiata dubbiosa. “Un po’.”
“Intelligente?”
“Direi di sì.”
“Le persone mi amano?”
John poggiò il suo bicchiere di Scotch sul tavolino e portò la mano chiusa a pugno contro il mento. “No, le affronti nel modo sbagliato.”
“Va bene.” concluse Sherlock sporgendosi in avanti. “Sono il re della Gran Bretagna.”
John scoppiò a ridere, sprofondando nella poltrona. “Adesso non abbiamo un re.”
“No?”
“No. Ti dice qualcosa la parola Inquisizione?” ribadì il medico sorridendo.
“Okay, okay. Tocca a te.”
John fece scorrere il sedere verso il bordo della poltrona, rischiando quasi di cadere. La sua mano si appoggiò alla coscia di Sherlock, procurando un bruciore intenso che decise però di ignorare. Ma la sua mano non si mosse. “Sono una donna?” domandò per soffocare quelle voci discordanti che gli imponevano azioni che da ubriaco non riusciva a contemplare lucidamente.
Sherlock non sembrò neanche accorgersi di quel gesto – men che meno del tentativo di John di dissimularlo –, ma scoppiò a ridere per quella domanda. “Sì.”
“Sono… carina?”
“La bellezza è un concetto basato su giudizi infantili stereotipati e modelli esterni.” rispose Holmes riprendendo per un istante quel briciolo di petulanza che lo accompagnava da ormai più di trent’anni.
“Sì, ma sono bello?” John si rese conto troppo tardi delle parole uscite dalla sua bocca. “Bella.” si corresse infatti sperando che l’amico fosse abbastanza ubriaco da sorvolare sulla cosa. Ma la verità era che Sherlock – dei due – era il più sobrio. Quello che non era ubriaco solo ed esclusivamente per il vino, ma soprattutto per la magia che stava assaporando in compagnia di John. Ogni sua risata, ogni suo borbottio, perfino quella caduta sulle scale erano stati – sebbene in minima parte – intenzionali.
E fu proprio quella frase a risvegliare i suoi sensi dal torpore dato dallo Scotch e dalla birra. I suoi occhi corsero alla mano di Watson chiusa attorno al suo ginocchio. Così viva, così infuocata. Così fatta per stringere la sua gamba.
Rivolse un’occhiata significativa a John che lo fissava con gli occhi annebbiati dall’ubriacatura, eppure così belli. Sì, John Watson era bello. Non nel senso stretto della parola. Ma per Sherlock era la cosa più bella che avesse mai visto.
Accadde tutto in un momento. Nessuno dei due seppe poi chi si era avvicinato, ma successe. La resistenza reciproca cedette, e le loro labbra si sfiorarono. Lentamente. Come se camminassero sul ghiaccio prossimo a spezzarsi e a farli cadere nel buio abisso che era il loro cuore. Assaporarono il momento. Quella sensazione di sorpresa al contempo così dolce e così sbagliata. Si allontanarono l'uno dall'altro con riluttanza per riprendere fiato, rimanendo però vicini. Le loro fronti a contatto, come se volessero dirsi qualcosa, ma non bastassero le parole. Perché no, le parole non potevano descrivere tutto quello.
"Sherlock io..." provò ad obbiettare il dottore, ma Sherlock lo zittì con un altro bacio, ormai perso e inebriato dal desiderio di sentirlo ancora così vicino.
 Il secondo bacio non aveva nulla a che fare con quello precedente. Al suo interno c'era tutto. Amore. Passione. Impazienza. Avidità. Rabbia. Odio. Un mix letale di emozioni troppo forti per essere gestite, perfino per il freddo e distaccato Sherlock Holmes.
Quel secondo bacio lo riportò alla realtà. Ad una realtà in cui tutto quello era sbagliato, in cui LUI era sbagliato. Incompleto. Il pensiero lo colpì come uno schiaffo in pieno viso. Lo aveva finalmente ammesso a se stesso, e il terrore che anche gli altri potessero scoprirlo lo fece staccare dalla persona che aveva causato tutto questo. Si guardarono negli occhi, uno sguardo pieno di paura, ma non di pentimento. Sherlock non riusciva a ravvedersi per averlo baciato, perché era quello che voleva. Ed era proprio questo a spaventarlo.
Si alzò in fretta e, quasi correndo, si chiuse dentro la sua camera, dentro il suo riparo sicuro. Voleva solo allontanarsi il più possibile dalla sua grande tentazione. Da quel frutto proibito che non aveva il diritto di assaporare appieno.
Lasciò John in preda alla confusione dovuta sia al troppo alcol in circolo nel suo corpo sia a ciò che era appena successo. Sherlock lo aveva baciato. Gli sembrava ancora impossibile. Con il sapore delle sue labbra ancora impresso nella mente, John – troppo ubriaco e stanco per pensare chiaramente all’accaduto – si trascinò fino alla sua stanza e crollò in un sonno profondo fatto di baci e riccioli ribelli.
 
***

 
Non aveva mai provato qualcosa di così forte e di così travolgente. Per nessuna donna con cui era stato. E ne aveva girate tante. Ma quella figura che riempiva tutto il suo campo visivo lo faceva sentire vivo. Più vivo di un cuore che batte. Più vivo di un neonato che libera i polmoni con il suo primo pianto. Più vivo di qualsiasi altra cosa viva.
E quel sapore che gl’invadeva le labbra, quell’odore di acqua di colonia, quel desiderio che gli torceva le viscere… No, qualcosa di solo lontanamente simile a Sherlock Holmes non c’era mai stato.
“John?”
“Mmm?”
Ma non arrivò risposta. O almeno, non verbale. La personificazione della vita gli mozzò il respiro con le sue labbra, catturandole in un bacio tanto meraviglioso quanto disperato. Ricambiò ogni movimento, ogni carezza, perché la vita gli pulsava in petto con così tanta enfasi che non riusciva a trattenere quei battiti impazziti.
Si fermarono per un secondo e si guardarono intensamente, col fiato corto. I volti stravolti e imperlati da goccioline di sudore, le pupille dilatate, sorrisi stanchi ma appagati.
John non riusciva a smettere di guardare quei riccioli che durante quei lunghi e splendidi baci gli avevano solleticato il viso. Contrasse gli addominali e sollevò appena la schiena dal materasso, sfiorando con le sue labbra quelle di Sherlock. Non era la solita voglia di fare, non era la solita passione bruciante, non era la solita lussuria, quelle che gli percorrevano il corpo mescolandosi al sangue. Era qualcosa di più… di più. Come se avesse paura di sbagliare, di fare qualcosa che potesse ferire l’altro. Una dolce paura che lo spingeva ad essere diverso, migliore.
E forse fu per quello che si stupì delle dita di Sherlock che correvano alla sua camicia e cominciavano a sbottonarla lentamente. John fissò quegli occhi sconfinati per qualche secondo e lesse insicurezza. Portò la sua mano su quella dell’altro. “Sei sicuro?”
“Sì.”
 
***
 
Il materasso cigolò violentemente sotto il suo peso. Si voltò cercando una sagoma accanto a lui ma… Non c’era. Come poteva? Quella notte… Quella magica notte non era mai esistita. Poteva sentir la sensazione delle mani di Sherlock su di sé svanire, andandosene impalpabile come era arrivata. Lanciò un’occhiata alla sveglia sul suo comodino. Le 8:00. Non aveva alcuna voglia di alzarsi dal letto e lasciare che anche tutto il resto del sogno svanisse. Come poteva una semplice attività psichica fargli quell’effetto? Al piano di sotto poteva udire il cinguettio della signora Hudson; almeno non avrebbe dovuto affrontare da solo Sherlock. Si alzò controvoglia e ispezionò il suo intero guardaroba con una perizia che non aveva mai avuto. Non aveva intenzione di indossare uno di quei suoi soliti maglioni. Aveva voglia di essere… all’altezza. Di chi? Di quel tipo così elegante e magnetico? Proprio di lui.
Scese le scale silenziosamente con la sua semplice camicia rossa e si scoprì terribilmente agitato. Poteva uscire di soppiatto di casa e fare colazione al bar di sotto. Poteva, ma non voleva: il desiderio di vedere Sherlock e di assaporare la sensazione al contempo terribile e bellissima nell’incrociare il suo sguardo lo attirava verso il soggiorno.
Sherlock era seduto al tavolino e aveva il volto completamente immerso nel giornale che – ad un’occhiata attenta – si sarebbe rivelato essere di una settimana prima. L’aveva sentito arrivare. John Watson. E probabilmente stava esitando ad entrare.
Non aveva mai fatto niente di così stupido in tutta la sua vita, mai. Lasciarsi coinvolgere, come diceva suo fratello, era una cosa che non aveva mai potuto permettersi. Non si era mai sentito attratto da nessuna donna, così come da nessun uomo, ma quel medico era tutt’altro. Era qualcosa che andava al di là di ogni razionalità.
Finalmente, i passi di John gli segnalarono che aveva appena fatto il suo ingresso.
Calma, sta’ calmo.
“Oh, John caro! Prego siediti, siediti!”
“Sì, sì… prendo solo un caffè…”
Balbettava impercettibilmente. Cattivo segno. Non avrebbe dovuto balbettare! Insomma, se John si fosse mostrato sicuro e l’avesse tirato da parte dicendogli che era stato tutto un errore, sarebbe andato tutto a posto. Ma quella vena apprensiva di cui era intrisa la sua voce…
“Sherlock? Sherlock!”
La voce della signora Hudson lo destò dai suoi pensieri. “Diceva?”
“Ho chiesto com’è andata la serata.”
Gli occhi di Holmes ebbero l’impulso di correre in direzione di John, ma si costrinse a non farlo. “E’ stata… inaspettata.”
“Inaspettata?”
Sherlock non rispose e nascose di nuovo la faccia nel giornale.
La signora Hudson lanciò un’occhiata dubbiosa a John sulla cui faccia era palesemente scritto a caratteri cubitali: è successo un casino!
“Volete che vi lasci soli per…”
“NO!” fu la risposta repentina di entrambi.
Finalmente, i loro occhi trovarono accesso gli uni nello sguardo degli altri. Stranamente, non ebbero la tentazione di sfuggire a quel contatto visivo. La signora Hudson capiva sempre tutto. Era proprio quello di cui avevano bisogno: parlare, confrontarsi.
Il campanello trillò, venendo loro in aiuto. “Vado e torno, sarà il corriere.” esclamò la signora Hudson sgattaiolando fuori dalla stanza e lasciando i due coinquilini da soli.
Sherlock aprì la bocca un paio di volte sperando che le parole uscissero, ma sembrava che non ci fosse abbastanza aria per colmare i polmoni. E John… John non riusciva a pensare lucidamente con l’immagine sfocata del sogno ancora in testa.
“E se… Uscissimo a prendere una boccata d’aria?” propose infine il medico. Holmes si aprì in un sorriso accennato e si limitò ad annuire.
“Certo, fammi finire il the e…”
“John?”
Watson si voltò e davanti a sé si parò la figura slanciata di una giovane donna dalla pelle scura e dai capelli neri raccolti. Un’espressione esterrefatta si delineò sul volto di lui. “Jeanette! Che bella sorpresa…”
La donna lo squadrò confusa. “Non è esattamente una sorpresa. Mercoledì mi hai proposto di fare un giro per il centro e mi hai detto che sarei dovuta passare a casa tua attorno alle otto e mezzo.”
John si portò una mano alla fronte. “E’ vero… Mi era dimenticato.”
“Dimenticato?” gli fece eco lei incrociando le braccia al petto.
“…dimenticato di avvisare la signora Hudson che non avrei pranzato a casa.” si schermì John alzandosi come una molla e correndo verso la fidanzata con sguardo fintamente entusiasta. Afferrò il giubbetto con uno strattone e se lo infilò in fretta. Un altro strato. Giubbetto, camicia, canottiera, pelle, cuore. Sperava che così quest’ultimo potesse tacere una buona volta.
Passò un braccio attorno alla vita di Jeanette e la trascinò nervosamente fuori dalla stanza, rifilando alla signora Hudson e ad Holmes un frettoloso a dopo.
Sherlock restò per un po’ con gli occhi fissi nel punto in cui John era appena sparito e poggiò la sua tazza di the con rabbia: ci era quasi cascato. L’istinto lo costrinse a muoversi velocemente attraverso la stanza e a scostare la tenda della finestra. Un vizio a cui – nel corso di dodici mesi – non aveva rinunciato.
Ed eccolo lì. Con un’espressione stupidamente felice in volto e un braccio che avvinghiava la vita di una delle tante fidanzate che si portava appresso. Faceva male. Un male cane. E anche se sapeva che era meglio così… non poteva evitare a quella catena di spine che aveva imparato a conoscere bene, di avvinghiare il suo cuore.
Stava quasi per scansarsi, quando John si voltò, lo sguardo alto. I loro occhi si incrociarono per pochi istanti, ma bastarono per provocare in entrambi una sensazione ineluttabile. La bocca di Sherlock ebbe un impercettibile guizzo verso l’alto. No, non ci era quasi cascato, ci era cascato del tutto.
John ricambiò il sorriso e fu tutto talmente veloce e lento nello stesso tempo che per vari secondi nessuno dei due si mosse. Dalla finestra, Holmes guardò Jeanette stringere il braccio di Watson ed esortarlo a muoversi.
 Fine del contatto visivo, dei sorrisi. John da una parte, Sherlock dall’altra. Ed entrambi non vedevano l’ora di poter finalmente restare soli.
 
***

 
La giornata trascorse monotona. Nemmeno il violino poteva mettere a tacere quei pensieri che gli si arrovellavano in testa, così come la tazza di the non riusciva a spegnere il fuoco che ardeva in lui. Una giornata monotona, ma se non altro non seccante. O almeno finché non arrivò un gruppo di agenti a prelevarlo per portarlo a Buckingham Palace.
Ci mancava solo Mycroft! Certo che aveva un tempismo perfetto quell’uomo.
La sfarzosa limousine lasciò Sherlock davanti alle pesanti inferriate che impedivano l’accesso a chiunque al di fuori degli Inquisitori. Il minore degli Holmes odiava quel posto, gli metteva addosso una sensazione claustrofobica di cui non riusciva a liberarsi prima di andarsene. E quella volta non fu da meno.
Perché Mycroft l’aveva convocato? Che cosa voleva da lui? Un terribile presentimento svettò nella sua mente gettandolo nel panico: aveva scoperto di John? Del suo lavoro alla fattoria? Del loro lavoro alla fattoria?
Se così fosse stato, avrebbe dovuto trovare un modo per dissimulare ogni sospetto del fratello. Lo avrebbe portato sulla strada sbagliata, allontanandolo da John e dalla fattoria.
“Signor Holmes?” lo chiamò una guardia. “Va tutto bene?”
“Sì, sì. Mio fratello mi aspetta nel suo studio immagino.”
“E’ esatto, signore.”
Sherlock rimase qualche attimo fermo davanti ai cancelli, infine entrò e non si accorse di un paio di occhi ferini che lo fissavano con astio da dietro il monumento decapitato della regina Vittoria.
 
***
 
“Mi aspettavo una telefonata se non altro per gli auguri di Natale.” si lamentò Mycroft al suo arrivo.
Sherlock inarcò un sopracciglio. “Chissà perché ma ho il sospetto che non ti sia mancato affatto.”
Il solito sorriso beffeggiatore si disegnò fra le labbra sottili del fratello. “Chissà perché ma credo sia reciproco.”
Il minore prese un respiro profondo, infine chiese: “Perché sono qui?”
“Una riunione di famiglia.”
“La verità.”
Mycroft sospirò e si appoggiò alla scrivania, incrociando le braccia. “Me l’ha chiesto papà: è preoccupato per te.”
“Papà? E da quando papà si preoccupa per me e non per il primogenito?” ironizzò Sherlock. Fin da quando erano piccoli loro padre non aveva fatto nulla per mascherare l’infinita ammirazione che nutriva nei confronti del figlio maggiore. I regali di Natale di Mycroft rispecchiavano sempre i suoi desideri – voleva un cellulare nuovo? riceveva un cellulare nuovo. voleva una giacca all’ultima moda? e giacca era! –, mentre l’unica cosa che Sherlock aveva da sempre chiesto non era mai arrivata: un cane. Allergia, a detta di suo padre, ma lui sapeva bene che anche fosse stato un gatto o una macchinina rossa fiammeggiante non sarebbe cambiato nulla. E sebbene si ostinasse a sostenere il contrario, aveva sofferto molto per la sua presenza mai calcolata.
“Abbiamo un progetto approvato direttamente da lui. Ed è sua richiesta che sia tu a lavorarci su, date le tue conoscenze in fatto di chimica.” continuò Mycroft.
“Mi sembrava di essere stato chiaro a proposito del mio allontanamento dall’Inquisizione.”
“Suvvia, Sherlock, non fare il bambino. E’ uno dei più grandi progetti di tutto il secolo. La creazione di un serio potentissimo, capace di…”
“Non mi interessa: ho chiuso. Leggi il labiale se non capisci.” E detto ciò si voltò per andarsene lanciando un’occhiata nervosa all’orologio.
“Posso sapere perché non vuoi più lavorare per l’Inquisizione?” chiese infine il fratello.
“Diciamo che… Ho altre priorità.”
Uscì e non vide lo sguardo perplesso di Mycroft, né l’ombra che – fuori da Buckingham Palace – lo seguì fino a quando non entrò in un taxi.
 
***
 
La sera cominciava ad affacciarsi sul cielo londinese. Presto, il meridiano di Greenwich sarebbe stato solcato dalla ventesima ora del giorno. Sherlock era ritto davanti allo specchio, intento a lisciarsi febbrilmente la giacca nera e la camicia.
“Stasera ceno fuori, caro. Vi ho lasciato la cena nel frigorifero, accanto a quella macabra scultura a forma di testa umana.” lo informò la signora Hudson.
Sherlock si voltò appena e le prese le spalle con entrambe le mani. “Si diverta con il panettiere.” esclamò schioccandole poi un bacio sulla guancia. La padrona di casa rimase allibita per quella deduzione e fece per controbattere – o almeno per provarci – ma il clacson al piano di sotto la spinse a salutare Holmes e a raccomandarsi di non distruggerle casa mentre era via.
La porta d’ingresso si richiuse con un tonfo e Sherlock rimase solo. Nervi… nervi… troppi nervi. Doveva fare qualcosa, passare il tempo, o sarebbe impazzito. Imbracciò il violino come un soldato avrebbe fatto con un fucile, mentre la sua mano sinistra ghermiva l’archetto come un proiettile da inserire.
Quando il fascio di crini tocco le corde fu pura e semplice poesia. Quello che Dante, Quasimodo, Ungaretti esprimevano con i versi, Sherlock Holmes lo trasformò in dolci note. Una melodia che non aveva mai suonato, una melodia nuova che parlava di lui e di John. Si trovò a sorridere nel constatare che era la più bella esecuzione che avesse mai fatto in tutta la sua vita. E la musica lo prese con sé, nel suo abbraccio, lo sollevò fino all’Eden per poi cullarlo sospeso su un London Eye illuminato da luci variopinte.
Probabilmente, fu proprio per quell’insieme mistico di note che non sentì la porta al piano di sotto cigolare e dei passi salire le scale. Accadde tutto in un attimo. Un ringhio che poteva sembrare effettivamente appartenente ad una belva invase la stanza. Sherlock si voltò di scatto e si ritrovò davanti un uomo dall’aspetto orribile, con i vestiti laceri e una barba incolta che adombrava la mascella. E gli occhi… gli occhi potevano tranquillamente essere quelli di un toro. Un toro che aveva davanti un drappo rosso.
“Finalmente ti ho trovato.” sussurrò lo sconosciuto puntandogli addosso una pistola. “Sherlock Holmes.”
 
***

 
La giornata trascorse monotona anche per John Watson che venne trascinato in tutti i negozi del centro possibili e immaginabili. Jeanette aveva provato vestiti di alta moda, si era cosparsa di profumi che insieme avevano creato un odore alla fine sgradevole, aveva comprato una borsa di pelle firmata e dal prezzo vertiginoso, e ora camminava per Baker Street con i suoi nuovi tacchi vertiginosi. In tutto quello, John era rimasto in disparte, appoggiato a manichini in cui sperava di trovare conforto e qualcosa da fare – che magari non includesse il pensare dato che se pensava era tutto terribilmente difficile da gestire –.
“Sono stata bene oggi.” mormorò Jeanette davanti al 221B di Baker Street, seduta sul comodo sedile di un taxi.
“Anche io.” mentì John con un sorriso falso sulle labbra. “Allora… ci si vede.”
Ci si vede?” ripeté piccata la fidanzata, ma il medico neanche la stette a sentire e chiuse la portiera prima che lei potesse partire con uno dei suoi sermoni su cosa volesse dire essere una coppia.
Frugò freneticamente nelle tasche e gli sembrò quasi che un destino crudele si stesse divertendo a far toccare alle dita di John tutto meno che le chiavi – il cellulare, il suo taccuino degli appunti che usava per catalogare i prodotti alla fattoria, la pistola, la lista della spesa che non aveva avuto modo di consultare… -
Finalmente dopo cinque minuti buoni si ricordò di averle infilate nella tasca posteriore dei pantaloni proprio per non sprecare tutto quel tempo. Astuto John Watson! E alquanto previdente.
Infilò le chiavi nella toppa ed entrò silenziosamente come ormai era abituato a fare, pensando che la signora Hudson stesse guardando la sua solita telenovela romantica. Ma al posto delle voci di qualche cane di attore, ne udì una rabbiosa e roca, come se la persona a cui apparteneva non parlasse da molto tempo.
“Finalmente ti ho trovato, Sherlock Holmes.”
John avvertì distintamente lo scatto della rimozione della sicura di una pistola.
Merda! pensò mettendo mano a sua volta all’arma che teneva in tasca. Salì le scale piano, sperando di non fare il benché minimo rumore, mentre la voce proseguiva.
“Non sai da quanto tempo è che aspetto questo momento…” Che cos’era quella sensazione? Quella… familiarità? “Non sai da quanto tempo è che aspetto di ucciderti.”
Si avvicinava sempre più così come sempre più il tono rabbioso dello sconosciuto cresceva.
“Chi sei?”
La voce di Sherlock. Ferma, composta, sicura. Una voce che infuse in lui stesso la calma necessaria per salire l’ultimo gradino e dirigersi di soppiatto fino alla porta del salotto.
“Chi sono, dici? Non credo che importerà così tanto quando ti avrò piantato una pallottola tra gli occhi.”
“Non se prima lo faccio io a te.” intervenne John facendo il suo ingresso nella stanza e puntando la pistola contro l’estraneo che si girò velocemente. Gli occhi di quest’ultimo si fecero grandi di meraviglia e tutto l’odio che vi era prima si attenuò un poco.
“John?”
Watson corrugò la fronte al sentir pronunciare il suo nome e studiò il volto dell’intruso. La sua mano vacillò, così come il suo sguardo: sembrava più vecchio di anni, la barba gli aveva infuso un’aria trasandata e pericolosa, i vestiti strappati avvolgevano un corpo scarno e che sembrava reggersi a stento in piedi. Niente di com’era prima. Ma gli occhi non mentivano. Era lui. Proprio lui.
“Davis!” esclamò alla fine indietreggiando appena. “Credevo che tu fossi…”
“Morto? Sarebbe stato meglio.” abbaiò l’altro allargando la guardia e prendendo la mira anche in direzione di John. “Tu lo conosci? Questo bastardo? Lo conosci!?”
“Io e lui abitiamo insieme...”
L’espressione di Davis si riaccese di un odio sconfinato e soffocato per mesi e mesi. “Dunque sei dalla sua parte… Sei stato tu a rivelare agli Inquisitori la nostra posizione, quel giorno, all’aeroporto di New Victory, vero!?”
Watson lanciò un’occhiata confusa in direzione di Sherlock che taceva e lo fissava intensamente. Che cosa voleva dirgli con quello sguardo?
“Lui non c’entra, non vi ha traditi.” s’intromise Holmes muovendo un passo in avanti ma subito la bocca della pistola gli si ripuntò addosso. “Puoi fidarti di John, non sa niente, non ha mai saputo niente.”
Lo sguardo di Davis tradì sollievo: l’uomo a cui si era affidato per tutto il tempo non era un traditore. Se non altro, quello. “Allora ha abbindolato anche te.” disse rivolgendosi a John. “Ti ha usato.”
“Ma di che stai parlando, Davis? Come potrebbe avermi usato?”
“Lui fa parte dell’Inquisizione, John. Chissà quante informazioni avrà passato ai suoi durante tutto questo tempo.”
Il medico scoppiò a ridere, sospirando un Oh, Cristo, e guardò Davis come fosse impazzito. “Di sicuro c’è un malinteso. Chiunque tu stia cercando non è Sherlock, perciò abbassa la…”
“Sherlock Holmes. Ti dice niente questo cognome?” lo interruppe Davis. “Siger Holmes, Mycrof Holmes… Sono i capi supremi dell’Inquisizione. E lui…” continuò indicando Sherlock con il mento. “Lui è uno di loro.”
Lo sguardo di John non vacillò neanche per un istante, nonostante un senso sesto cominciasse a ronzargli nelle orecchie. Holmes… Ecco perché quel nome in un primo momento gli era sembrato familiare. “Andiamo, Davis: ci saranno chissà quanti altri Holmes in giro per Londra. Mi rifiuto di credere che lui sia uno di quelli dell’Inquisizione.”
“Sono rimasto davanti a Buckingham Palace per settimane nella speranza di scovare uno della loro famiglia. Settimane e mai l’ombra di una traccia che mi conducesse a Mycroft Holmes o a suo padre o a chiunque altro di loro. Poi oggi è arrivata una macchina con a bordo questo bastardo e ho sentito distintamente una guardia chiamarlo signor Holmes. E non solo: ha fatto anche riferimento ad un fratello.”
John provò a replicare ma gli occhi di Sherlock lo fermarono. Perché non si difendeva dalle accuse? Perché restava in silenzio e lo guardava semplicemente?
“Sherlock, ti prego di darmi una spiegazione perché non ci sto capendo niente.”
Holmes non abbassò lo sguardo mentre le sue labbra si aprivano per formulare la risposta. “E’ tutto vero.” dichiarò dopo interminabili secondi di silenzio. “Io sono Sherlock Holmes, figlio di Siger Holmes e fratello di Mycroft Holmes.”
Tutta la sicurezza sul volto del medico s’infranse di colpo. La realtà lo investì violentemente come le fiamme di un incendio.
Sherlock. Traditore. Holmes.
La fattoria… La fattoria! Gli aveva mostrato i suoi più oscuri segreti. Segreti da cui dipendevano le vite di un centinaio di innocenti! Che cosa aveva fatto? Quei nomi che alcune notti venivano a trovarlo in sogno presero a vorticargli in testa: Alexandra………..Matias………….Logan……….
Morti per colpa sua. Per colpa di Sherlock Holmes.
“Facevo parte dell’Inquisizione, è vero. Ma non c’entro nulla con ciò che è successo all’aeroporto…”
“BUGIARDO!” ruggì Davis mentre lacrime bollenti gli solcavano le gote lanose. “HAI UNA VAGA IDEA DI QUELLO CHE HO DOVUTO SOPPORTARE? HAI IDEA DI CHE COSA SIGNIFICHI RESTARE DA SOLO SENZA LA PERSONA CHE SI AMA? HAI IDEA DI COME CI SI SENTA A NON POTER NEANCHE PIANGERE SUL SUO CADAVERE!?”
La mano armata cominciò a tremare convulsamente, mentre quella di John era caduta lungo il fianco, sconfitta e sormontata dalla verità. I suoi occhi fissavano il pavimento, incapaci di guardare la persona che aveva causato tutto quello.
“Ero andato a prendere una lattina di Lemon Soda per la piccola Alexandra… Ma c’era la fila e poi… gli spari… Ho provato a raggiungerli ma sono stato trascinato via dalla calca. Ho saputo della morte di Logan ascoltando il telegiornale! AL TELEGIORNALE!” Le spalle di Davis si alzavano e abbassavano al ritmo dei singhiozzi che gli mozzavano le parole. “Volevo ammazzarmi… Eccome se lo volevo, ma poi mi sono detto che i responsabili avrebbero pagato per averlo portato via da me. Mi sono concesso dodici mesi per vendicare la sua morte… E finalmente ho l’occasione per riscattarmi.”
Sherlock non distolse lo sguardo dalla figura di John. Era così piccolo e indifeso, il coraggioso eroe degli Incompleti. Se ne stava lì con le braccia abbandonate, gli occhi spenti… Non avrebbe dovuto scoprirlo in quel modo. C’erano così tante cose da spiegare, così tante parole non dette, così tanti sentimenti reclusi nel suo cuore… Aveva paura. Non voleva morire. Non senza prima aver detto a John tutta la verità.
“Ti spedirò all’Inferno, Sherlock Holmes. E ti posso assicurare che non dovrai aspettare molto perché io arrivi anche laggiù e porti avanti la mia vendetta anche da morto…” latrò Davis cacciando indietro le lacrime. “Addio.”
Uno sparo. Un’eco di morte. Il tonfo della vita che abbandona un corpo. E sangue, sangue, sangue… Dappertutto, onnipresente, viscoso…
John evitò di guardare quel cadavere, ma alla fine si costrinse a camminare verso di lui. La pallottola aveva perforato il cranio con una precisione impeccabile. Se non altro, non aveva sofferto. Gli chiuse gli occhi ormai vitrei e avvolti da una cataratta di morte, e se lo caricò in spalla, il giubbetto che cominciava ad imbrattarsi di sangue a sua volta. Non avrebbe permesso che rimanesse lì, che la signora Hudson lo trovasse, che la morte non venisse seppellita.
Pensò a quel sentimento che ora gli lasciava un sapore amaro in bocca. All’amore che aveva provato per un uomo che lo aveva tradito e meritava di giacere senza vita sul pavimento del 221B di Baker Street. Un uomo che però continuava a fissarlo con una dolcezza che non riusciva a sopportare dopo tutte quelle bugie e quel tradimento.
Si sollevò in piedi, il corpo senza vita di Davis sulle spalle e la pistola con un proiettile in meno in tasca. Alzò gli occhi e fu come essere trafitto da una mazza ferrata. Sherlock Holmes, anzi, solo Holmes aveva negli occhi un qualcosa di inspiegabile… Quante volte lo avevano tratto in inganno quegli occhi? Quante volte aveva carpito informazioni essenziali e le aveva passate ai suoi collaboratori soltanto puntandogli addosso quegli occhi?
Cercò di ricambiare lo sguardo, ma era più difficile di guardare un morto. Quelle iridi glaciali avevano ormai perso ogni significato, quelle labbra avevano perso ogni significato. Sherlo…no, non Sherlock, solo Holmes aveva perso il suo significato.
“John…” mormorò Sherlock facendo un passo in avanti verso John, ma quello si ritrasse e si limitò a scuotere la testa. Quanto conteneva quel muto e semplice no… Mille e mille urla non avrebbero potuto equiparare quel gesto e soprattutto ciò che scatenò in Sherlock. L’aveva perso. Aveva perso John Watson. Quel soggetto che inizialmente riteneva insignificante ma che ora avrebbe guardato in eterno. Quell’ometto che un tempo ripudiava per la sua stupidità e che ora ammirava per il suo sconfinato coraggio.
Quel John Watson una volta pericoloso e ora essenziale. Per lui, per andare avanti, per vivere.
L’aveva perso. E quando la porta d’ingresso al piano di sotto sbatté fu più chiaro che mai.

***
 
Erano passati poco più di quindici giorni e quella stanza che si era rifiutato di prendere tempo addietro gli sembrava più vuota che mai. Non aveva toccato nulla da quando… bè, da quando John se n’era andato. Solo il letto. Gli piaceva sdraiarcisi sopra e immaginare che accanto a sé ci fosse anche lui.
Quel giorno, però, infranse il rito: aprì l’armadio e cominciò a riempire il borsone che gli aveva prestato la signora Hudson con tutti i vestiti e gli averi che John aveva lasciato intonsi al 221B di Baker Street. Casa in cui non era più tornato neanche per riprendere le sue cose.
Sherlock piegò accuratamente le camicie e quegli orrendi maglioni che avrebbe potuto tollerare solo su Watson… Per che cosa quella cura? John se n’era andato e non avrebbe fatto ritorno. E Holmes, questo, lo sapeva. Ciononostante l’unica cosa che sembrava lenire appena il vuoto era quella stupida speranza che non se ne voleva andare. La stessa speranza che aveva accompagnato John per anni e anni mentre era alla ricerca di una sorella che non avrebbe più rivisto.
Partì subito dopo pranzo, osservando il prospetto degli orari del medico che aveva fatto agli albori di quella storia, quando Sherlock era ancora solo un Holmes e John viveva la sua vita tenuto in piedi solo dal desiderio di trovare Harriet. La macchina che teneva nel garage della sua vecchia casa gli sembrava così scontata dopo quei lunghi viaggi sul sedile accanto a quello di Watson e animati dalle stupide canzoni patriottiche di cui entrambi facevano una rivisitazione a modo loro.
La sagoma della vecchia fattoria si delineò in lontananza e ai suoi occhi apparve come il miraggio di una fonte d’acqua immersa nella calura del deserto. Qualche fiocco di neve prese a volteggiare nel cielo come leggiadri ballerini. Le prime settimane di Gennaio avrebbero aperto le porte al freddo e alle lunghe serate passate davanti al camino con una tazza di the bollente in mano e una coperta di lana sulle gambe.
Attraverso la leggera foschia che avvolgeva la collinetta, Sherlock distinse il bagliore di un fuoco acceso e delle figure imbacuccate attorno ad esso. Si fermò e scese dalla macchina in fretta, prima di lasciare all’emozione e alla paura di prendere il sopravvento rendendolo un perfetto idiota. Afferrò il borsone e si avvicinò a quella luce tenue che mandava riflessi rossastri verso il cielo grigio.
“Sherlock!” esclamò Molly correndogli incontro. “Che cosa ci fai qui?”
Lui le indicò con il capo il borsone che teneva in mano. “Sono di John, magari ne ha…” Le parole gli morirono in bocca quando scorse la figura di Watson alle spalle della dottoressa. Così poco tempo eppure così tanta distanza fra di loro. Chilometri e chilometri asfaltati di bugie e sentimenti velati, di verità nascoste e risentimenti crepitanti.
“Grazie, Molly, torna pure dagli altri.” la esortò il medico frapponendosi tra lei e il vecchio coinquilino. La donna sembrò indecisa sul da farsi, ma alla fine – come prevedeva la sua indole – obbedì al collaboratore.
“Allora, che vuoi? Sei venuto qui per arrestarci tutti?”
Quell’asprezza nella voce di John intaccò tutte le buone intenzioni che avevano spinto Sherlock sin lì. “Sono venuto a portarti le tue cose. Ho pensato che potresti aver bisogno di qualcosa di caldo per il freddo e poi… c’è anche il tuo portatile e un ombrello… Insomma, ti ho preso tutto.”
John non fiatò né accettò il borsone. Holmes provò la voglia di chiudersi a riccio sotto quegli occhi imperscrutabili. Finalmente, Watson si decise a prendergli dalle mani le sue cose.
“Grazie.” disse con un sorriso. “Perché non ti unisci a noi al falò?”
L’espressione di Sherlock passò da stupita a scioccata: era… era tutto a posto fra di loro? Insomma, John lo aveva appena invitato a passare del tempo insieme. Doveva interpretarlo come un buon segno?
“Non vorrei disturbare.” rispose allora per non immergersi in acque poco sicure.
“Ma figurati, vieni.”
Sherlock seguì la nuca di John fino al falò e trovò tutta la loro comunità riunita ad arrostire marshmallow. Due ragazzini albanesi arrivati un paio di mesi fa gli corsero incontro e lo abbracciarono, lasciandolo confuso e commosso al tempo stesso. Una volta John gli aveva confidato che la fattoria era casa sua. Ora sapeva che cosa volevano dire quelle parole.
“Per favore, allontanatevi dal fuoco: dobbiamo ravvivarlo.” annunciò Watson facendosi largo fra gli Incompleti che sedevano a gambe incrociate con la bocca impastata di marshmallow. Tutti eseguirono il suo comando come soldati di fronte al proprio capitano, lasciando a lui e ad Holmes lo spazio necessario per raggiungere il falò.
John poggiò per terra il pesante borsone che conteneva tutta la sua vita al 221B di Baker Street e si chinò su di esso aprendo la lampo che lo chiudeva. Ne estrasse un maglione pesante, dalla soffice lana marrone. Lo accarezzò, saggiando i ricordi che gli portava alla mente e poi si alzò, lanciando un’occhiata eloquente a Sherlock. Alzò la mano munita del capo d’abbigliamento, tenendola sospesa per diversi secondi scanditi dal crepitare della fiamma. Con un fluido movimento del braccio lanciò il maglione tra le fiamme e subito il fuoco divampò.
Sherlock rimase basito a guardare John mentre estraeva le sue cose, il suo passato, e gettava tutto fra le fiamme ormai impazzite. Non riuscì a fermarlo, ma se anche ci avesse provato non era suo diritto.
Guarda caso, l’ultima cosa che tirò fuori era una maglia a righe. Anzi, la maglia a righe. Quella della festa, della loro ubriacatura. Del loro bacio. E la cosa che fece più male… Fu che John la guardò con amarezza, nostalgia… E Sherlock non poteva sopportarlo. Non poteva sopportare di vedere quella notte gettata in pasto alle fiamme. Distolse lo sguardo mentre il fuoco si cibava dell’ultimo frammento del passato di Watson.
Nessuno osò aprire bocca o muoversi. Tutto era sospeso, tutto iniziava e finiva in quel rosso scoppiettante.
John si voltò lentamente e lo sguardo che gli puntò addosso, Sherlock non l’avrebbe mai dimenticato. “Come ti fa stare – essere illuso, essere ingannato –?” domandò con tono rabbioso. “Non ti fa venir voglia di spaccare qualcosa, ti prendermi a pugni?”
“John…”
Sherlock aveva solo voglia di sentirlo vicino per l’ultima volta. Di toccarlo, di saggiare il suo tocco di nuovo. Tentò di avvicinarsi, ma lui riacquistò la distanza. “Io non so più chi sei, Sherlock. E a questo punto, credo di non averlo mai saputo.”
Qualcosa si era rotto in Holmes. Aveva udito il rumore, lo stridere dei cocci… la cornice di una foto che non avrebbe più potuto essere come prima. Una foto che come toccò terra si dissolse. Una foto che non aveva stampata sopra una vera e propria immagine, ma un ricordo.
“Se…” La voce di John si fece stentata e improvvisamente roca. “… se quello che ci ha… legati è stato almeno in parte vero, allora ti chiedo: non venderci alla tua famiglia, all’Inquisizione. Non essere la nostra rovina, Sherlock.”
Sherlock arricciò le labbra per ritardare l’esplosione della bomba. Il conto alla rovescia era iniziato e proseguiva, inarrestabile. Sarebbe esplosa quando meno se l’aspettava, ma doveva assolutamente allontanarla da lì.
“Posso averti mentito all’inizio, ma ti posso giurare che ogni mia parola e ogni mio gesto negli ultimi mesi sono stati sinceri.”
John sorrise amaramente. “Vorrei poterti crederti, ma ho il sospetto che… una volta che finisci scottato” e indicò il falò alle sue spalle. “capisci che devi stare alla larga dal fuoco.”
Poco. Mancava molto poco. Mancava troppo poco. Sherlock si concesse poche ultime parole per dire addio all’unica persona che in tutta la sua patetica esistenza aveva contato davvero e che ormai aveva perso. “Mi dispiace per tutto il dolore che ti ho causato.”
John non rispose e si limitò a dargli le spalle e a guardare il suo passato ardere assieme ai tizzoni. Holmes capì che era tutto finito. Il fuoco cancella e lascia soltanto ceneri. La maglia a righe riposava nelle fiamme e si sarebbe dissolta. E con lei, la loro storia.
Non si guardò indietro mentre fuggiva facendosi largo fra gli Incompleti che lo fissavano smarriti. Il conto alla rovescia scorreva come i granelli di sabbia di una clessidra.
-20, -19, -18…
S’infilò in macchina e fece ruotare la chiave un paio di volte prima che riuscisse a mettere in moto il veicolo.
-14, -13, -12…
Le ruote filarono via veloci sulla strada laminata di ghiaccio, lasciandosi indietro la fattoria e tutto ciò che ne faceva parte.
-10, -9, -8…
Quanto aveva perso? Tutti quei sorrisi e quegli abbracci degli indifesi che in lui avevano trovato una difesa. Tutte quelle storie e quei racconti degli infelici a cui aveva regalato felicità. Tutte quelle lacrime e quelle sofferenze dei disperati che in quel luogo avevano abbandonato la disperazione.
E John. John Watson. Il pericoloso John Watson. Perso.
BOOOOOOM!!!
La macchina fece un paio di testa coda impazziti e Sherlock batté la fronte contro il volante. Ecco. La bomba era esplosa. E dentro quell’auto, al riparo dal mondo e dai suoi errori, Sherlock Holmes conobbe la debolezza e le lacrime.

 
   
 
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