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Autore: Dixy    19/04/2005    2 recensioni
Il mondo non è solo un'eterna lotta tra il bene e il male. Si finisce sempre per lottare per o contro se stessi. E anche se sei un angelo arriva il tuo momento di stringere tra le mani una spada. Anche se sei un angelo devi combattere. Per non soccombere. Non di nuovo.
In assoluto la FF più strana che abbia mai scritto.
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Lost Angels



Capitolo II - Life Highway


Another turning point
A fork stuck in the road…



Un paio di pietruzze si staccano dai gradini e ruzzolano tintinnando fino ai piedi della rampa di scale. E' più che certo che ciò che sta affannosamente cercando, che desidera da anni, si trova da qualche parte in una di quelle spettrali gallerie, nonostante non sappia con esattezza cosa è andato a cercare.
Si ferma un paio di minuti per abituarsi all'ambiente. Biglietteria. Centro informazioni. Binario uno. Lì sotto il clima è decisamente diverso da quello piacevole che regna nelle strade nelle sere d'Agosto; l'umidità è soffocante e quasi fa fatica a respirare; da un punto imprecisato proviene un orrendo lezzo di cadavere, che mischiato all'atmosfera pesante gli dà un tremendo senso di nausea.
Difficile immaginare quel luogo claustrofobico gremito di gente concitata e pronta a partire per ogni direzione, difficile pensare che qualcuno possa sopravvivere anche per solo una manciata d'ore in un posto del genere. Ha già quasi nostalgia del suo tenebroso cimitero, almeno quello è all'aria aperta, si dice, tuttavia non ha intenzione di demordere e prende una direzione a caso in una di quelle gallerie tutte uguali, tutte avvolte dalle tenebre e da un opprimente senso di morte e di abbandono.
Non crede necessario interrogarsi sulla direzione da prendere; istinto, fiuto, si lascia trascinare dal vortice di emozioni che lo assale, quell'aura lo attira, sempre più travolgente, impetuosa...
Ora ha davanti un angelo femminile bellissimo, il corpo sinuoso avvolto in una splendida veste di seta bianca che riflette e gioca con la luce che scaturisce alle spalle della meravigliosa creatura, i capelli color dell’argento fluttuano leggeri in quell’aria pura, accarezzando dolcemente il volto perfetto, lambiscono gli zigomi delicatamente rosati, indugiano sulle labbra piene e rosse, coprono a tratti gli occhi socchiusi dalla forma allungata e dal colore cangiante, incorniciati da lunghissime ciglia scure; le forme suadenti e impeccabili del corpo, esaltate dai panni ondeggianti, si fondono perfettamente nell’insieme di quella creatura divina, figlia della luce.
Non dice nulla, semplicemente lo fissa, con quegli occhi seducenti, pieni di amore, traboccanti di ricordi meravigliosi.
Non si sente a suo agio al cospetto di un’immagine così radiosa e pura; vorrebbe soffermarsi su di lei e perdersi nel suo sguardo divino, ma non ce la fa, sfugge i suoi occhi che continuano a scrutarlo imperturbabili, trapassandolo, facendogli male. Non può più sopportarlo ma non vuole turbare la magia di quel momento; respira piano, resta immobile, non vuole che quell’angelo splendente se ne vada, non vuole spaventarlo…
La donna tende lentamente una mano, come fa una madre col bambino spaventato per confortarlo. Lui fissa le dita candide e longilinee dalle unghie perfettamente curate con smarrimento, con stupore ma non afferra la mano, anzi istintivamente si ritrae. Non deve toccarla, ha paura di intaccare il suo candore. Lui è un angelo maledetto, perché si trova in presenza di qualcosa di così sacro e sincero? Questo non fa che provocargli altre sofferenze… se lo merita davvero?
Intanto la mano dell’angelo bianco si è pericolosamente avvicinata al suo volto. Cinque centimetri… due centimetri… non riesce a muoversi, qualcosa lo blocca; vorrebbe parlare ma un tremendo bruciore alla gola glielo impedisce. Per dire cosa, poi? In quel momento le parole non sarebbero state altro che suoni senza senso, inutili, vane, superflue. Non è nemmeno più sicuro di respirare. Accade quello che non sarebbe dovuto accadere: sente il leggero contatto delle dita sulla guancia sinistra, chiude di scatto gli occhi. Un calore penetrante gli pervade il volto, partendo dal punto in cui quella mano leggera si è posata, intenso, insopportabile.
Non ha avuto il tempo di capire quello che stava succedendo, non si rende più conto delle sue azioni. Forse ha cercato di colpire quella creatura, anzi sicuramente è così. Ma ora è di nuovo immerso nel buio, in quella maledetta galleria, cammina ancora su quel sudicio marciapiede dimenticato dal resto del mondo, l’odore di chiuso lo invade di nuovo. Gli gira la testa e le tempie gli pulsano insistentemente. Ha ancora caldo alla faccia.
Forse sta per impazzire. Forse quel luogo fa perdere la ragione a chiunque vi metta piede. Forse è caduto in una trappola. Come un perfetto stupido. Bravo. Continua a camminare, non vede che altro potrebbe fare. Non spera di cavarsela, di solito non spera mai in niente.
Può darsi che sia ora di cominciare, pensa cinico mentre svolta a sinistra attraversando uno stretto corridoio che si congiunge con l’ennesimo binario. Si ferma. Strano… Annusa l’aria più e più volte.
No, non si sta sbagliando, quello è davvero l’odore del sangue. Si accorge di aver pestato qualcosa di troppo morbido per essere il pavimento, ode un sinistro scricchiolio, come di piccole ossa frantumate. Topo. Tira un calcio a quell’infelice carcassa facendola finire in mezzo ai binari con un piccolo tonfo.
Odore di sangue… acre, intenso…
Non è solo in quella matassa di cunicoli.
Urta una lattina vuota, ma non ci fa caso.
Chi è così pazzo da vivere là sotto?

***


Ha la spiacevole sensazione di non essere sola, di essere cercata da qualcuno. Ha finito di mangiare e ora siede a gambe incrociate sul pavimento di un’anonima stanzetta, forse in passato una di quelle biglietterie davanti alle quali si affolla la gente scalpitante nella speranza di ottenere un posto all’ultimo minuto, una finestra aperta su una calca di vite mescolate e confuse, sul caos. Il caos. Caos. Quella parola… così sinistra… ma così familiare…
Rammenta ancora il vero caos, una serie di momenti sfuggenti, come una sequenza di diapositive disordinate, proiettate troppo in fretta; quando tutti venivano travolti dalla massa frenetica e non potevano sottrarsi, quando non si riusciva a distinguere quello che si era deciso essere nemico da quello che si considerava alleato, quando non ti era dato pensare a nessun altro se non a te stesso se non volevi soccombere.


[…] So make the best
Of this test and don’t ask why
It’s not a question
But a question learned in time



Corri! Corri, cretina, corri! Osserva fremente Aniel arrancare affondando i piedi nel fango misto a sangue che ricopre il terreno, immagina il suo bel volto sporco, bagnato di pioggia e di lacrime, gli splendidi occhi neri terrorizzati, imploranti aiuto, sconvolti da quel mare di corpi sconosciuti che si muovono freneticamente, al macabro ritmo di una danza della morte. Grida di dolore e di rabbia e di angoscia si levano e vibrano nell’aria, risuonano all’infinito, si sentono, voci imploranti misericordia, vorresti coprirti le orecchie e celare ai tuoi occhi quello spettacolo in atto su un palco osceno, ma non riesci a riservarti dal guardare, dall’ascoltare quella sinfonia di note oscure. Nient’altro che gli ultimi canti dei destinati a morire.
Vede Aniel incespicare, poi cadere urtata da uno dei combattenti.
Alzati scema!
Non si muove, resta inerme schiacciata contro il suolo viscido.
L’osservatrice stringe spasmodicamente i pugni, sente le proprie unghie affondare nella carne dei palmi, piccole gocce di sangue fuoriuscire dai sottili tagli… Avanti!
La vede tentare di rialzarsi a fatica, sollevarsi sulle ginocchia, poi in piedi, asciugarsi il volto con una mano e riprendere la sua corsa disperata.
Fa che non la scambino per un umano… pensa guardandola allontanarsi goffamente, presa dall’impeto della fuga, nella sua corsa disperata.
L’ultimo ricordo che ha di lei.



So take the photographs
And still frames in your mind
Hang it on a shelf
Of good health and good time



Qualcosa di umido e fastidioso le rotola morbidamente sullo zigomo, sulla guancia pallida, fino a raggiungere un angolo della bocca sottile. Ne assapora per un secondo il gusto salino, stupita e perplessa. Una lacrima.
E’ ancora in grado di piangere… nasconde il volto tra le mani e inizia a singhiozzare sommessamente, come fa un bambino che vuole sembrare forte, che non vuole far vedere che piange.
Aniel… non l’ha più rivista, non sa cosa ne sia stato di lei. Ha forse cercato di dimenticarla? Ha cercato di dimenticarla per liberare il suo cuore da un peso? E’ stata così meschina?
Non è un trattamento da riservare a una di coloro che più ha amato. Non potrebbe mai recludere nel suo dimenticatoio… sua sorella…
Si scopre il viso e resta ad osservare le sue mani bagnate di lacrime mischiate a sangue.
Il nitido ricordo di quegli anni di terrore, quando la fine era sempre più vicina, ma quando non aveva ancora perso la speranza, quando aveva ancora voglia di vivere, quando ogni giorno ringraziava per essere ancora nella sua terra a combattere per un’idea che, per quanto folle, le infondeva sicurezza, tutto ciò la sta facendo vivere di nuovo.
In quelle piccole gocce salmastre che le solcano le guance, che le hanno bagnato le mani c’è vita.
Jeliel, ex angelo custode dell’Ariete, si alza in piedi.
In un attimo una tempesta di emozioni spazza via la malinconia, la solitudine, le incertezze; le catene che hanno ancorato la sua anima relegandola in luoghi così vicini alla fine del mondo, rendendola immune a qualunque tipo di passione conosciuta in passato, si stanno lentamente sciogliendo al dolce calore di una forza nuova.
Chiude gli occhi e lascia che quella sensazione si impadronisca completamente di lei, la sente fluire attraverso ogni vaso sanguigno, ogni tessuto del suo corpo, penetrare nel suo spirito scavando nei ricordi, facendole tornare alla mente cose che mai avrebbe dovuto dimenticare.
E’ tornata.
Non è più un’assassina senza nome.
Non è più dimentica di se stessa.
Jeliel, proprio quando stava per piegarsi alla volontà dei suoi carcerieri, ha voglia di tornare a combattere.


Tattoos of memories
And dead skin on trial…



***


Time grabs you by the wrist
Directs you where to go



E’ già la terza volta che passa di lì? Che importa, ormai si è perso, tanto vale continuare…
Sì, tira un altro calcio a quella maledetta lattina del cazzo, per la seconda volta… non la terza.
Sta già impazzendo? E’ già stufo di perdersi per quello schifoso intrico di vie sotterranee?
Può darsi.
Però è anche terribilmente tenace. Anzi no, non tenace, ostinato. E’ anche terribilmente ostinato. Stupido? Sì, anche stupido. Però ostinato. Oddio. Un secondo. Avanza di qualche passo, velocemente. Si ferma. Riparte quasi correndo. Svolta a destra. Se qualcuno lo guardasse in questo momento, probabilmente, anzi sicuramente, riderebbe di lui. Sembra un gatto che non trova di meglio da fare che inseguire le mosche, senza mai riuscire a prenderle. Ma lui sa, o almeno crede, di fare la cosa giusta.
Quel qualcosa che da ore lo tormenta è tornato a ricordarsi di lui ed ora lo sta nuovamente guidando attraverso le gallerie, ma con segnali più chiari e decifrabili di prima. Sinistra… destra… dritto. Sempre dritto.
E’ come se all’improvviso si fosse accorto di conoscere alla perfezione ogni singolo recesso, come se dovesse procedere lungo un percorso già attraversato migliaia di volte, e ora è certo anche di quello che sta cercando, è certo di non essere solo. Qualcuno emana la sua stessa energia. E forse sta chiedendo di essere raggiunto.
Arresta la sua corsa a pochi metri da quella che una volta avrebbe dovuto essere una porta, ma che evidentemente è stata rimossa.
Non sa cosa fare, non ne ha la più pallida idea. Guarda quello spazio rettangolare, buio e apparentemente vuoto davanti a sé, posa con cautela una mano chiusa a pugno sul muro leggermente umido e intima tacitamente a chiunque si celi nell’oscurità di quell’anfratto, di mostrarsi.

***


For what is worth
It was worth all the while



Cos’è stato? Che diavolo è stato? Jeliel si ridesta dal suo torpore e in lei torna a scorrere il sangue della cacciatrice che è sempre stata. E’ sicura di aver sentito dei passi, pesanti ma rapidi. Ecco, si sono appena fermati. Possibile che non se ne sia accorta prima? Si è fatta fregare come una pivellina?
Però… è strano… non sembra un altro di quegli insulsi umani che di tanto in tanto si addentrano in quei luoghi così inquietanti… E’… diverso. Più forte.
No, sicuramente si sta ingannando. Come può essere così ingenua da pensare che sia sopravvissuto qualcun’altro e che ora sia venuto a fare una gita di piacere proprio lì, dopo tutti quegli anni?
Estrae il suo pugnale ancora coperto di sangue fresco e muove qualche passo verso l’uscita della stanza, cercando di fare il più silenziosamente possibile, respirando appena, attenta a captare ogni minimo fruscio.
Tre… due… uno…
Balza in avanti con un movimento fulmineo, cercando di nascondere il coltello alla vista, aspettandosi di trovarsi di fronte una figura umana che troppo audacemente ha voluto spingersi fin dove non le è concesso.
Ciò che vede la lascia sgomenta.
Il passaggio è sempre buio, umido, sgradevole e… vuoto.
Non si sente sicura, qualcosa la turba… una strana presenza…
C’è… ma dove?
Perplessa avanza di qualche metro verso il punto in cui il marciapiede si interseca perpendicolarmente con un altro.
La sua insicurezza cresce, detesta quella situazione, come detesta non sapere cosa fare. Si volta lentamente nella direzione opposta. E’ inquieta, ma ancora attenta quanto basta per sentire un passo alle sue spalle.
Senza pensarci un secondo di più gira su se stessa e conficca la lama nella spalla sinistra dello sconosciuto.
Si accorge una frazione di tempo troppo tardi che avrebbe dovuto fermarsi.
Estrae in fretta il pugnale che fuoriesce dallo squarcio con un sibilio sinistro, mentre uno schizzo di sangue caldo le bagna il volto.
L’altro si accascia lentamente con un unico gemito, mentre Jeliel cerca inutilmente di sostenerlo, aggrappata ad una di quelle ali corvine che ha scorto all’ultimo, quando non poteva più avere un ripensamento…
Stupida. Stupida, stupida, stupida, stupida. Altre lacrime malinconiche le si staccano dagli occhi e colano senza fretta lungo il viso, facendo colare il sangue di cui è bagnato. Perché poi?
Si sente incredibilmente patetica.
Improvvisamente, ha paura di restare sola.


It’s something unpredictable
but in the end is right
I hope you had the time of your life…





Note di quella che pomposamente si autodefinisce “l’autrice”:
Innanzitutto mi scuso per il ritardo, non credevo di metterci così tanto a scrivere il secondo capitolo (manco fosse lungo chilometri, poi), ma ultimamente con la scuola sono strapiena di impegni, non ne posso più… Quindi cercate di essere clementi verso il mio povero ex cervello in fusione.
Poverino, lui (nel prossimo capitolo prometto che rivelo il nome, non mi piace chiamarlo “lui”… è troppo anonimo…) oltre a sembrare un maniaco nel capitolo precedente, ora pare anche un pazzo visionario… Ottima impressione che deve dare a voi poveri lettori… Poverino, però, quasi mi dispiace di averlo fatto pugnalare dall’altra pazza (sta diventando una storia da manicomio) (devo smetterla di dispiacermi per tutto quello che scrivo, se no poi mi vengono gli attacchi di panico), ma d’altronde altrimenti non potevo andare avanti… Jeliel appare forse troppo cattiva, ma non lo è come sembra. Spero di non essermi fatta sfuggire nessun errore di battitura, ma immagino che sia una vana speranza trattandosi di me… Ah, giusto, la canzone è
”Good Riddance” dei Green Day, mentre quella del capitolo precedente è ”S.O.S.” dei Good Charlotte. Precedo chiunque voglia essere così preciso da farmelo notare: le strofe della canzone non sono nell’ordine esatto, l’ho un po’ spezzettata in base alle esigenze di quanto ho scritto. Per il resto, vi chiedo sempre di commentare, se leggete. Dixy
  
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