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Autore: selene87    21/06/2009    7 recensioni
Ultimo capitolo
Questa è una storia che parla del Destino. Del Caso. Ma da soli non basterebbero. Questa è una vicenda che narra di un attimo. Un baleno che per magia compare, sorprendendoci, e che bisogna afferrare prima che svanisca per sempre. Basta quel battito di ciglia per cambiare la nostra vita. Cercare una cosa, per trovarne un’altra. Avere il coraggio di seguire una sensazione.  “Hermione, tu hai colto l’attimo?”
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: Alternate Universe (AU), OOC, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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The sound of silence

Pensieri preliminari: 

Poche parole, prima di lasciarvi alla lettura.

Inizio subito col dirvi che il capitolo non è stato betato, quindi, per quanto possa essere stata attenta, concedetemi qualche possibile errore. Ho cercato di rompere quanto meno persone possibile, questa volta.

E’ passato più di un anno da quando ho cominciato a scrivere questa storia. Lo so, ci ho impiegato troppo tempo ed infinite scuse non bastano.

Qualcuno potrà dire “Assurdo” o “Patetico”.

 

Io, però, preferisco dire Comprensibile…

 

In tutti questi mesi non avevo previsto dei possibili blocchi.

Non parlo di mancanza di ispirazione, ma proprie vere pause nella vita. Periodi di stasi inaspettati. Vuoti che pretendono di essere colmati.

Sembra strano dirlo, ma, rileggendo Serendipity, mi sono accorta che rispecchia perfettamente la storia di questi ultimi mesi.

La snervante ricerca di qualcosa, un elemento che possa rimettere in sesto i pezzi di una vita intera.

 

Serendipity è cresciuta con me, dentro di me.

 

Quindi, non mi pento del tempo trascorso su ogni parola, vera e sentita, né della lunga attesa tra un capitolo e l’altro.

 

Senza questi mesi appena trascorsi Serendipity non sarebbe quella che è oggi: la mia storia.

 

 

 

A chi l’atteso, lascio l’ultimo tassello.

A chi si è imbattuto per la prima volta, per caso, in questa storia, invito a perdere un po’ di tempo nel leggere i capitoli precedenti, così da capire il senso del discorso iniziale.

A voi tutti, chiedo solo di capire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Chapter Six

The Sound Of Silence”

 

 

 

 

 

« Ed improvvisamente
ti accorgi che il silenzio
ha il volto delle cose che hai perduto. »

La voce del silenzio” – Mogol - E.Isola - P.Limiti

 

 

 

 

 

D

raco continuava a ponderare il silenzio in cui lei si era nascosta.

Scrutava il suo volto, alla ricerca di una qualunque reazione, anche se l’espressione della strega rimaneva sempre la stessa.

Sofferente e distante.

 

Maledetto il giorno in cui aveva chiesto aiuto allo Sfregiato.

 

Da quando aveva deciso di riabbracciare nuovamente la causa, aveva cercato di fare tutto il possibile per far sì che quella storia finisse in fretta: era così che ogni turno di ronda capitava sempre con un compagno diverso, per poter racimolare diverse informazioni da riferire a Severus, che, a sua volta,  le avrebbe riportate a chi di dovere.

Non gli importava sapere di chi si trattasse.

Aveva preso le adeguate distanze per non cadere in inutili distrazioni e per evitare lo spiraglio di un pensiero, al quale la sua mente vagabonda si sarebbe inevitabilmente aggrappata.

 

“Ero a colloquio con mio padre, quando intravidi quell’imbranato di Paciock, scortato da due Mangiamorte.”

Draco interruppe quel momento di assenza in cui erano caduti. “In un primo momento avevo pensato che fosse stato catturato, eppure c’era qualcosa che non mi convinceva.”

 

Lo sguardo che Piton aveva lanciato prima di richiudersi la porta alle spalle gli aveva fatto intendere che qualcosa si stava smuovendo.

Era impassibile, ma non come al solito.

Taceva, eppure, al contempo, sembrava volergli dire qualcosa.

 

“Di cosa si trattava?” – Hermione intervenne nella narrazione, sentendosi oramai parte di essa. Non era una pedina mossa dalle parole degli altri, ma personaggio vivo.

Era lei stessa che si muoveva tra parole e sensazioni  e, anche se non le appartenevano personalmente, sapeva come aggirarsi in quella nodosa faccenda.

 

In un primo momento, il biondo rimase interdetto dinanzi al tono ansioso con cui la ragazza gli aveva rivolto quella domanda.

Nell’istante esatto in cui si era voltata verso di lui, gli era sembrata la sua Hermione: la ragazzina che provava gusto nel confonderlo con i suoi mille “perché”.

Inequivocabile.

Aveva rivisto i sui occhi infiammati dalla curiosità, dalla voglia di conoscere e sapere. 

Non era rimasta nemmeno la parvenza di un’ombra del senso di smarrimento che vi aveva letto quando l’aveva incrociata ad Hogwarts. 

 

Come la maschera di cera che per anni aveva indossato, la sua espressione cupa si era lentamente sciolta in un caldo e dolce sorriso.

Uno di quelli che le rivolgeva al mattino, appena svegli. Ricorrendo alla scusa di avere ancora la vista appannata a causa del sonno, lei gliene chiedeva sempre un altro e, non riuscendo a negarglielo, il biondo non poteva far atro che arrendersi.

 

Era sempre lei, a vincere.

 

Non si sarebbe mai stancato vederla arrossire sotto il suo sguardo, quando si avvicinava per strapparle un bacio prima di andar via. Sentiva il suo respiro irregolare e il cuore accelerare inspiegabilmente.

Batteva forte.   

Batteva per Lui.

 

I ricordi un’arma a doppio taglio.

Qualcosa da cui non puoi scappare, oppure semplicemente non vuoi  farlo.

Si insediano nella mente degli uomini, silenziosi, ed attendono il momento giusto per sorprenderli.

Ti incantano, ti commuovono, ti illudono…

 

 

 

“Non è possibile!” – singhiozzò –“Non puoi essere stato tu, vero? Come hai potuto?”

 

 

 

I ricordi uccidono.

 

 

 

“Effettivamente, qualcosa c’era.” –  scosse vigorosamente la testa, smettendo di divagare tra i suoi pensieri e riprendendo il filo del discorso.

“Neville Paciock era la spia ed era lui che ci informava riguardo i vostri spostamenti.”

In circostanze diverse, non avrebbe usato tanta noncuranza per sganciare una bomba di tale portata, ma la voglia di uscire da quella stanza per poter finalmente respirare pesava, insistente.

Voleva fare in fretta, raccontarle come le cose erano andate ed uscire di lì.

Uscire dalla sua vita.

Aveva un debito con Hermione Granger e lui si trovava lì solo per saldarlo, dopodichè sarebbe sparito.

 

Avrebbe fatto male.

Sicuramente.

Avrebbe conservato il ricordo di ogni istante.

Molto probabile.

Ma poteva anche illudersi che tutto sarebbe passato.

Impossibile.

 

Paciock rivelò che un gruppo di Aurors si sarebbe recato ad Hogwarts e che Potter ne faceva parte. Io ero a conoscenza del motivo del vostro spostamento, sapevo che c’eri anche tu.”

 

Aveva chiesto all’ex professore di organizzare al più presto un incontro con Harry, ma quello aveva tagliato i tempi, portandolo con sé al quartier generale: Grimmauld Place n°12.

 

La nobile dimora dei Black, la cui purezza scorreva nelle sue vene, accoglieva babbanoifili, traditori del proprio sangue e la sua Mezzosangue.

 

Mentre camminava lungo il corridoio angusto, sentiva la stridula voce della vecchia raffigurata nel quadro. Sbraitava alle sue spalle, usando un linguaggio molto colorito contro la sua persona, la sua famiglia, il suo sangue.

Intrappolato tra le strette pareti dell’andito, era come trovarsi tra due fuochi. Conteso tra ciò che doveva fare e ciò che voleva.

 

Potter li attendeva in una stanza al secondo pianerottolo.

Con passo spedito, il biondo precedeva il padrino alle sue spalle.

Chiedendogli di aspettare fuori, poggiò una mano sul battente della porta e un fioco raggio di luce oltrepassò lo spiraglio, illuminando uno spicchio di stanza fino ad infrangersi contro il profilo pallido di colui che agli occhi del mondo magico era visto come un Salvatore, ma in quel momento, agli occhi di Draco Malfoy, era solo un ragazzo fin troppo stanco.

Harry Potter se ne stava con la schiena ricurva su una vecchia scrivania. Le mani artigliate ai bordi del legno massiccio, quasi come se volesse aggrapparsi violentemente a qualcosa di solido, mentre l’ombra svigorita dei suoi occhi si perdeva nella pieghe scure ed ombrose di una vecchia tela nera appesa alla parete.

La fissava senza batter ciglio, con la stessa attenzione di chi cerca qualcosa e sente il bisogno disperato di trovarla.

 

La porta cigolò sotto il tocco gentile della sua mano diafana e solo allora l’Auror si accorse di non essere più solo. Quando si voltò, il suo sguardo brillava di un’intensità tale da essere disarmante.

“Ti avevo avvertito.” sembrava volergli dire.

 

Draco imprecò mentalmente, consapevole di ciò che lo attendeva.

La Granger aveva parlato con il suo fidato San Potter e, a giudicare dalla riluttanza che mostrava nei suoi confronti, non doveva aver preso molto bene la faccenda.

 

“Diamine, Potter!” – aveva esclamato con rabbia contro il moro e la sua espressione contrariata.

Gli aveva raccontato di Paciock e del sicuro attacco dei Mangiamorte ad Hogwarts.

Probabilmente li stavano già attendendo.

Lo aveva avvertito e invece quello scuoteva la testa a labbra serrate.

“Per una volta, fidati di me!” – sbottò a denti stretti, sentendosi come se qualcuno gli stesse per sbattere violentemente una porta in faccia. “Non andate ad Hogwarts e rinchiudi Paciock tra quattro dannate mura, o tienilo sotto controllo.”

Si fermò, avvertendo l’aria bruciare nei polmoni a causa dell’eccessiva foga con cui aveva pronunciato quelle parole. Respirò profondamente, recuperò fiato ed aggiunse – “Credimi Harry! Ho da perdere tanto quanto te.” 

Nello stesso istante in cui finì di pronunciare quelle parole, si rese conto di quanto fossero vere.

Harry, improvvisamente ridestato dal suono di quella confessione, inarcò scetticamente un sopracciglio, capendo perfettamente a cosa si riferisse.

Ancora una volta, come il giorno i cui si era presentato da lui nell’appartamento di Hermione, si avvicinò per posargli una mano sulla spalla e sussurrò –“Ti credo!

 “Come farò a spiegare agli altri l’improvviso cambiamento dei piani?” – gli chiese a bruciapelo, una volta chiusa quella parentesi di complicità. “Se dico loro che sei stato tu a suggerirmelo, penseranno che sia io quello sotto Imperius, altro che rinchiudere Neville.”

 

L’ex Slytherin alzò gli occhi in aria, sarcasticamente spazientito.

“Sfregiato, mai come questa volta, devi usare la testa.” – gli consigliò, ammiccando verso la  cicatrice coperta da un cespuglio di capelli castani. “Dì loro che le vostre menti sono entrate in contatto.” – spiegò.

Harry strabuzzò gli occhi, nascondendo un sorrisetto compiaciuto.

Malferret, sei sempre stato così acuto o devo dedurre che derivi dalla compagnia che frequenti ultimamente?” – lo canzonò, mentre si allontanava per avvicinarsi alla scrivania.

 

Draco non rispose, limitandosi a ghignare divertito.

Si avvicinò al moro ed insieme elaborarono una strategia per aggirare l’attacco dei Mangiamorte.

Anche se l’Auror non era d’accordo, Draco avrebbe preso parte all’agguato. Di entrambi.

Si sarebbe presentato lì con i Servi dell’Oscuro e, senza dare eccessivamente nell’occhio, avrebbe aiutato l’Ordine.

 

Avrebbe combattuto per ciò in cui aveva iniziato a credere.

Se stesso.

 

Quel giorno, poi, arrivò troppo in fretta.

Appena smaterializzatosi con i Mangiamorte, cercò di distaccarsi dal gruppo che seguiva. Di lì a pochi istanti, gli Aurors avrebbero attaccato di sorpresa e doveva cercare di raggiungere i porticati del cortile interno della scuola prima che la battaglia sfuriasse.

Nascosto tra le colonne avrebbe dato meno nell’occhio e avrebbe avuto una visuale più completa.

Quando giunse l’Ordine, il ragazzo adocchiò subito Harry.

Anche se il suo volto era nascosto dietro una maschera, l’ex Gryffindor aveva perfettamente capito a chi appartenesse quel leggero sorriso di gratitudine, e lo ricambiò.

Poiché non poteva esporsi troppo, gli aveva chiesto di proteggere la cosa più preziosa che avesse guadagnato in tutta quella storia, quella che avrebbe potuto perdere: Hermione.

Evitava incantesimi provenienti da entrambi i fronti.

Scagliava Cruciatus, facendo attenzione che colpissero volontariamente zone morte, mentre gli Schiantesimi provenienti dal nulla, inspiegabilmente agli occhi di tutti, centravano in pieno i Mangiamorte.

Aveva intravisto Lupin e la Metamorfomaga arrestare la loro avanzata davanti ad un furioso ed accanito Fenrir Greyback.

Si muoveva con prudenza, mentre con la coda dell’occhio, quando poteva, cercava di individuare la Granger. La bruna era affiancata da Weasley ed insieme combattevano contro Augustus Rookwood e Antonin Dolohov, mentre Potter si era lanciato alla ricerca di Voldemort.

 

Un battito di ciglia.

Come era brava la sua Mezzosangue.

Il soffio di quel pensiero.

Hermione che sgrana gli occhi, voltandosi di scatto.

Uno scoppio di giada accompagna due voci che all’unisono si scagliano contro due incantesimi.

La punta di due bacchette che entrano  in contatto tra fiati sospesi e respiri trattenuti.

Poi il silenzio.

Innaturale ed angosciante.

Solo quelle note impercettibili seguivano la sconfitta del Signore Oscuro.

Voldemort cadeva per mano del Prescelto.

Era finita. Per il mondo.

 

Ci fu un momento di panico.

Sia per gli Aurors sia per i Mangiamorte.

Consapevoli della situazione, i Seguaci di Riddle iniziarono a darsela a gambe.

Un sonoro fruscio di anime nere in fuga.

 

A spintoni, Draco cercò di avanzare in quel vorticoso chaos, dirigendosi alla ricerca del Bambino-che-era-sopravvissuto-per-la-seconda-volta.

 

Con lui avrebbe ritrovato anche Hermione.

Le avrebbe lanciato qualche frecciatina e, solo dopo che Potter avesse spiegato come le cose erano effettivamente andate, l’avrebbe riabbracciata.

Solo allora sarebbe davvero finita. Per lui.

 

Dirigendosi all’interno del castello ed aggirandosi per i corridoi, arrancava tra quei pensieri, quando qualcuno gli sfilò inaspettatamente la bacchetta dalla mano.

Si voltò di scatto, incontrando lo sguardo austero di sua zia: Bellatrix Black Lestrange.

 

Gli occhi traboccanti di rabbia spiccavano sotto le palpebre pesanti.

I lunghi capelli neri avvolgevano il volto scarno ed oltremodo stanco, ma non abbastanza da adombrare del tutto il suo antico fascino.

Qualcosa di tenebroso ed intrigante trapelava ancora dalla sua immagine spenta.

 

Come una stella che emana gli ultimi bagliori – quelli più luminosi – prima di esplodere.

 

Nella mano destra, brandiva la sua bacchetta.

 

“Ma chi si rivede?” – chiese retoricamente con voce stridula –“ Buonasera, nipote.”

“Zia Bella.” – ricambiò il biondo, liberandosi della maschera, oramai inutile.

 

Si scambiavano occhiate truci e guardinghe, scrutandosi a vicenda per poter capire le intenzioni l’uno dell’altra.

Draco cercò di non indietreggiare davanti al tremore della mano.

La Lestrange sembrava completamente fuori di sé: gli occhi sbarrati strisciavano su ogni smorfia del suo volto.

 

“Non ti ho visto molto attivo oggi.” – constatò la Mangiamorte.

“Cosa ci fai ancora qui?” – rispose il ragazzo, inumidendosi le labbra e sfoggiando uno dei suoi migliori ghigni e cercando di sviare il discorso della zia. “ E’ troppo pericoloso restare, Riddle

 

Riddle.

 

Da quando si era avvicinato all’Ordine, Draco aveva preso più coraggio ed iniziato a chiamare l’Oscuro con il suo ero nome, ma non fece in tempo a correggersi che il volto di Bellatrix si contorse in una maschera di furiosa indignazione.

 

Quello era un sacrilegio.

Quella era un’eresia per le sue orecchie.

 

Non nominare il nome del MIO Signore invano.

 

“Non ti azzardare, piccolo ingrato.” – gli sibilò contro. “Cosa credi, che non mi sia accorta della vostra infedeltà?”

Lentamente accorciava la distanza che la separava dal biondo e la punta della bacchetta si avvicinava sempre più pericolosamente al suo petto.

Solo quando arrivò a sfiorare l’orlo della mise sotto il mantello scuro, l’abbassò insieme al suo sguardo.

 

“Voi avete tradito il mio Signore.” – piagnucolò, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, come una bambina alla quale era stato fatto un ingiusto dispetto.

 

Non aveva un aspetto minaccioso, ma spaventava allo stesso modo.

La sua fedeltà nei confronti di Lord Voldemort rasentava la follia e questo terrorizzava più della sua efferatezza priva di scrupoli.

 

“Ho provato ad avvertirlo, ma lui non mi credeva.”

La voce, pian piano, si incrinava sempre di più diventando graffiante come se volesse scoppiare in un pianto isterico.

“Aveva piena fiducia in quel Mezzosangue di Piton, mentre IO, la sua Serva più fedele, sono stata screditata ai suo occhi e la colpa è tutta di quell’incapace di tuo padre.”

 

Con un gesto fluido della mano, alzò un'altra volta l’arma contro il biondo.

“Voi Malfoy avete macchiato l’onore dei Purosangue con la vostra inettitudine ed ora sarai tu a pagarne le conseguenze.”

 

Il ragazzo chiuse gli occhi, stringendo i denti.

 

Ava…

Expelliarmus!”

La Mangiamorte aveva appena dischiuso le labbra per poter pronunciare la maledizione, quando un urlo deciso la precedette, facendole volare via la bacchetta di mano.

Bellatrix si voltò lentamente.

Il Salvatore del Mondo l’aveva colta di sorpresa, correndo nella loro direzione.

 

Harry se ne stava immobile ed in silenzio.

Solo il suo rantolo lo distingueva da una statua.

Il volto immortalato in una smorfia di pura avversione  e la bacchetta ancora tesa verso la donna, la cui ira parve placarsi davanti alla presenza del ragazzo.

 

“Bene, molto bene. Da quanto tempo, Potter!” – lo accolse imitando uno stridulo accento francese.

Le labbra scarlatte vibrarono impercettibilmente, incrinandosi in un sorriso sadico e perverso.

Folle.

 

Bellatrix.” – ricambiò l’occhiataccia della Mangiamorte con altrettanto disprezzo.

 

“Non potevo sperare di meglio.” – sghignazzò. “Entrambi qui a mia completa disposizione.”

Draco inarcò un sopracciglio, confuso da quelle parole.

 

“TU!” – inveì la donna verso il moro –“Lurida feccia di questo mondo, come hai osato. Hai ucciso Lui, il più potente e grande mago mai esistito.”

Ringhiò ferocemente, minacciandolo con la bacchetta.

“Voi” – si voltò fugacemente prima verso il nipote poi di nuovo verso il Sopravvissuto –“Siete stati la SUA rovina e me la pagherete.”

Con aria superiore e sprezzante, si avvicinava al moro, ma, dal canto suo, Harry non mostrava la minima intenzione di indietreggiare e proprio questo suo atteggiamento fece ribollire ancor di più di rabbia la donna.

 

“Il Mio Signore sarà di nuovo fiero di me, quando vi avrò fatto fuori.” – gongolò a metà tra il rabbioso e compiaciuto.

 

L’ex Gryffindor deglutì, cercando di calmarsi.

“Non contarci, Bellatrix. Sarai tu a pagare le conseguenze delle tue azioni.” – scandì per poi gridare di rimando –“Stupeficium.”

 

La Lestrange si spostò sulla destra, schivando l’incantesimo che andò ad infrangersi contro la parete e per un pelo non colpì Draco.

 

“Non ti conviene sfidarmi, Mezzosangue.”

“L’ho appena fatto.” – sentenziò l’altro.

 “Hai fretta di raggiungere il tuo amato padrino, allora?”lo derise la strega.

 

Nel sentire quella provocazione, la presa di Harry sulla sua bacchetta si fece più salda.

Entrambi puntarono le armi, preparandosi a colpire, ma qualcosa si intromise nel loro scontro.

 

“RON!” – l’urlo disperato di Ginny Weasley giunse ad interromperli.

 

Harry, sconcertato e spaventato, fece guizzare gli occhi ora sulla donna, ora verso la direzione da cui proveniva la voce della rossa.

 

“Non vorrai abbandonarmi ora, Potter?”

“Ho cose più importanti a cui pensare, ora.” – digrignò i denti, deciso sul da farsi. “Addio, Bellatrix.”

 

Si voltò, dirigendosi verso un corridoio laterale.

 

La strega ghignò malefica.

C’era pura cattiveria in quel ghigno, un sorrisetto che a Draco non piaceva per nulla.

 

“ Mai voltarmi le spalle, sciocco. Avada Kedavra” – gli gridò contro, nel momento in cui il biondo si fiondava sulle sue spalle, cercando di impedirle di scagliare il colpo.

Entrambi caddero a terra, ma la donna fece in tempo terminare la formula e ad alzare la bacchetta, dalla quale fuoriuscì un fiotto di luce verde.

 

L’ex Slytherin aveva battuto la testa contro la spalla della Mangiamorte, ma udendo un grido soffocato, fece forza sulle ginocchia per rialzarsi.

 

Forse, se non si fosse lanciato su sua zia, quel colpo non avrebbe mai colpito lo Sfregiato.

Forse, se si fosse limitato ad avvertirlo, gridando, Harry sarebbe riuscito a schivarlo.

Forse, si sarebbe schiantato contro una parete.

Forse, Harry Potter sarebbe morto lo stesso.

 

Con le braccia spalancate, il ragazzo cadeva all’indietro.

Draco recuperò la propria bacchetta e gli si avvicinò, cercando di mantenere l’equilibrio e combattendo contro il tremore delle gambe.

 

L’espressione allarmata era ancora dipinta sui lineamenti di Potter, mentre gli occhi chiusi ne oscuravano il volto.

 

La Speranza si era spenta.

Quella del Mondo e la sua.

 

Ma con la fine di Harry le cose non erano terminate.

Certo che no.

La sua Morte segnò solo l’inizio.

Aveva sempre invidiato lo Sfregiato, eppure non erano poi così diversi.

Entrambi potevano vantare un’infanzia tutt’altro che facile ed un’adolescenza trascorsa a giocare a nascondino con la morte.

Ma se Potter usciva sempre di scena come l’Eroe per Eccellenza, lui finiva sempre con il ricoprire il ruolo del Figlio di un Mangiamorte.

 

“Harry!” – un urlo apprensivo proveniva dal corridoio davanti ai suoi occhi.

Draco li socchiuse appena.

“Harry!” – la voce di Hermione diventava sempre più vicina.

Da fremito lontano, di secondo in secondo, cresceva sempre più fino a risuonare come un’eco disperato.

Rimbombava tra le pareti del castello.

Tuonava nella sua mente.

Scoppiò, infine, in un suono ansioso che avrebbe scandito per sempre la vita del giovane mago.

 

Giorno dopo giorno. Attimo dopo attimo. Sospiro dopo sospiro.

La voce di Hermione – quell’urlo – avrebbe fatto parte di lui.

 

Il biondo tirò un lungo e profondo respiro, imponendosi di ritornare a guardare la realtà, anche se non avrebbe mai voluto farlo.

Qualcosa si ruppe dentro di lui nel vedere Hermione ridotta in quello stato.

Accasciata sul corpo dell’amico.

Piegata in due.

Spezzata.

 

Harry…” – singhiozzava, mordendosi il labbro inferiore.

Gli scuoteva il capo, avvolgendolo tra le sue braccia e stringendolo al petto, mentre calde lacrime avevano iniziato a rigarle il viso.

Una leggera ventata d’aria, proveniente da una finestra rotta, colpì Draco alle spalle.

 

Uno spiffero troppo freddo.

Un soffio troppo inquietante.

 

La sua schiena fu percossa da un brivido sinistro.

Una fastidiosa sensazione che risaliva lungo la spina dorsale, sconvolgendolo con la sua intensità.

Quando rialzò lo sguardo sulla ragazza, un angoscioso senso di impotenza lo colpì in pieno petto.

 

Il riverbero di disperazione di cui brillavano quelle pozze dorate lo avevano gettato nel baratro dello sconforto.

 

Cadeva.

Crollava.

Questa volta nessuno gli avrebbe teso una mano.

 

Hermione…” – provò ad iniziare, ma e parole gli venivano meno ad ogni lacrima che vedeva scorrere lungo le guance pallide della ragazza.

Ogni stilla lo trascinava sempre più giù.

 

Non c’era disprezzo in quelle iridi auree.

Quello lo avrebbe sopportato.

C’era molto di più.

Qualcosa che lo atterriva.

 

Quella notte, guardandola negli occhi, per un attimo – uno soltanto – Draco Malfoy si era sentito il VERO  colpevole della morte di Potter.

 

Gli occhi di Hermione lo giudicavano.

 

“Hermione,” – riprovò –“ascoltami, ti prego.”

“Non sei stato tu, vero? ” – lo interruppe, invece, la strega con tono quasi supplichevole.

Si era alzata per fronteggiarlo, abbandonando il corpo di Potter.

 

Il ragazzo si inumidì le labbra, riflettendo sulla risposta.

 

“Draco?” – incalzò con voce incrinata, avanzando di qualche passo.

 

Il biondo rifletteva, ancora, compiendo un passo indietro.

Cercava di scappare.

Fuggiva da quegli occhi ed indietreggiava davanti a quella domanda.

Io…” – cercò di fornirle una spiegazione, ma quella non sarebbe mai arrivata.

 

O almeno credeva…

 

 

 

“Gli Auror mi portarono via insieme a Bellatrix. – proferì, riprendendo filo della narrazione e spezzando il silenzio in cui erano caduti.

“Il resto penso che tu lo sappia.”

 

La ragazza se ne stava con lo sguardo basso, soppesando gli ultimi passaggi di quella vicenda.

Molte cose iniziavano a quadrare, altre, invece, restavano ancora pezzi sconnessi.

 

Sapeva che il mago era stato interrogato sotto Veritaserum e che avevano testato la sua bacchetta per verificare gli ultimi incantesimi scagliati.

“Perché non hanno interrogato anche tua zia?” – chiese a bruciapelo, senza riuscire a tenere a freno la curiosità.

 

Draco scoccò la lingua, compiaciuto.

Con o senza memoria, restava sempre la Mezzosangue sagace.

 

Voldemort era furbo e per evitare che qualcuno svelasse la sua posizione forniva ai suoi servi un’ampolla con del veleno ad effetto immediato.” Si assicurò l’attenzione della riccia e solo quando questa ebbe annuito continuò –“Mia zia ha usato quella per facilitarmi le cose, togliendosi la vita prima di essere interrogata.” – chiarì.

 

Hermione seguì il ragionamento, senza intervenire oltre.

Si sentiva smarrita. Non confusa, ma indecisa.

Mille perché le ronzavano in mente.

Domande che esigevano risposte. Le pretendevano con rabbia.

Ciò di cui aveva bisogno, però, erano certezze concrete.

Qualcosa di tangibile, cui aggrapparsi.

Colonne alle quali ancorarsi, senza rischiare di andare alla deriva.

 

Sospirò mestamente.

“Ora che intenzioni hai?” – domandò, sorprendendo entrambi.

 

Lo sguardo di Draco si dilatò improvvisamente, mentre tratteneva un battito d’aria.

 

 

 

La Fine che tanto aveva atteso era giunta.

 

 

 

Portò una mano al mento, distogliendo lo sguardo e pensandoci seriamente.

Dopo aver lasciato Azkaban si era concentrato così tanto sul suo obiettivo che non aveva trovato il tempo per poter immaginare un dopo.

Forse la sua mente aveva accuratamente evitato di porsi il problema. In cuor suo, da qualche parte sotto lo spesso strato di rabbia ed egoismo, sperava che le cose potessero ritornare come prima.

Ma avrebbe chiesto troppo.

A Hermione.

A se stesso.

Al Mondo.

 

“Me ne ritornerò al vecchio Maniero. Posso ancora permettermi di crogiolarmi in un dolce far nulla.” – tentò di ironizzare.

 

La strega stava per ribattere, ma qualcuno bussò inaspettatamente alla porta di ingresso, interrompendoli.

 

“Hermione?”

Era Tonks!

 

La riccia si voltò verso Malfoy, indecisa sul da farsi.

Entrambi si guardarono.

“Cosa aspetti? E’ casa tua, o vuoi che apra io?”

Scosse la testa spazientita e mormorò qualcosa sotto voce.

“Ma tu…?” – cercò di opporre le proprie ragioni.

Lui cosa avrebbe fatto? Doveva nascondersi, non potevano trovarlo lì.

 

Granger, muoviti ad aprire quella porta.” – scandì senza voler sentire ragioni.

La ragazza gli lanciò un’occhiata dubbiosa, scendendo dal letto e dirigendosi verso l’ingresso.

 

“Insomma, Hermione! Mi costringi a bombardare la porta.” – minacciò la metamorfomaga.

“Arrivo.” – la tranquillizzò l’altra.

“Finalmente!”

Senza attendere l’invito della padrona di casa, Ninfadora entrò, precipitandosi nel salotto.

Le scrutava il volto con fare preoccupato.

“Come ti senti?”

La riccia la guardò confusa.

“Come dovrei stare?” – chiese disorientata.

Tonks aguzzò sospettosamente lo sguardo. “Aberforth mi ha detto che ti sei sentita male quando ti sei recata al pub e che è stato lui a riportarti a casa.”

 

La strega capì che si trattava di una copertura ed annuì vigorosamente.

 

“Ma certo!” – confermò – “Ora capisco. Eppure gli avevo chiesto di non dirti nulla per non farti impensierire.” Cercò di usare un’intonazione decisa e discorsiva.

La donna si addolcì in un tenero sorriso premuroso. Il sospetto abbandonò i suoi lineamenti, cedendo il posto alla comprensione.

“Non pensarlo nemmeno per scherzo, Hermione.” Le carezzò una guancia con fare materno.

“Anzi, scusami per il ritardo, ma quando sono arrivata a La Testa di Porco non c’era nessuno, così mi sono fermata ad aspettarvi.”

 

Le labbra rosee dell’ex Gryffindor si incresparono in un lieve sorriso tirato dal sapore amaro.

Abbassò il volto, fissandolo in un punto vuoto, cercando di sfuggire alle lacrime che andarono a riempirle l’angolo dell’occhio.

 

“Sicura di star bene?” – richiese Ninfadora con voce vibrante di apprensione.

La riccia alzò lo sguardo, puntandolo in quello della donna, cogliendo il lampo di preoccupazione nei suoi occhi scuri.

 

“Certo che sto bene.”

Sorrise, strizzando le palpebre, per impedire che quella calda stilla salata le ricadesse lungo la guancia.

 

In realtà, stava male.

 

“Non preoccuparti, ho solo bisogno di riposare.” – la tranquillizzò, usando il tono più convincente che avesse.

 

Desiderava sparire, inghiottita dal senso di colpa che l’aveva nuovamente avvolta nel suo gelido manto.

 

Si strinse tra le braccia, alla ricerca di calore.

Un minimo di sollievo nel quale trovare riparo.

Un rifugio.

Non voleva gridare per chiedere aiuto. Questa volta aveva bisogno di protezione.

Da se stessa.

 

“Oh, Hermione.” – si mortificò la metamorfomaga. “Hai ragione! Ti lascio subito, allora.”

Facendo attenzione a non incespicare tra i propri passi e il tappeto del salotto, si avviò verso l’uscita.

Doma…” – provò a dire, rimangiando subito le proprie parole – “Quando vorrai, sai dove trovarmi.”

Sorrise di imbarazzo, prima di riaprire la porta e richiudersela alle spalle.

 

Lo sguardo della strega rimase per qualche istante fisso nel vuoto.

Le pupille dilatate tremavano, carezzate dalla lacrime.

Aveva ancora voglia di piangere.

 

Se il racconto di Draco l’aveva totalmente svuotata, il fugace incontro con Tonks l’aveva turbata di nuovo.

Qualcosa le si era mosso dentro.

Quel qualcosa che, senza che se ne rendesse conto, si era annidato dentro di lei ed ora stava riaffiorando.

Un piccolo fuoco, che involontariamente aveva continuato ad alimentare.

 

Le ombre l’accolsero nel loro abbraccio.

Una fitta e densa coltre di sentimenti era scoppiata, deturpandole la mente.

Corrompendole l’animo.

La invadeva con il suo peso, attanagliando i suoi pensieri.

La stordiva.

 

Hermione, ho paura.

 

Poche parole vorticavano nella sua testa, colpendola violentemente.

Vergogna ed inganno.

 

Hermione, ho sbagliato.

 

Portò una mano alle labbra.

La consapevolezza dell’errore che aveva commesso la colpì in pieno stomaco.

La dilaniava.

 

La colpa.

Per essere scappata da qualcuno per cercare qualcosa che in realtà non avrebbe dovuto cercare.

 

Posò le iridi mielate sullo specchio posto nell’ingresso.

Il buio l’aveva avvolta, lasciandola sola con il proprio riflesso.

Hermione scrutava quell’immagine.

Oro nell’oro.

Lo sguardo perso nel suo.

Impassibile, ma non vuoto.

 

Confuso, smarrito.

Colpevole.

 

Lo aveva rifatto.

Aveva mentito.

Per Lui. Draco Malfoy.

 

Portò una mano alla tempia, scuotendo il capo sotto il suo tocco.

Con passi lenti e cadenzati, cercò di farsi largo in quella lugubre confusione, tornando nella propria camera.

Si poggiò allo stipite della porta, sollevando torpidamente lo sguardo verso la finestra.

Draco era lì, con la schiena contro il muro e le braccia conserte al petto.

Con lo sguardo apparentemente vacuo, perso chissà in quale pensiero lontano, osservava l’orizzonte.

Il grigio dei suoi occhi si smarriva nel blu pervinca di cui si tingeva l’immenso.

Il sole calava, illuminando il mondo con i suoi ultimi raggi.

Intensi ed abbaglianti.

Le dense venature rosso veneziano si confondevano tra gli stracci di nuvole argentate che screziavano il cielo.

Si sfumavano, mescolandosi a vicenda l’una nella braccia dell’altro, prima di lasciar spazio alla notte, il cui triste sipario sarebbe calato sulla fine di quel dramma.

 

Improvvisamente, spostò le iridi cineree sul volto della ragazza. Un’occhiata muta che Hermione contraccambiò per pochi istanti.

 

“Grazie.” – esordì il biondo con tono greve.

 

La strega distolse immediatamente lo sguardo, affaccendandosi per riporre il soprabito che ancora giaceva sul letto.

“Per non aver detto nulla della mia presenza e per aver retto il gioco.” – spiegò Draco, interpretando il gesto della mezzosangue come chiaro segno di disagio.

“Non ringraziarmi!” – esclamò irritata la riccia, bloccandosi all’istante. “Non so nemmeno io perché l’ho fatto” – sussurrò a se stessa, agghiacciata.

No, non lo sapeva.

 

Quando si era trovata Tonks nel salone il sogno in cui era vissuta quel pomeriggio si era improvvisamente infranto.

Un’illusione che si era dissolta.

Inspiegabilmente svanita, inghiottita dal vuoto.

 

L’unica cosa che brillava nella sua mente era la certezza di dover seguire quella traccia gettata lì dal caso.

L’unica cosa che poteva fare era mentire.

 

Una mano scivolò nella tasca del cappotto, agguantando la pergamena che custodiva.

La strinse così forte che le si sbiancarono le nocche.

 

Ansia, Angoscia e Paura le pizzicavano la punta delle dita.

Un intreccio di sentimenti che ora fluiva nelle sue vene.

Che la marchiavano.

 

L’orologio contro la parete batteva secondi interminabili.

Attimi che fluivano tra i pensieri dei due giovani.

Intensi silenzi carichi di emozioni mai vissute, risuonanti dell’eco di sentimenti passati.

Il mago continuava a fissarla con la stessa disinvoltura che avrebbe usato un tempo.

Troppo tempo addietro.

Eppure, erano passati solo pochi mesi.

Giorni trascorsi al buio dei propri logori vagheggiamenti, rinchiuso in una prigione di Azkaban, dove più e più volte si era ritrovato a pensare a pomeriggi come quello.

 

Hermione che rassettava la casa e il suo cuore che l’ammirava.

 

Tra quelle quattro pareti troppe cose gli erano tornate alla mente e il profumo emanato dalla pelle della strega, poco distante da lui, accompagnava quel vagabondare.

Sembrava tutto come allora.

 

Sembrava.

 

Scosse la testa, allontanandosi dal muro, facendo forza sulla schiena.

 

Ridicoli pensieri, ecco cos’erano quelli che affollavano la sua mente.

Nulla sarebbe mai tornato come prima.
Era troppo tardi, ormai.

 

Mosse un passo.

Avanzava verso la ragazza ancora voltata di spalle.

Un altro ancora.

Un piede dopo l’altro, si preparava a commettere l’ennesimo sbaglio: la figura di Hermione diveniva sempre più vicina, mentre la voglia di andar via gradatamente spariva.

 

Avrebbe voluto abbracciarla.

Cingerle la vita e stringerla a sé, affondando una mano tra i suoi ricci.

Si sarebbe beato del confortante calore dell’esile schiena della Mezzosague, poggiata sul suo petto.

Lei avrebbe sospirato e lui si sarebbe soffermato su ogni soffio, domandandosi, mutamente, a cosa fosse dovuto.

 

Avrebbe voluto, certo.

 

“Credo che sia meglio che vada.” – annunciò il biondo, prendendo la riccia di sorpresa.

 

Hermione sgranò gli occhi. Le pupille le si dilatarono inspiegabilmente e la vista le si appannò per un breve istante.

Quando si voltò per fronteggiare la realtà, però, il suo volto non lasciava trapelare nessuna delle decine e decine di sensazioni che l’avevano investita con la loro furia inaudita.

 

Troppo orgogliosa per mostrarsi debole.

Troppo insicura per mostrarsi vera.

 

Qualcosa dentro di lei strideva con quel minimo di buonsenso che le era rimasto ed esigeva che Draco Malfoy non uscisse da quella casa.

 

Che non lasciasse la sua vita.

Che non l’abbandonasse.

 

Non voleva che andasse via.

Un desiderio che vibrava tra le corde vocali. Che bruciava lungo la gola, fino a pizzicarle la lingua…

 

“Lo credo anche io.” – convenne.

 

Troppo spaventata per cedere.

 

Senza emettere fiato, mandando giù amarezza e rassegnazione, Draco le passò accanto, dirigendosi verso l’ingresso.

Non appena il biondo si avvicinò alla porta, il silenzio che aveva cullato il loro incontro si tramutò subito in distanza.

Una lontananza che avrebbe lasciato l’acre retrogusto della mancanza.

 

Inspiegabilmente, la ragazza sentiva già la mancanza della sua presenza.

Rassicurante.

Necessaria.

Indispensabile.

 

Aveva bisogno di lui, per sentirsi al sicuro.

Per sentirsi semplicemente lei.

Quando se ne accorse, tuttavia, la porta aveva già battuto il suo pesante tonfo.

Dovette cedere alla volontà delle sue gambe o di qualunque cosa avesse preso il posto della ragione e si diresse verso la porta finestra del salone.

Si posizionò cautamente dietro la pesante stoffa della tenda che ricadeva ai lati del vetro.

Si nascondeva, per paura di essere vista.

Per il timore che qualcuno le dicesse che quella era la cosa sbagliata, quando in cuor suo sapeva qual’era la cosa più giusta da fare.

 

Eccolo, il suo porto sicuro.

 

Con le mani infilate nelle tasche anteriori del soprabito e i capelli in balia del vento leggero camminava lungo il viale che l’avrebbe condotto lontano da lei.

Procedeva lentamente.

La stessa esitazione che aveva mostrato nel passarle accanto, prima di andarsene.

 

Con le dita, Hermione artigliò con forza il pungente tessuto, strizzando gli occhi.

Non era una semplice persona – un estraneo – che se ne andava, ma un pezzo di vita che scivolava via.

 

No!

La ragazza si corresse mentalmente.

Draco Malfoy non se ne era andato.

Non l’aveva abbandonata di nuovo; era stata lei a lasciarlo andare via.

La colpa, questa volta, era sua.

Lei poteva solo decidere di raggiungerlo.

Gettarsi tra le sue braccia, lenendo il bisogno che avvertiva di stringerlo a sé.

Poteva rincorrerlo.

Poteva.

Peccato che quando riaprì gli occhi, Draco fosse già sparito dietro l’angolo.

 

 

 

***

 

 

 

“Hermione? Andrea?” – una voce squillante irruppe dal fondo del corridoio che portava all’ingresso, rompendo quella magica fantasticheria.

 

“Dove siete?”

 

La bambina seduta accanto alla madre incrociò le braccia al petto.

Corrugò la fronte, indispettita.

Gonfiò le guanciotte paffute, sbuffando irritata a causa dell’interruzione.

 

“In salone.” – trillò la riccia. “Ti stavamo aspettando.”

Hermione si alzò dal divano, per andare incontro a quello che oramai era divenuto un uomo.

La folta chioma vermiglia sfiorava gli zigomi marcati, ricadendo sul volto immancabilmente tempestato di lentiggini.

 

Ronald Weasley.

 

Era cambiato molto rispetto al ragazzino che era stato in un passato non così lontano.

Quello raffigurato nelle foto scattate durante gli anni trascorsi a scuola.

Quello di cui l’Hermione del presente non aveva ricordi, ma che aveva imparato a conoscere grazie alle innumerevoli chiacchiere scambiate con la famiglia del rosso.

 

Ron era salvo.

Era vivo.

Per merito di Draco.

 

Dopo la scarcerazione da Azkaban, prima di rinchiudersi nel suo regale maniero e crogiolarsi in un allettante dolce far niente, l’ex Slytherin si era recato al San Mungo ed aveva collaborato insieme ai Medimaghi per cercare un contro incantesimo in grado di aiutare il rosso.

 

C’era chi diceva che quello del mago fosse un vano tentativo per cercare di riscattarsi dopo l’assassinio di Colui-che-era-Sopravvissuto.

Secondo altri quello era un modo per redimersi da una colpa che non aveva commesso.

 

Una scomoda menzogna, contornata da una mezza verità.

 

Draco Malfoy non stava pagando un debito nei confronti degli altri.

 

Troppo egoista per farlo.

Troppo superiore solo per pensarlo.

 

Draco Malfoy lo faceva per se stesso.

 

Per anni, aveva vissuto con la stupida convinzione che tutto gli fosse concesso, in virtù del nome che poteva vantare. Una superba illusione alimentata dalla purezza della propria stirpe.

 

Del proprio sangue.

 

Pagava il prezzo per aver assaporato quello che lusso e potere non avrebbero mai potuto conquistare: la felicità.

Un sentimento che da sempre aveva considerato illusorio, privo di qualunque senso e dalla consistenza tanto effimera, da sparire prima ancora che si potesse avvertirne la presenza.

Invece, il biondo aveva potuto sentire quell'ebbrezza effimera e leggera scorrere nel proprio corpo.

Era frizzantina, in grado di smuovergli l’animo, turbandolo ed eccitandolo al tempo stesso.

La Vita, falsa e meschina, gli aveva donato quelle sensazioni attraverso il sorriso di una Mezzosangue.

Un essere infido ed insignificante al quale doveva tutto.

Ogni sforzo, Draco Malfoy lo compieva per quella Mezzosangue, inducendola a compiere enormi passi avanti: dopo la visita del giovane, infatti, la strega era tornata a vivere la sua vita.

Quella di Hermione J. Granger.

 

Un modo di vivere che, in fondo, sembrava non andarle più tanto stretto.

Era come indossare un vecchio guanto smesso: qualcosa che le calzava a pennello, alla quale doveva solo riabituarsi.

 

Era quello il trucco: riappropriarsi della Vita.

Ed Hermione aveva messo in gioco tutta se stessa per farlo.

Doveva riuscirci.

Ci aveva provato una sera – una come le altre, all'apparenza – in cui aveva invitato a cena i suoi genitori.

“Sono una strega!” – li aveva accolti, sulla porta di casa, con questa affermazione.

Non si trattava di una domanda, della ricerca di una certezza, ma dell’affermazione di una verità di fatto.

 

Hermione era una strega.

Ne era consapevole.

Lo accettava.

 

Successivamente all’improvvisa ripresa di Ron, poi, la ragazza aveva iniziato a trascorrere parte del suo tempo con la famiglia del ragazzo, immergendosi in racconti ed aneddoti e finendo con lo stringere con il mago un rapporto che poteva apparire simile a quello che li aveva legati da adolescenti.
Le loro intenzioni erano, però, chiare: nessun amore infantile riaffiorato, nessun improvviso risveglio di un sentimento sopito.

Quello che li univa era solo una profonda amicizia.

Un antico legame di cui entrambi avevano sentito l’eccessiva mancanza.

 

Amici.

P e r  S e m p r e.  

 

“Finalmente ti sei deciso ad arrivare!” – guaì irritata la riccia, fronteggiando l’amico con l’immancabile cipiglio altero.

Alla vista della reazione della strega, il rosso dovette reprime un sorrisetto divertito.

“Suvvia, Hermione!” – disse, mentre si voltava per dirigersi verso il divano. “Sono tornati Bill e Fleur per far visita alla mamma e così mi sono fermato alla Tana per scambiare quattro chiacchiere con loro.” – si giustificò.

 

La Granger si calmò all’istante e rilassò i lineamenti del volto, rendendosi subito conto della smodata risposta con cui aveva contestato il ritardo del ragazzo.

“Credevo che mi avessi abbandonata.” – sussurrò, poi, sommessamente calando il capo.

Era consapevole del significato di quelle parole e si vergognava per il fatto di aver solo pensato una cosa del genere.

 

Ron serrò duramente la mascella e, con un’affrettata falcata, le si avvicinò.

Strattonò violentemente le spalle sottili della ragazza, per poi accoglierla tra le sua braccia.

“Non lo avrei mai fatto.” – soffiò tra i morbidi capelli, mentre con una mano le carezzava la schiena, quasi cullandola.

Rassicurandola.

 

Ronald Billius Weasley non l’avrebbe mai abbandonata.

Questo lo sapevano entrambi.

Il mago lo aveva ripromesso a se stesso il giorno in cui aveva visto Hermione comparire sulla porta della sua stanza al San Mungo.

 

Era smarrita.

Se ne stava sulla soglia, indecisa se entrare o meno.

Persa.

Lo fissava con diffidenza. Come se lo vedesse per la prima volta.

Spenta.

Non c’era orgoglio a brillare nelle sue iridi mielate, ma paura.

Vuota.

Non aveva risposto al suo abbraccio, quando le era andata incontro. Era rimasta immobile, con le braccia che ricadevano lungo il corpo. Inermi.

Distante.

C’era troppo distacco tra i loro corpi, in quella stretta.

 

Con il tempo, poi, le cose erano decisamente migliorate.

Avevano ricominciato da capo, percorrendo, insieme, l’ABC dell’amicizia.

 

 

 

“Piacere, il mio nome è Ronald. Ronald Weasley.”

 

 

 

Era stato così che il ragazzo aveva deciso di non abbandonare mai più la sua Hermione.

Quella che, a fatica, aveva ritrovato.

 

Amici.

P e r  S e m p r e.  

 

La ragazza si concesse ancora qualche istante di silenzio, con il volto affondato nel petto del rosso, beandosi delle sue carezze rassicuranti.

Tirò su con il naso più volte, per poi staccarsi e voltarsi di scatto – per nascondersi – asciugando cautamente le lacrime che le avevano riempito gli angoli degli occhi e che, da un momento all’altro, minacciavano di rigarle il viso.

 

Troppo orgogliosa per mostrarsi debole.

 

Il mago distolse lo sguardo da quel gesto intimo, puntandolo verso l’orologio posto alla parete.

 

“Hermione?” – cercò di richiamare la sua attenzione, con un pizzico di preoccupazione nella voce.

La riccia si voltò nuovamente senza parlare, limitandosi a rispondere con un lieve cenno del capo.

 

“Non avevi un appuntamento?”

 

La strega alzò gli occhi verso l’orologio.

Era tardi.

Sapeva che sarebbe accaduto, ma non poteva negare a sua figlia quel racconto.

 

“Per il cappello di Morgana!” – imprecò buffamente. “Devo scappare.”

Si affrettò a raggiungere la sua camera, per recuperare borsa e giacca.

 

Un morbido cappotto color panna.

Sempre lo stesso. Quello di tanti anni fa.

 

“Ron, mi raccomando.” – la sua voce riecheggiava tra le pareti del corridoio, mentre si rivolgeva di nuovo al rosso, che nel frattempo si era accomodato sul divano accanto alla bella nipotina. “Niente voli sulla scopa, niente incantesimi pericolosi, ma soprattutto…

“… niente scherzi Weasley.” – terminò il ragazzo, avendo, ormai, imparato tutte le raccomandazioni a memoria.

Ogni volta – lo stesso giorno, ogni anno – quella lista era sempre la medesima. Non una raccomandazione in più, non una in meno.

Era diventata una sorta di cantilena, ma al ragazzo andava bene così.

Le voleva bene anche per quello.

Per la sua attenzione perenne e quasi ossessiva nell'essere scrupolosa.
Era la sua Hermione.

 

“Stai tranquilla.” – le disse, fissandola con un profondi occhi azzurri che non lasciavano spazio ad altre inutili rassicurazioni.

La riccia annuì più tranquilla.

“Io e la mia Andrea sappiamo come divertirci.” – ammiccò con aria complice verso la bambina, che rispose con un sorriso sornione.

Un sottile ghigno per nulla rassicurante.

“Ho un improvvisa voglia di rimanere a casa.”

La ragazza posò la borsa sulla sedia più vicina e si accinse a liberarsi del soprabito.

“Voi due insieme mi spaventate.” – constatò seriamente.

 

Ron sbuffò spazientito. Abbandonò il morbido divano, per avvicinarsi alla ragazza.

Afferrò la borsa e la e gliela mise tra le mani, stringendole tra le sue.

“Tu ora esci di casa.” – si impuntò, spingendola verso la porta.

“Ma voi…” – cercò di protestare, ma il rosso non le lasciò il tempo di ribattere.

“Hermione!” – l’ammonì –“Vai via e tranquillizzati.” – scandì lapidario.

La riccia aprì bocca per poter parlare, ma il lieve fiato d’aria si infranse contro il legno brunito della porta chiusa davanti al suo naso.

Boccheggiò beffardamente, per poi lasciarsi andare in una risata sommessa.

Ron l’aveva letteralmente sbattuta fuori di casa.

Con un risolino divertito dipinto sulle labbra, la strega abbandonò il pianerottolo, incamminandosi verso l’uscita. Oltrepassò il portone in vetro e ferro battuto, immergendosi nella frizzante brezza che avvolgeva Londra.

 

Cosa avrebbe fatto senza il suo amico Ron?

 

Aveva pensato spesso alla risposta da darsi, senza sapere, però, quale fosse in realtà quella giusta.

Inspiegabilmente, quella era stata l’unica domanda che, per parecchio tempo, aveva occupato la sua mente.

Era solita porsela sempre la sera.

Sul calare di una lunga ed estenuante giornata trascorsa su vecchi tomi o tra bizzarri aneddoti.

 

Ore intere trascorse in compagnia dei suoi genitori, oppure durante le quali aveva tentato di riacquistare familiarità con la propria bacchetta.

Aveva riallacciato i rapporti con vecchi amici mai conosciuti.

 

Cercando di recuperare il tempo perduto…

 

Ogni sera, ripensando a tutti quei momenti, la strega giungeva alla conclusione secondo la quale Ron, per lei, era tutto.

 

Era il suo ponte con il passato e la colonna salda del presente.

 

Tuttavia, quel tutto non sempre le bastava.

Appena riusciva a gioire del presente che stava pianamente vivendo, un’ombra giungeva ad eclissare quella splendida luce, raggelandone il familiare tepore.

Non si trattava del gelido sibilo del suo estraneo passato.

Era l’ombra oscura dell’ Ignoto.

Con il passare dei giorni, era sempre lì.

A volte indugiava ai piedi del letto al suo risveglio, altre di divertiva a seguirla.

La osservava. La attendeva.

Era il suo futuro.

 

Era fin troppo semplice voltare le spalle a quella vita che non aveva mai vissuto, oramai sfiorita e lontana, ma pensare al domani, gettare anche solo uno sguardo verso quella direzione, la terrorizzava.

Lo vedeva come qualcosa di instabile e precario, indipendentemente dalla presenza del suo migliore amico.

Incerto, perché sentiva l’essenziale mancanza di qualcosa di eccessivamente importante.

 

Qualche cosa che era stata parte di lei.

Assurdamente vicina e al contempo tremendamente lontana.

Qualche cosa che non c’era più.

 

Davanti all’immensa vetrata, distesa sulla soffice coperta verde, l’ex Gryffindor si fermava a fissare il cielo e a pensare a cosa mancasse nella sua vita.

Chiudeva gli occhi ed iniziava a scavare tra i ricordi. Quei pochi che le tornavano alla mente.

I pensieri finivano con l’accalcarsi l’uno sull’altro, formando un flusso irrefrenabile. Una scia sconnessa di sensazioni ed emozioni, tra le quali si addentrava mossa dal coraggio della disperazione.

 

Di qualunque cosa si trattasse, ne aveva bisogno.

 

Allora, consapevolmente, allungava una mano per cercare di afferrare quel vago frammento che vorticava nella sua testa. Ghermirlo con forza, per non lasciarlo più andare.

Per cercare di agguantarlo, si costringeva a dischiudere le palpebre e, quando ci riusciva, il sole era già alto nel cielo.

La notte passava troppo velocemente, mentre i giorni sembravano interminabili.

 

Attimi sconfinati si alternavano a fuggevoli istanti.

 

Aveva l’impressione di vivere in un'immensa bolla d’aria.

Un nascondiglio, in cui mondo esterno assumeva la forma di un’immagine sbiadita e indefinita. Dai contorni evanescenti.

Quasi invisibile.

Ciò che le interessava era solo l’aria che la circondava, di cui necessitava per vivere.

 

Ecco cosa cercava.

Qualcosa come l’aria.

Invisibile, ma costantemente presente.

 

Rovistando tra pensieri e riflessioni, la bruna era giunta dinanzi ad un incrocio.

Lentamente, si fermò, gettando uno sguardo veloce alla sua destra. Fece scorrere lungo l’intero selciato, fino ad incrociare la strada che portava a sinistra.

Socchiuse e riaprì più volte le palpebre, pensierosa e sorpresa.

 

Che strano! – pensò. Ripercorreva quella strada da cinque anni, ormai, e poteva farlo addirittura a bacchetta bendata, eppure non si era mia chiesta dove conducessero quelle strade.

 

Un giorno, la sua estenuante ricerca – per caso – la portò lontana dal suo rifugio.

Il desiderio di evadere era diventato una necessità e l’aveva spinta fuori dalla sua prigione sicura.

Aveva rotto con i pugni quella fortezza di vetro per ritrovarsi tra le strade stipate di Londra.

 

Una densa distesa di nuvole affollava il cielo di metà gennaio, creando uno manto lattiginoso.

 

Le strade erano gremite di gente.

Uomini e donne, coppie di giovani: semplici passanti che si aggiravano, indisturbati, per la città.

La ragazza girò più volte su se stessa, osservando attentamente tutto ciò che la circondava.

 

Ogni dettaglio.

Il più banale particolare.

 

Quella strada, per lei, non rappresentava nulla. Era una via qualunque, ma non aveva importanza. In quel momento, tutto le riportava alla mente qualcosa.

 

Giunta all’incrocio, non aveva avuto esitazioni; sapeva benissimo dove andare, quella volta.

Doveva andare avanti e procedere in quella direzione, senza porsi altri mille perché.

Non aveva bisogno di trovare un motivo per seguire quella sensazione.

No, non ne sentiva la necessità.

Era certa  di quello che faceva e questo le bastava.

 

Forse, se avesse svoltato a destra, si sarebbe limitata a compiere il giro dell’isolato, facendo sbollire la rabbia. Sarebbe tornata tra le quattro mura che la ospitavano, pronta a frasi travolgere dall’assurda onda della normalità.

 

Se si fosse diretta a sinistra, magari, si sarebbe trovata dal lato opposto della città. Si sarebbe recata da Tonks e le avrebbe parlato di quel peso che la schiacciava, bevendo una tazza di thè, stando ben attenta, però, a rifiutare quello alla menta. Avrebbe parlato con l’amica e tutto si sarebbe risolto.

 

Quella sabato mattina, invece, Hermione ebbe il coraggio di seguire quella scia immaginaria che avvertiva distintamente tra i rumori in cui era immersa.

Tra i passi spediti della gente che risuonavano nella sua mente, stranamente senza confonderla.

Si addentrava tra i sentieri della sua mente, senza sentire dolore.

Per la prima volta.

Troppo tempo trascorso a tormentarsi, girandosi e rigirandosi nella foschia del passato.

Aveva atteso che il più fievole raggio di luce – un semplice barlume – la guidasse.

Un rumore da rincorrere.

Un profumo da seguire.

Che l’aiutassero.

 

Avvolta nel silenzio, si era ritrovata ad ascoltarne il soave suono.

Una sibilo sublime. Sottile e roco.

 

La voce del silenzio.

 

Aveva cercato di concentrarsi su quel fruscio familiare, desiderando di essere da sola per poterlo ascoltare meglio.

Era distante, ancora troppo lontano.

Tuttavia, il mondo che l’attorniava non la tormentava.

Nessuno sguardo puntato su di lei.

 

Quante cose può celare il silenzio?

Tante.

Dietro quel muto fruscio, può nascondersi una vita intera. Un mondo inimmaginabile fatto di sentimenti veri, desideri nascosti e luoghi vissuti.

 

Questo, Hermione, lo aveva capito quando meno se lo aspettava. Quando, ormai, non aveva più aspettative, né pretese.

 

 

 

Questa è una storia che parla del Destino.

 

 

 

Camminando a passo svelto, uno scoppio improvviso nella sua testa l’aveva costretta a chiudere gli occhi. Aveva stretto con forza le palpebre e, quando le dischiuse, la sua vita aveva inaspettatamente cambiato colore.

Per troppo tempo era stata piatta e bianca.

Vuota.

 

 

 

Questa è una vicenda che narra di un attimo.

 

 

 

Da quell’istante, invece, finalmente si colorava delle più intense e cangianti sfumature di sensazioni ed emozioni che, pian piano, riaffioravano dal nulla.

Quell’intensa luce sembrava attraversare il lungo corridoio precluso nella sua mente, spalancandone tutte le porte chiuse.

 

I raggi di sole divennero stranamente impazienti e si rincorrevano per abbandonare il buio della tempesta, facendosi prepotentemente spazio tra le plumbee nuvole.

 

La strega alzò gli occhi al cielo, indietreggiando prima che un bagliore di luce l’ingannasse con il suo rinnovato splendore.

Con una mano, cercò di coprirsi il volto, ma fu troppo tardi

I suoi passi si scontrarono contro qualcosa – o qualcuno – facendole perdere l’equilibrio.

 

 

 

Un fortunato incidente che ci invia dei segnali.

 

 

 

Serrò la mascella, pronta a toccare il fondo.

 

Ancora.

 

Strinse i denti, rassegnata a dover sprofondare nel baratro della confusione.

 

Di nuovo.

 

Invece, non toccò mai terra.

 

“Tutto bene?” – le chiese una voce pacata alle sue spalle. Un soffio fiducioso, che l’aveva trattenuta a sé.

Una presenza necessaria alla quale si era inconsapevolmente aggrappata.

 

 

 

Un baleno che per magia compare, sorprendendoci, e che bisogna afferrare prima che svanisca per sempre.

 

 

 

La ragazza si voltò quel tanto che bastava per vedere a chi appartenesse la voce della sua ancora di salvezza, ma qualunque pensiero avesse formulato sparì all’istante, inghiottito dalla chiara consapevolezza che lentamente iniziò a prendendo vita in lei.

 

L’indefinito prendeva forma.

 

Impressioni di un passato remoto si accavallavano agli unici ricordi che le affollavano – turbavano – la mente per andare quello che da troppo tempo le sfuggiva.

 

L’immagine che le tornava alla mente quando oramai era troppo tardi per afferrarla, mentre la sua mente vagava tra stracci di sogni sconnessi.

Il nome che le turbava il sonno. Che ripeteva con insistenza, senza che ne ricordasse il suono al suo risveglio.

 

Draco

 

 

 

Basta quel battito di ciglia per cambiare la nostra vita.

Cercare una cosa, per trovarne un’altra.

Avere il coraggio di seguire una sensazione.

 

 

 

Quel giorno il destino le aveva porto la mano, aiutandola ad afferrare l’attimo.

Era stato più semplice del previsto.

 

Erano passati cinque inverni da quel gennaio.

Cinque lunghi anni da quando Hermione aveva iniziato a costruire la sua vita.

 

 

 

Costruita con le sue decisioni.

Creata da lei stessa.

Attraverso le sue parole.

 

 

 

Dopo quel fatale incontro, i due avevano cominciato ad incontrarsi.

 

Il giorno seguente, per un caffè.

Quello dopo ancora, per imparare a conoscersi. Di nuovo.

Per la vita intera, intrecciando il bisogno dell’uno a quello dell’altro.

 

Non era stato semplice ricominciare, per nessuno dei due.

 

Il mondo li considerava – li aveva resi – troppo diversi, come il bene e il male.

Tuttavia, la differenza più radicale era quella che più intensamente li univa; tra segreti sussurrati e verità svelate, avevano capito che non esistevano un Purosangue ed una Mezzosangue, ma semplicemente loro.

 

Draco ed Hermione.

 

Il sangue che fluiva nelle loro vene ero il medesimo – identico – per entrambi. Sporco del più puro dei peccati: l’Amore.

Se per l’intera umanità quella era una banale constatazione, per i due giovani rappresentava un solido pilastro cui aggrapparsi, evitando di annegare nell’immensità dell’errore.

Amarsi poteva essere stato uno sbaglio, una colpa ormai sfiorita e che non apparteneva al loro futuro.

Al domani. Una strada tutta da percorrere.

Un castello di carta in cui avevano coltivato il nulla dal quale erano partiti, continuamente frustato dal violento soffio del vento passato e destinato a crollare, più e più volte, piegato dalle furiose tempeste del domani.

Incomprensioni, fraintendimenti e segreti avevano dissolto, in diversi momenti, quella favola. Tuttavia, insieme trovavano sempre la volontà – il coraggio – di ricominciare. 

Il Tempo non li spaventava.

Ogni attimo che trascorreva li rendeva più forti. Più vicini.

Affrontavano la Vita come se fosse un pacco da scartare con attenzione, da quale potevano aspettarsi qualunque: insidie, sfide e gioie.

Provocazioni che affrontavano insieme con complicità.

 

“Era ora!”

 

La strega si voltò lentamente, puntando le iridi ambrate in un punto indefinito della macchia verde del parco che si estendeva alla sua sinistra. Manteneva lo sguardo alto, strizzando leggermente le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco l’ombra nera dalla quale aveva avuto l’impressione che fosse provenuta la canzonatoria affermazione.

 

Gettando ciò che ormai restava della sua sigaretta, Draco Malfoy si fece largo tra le fronde di un salice. Godette dell’ultima boccata di fumo, rilasciandolo, poi, in una densa nuvola.

Si compiacque della smorfia di disappunto nata immediatamente sul volto della riccia, dinanzi a quel gesto.

 

Hermione odiava il fumo.

 

Ciò che maggiormente la infastidiva, però, non era quel velo caliginoso ed indefinito che si disperdeva nell’aria, ma l’acre aroma che lo infestava. E che continuava invadere la sua vita.

I plumbei e leggeri sbuffi di dilettavano nel prendersi gioco della strega, danzandole intorno fino ad attorniarla e senza lasciarle via di fuga.

Ombre, nere e fredde, provenienti dagli angoli più remoti della sua mente – quelli che aveva messo finalmente a tacere – sembravano prendere vita nei suoi sogni più inquieti. Durante il sonno, sotto le palpebre serrate scorreva un subisso di parole. Lettere sconnesse e frasi disarticolate si alternavano furiosamente, cose se sfogliasse celermente un le pagine di un appassionante romanzo, desiderosa di arrivare alla parola Fine.

 

Non appena, però, sfiorava quella vecchia pergamena ingiallita, l’inchiostro smeraldino svaniva sotto il suo leggero tocco, lasciando quella pagine apparentemente vuote.

In contro luce, era, infatti, possibile scorgere la traccia sbiadita di qualche incompleta. L’eco lontano di sensazioni passate, in grado di penetrarle fin dentro l’anima, per poi fuggire via. Scappare, pur lasciando traccia del loro passaggio, imbrattando quell’apparente quiete.

Era frustrante.

Insopportabile, per l’ex Gryffindor diventare gelosa di pensieri che nella sua mente non erano mai esistiti. Di una via che non aveva mai vissuto.

Di un’ Hermione che non era lei.

 

Ma, infondo, chi era Hermione?

 

Era questa la domanda che per troppo tempo aveva evitato. Quella che l’aveva indotta, notte dopo notte, sull’orlo delle lacrime, abbattendo quel muro di pietra dietro il quale si era nascosta.

L’amaro della realtà aveva sempre la meglio sul dolce torpore del sonno, costringendola a sbarrare gli occhi di scatto, svegliandola di soprassalto.

Ogni notte, però, un paio di dita affusolate correvano ad asciugare le sue perle di dolore e, quando la voglia di scappare si faceva insostenibile, due braccia la invitavano ad accoccolarsi un torace caldo e confortante, anche se tradito da un leggero tremore.

 

Pur condividendo incubi ed insicurezze, Draco le era sempre restata accanto.

Ed era per questo che anche mattina aveva percorso la strada con l’assoluta certezza che il mago l’avrebbe aspettata.

 

L’uno aveva atteso l’altro per una vita intera.

 

“Mezzosangue, sei in ritardo!” – affermò il  biondo, sbuffando seccamente.

Dal doppio petto dell’elegante giacca si intravedeva la lana del dolcevita blu ceruleo che avvolgeva il pallido collo del mago. Un paio di pantaloni di cotone nero scendevano morbidi lungo le gambe, seguendo la linea dell’ottima fattura artigianale.

 

“Avevi detto che avresti smesso.” – proferì, contrariata, la ragazza che, intanto, gli si era avvicinata, poggiando entrambe le mani sulle ampie spalle del ragazzo. Fece scivolare i palmi lungo le braccia fasciate dall’elegante Caban, fino ad intrecciare la dita con quelle affusolate del biondo, al riparo nelle tasche anteriori del soprabito.

Affondò il volto nel petto del biondo, assaporando ogni attimo di quell’abbraccio. Avvertiva ogni minima sensazione provenire da quelle braccia, come se si trattasse di minuscole scosse che l’attraversavano il corpo, puntando dritte all’anima.

Il calore che proveniva da quel gesto la cullava dolcemente, mentre il profumo di Draco le sussurrava emozioni indimenticabili.

 

 “Avevi detto che saresti stata puntuale, questa volta.” – la rimbeccò, lui – “Sapevi che non avrei smesso, come io ero certo che avresti tardato.” – terminò in tono lievemente più dolce.

Hermione aprì bocca per ribattere, ma la richiuse subito dopo, rendendosi conto che qualunque scusa avesse usato, non avrebbe retto.

 

Draco Malfoy aveva sempre maledettamente ragione.

 

“Che c’è Mezzosangue, ti ho lasciata senza parole?” – la pungolò l’ex Slytherin, sfoderando un ghigno ancora più ampio del solito.

 

Adorava farlo. Provocarla.

 

La sua espressione lievemente imbronciata, le labbra che si arricciavano alla ricerca di una risposta mordace da rifilargli e, infine, la rassegnazione che brillava nei suoi occhi ramati lo facevano letteralmente impazzire.

 

Amava pungolarla e lasciarla senza parole come amava lei.

 

Si era aggrappato a quella follia – l’Amore per una Mezzosangue –  durante la guerra, trovando in essa un’ancora di salvezza. Dopo averla finalmente ritrovata, aveva legato la sua vita a quell’illusione.

La veemenza di quel sentimento, allora sconosciuto – estraneo – almeno quanto la felicità, lo aveva sgomentato. La realtà lo aveva colto di sorpresa, mentre il mago si rendeva conto che il mondo era in grado di reggersi in piedi anche se privato delle sue stupide convinzioni.

 

Infastidito, come svegliato da uno sgradevole raggio di sole dal più sublime degli incubi, si era allontanato dalla Granger, non presentandosi agli appuntamenti, né recandosi a casa della strega.

Per circa una settimana aveva vagato alla cieca nel suo maniero, camminando avanti e indietro tra la confusione e lo sconforto del suo stato d’animo. Giorni e notti trascorsi ad accettare quello strano calore che prepotentemente si insinuava tra le crepe della sua maschera di indifferenza, attendendo che lei si facesse viva.

Invece, nulla.

Non un gufo, né un Patronus che svolazzasse tra le pareti del suo salone portandogli un messaggio. Non un Bombarda contro la porta di legno massiccio che lo isolava dal mondo. Aveva anche imparato adusare quel dannato aggeggio babbano: il telefono.

Pensava che per la ragazza, forse, fosse il mezzo di comunicazione più semplice, tuttavia, della strega nemmeno l’ombra del mantello. Probabilmente, la Grenger non mostrava il medesimo interesse che lui provava nei suoi confronti.

Si era illuso, era questa la verità.

Si era aperto al mondo, provando a rivelare se stesso ed era caduto nella prima trappola che la Vita gli aveva riservato.

Prima, ma sicuramente l’ultima.

Credeva di aver imparato a conoscere sul serio la Mezzosangue, durante i mesi trascorsi insieme.

 

Hermione Grangere era il ritratto della strega che si aggrappava con le unghie e con i denti alla speranza per poter andar avanti.

Odiava fallire, ma non si demoralizzava anche quando era costretta a farlo.

 

Hermione Granger era forte.

 

Tuttavia, il giorno che aveva richiuso di nuovo alle sue spalle il portone in vetro e ferro battuto che per mesi aveva protetto il suo mondo, la donna che vi trovò non era la strega che in quei mesi l’aveva cambiato.

Rannicchiata contro il muro del lungo corridoio e con le ginocchia stretta al petto, quella era solo una donna lacerata da una miriade di emozioni che sembravano volerla divorare spietatamente.

Gli occhi erano inespressivi. Vuoti, per l’abbondanza di emozioni che in essi si accalcavano. Lacrime perlacee le rigavano il volto smorto e i muti gemiti le spezzavano la voce. I singhiozzi si susseguivano con rabbia, esigendo di sciogliersi in un disperato pianto, mentre la riccia cercava di trattenerli, innalzando la flebile barriera di quel minimo di contegno che ancora le rimaneva.

 

Era solo una donna e nient’altro.

Non la strega so-tutto-io di un tempo, la Griffyndor determinata.

Quella era la donna che aveva abbandonato ad Hogwarts troppi anni prima.

Il fantasma che per anni lo aveva tormentato era diventato reale: non di carne ed ossa, ma lacrime e sofferenza.

 

Aveva provato a calmarla, ma la sua totale assenza l’aveva convinto a desistere. L’accenno di una minima reazione lo aveva ottenuto solo nel tentativo di afferrare i brandelli ingialliti di una vecchia pergamena che la riccia stringeva tra le mani: la ferrea opposizione del suo pugno e un gelido lampo di risentimento che, per un istante, prima di arrendersi, illuminò quelle pozze di mestizia.

 

Nelle lunghe ore che seguirono, il ragazzo aveva avuto la possibilità di leggere ciò che restava di una vecchia lettera.

Brandelli di un passato che aveva sempre temuto. L’austera ombra del bambino che non era mai stato. Parole amare ed assurde, di cui – un tempo – sarebbe stato fiero.

Avrebbe pagato fior di galeoni per vedere la Mezzosangue così piegata alla sua regale persona. Ad uno dei suoi giochetti.

Un alito di vento che era stato in grado di piegare le fronde di un salice, preannunciando una tempesta che in realtà non si sarebbe scatenata.

Un potere di cui godere, ma che strideva con l’essere umano che era diventato.

Ne era disgustato.

Quella volta, però, non avrebbe ceduto alla tentazione di scappare, rifugiandosi nell’ombra dei suoi pensieri.

Gettò via quell’insulsa lettera insieme con ciò che restava di quel triste passato, abbandonando tutto in balia del fuoco che scoppiettava nervosamente nel camino del salone della riccia.

Avrebbe risposto tutto nel dimenticatoio ed avrebbe ricominciato dall’inizio.

 

Come un raggio di sole che si fa largo tra la fitta coltre di nuvole cineree, qualcosa all’interno dell’uomo si smosse.

Per un attimo, il mondo sembrava essersi fermato. Lo aveva agguantato con forza e costretto d seguire il senso in cui aveva ripreso a girare. Quello opposto.

 

 “Sposami!” – le aveva detto un giorno, accogliendo il volto di Hermione tra le sue mani, sorprendendo la strega quanto se stesso per il tono di voce che aveva usato per avanzare la proposta.

 

Sicuro. Deciso.

 

Non era un ordine, né una richiesta.

 

No, non aveva più bisogno di sicurezze, colonne cui aggrapparsi con forza.

La più grande delle certezze aveva fatto breccia nel fitto manto del dubbio, portandolo alla più ovvia delle conclusioni: avere Hermione al suo fianco.

 

Per sempre.

 

La ragazza accettò e pochi giorni dopo si unirono in matrimonio.

Nessuna cerimonia fastosa e nessun invitato. Solo loro.

Ah…e la Donnola!

Tuttavia, a Draco andava bene.

 

Da allora, il giorno del loro anniversario era diventato una sorta di rito, ormai.

Draco ed Hermione s’incontravano nello stesso luogo in cui si erano visti per la prima volta.

Lì, dove il mondo li aveva colti di Sorpresa.

Non c’era un motivo in particolare per cui lo facevano. Semplicemente era il loro modi di strappare un sorriso alla quotidianità.

 

Insieme avevano voltato pagina, riscrivendo il finale di quella storia che si era protratta fin troppo a lungo e frutto di quel sogno era stata proprio la piccola Andrea.

Una bimba dolce e dalle guanciotte paffute, giunta quando meno se lo aspettassero: al momento giusto.

Andrea era quel piacevole inconveniente all’interno di un racconto che rende la vicenda ancora più magica ed avvincente.

 

Anche per questo, entrambi dovevano molto agli inconvenienti che riservava il Caso.

 

Avevano imparato ad assaporare ogni irruzione del Destino e a cogliere all’istante ogni attimo, per goderne appieno, perché dietro ogni sussurro, sorriso o sospiro si nasconde sempre qualcosa di più profondo.

 

Il più bello dei segreti. Dietro le piccole e semplici cose si cela il mistero della Vita.

 

Un’avventura da vivere giorno per giorno, senza tirarsi mai indietro.

 

Una sfida in cui Draco ed Hermione si erano imbattuti fin dall’inizio della loro storia, anche se, allora, si trattò solo un soffio. Un sussurro che si disperse nella folata di vento che accompagnò – guidò – i loro sguardi che si incrociavano per la prima volta nella radura di Hogwarts: presente, ma troppo fugace per essere colto in un istante.

 

Un lieve sospiro che portava con sé una tacita promessa: una vita da vivere insieme.

Per sempre.

 

 

 

Fine

 

 

 

«Quando il battito del cuore supera le ombre del passato, l’amore potrà trionfare sul Destino

Nicholas Sparks – Un Segreto Nel Cuore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cantuccio dell’autrice Autrice:

E la fine giunse anche per Serendipity!

Sì, questa è la mia storia.

Sentita in ogni dettaglio. Vera fino all’inverosimile. Specchio del mio attuale stato d’animo.

Come è successo a me, auguro anche a voi di trovare quello che cercate.

 

Ma adesso, bando alla chiacchiere. E’ l’ora dei ringraziamenti.

Non mi dilungo per i singoli commenti, dato il tempo che è passato, ma ringrazio tutti coloro che hanno recensito la storia.

Mi lasciate sempre senza parole. Site troppo gentili.

Faccio tesoro di ogni vostra parola.

 

Grazie.

 

Ringrazio ogni singola persona che ha avuto la SANTA pazienza di attendere la fine.

Spero di non aver deluso nessuno con questo finale.

 

Questa storia è nata come sfida.

Una telefonata con un’amica: “Prova a scrivere qualcosa di più introspettivo”.

Beh, l’ho fatto. O meglio, ci ho provato.

 

Serendipity presenta dei messaggi precisi.

Gli sbalzi temporali, lo smarrimento di Hermione, la confusione di Draco, il senso d’amicizia di Ron, la dolcezza di Hermione e la goffaggine di Ninfadora.

Se sono stata capace di trasmettervi minimamente un po’ di questi sentimenti, beh mi ritengo più che soddisfatta.

 

Un grazie particolare, quindi, va proprio a colei che mi ha lanciato questa sfida.

A Christine.

Il mio alterego.

 

Alla mia dolce metà.

Quella che sono oggi, lo devo a lui.

Anche se non leggerà mai questa storia.

 

Alle amiche di una vita, perché le amo con tutto il cuore.

A Ivana, la Mia Twin.

Eleonora, la mia piccola Sis.

Al mio Mircobo, Ste. Perché è una sorella maggiore.

A Cecilia, perché mi manca tanto.

A Morena, tutta zucchero e melassa.

A Babi, perché questa storia è sua.

A Vale, la Genia, perché mi ha sostenuta fin dall’inizio.

 

Infine, ad Andrea, per cui è nato tutto questo.

Avrà sempre un posto speciale nel mio cuore.

Sempre.

 

Grazie mille a tutte le persone che continuano a leggere e commentare Fatal Sin

ed •{A m a m i.

Non potete immaginare quanto mi facciano piacere.

Sono due storie abbastanza importanti.

 

Credo di essermi dilungata fin troppo con le parole. Sono troppo verbosa, mea culpa.

Vi lascio.

Me ne torno a studiare statistica per l’esame di martedì. Pensatemi.

 

Arrivederci.

Alla prossima storia.

Perché un’altra storia ci sarà.

 

E’ sempre un onore scrivere per voi.

 

Un abbraccio,

Ilaria.

 

 

 

 

   
 
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