Storie originali > Soprannaturale > Licantropi
Segui la storia  |       
Autore: LazySoul    14/10/2017    3 recensioni
Trama:
Diana ha 17 anni, è la secondogenita dell'Alpha ed è trattata da tutti come una bambina.
Nel tentativo di dimostrare di essere grande abbastanza per combattere e difendersi da sola, chiederà aiuto alla persona che più la confonde, suscitando in lei sentimenti contrastanti, Xavier O'Bryen.
Tra uno spasimante indesiderato, una migliore amica adorabilmente pazza e un assassino in circolazione, riuscirà Diana ad accettare i sentimenti che prova per Xavier?
Estratto:
«Sei giovane, ancora non hai imparato che spesso gli odori celano delle emozioni», spiegò, appoggiandosi al materasso con le mani e avvicinando il viso pericolosamente al mio: «E sai cosa mi sta urlando il tuo odore in questo preciso istante?», mi chiese, anche se era palese che non si aspettasse una risposta.
«Prendimi», sussurrò ad un soffio dalle mie labbra.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo X: Gossip pre-festa


 

Nonna stava leggendo una rivista di giardinaggio, seduta sul divano, con gli occhiali per la vista adagiati in punta al naso. Le rughe le incorniciavano le labbra e gli occhi come una ragnatela.

Mi sedetti accanto a lei, abbandonando la borsa sul tavolo.

«Ha detto di sì», le comunicai con tono casuale, sbirciando le pagine che stava scorrendo.

Nonna Diana si sistemò le lenti sul naso, chiuse la rivista e mi guardò incuriosita: «Tesoro, di cosa stai parlando?»

Sorrisi, mostrandole la mia dentatura perfetta: «Xavier O'Bryen ha detto che mi insegnerà a combattere».

Gli occhi della nonna si illuminarono e sul suo volto comparve un'espressione soddisfatta: «Sono contenta».

Era sabato, mamma era uscita per andare a fare la spesa - non aveva più accennato al giorno prima e alla questione Michel-macchina e Xavier-moto, ma si vedeva che ce l'aveva ancora con me - papà e Kyle erano dai Picard per una veloce riunione per decidere i turni di ronda della settimana successiva ed Edith era in camera sua a giocare.

Era il momento perfetto per parlare con la nonna, senza essere disturbate o senza che qualcuno chiedesse spiegazioni.

«Voglio che tu stia attenta, Diana», disse nonna, cogliendomi di sorpresa.

«Xavier è un bel ragazzo, ma sii sicura che sia la persona giusta prima di farne il tuo compagno per la vita».

Provai ad interromperla, per rassicurarla, ma lei alzò la mano, zittendomi.

«Ricordo come se fosse ieri il momento in cui capii che tuo nonno mi piaceva, appena è successo ho affrettato le cose, ho insistito affinché celebrassimo la nostra unione alla luna piena successiva e sai quanto io possa essere testarda».

Sorrisi alla sua allusione, affascinata dal suo racconto.

«Tuo nonno mi ha detto che avevamo tempo, che potevamo aspettare e mi convinse a far passare un po' di tempo in più. Tuo nonno è sempre stato quello giudizioso, quello che pensava molto prima di prendere una decisione. Ci completavamo a vicenda in tanti piccoli modi... Sai cosa succede durante l'unione? Tua mamma te ne ha mai parlato?»

Scossi la testa, sapevo cosa comportava essere compagni per la vita, cosa mi sarei dovuta aspettare e cosa ci si aspettava da me, ma mamma non si era mai persa in dettagli. Forse, come sempre, aveva pensato che fossi troppo piccola per venire a conoscenza di certe cose.

«Si pronunciano dei voti, un tempo la cerimonia avveniva di fronte all'Alpha del branco e a qualche altro membro importante, ai propri genitori e amici. Ora le tradizioni sono cambiate, spesso si preferisce qualcosa di più intimo. Tua zia ad esempio si è unita a tuo zio Ronald senza dire nulla a nessuno, erano solo loro due e la luna piena. Ci sono dei voti da pronunciare, ma nulla di già scritto o deciso, ogni coppia ha i propri, ognuno apre il proprio cuore all'altro, promettendogli fedeltà e amore per tutta la vita».

Nonna e papà non parlavano spesso di zia Lorel. L'avevo vista una sola volta quando avevo circa dieci anni, era venuta a trovarci alla nascita di Edith. Me la ricordavo come una donna molto bella, con gli occhi scuri e le labbra a cuore, era di venticinque anni più giovane di mio padre e non apparteneva ufficialmente a nessun branco, le piaceva viaggiare e ogni tanto arrivava una sua cartolina dalle parti più improbabili del mondo. L'ultima che avevamo ricevuto arrivava dall'Italia, da Aosta, diceva che le Alpi erano bellissime e che lei e Ronald avevano intenzione di trattenersi il più a lungo possibile; il paesaggio li aveva stregati.

«Tutto qua? Basta pronunciare qualche parola sdolcinata di fronte alla luna piena?», chiesi, aggrottando le sopracciglia; mi ero sempre aspettata che ci fosse dell'altro.

Nonna rise, prendendo la mia mano sinistra tre le sue: «Dopo i voti bisogna fare il patto di sangue. Con un pugnale d'argento ci si incide la pelle e ci si scambia il sangue».

Nonna mi mostrò il palmo della sua mano destra, dove una sottile cicatrice bianca era a mala pena visibile tra le rughe.

«Perché d'argento?», chiesi.

«É una tradizione, inoltre l'argento, rispetto agli altri metalli rallenta la guarigione della nostra pelle, permettendo un vero e proprio scambio di sangue», spiegò.

Annuii, osservando la sua espressione; sentivo che mancava ancora un pezzo del puzzle, qualcosa che ancora non mi aveva detto: «E poi?»

Nonna abbassò lo sguardo e accadde qualcosa che succedeva molto di rado: arrossì.

«Poi... Ecco, diciamo che vi è l'unione vera e propria».

Aggrottai le sopracciglia, confusa.

«L'unione carnale», disse, con un sorriso imbarazzato sulle labbra.

Arrossii a mia volta, sentendomi a disagio: «Ah, capito», dissi, cercando una qualsiasi via di fuga. Non volevo che la conversazione continuasse, non più.

«Un tempo ci si aspettava la purezza del proprio compagno o compagna, era raro che ci fossero stati altri o altre prima...»

Mi alzai di scatto: la conversazione doveva assolutamente finire. Subito.

Controllai l'ora sul cellulare.

«Nonna, devo andare da Frida per la ricerca di spagnolo, se perdo l'autobus poi rischio di arrivare in ritardo», dissi, dirigendomi verso la borsa che avevo lasciato sul tavolo.

Ero felice che i miei non ci fossero, se avessero visto il borsone che avevo preparato per passare una notte fuori si sarebbero resi conto che c'era qualcosa che non andava.

«Diana», chiamò nonna, impedendomi di fuggire come avrei tanto voluto.

Mi voltai verso di lei.

«So che le cose sono cambiate rispetto a quando io ero una ragazza, ma voglio che tu sappia questo: aspettare la persona giusta non fa di te una ragazza eccentrica».

Avevo il volto rosso quanto un pomodoro ben maturo e una strana espressione di panico misto ad imbarazzo che molto probabilmente non mi donava neanche un po'.

«Va bene, nonna, devo andare», indossai la giacca, il cappello e mi caricai il borsone sulla spalla, dirigendomi verso la via di fuga più vicina.

«Divertiti dalla tua amica, ci vediamo domani», mi salutò lei, tornando a sfogliare la rivista sul giardinaggio.

«Sì, a domani».

Uscii di casa e mi fermai in mezzo al vialetto per qualche secondo, prima di iniziare a ridere nervosamente, dirigendomi verso la fermata dell'autobus.

Tirai fuori il cellulare dalla tasca; avevo assolutamente bisogno di parlare con Sab di quello che era appena successo, volevo condividere con lei l'imbarazzo e il disagio.

Isabel rispose al terzo squillo: «Diana, per la ventesima volta: non avrò pietà questa sera e ti trasformerò nella mia bambola a dimensioni reali; è inutile che continui a provare a farmi cambiare idea».

Scossi la testa e risi: «Sappiamo benissimo entrambe che non succederà mai».

Non avevo intenzione di farmi vestire e truccare da Isabel; avevo ancora una dignità e non ero disposta a farla a pezzi per una festa qualsiasi.

«Non è per questo che ti ho chiamato», le dissi, guardando a sinistra, dove mi aspettavo di veder spuntare l'autobus da un momento all'altro.

«Dimmi tutto», sospirò Sab, sentivo dal suo tono di voce che era delusa di non poter mettere le sue grinfie sulla sottoscritta.

«Ho appena avuto la conversazione più stramba e imbarazzante della mia vita», le comunicai, cercando dove avessi messo l'abbonamento del bus.

«Aspetta a dirlo, non potrà mai essere imbarazzante quanto quella volta che i miei genitori hanno deciso fossi abbastanza grande per sapere che i bambini non vengono portati dalle cicogne. Non potrò mai più guardare Dumbo con gli stessi occhi, mi hanno rovinato l'infanzia».

Risi, vedendo l'autobus girare nella mia via: «La conversazione che ho avuto con nonna ci si avvicina molto», le dissi, trovando l'abbonamento nella tasca dei pantaloni: «Mi ha detto che essere vergine non è qualcosa per cui mi devo vergognare, ma anzi faccio bene ad aspettare la persona giusta».

Sentii silenzio dall'altra parte del telefono per qualche secondo, poi Sab iniziò a ridere in modo isterico, facendo ridere di conseguenza anche me.

«Adoro tua nonna!», la sentii dire tra uno scoppio di risa e l'altro: «Ma come siete arrivate a parlare di queste cose?»

Le raccontai, a bassa voce - dato che sull'autobus c'erano altre persone ed erano tutte umane - a grandi linee ciò che avevo scoperto a proposito del rito che permetteva l'unione col proprio compagno per la vita.

«Ouh, interessante! Quindi prima ci sono i voti, poi c'è lo scambio del sangue e poi c'è del buono e sano sesso... Mi piace», commentò Isabel, prima di imprecare sotto voce.

«Sab?», la chiamai, cercando di capire cosa fosse successo per farla sboccare in quel modo; non era da lei.

«Niente», sussurrò; sembrava nervosa.

Sentii il rumore di una porta chiusa e poi un'altra imprecazione.

«Mi ero completamente dimenticata che mamma era in casa, temo abbia sentito tutto», disse a mo' di spiegazione. Il suono di qualcosa che cadeva mi fece immaginare la mia migliore amica gettare con forza a terra la prima cosa a portata di mano.

Fu il mio turno di scoppiare a ridere in modo isterico, facendo voltare verso di me una signora ormai anziana che stringeva al petto la sua borsetta rossa; aveva in volto un'espressione a metà tra il curioso e l'infastidito.

«Non fa ridere», sibilò tra i denti Isabel: «Ora devo andare, la borsa per questa sera non si prepara da sola».

«Va bene, a dopo», la salutai, cercando di fermare le risate che ancora mi sconquassavano il petto.

«Sì, ciao», chiuse la comunicazione.

Posai il cellulare in tasca e, con ancora il sorriso a increspare le mie labbra, mi resi conto che mancavano ancora tre fermate e poi sarei dovuta scendere.

Adoravo la mia migliore amica; riusciva sempre a farmi ridere, allontanando i brutti pensieri dalla mia mente.

"Come per esempio il fatto che sono quasi 24 ore dall'ultima volta che hai visto Xavier?"

Arrossii a quel pensiero, sistemandomi in modo impacciato il cappello di lana in testa.

Non avevo saputo nulla di O'Bryen da quando mi aveva chiesto se avessi avuto idea di dove fosse finita la sua maglietta, il pomeriggio precedente. Lui, dopo esser andato in camera, era poi uscito di casa quindici minuti dopo e non era tornato. Avevo approfittato del fatto che non ci fosse per riportare in mansarda la sua famosa maglietta. Mi ero detta che era giusto smetterla di alimentare l'intossicazione contratta a causa del suo odore. In realtà era stata un'idea pessima; quella notte avevo faticato a prendere sonno e avevo continuato a rigirarmi nel letto nel dormiveglia. Avevo fatto sogni che ricordavo essere stati assurdi, ma di cui avevo dimenticato i dettagli; sapevo solo che nella realtà onirica che avevo immaginato erano presenti la mia migliore amica, Francine e Edith, per il resto avevo rimosso tutto.

Papà la sera prima aveva semplicemente detto che Xavier non sarebbe tornato per cena, ma non aveva spiegato il motivo e il sabato mattina non aveva fatto alcun cenno all'assenza del nostro ospite, nemmeno a pranzo.

Poco prima, avevo avuto la tentazione di chiedere a nonna se sapesse qualcosa a proposito dell'improvvisa scomparsa di O'Bryen, ma poi la conversazione era diventata troppo imbarazzante e non ero riuscita a sopportare oltre. Era in momenti come quello che avrei voluto avere il numero di cellulare di Xavier, giusto per potergli chiedere come stesse, giusto per avere la conferma che fosse vivo, giusto per smetterla di preoccuparmi - molto probabilmente inutilmente - per la sua incolumità.

Scesi dall'autobus e decisi di non pensarci più, avrei dedicato le restanti ore del pomeriggio alla ricerca di spagnolo su Cernuda e a chiacchierare tranquillamente con Frida, avrei passato poi una bella serata e avrei impedito al nome di Xavier di attraversare la mia mente.

I miei buoni propositi durarono giusto venti-trenta minuti, prima che i miei pensieri vertessero inesorabilmente su O'Bryen. Tutta colpa della poesia che stavamo analizzando io e Frida, lei mezza coricata sul suo letto e io appollaiata sulla sedia girevole della sua scrivania.

"Si el hombre pudiera decir lo que ama" di Luis Cernuda era una delle poesie d'amore più belle che avessi mai letto. Rimasi irretita, confusa e stupita dalle parole che quel poeta aveva così magistralmente composto in una meravigliosa proclamazione al vero amore.

Frida continuava a blaterare qualcosa, ma non riuscivo a distinguere le parole e a comprenderne il senso. Continuavo a ripetermi alcuni versi della poesia, sussurrandoli a fior di labbra per saggiarne appieno la potenza e la perfezione.

"Libertad no conozco sino la libertad de estar preso en alguien

cuyo nombre no puedo oír sin escalofrío"

("Libertà non conosco tranne la libertà di essere imprigionato in qualcuno

il cui nome non posso udire senza rabbrividire")

Tenni lo sguardo basso e le mie mani, involontariamente, strinsero con forza i braccioli della sedia girevole.

"Tú justificas mi existencia:

si no te conozco, no he vivido;

si muero sin conocerte, no muero, porque no he vivido."

("Tu giustifichi la mia esistenza:

se non ti conosco, non ho vissuto;

se muoio senza conoscerti, non muoio, perché non ho vissuto")

Il cuore mi batteva ad un ritmo irregolare, lo potevo sentire pompare sangue nel mio corpo con una chiarezza e forza, tali da farmi percepire il battito in gola.

Il mio pensiero corse ad un paio di occhi verde chiaro, un sorriso arrogante e delle invitanti fossette.

Non avrei dovuto pensare a Xavier leggendo una poesia d'amore.

Cosa mi stava succedendo?

Guardai Frida, che stava borbottando qualcosa a proposito di quanto le piacesse la poesia e desiderasse includerla nella nostra ricerca; voleva assolutamente leggerla in classe, o come minimo citarla.

Avevo bisogno di stare da sola per qualche secondo, giusto il tempo necessario per rinfrescarmi il viso, schiarirmi le idee e smetterla di avere il respiro incastrato in gola.

«Frida, posso andare un attimo in bagno?»

La mia amica annuì con vigore e mi accompagnò fuori in corridoio, indicandomi una porta in legno chiaro a cinque passi di distanza.

Una volta in bagno abbassai la tavoletta del gabinetto e mi sedetti, prendendomi il viso tra le mani.

L'istante dopo mi lasciai scivolare a terra, le gambe raccolte contro il petto e la testa incastrata tra le ginocchia.

Non avevo mai avuto un attacco di panico e classificai quello che mi era successo come tale; i sintomi erano piuttosto esplicativi.

Continuai a respirare profondamente, garantendo all'ossigeno di raggiungere il cervello. Nell'arco di qualche secondo mi sentii meglio e decisi di sciogliere la strana posizione in cui mi trovavo, per appoggiare la nuca contro la tavoletta del gabinetto alle mie spalle.

Sapevo perfettamente cos'era successo, semplicemente non avevo intenzione di ammetterlo nemmeno con me stessa. Mi ero lasciata trascinare dai forti sentimenti che quella poesia aveva scatenato in me e mi ero comportata come una ragazzina stupida.

Sospirai e mi alzai in piedi, raggiungendo il lavandino alla mia sinistra.

Quando provai ad aprire il rubinetto, mi resi conto che le mie dita tremavano in modo preoccupante.

"Smettila di comportarti come una patetica quattordicenne che non sa controllarsi!", urlò la mia voce interiore, quella che ascoltavo solo quando aveva ragione e, in quel caso, ne aveva da vendere.

Osservai il mio riflesso nello specchio che sovrastava il lavandino e gemetti, frustrata, alla vista del mio aspetto orribile; avevo la pelle più pallida del solito e l'espressione di una malata terminale.

"Malata terminale, descrizione molto azzeccata".

Abbassai lo sguardo e decisi di vagliare i miei pensieri; sapevo di voler ignorare la faccenda, ma per farlo avevo bisogno di lasciarmela alle spalle e quindi di analizzarla una volta per tutte.

Pensare a Xavier leggendo una poesia d'amore, mi aveva letteralmente mandato nel panico.

Non mi ero mai sentita così tanto legata sentimentalmente a qualcuno che non facesse parte della mia famiglia o del branco. E la portata di quelle emozioni, emersa dopo solo sei giorni dal nostro primo incontro, mi aveva spaventato.

Non ero pronta per l'amore. Io non lo volevo nemmeno! Tutto quello che volevo era essere forte, essere indipendenti ed essere maggiorenne. Appena avessi finto la scuola volevo viaggiare, vedere il mondo, proprio come la zia Lorel. L'amore non rientrava nei piani, l'amore li stravolgeva, li invalidava.

Non potevo permettermi di innamorarmi di lui.

Ero troppo legata alla mia libertà per privarmene senza combattere.

Avrei fatto il possibile per non alimentare ulteriormente quei sentimenti, quell'attrazione e quel forte desiderio di conoscerlo, di sapere tutto di lui.

Mi sarei impegnata a passare con lui solo il tempo necessario per imparare le sue tecniche di combattimento. Nient'altro.

La decisione che avevo appena preso mi diede la forza necessaria per tornare in camera di Frida e finire con lei la ricerca senza che altre crisi mi colpissero. Ci dividemmo il materiale da studiare per l'esposizione in classe e, una volta terminato, ci rendemmo conto che erano già le sette.

«A breve mamma ci chiamerà per cena, le ho chiesto di prepararci qualcosa di leggero perché immagino che alla festa di Ling non mancheranno gli snack», disse Frida, mentre ritirava i libri di spagnolo.

«Spero che tu abbia ragione», borbottai, sentendo suoni preoccupanti provenire dal mio povero stomaco vuoto: «Isabel dovrebbe già essere qua», aggiunsi, cercando di sfruttare il mio udito da lupo per capire se fosse nelle vicinanze.

«Solitamente è puntuale?», chiese Frida, con un sorriso consapevole sulle labbra.

«No!», esclamai, scoppiando a ridere e scuotendo la testa.

Sab era conosciuta da tutti per i suoi ritardi; era più forte di lei, non era proprio in grado di arrivare all'ora stabilita, nemmeno se avesse iniziato a prepararsi due ore prima.

Frida aprì il suo armadio a muro, che occupava la parete a sinistra del suo letto e iniziò a tirare fuori una gruccia dopo l'altra, che reggevano abiti, maglie e pantaloni, adagiandole in modo disordinato sul suo letto.

«Ho bisogno di un consiglio su cosa mettere», disse, portandosi l'indice al mento e osservando la pila di indumenti sulle sue coperte con aria assorta.

«Temo che tu stia chiedendo alla persona sbagliata», la informai, giocando con la sua sedia girevole; avevo intenzione di ruotare fino a quando non mi fosse venuto mal di testa.

«Perché dici così?», rise Frida, portandosi un vestito contro il corpo e facendo un giro di 360 gradi per far volteggiare la gonna ampia.

Smisi di girare e mi portai una mano allo stomaco; oltre al mal di pancia, anche la nausea era venuta a farmi visita. Forse non avrei dovuto ruotare sulla sedia così tanto.

Quando mi sentii un po' meglio la guardai dritto negli occhi: «Perché io non me ne intendo di abiti e moda, è Sab quella che dovresti interpellare».

Mi alzai in piedi e raggiunsi il mio borsone a terra, recuperando la maglietta nera dei Queen che avrei indossato alla festa di quella sera, con jeans e Converse grigie.

In quel preciso istante udii chiaramente un'auto percorrere il vialetto di Frida e la voce della mia migliore amica salutare sua madre.

Cinque secondi dopo suonò il campanello.

«Dev'essere Isabel», disse Frida, andando ad aprire la porta d'ingresso.

Rimasta da sola nella camera, decisi di approfittarne per cambiarmi.

Quando Sab entrò nella stanza e vide il mio abbigliamento, alzò gli occhi al cielo: «Sei incorreggibile, D».

Con l'aiuto di Isabel, Frida decise di indossare una gonna nera e stretta che le arrivava poco sopra al ginocchio, collant neri e un top rosso che metteva in risalto il suo seno prosperoso. La mia amica invece aveva optato per un paio di leggins e un maglione color rosa antico che aveva un profondo scollo sulla schiena, dal quale si poteva vedere il gancetto del reggiseno nero che indossava.

Provarono a convincermi in ogni modo a cambiare il mio outfit, dicendo che mi avrebbero volentieri prestato qualcosa di un po' più femminile, ma declinai le loro generose offerte con occhiate piene d'odio.

Le accompagnai poi in bagno, dove si dedicarono al trucco e ai capelli, mentre io le osservavo divertita, ascoltando i loro discorsi.

«Ho sentito che Peter Fouling ha chiesto a Rebecca Jones di uscire», disse Isabel, mentre si legava i lunghi capelli scuri in una coda di cavallo alta.

«Ma dai!», esclamò Frida, aprendo il suo beauty, dal quale tirò fuori una palette di ombretti.

«Peter non ha speranze», dissi, appoggiandomi alla parete alle loro spalle.

Rebecca faceva parte del branco dell'Alpha Rise, che occupava il territorio vicino al nostro. Thomas Rice era un caro amico di mio papà e spesso si incontravano per discorrere di "cose da Alpha", come le definiva lui. Tra il loro branco e il nostro c'era un tacito patto di alleanza; ci si aiutava in caso di pericolo e si evitavano le dispute tra di noi.

«Sono d'accordo», disse Isabel, guardandomi attraverso il riflesso dello specchio: «Sicura di non volerti truccare? Ti presto volentieri...»

«Grazie, ma no grazie», alzai gli occhi al cielo, fingendomi scocciata, ma mi tradii con il sorriso divertito che aleggiava sulle mie labbra.

«Hai mai usato il rossetto che ti ho regalato per Natale?», mi chiese Sab, muovendo in modo minaccioso il pennello con cui si stava stendendo del blush sugli zigomi.

«Certo che no», confermai i suoi sospetti, facendole l'occhiolino.

Avevo un vero e proprio rifiuto per i trucchi; li trovavo inutili e poco pratici. L'unica volta che avevo provato ad ascoltare i consigli di Isabel e avevo indossato del mascara e un po' di rossetto, era stato circa quattro anni prima, alla festa di compleanno di Michel. Tutto quello che ricordavo di quel giorno erano le prese in giro di Francine e le risate di scherno delle sue amiche.

Non mi ero mai sentita a mio agio con la faccia impiastricciata di prodotti e le ciglia appesantite dal mascara, per non parlare dei rossetti, li trovavo volgari. Inoltre su di me il trucco non donava; avevo un viso da bambina, se avessi provato a nasconderlo dietro a prodotti su prodotti avrei finito per assomigliare ancora di più a una ragazzina che aveva rubato i trucchi alla madre.

«Verrà il giorno», disse Isabel, con voce tonante e decisa: «In cui indosserai il mio rossetto e farai girare la testa a qualche bel ragazzo».

Risi alle sue parole, scuotendo la testa rassegnata della pazzia della mia amica.

«Qualcuno come il prof O'Bryen», aggiunse Frida, sollevando e abbassando le sopracciglia con sguardo malizioso.

Smisi di ridere, la fronte corrucciata e un sorriso nervoso e confuso sulle labbra.

Xavier era un incubo, continuava a tormentarmi anche quando non c'era.

«Ho visto che sei arrivata a scuola con lui ieri», disse Frida, pronta a farmi il terzo grado, con gli occhi che le brillavano per la curiosità.

Rossa in volto, cercai un modo per cambiare argomento, sperando che Sab mi aiutasse ad uscire da quella situazione difficile.

«Il padre di Diana conosce O'Bryen», disse Isabel, riuscendo a peggiorare ulteriormente la situazione.

Frida aggrottò le sopracciglia: «Oh», esclamò; sembrava confusa: «Quindi ti ha portato a scuola per fare un favore a tuo padre?»

Lanciai un calcio a Sab, facendole capire che il suo intervento era stato ampiamente apprezzato.

«Ieri c'era lo sciopero dei mezzi», dissi, cercando di salvare il salvabile: «E O'Bryen si è gentilmente offerto di accompagnarmi a scuola, tutto qua».

Frida annuì: «Quindi non c'è nulla tra voi due, sicura?»

La gente doveva smettere di fare supposizioni su me e Xavier. Mia nonna, Isabel, Kyle, Francine e ora anche Frida; era un incubo.

«Sicura», dissi, con un tono di voce forse un po' troppo brusco, mentre fissavo il mio riflesso. Mentre guardavo i miei occhi e i loro diversi colori, mi venne in mente lo sguardo di Xavier, quello del giorno prima, che mi aveva fatto sentire una donna, nello sgabuzzino della palestra e non potei fare a meno di arrossire ulteriormente.

«Se lo dici tu», disse Frida, facendomi l'occhiolino.

Per fortuna in quel momento la signora Martinez accorse in mio soccorso, bussando alla porta del bagno e annunciando con il suo forte accento spagnolo, che la cena era in tavola.

Non le lasciai nemmeno finire la frase, che ero già fuori in corridoio, a sorriderle da orecchio a orecchio.

Frida e Isabel mi seguirono a ruota, decidendo di finire gli ultimi ritocchi dopo cena, anche perché non avrebbe avuto senso mettere il rossetto prima di mangiare.

In sala da pranzo, trovammo ad attenderci patatas bravas, un tagliere con affettati e una tortilla de patatas tagliata a fette. C'era inoltre una ciotola di pomodori conditi e un'altra con dell'insalata.

Ringraziammo la gentilezza della signora Martinez e le facemmo i complimenti per i buonissimi piatti che ci aveva preparato.

Assaggiai tutto quello che c'era in tavola, senza però abbuffarmi come mio solito, nel tentativo di apparire ben educata e non passare per una morta di fame. Trovai la tortilla de patatas molto buona e mangiai il prosciutto crudo con del pane fresco, gustandomi il sapore ricco e inebriante del "jamón ibérico".

Mangiai la porzione anche di Isabel che, convinta di dover dimagrire e perdere qualche chilo entro l'estate, aveva a mala pena mangiucchiato qualche pomodoro e patatas bravas. Ero convinta che fosse stata la pessima battuta di Francine di qualche giorno prima a farle venire in mente questa pazzia della dieta. Non ricordavo precisamente ciò che si erano dette, ma avevo impresso nella mia mente il volto ferito e oltraggiato della mia migliore amica e il sorriso trionfale sul volto di Francine. Poi ovviamente ero intervenuta io e avevo rovesciato il mio succo di mirtillo sulla maglietta rosa pallido della bionda, facendola fuggire in bagno a salvare il salvabile.

Dovevo assolutamente parlare con Isabel e farle capire che non aveva affatto bisogno di seguire una dieta; aveva un fisico perfetto e le parole piene di veleno di Francine erano state dettate dalla gelosia, non certo dalla ripugnanza.

Avevo sempre invidiato il fisico a clessidra della mia migliore amica. Forse perché io stavo ancora spettando che l'adolescenza cambiasse il mio corpo, rendendolo più femminile.

«Secondo voi ci saranno i Picard?», chiese Isabel, lo sguardo perso nel vuoto, mentre io ruminano convinta alcune foglie d'insalata.

Pensi al diavolo e...

«Spero di no, Francine è insopportabile e Michel è così pieno di sé!»

Frida mi rubò letteralmente le parole di bocca, così mi limitai ad annuire.

Le guance di Isabel divennero dello stesso colore dei pomodori che aveva nel piatto: «Michel non è pieno di sé».

Alzai gli occhi al cielo, mentre Frida sorrideva maliziosamente: «Non sapevo ti piacesse».

«Isabel ha una cotta per Michel da...», mi portai una mano al mento, pensierosa: «Da sempre?»

Entrambe le ragazza scoppiarono a ridere.

«Nel caso fosse presente allora, dobbiamo trovare il modo di farli rimanere soli, nella stessa stanza», disse Frida, facendomi l'occhiolino.

Mi voltai verso Isabel e sorrisi: «Potrebbe essere la volta buona che riesci a intavolare con lui una conversazione di senso compiuto; è da quando avevamo dodici anni che lo eviti, guardandolo da lontano come una stalker».

«Grazie, D, le tue parole sono molto incoraggianti», borbottò Sab, infilzando con nervosismo un pezzo di pomodoro.

«Non hai qualcosa di più scollato?», chiese Frida, osservando pensierosa l'outfit della mia amica.

«Potresti indossare il maglione al contrario, così da mettere in mostra le gemelle», proposi, occhieggiando l'ultima fetta di tortilla.

Isabel scosse con forza la testa: «No».

Io e Frida iniziammo a ridere della faccia contrariata di Sab poi, cercando di non farmi notare troppo, presi l'ultima fetta di tortilla e la posizionai nel mio piatto.

"E addio ai miei buoni propositi di non sembrare una morta di fame".

 

******

Hola 😊
Eccoci arrivati al decimo capitolo, che ve ne pare?
Grazie alla nonna abbiamo scoperto qualche dettaglio in più su ciò che succede quando ci si unisce al proprio compagno per la vita (spero che la procedura sia chiara, ma in caso contrario chiedete pure). 
Xavier non si fa vedere dal giorno prima Diana non può fare a meno di pensare a lui e a quanto le faccia paura ciò che prova. Spero che dopo questo capitolo cominci ad essere maggiormente chiaro perché Diana non vuole innamorarsi, o almeno uno dei motivi.
Aspetto i vostri commenti e vi dò appuntamento per sabato 21 ottobre! 😘
Un bacio,
LazySoul

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Licantropi / Vai alla pagina dell'autore: LazySoul