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Autore: Furbymemi1D    04/11/2017    0 recensioni
Basta un istante per sconvolgere un'esistenza.
A cambiare quella di Louis, diciassette anni, è stato l'incidente in cui è morto un suo caro amico. E lui ha visto addensarsi di nuovo le ombre scure che lo perseguitano da quando è bambino. Guardato con sospetto dalla polizia e da chi lo ritiene responsabile della morte dell'amico, Lou- così lo chiamano tutti - è costretto a entrare in un istituto correzionale. Nessun contatto con il mondobesterno, telecamere di sorveglianza, ragazzi e ragazze dal passato oscuro e disturbato sono tutto ciò che trova alla scuola Sword & Cross.
E poi appare Harry. Il cuore di Lou gli dice di averlo già incontrato, ma
nella sua mente si accendono solo rari lampi di ricordi troppo brevi per essere veri. Soltanto quando rischia di perderlo, Harry decide di uscire allo scoperto: i loro cuori si conoscono da sempre, da tutte le vite che Lou nonbricorda ancora di aver vissuto.
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Questa storia non è mia. Tutti i diritti vanno a Lauren Kate, l'autrice di questa magnifica saga.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Louis irruppe nell'atrio illuminato al neon della Sword & Cross School

dieci minuti più tardi del dovuto. Un custode dall'ampio torace, guance rosse

e un blocco per appunti stretto sotto un bicipite di ferro stava impartendo

ordini, quindi Louis era già rimasto indietro.

«Allora ricordate: pillole, letti e spie» abbaiò il custode a tre studenti di

cui Louis non riusciva a vedere il viso, perché gli davano le spalle.

«Ricordatevi le regole di base, e nessuno si farà male.»

Louis si infilò rapido nel gruppetto. Stava ancora cercando di capire se

aveva compilato nel modo giusto la gigantesca pila di documenti, se quella

guida dalla testa rasata era un uomo o una donna, se qualcuno poteva aiutarlo

a portare l'enorme sacca da viaggio, se i suoi genitori, dopo averlo mollato lì,

si sarebbero disfatti della sua amata Plymouth Fury non appena tornati a

casa. Avevano minacciato di vendere la macchina per tutta l'estate, e ora

avevano un motivo che nemmeno Louis poteva contestare: nella nuova scuola

nessuno poteva tenere un'auto. Nel nuovo istituto correzionale, per

l'esattezza.

Doveva ancora abituarsi a quella formula.

«Potrebbe, ehm, potrebbe ripetere?» domandò al custode. «Cos'era,

pillole...?»

«Guarda un po' cosa ci porta il vento» ribatté la guida a voce alta. Poi

proseguì, scandendo piano: «Pillole. Se sei uno studente in terapia, qui è

dove venire a prendere quello che ti serve per drogarti, restare sano di

mente, respirare o quant'altro.»

Donna, si disse Louis, studiandola. Nessun uomo sarebbe stato tanto

malizioso da usare un tono così dolciastro.

«Capito.» A Louis venne la nausea. «Pillole.»

Non era più sotto farmaci da anni. Dopo l'incidente di quell'estate il dottor

Sanford - il suo analista a Hopkinton, nonché il motivo per cui i suoi genitori

l'avevano spedito a scuola nel New Hampshire - aveva preso in

considerazione di sottoporlo nuovamente alla terapia farmacologica.

Nonostante alla fine lui l'avesse convinto di essere quasi stabile, c'era voluto

un mese in più di analisi per liberarsi di quegli orrendi psicofarmaci.

Ed ecco perché si era iscritto alla Sword & Cross con un mese di ritardo

rispetto all'inizio dell'anno accademico. Essere quello nuovo era già

abbastanza brutto, ma questa volta c'era stata anche l'ansia di piombare nel

bel mezzo di corsi in cui tutti gli altri si erano già ambientati. A giudicare

dalla visita guidata della scuola, però, Louis non doveva essere l'unico appena

arrivato.

Scoccò un'occhiata furtiva agli altri tre, in semicerchio attorno a lui.

Nell'ultima scuola, Dover Prep, aveva conosciuto così la sua migliore amica,

Pez. Tutti gli altri studenti in pratica erano cresciuti insieme, e a loro era

bastato essere gli unici a non avere genitori o fratelli che avessero studiato

lì. Ma poco dopo avevano scoperto di condividere la stessa passione per gli

stessi vecchi film, soprattutto quelli con Albert Finney. Quando poi, sempre

durante il primo anno (mentre guardavano Due per la strada), avevano

scoperto che nessuna dei due riusciva a preparare i popcorn senza far

scattare l'allarme antincendio, Pez e Louis erano diventati inseparabili.

Finché... finché non erano stati costretti a dividersi.

Accanto a Louis quel giorno c'erano due ragazzi e una ragazza. La ragazza

sembrava facile da inquadrare: bionda e carina come in una pubblicità della

Neutrogena, con unghie rosa pastello in tinta con la cartellina di plastica.

«Mi chiamo Taylor» disse strascicando le parole, abbagliandolo con un

gran sorriso che svanì con la stessa rapidità con cui era apparso, prima

ancora che Louis potesse presentarsi. Più che la ragazza tipo che si aspettava

di trovare alla Sword & Cross, quell'interesse passeggero gli sembrò una

versione del Sud delle ragazze di Dover. Louis non sapeva dire se fosse

consolante o no, e nemmeno riuscì a immaginare che cosa ci facesse in un

correzionale una ragazza del genere.

Alla destra di Louis c'era un ragazzo con i capelli corti castani, occhi

marroni e una spruzzata di lentiggini sul naso. Dal modo in cui evitava di

guardarlo, limitandosi a tormentarsi una pellicina del pollice, Louis capì che

probabilmente era stordito e imbarazzato quanto lui.

Il ragazzo alla sua sinistra, invece, combaciava fin troppo bene con l'idea

che Louis si era fatto di quel posto. Era alto e magro, con una borsa da DJ

appesa alla spalla, capelli neri arruffati e occhi color miele, grandi ma affusolati.

Aveva le labbra sottili ma al contempo piene, di un rosa per cui molte ragazze avrebbero dato

qualsiasi cosa. Dal bordo della maglietta nera, sulla nuca, spuntava il

tatuaggio di un sole che sulla pelle chiara pareva quasi risplendere.

A differenza degli altri due, quando si voltò a guardarlo, il ragazzo non

distolse gli occhi. Il sorriso era forzato, ma lo sguardo era caldo e vivace. Lo

fissò, immobile come una statua, e anche Louis si sentì inchiodato al suolo.

Trattenne il respiro. Quegli occhi erano intensi, seducenti e be', disarmanti.

Schiarendosi rumorosamente la gola, la custode strappò il ragazzo al suo

sguardo trasognato. Louis arrossì e finse di essere molto occupato a grattarsi

la testa.

«Quelli di voi che sanno già tutto sono liberi di andare dopo aver buttato

via gli oggetti vietati.» La custode indicò una grossa scatola di cartone sotto

un cartello che diceva a grandi lettere nere OGGETTI PROIBITI. «E

quando dico liberi, Liam» calò una mano sulla spalla del ragazzo con le

lentiggini, facendolo sussultare «intendo obbligati a incontrare le vostre

guide.» Puntò il dito contro Louis. «Tu, via la roba vietata e rimani con me.»

I quattro si avvicinarono alla scatola e Louis vide, sconcertato, che i

ragazzi cominciavano a svuotarsi le tasche. La ragazza estrasse un coltellino

svizzero rosa da dieci centimetri. Il tipo dagli occhi verdi si separò con una

certa riluttanza da una bomboletta di vernice spray e un taglierino. Perfino il

povero Liam lasciò cadere nello scatolone parecchie confezioni di

fiammiferi e una piccola bomboletta di gas per accendini. Louis si sentì quasi

stupido a non avere niente di pericoloso con sé, ma quando vide gli altri

frugare nelle tasche e buttare i cellulari nella scatola, rimase a bocca aperta.

Chinandosi in avanti per leggere più da vicino la scritta OGGETTI

PROIBITI, notò che cellulari, cercapersone e ogni altro apparecchio di

trasmissione e ricezione erano severamente proibiti. Come se non fosse già

abbastanza brutto non avere un'auto! Louis strinse con la mano sudata il

telefono che teneva in tasca, il suo unico collegamento con il mondo esterno.

La custode colse il suo sguardo, e lo schiaffeggiò leggermente sulla guancia.

«Non svenirmi addosso, piccolo, non mi pagano abbastanza per resuscitarti.

E poi, ti spetta una telefonata alla settimana nell'atrio principale.» Una

telefonata... alla settimana? Ma... Guardò il cellulare un'ultima volta e si

accorse che gli erano arrivati due messaggi. Sembrava impossibile che

fossero gli ultimi. Il primo era di Pez.

“Chiama subito! Ti aspetto vicino al tel tutta la notte quindi preparati a

vuotare il sacco. E ricorda il mantra che ti ho dato: Ce la farai! Cmq, per

quello che importa, mi sa che tutti si sono dimenticati...”

Tipico di Pez: il messaggio era così lungo che quello schifo di telefono

aveva tagliato le ultime righe. In un certo senso, Louis ne fu quasi sollevato.

Non voleva leggere che tutti alla sua vecchia scuola avevano già dimenticato

ciò che gli era successo, ciò che aveva fatto per approdare in quel posto.

Sospirò e passò al secondo sms. Era di sua madre, che aveva la mania dei

messaggi solo da poche settimane, e di sicuro non era al corrente della

telefonata settimanale, o non avrebbe mai abbandonato suo figlio lì. Giusto?

“Caro, ti pensiamo sempre. Fai il bravo e cerca di mangiare abbastanza

proteine. Parleremo appena possibile.

Baci, mamma e papà”

Louis sospirò. I suoi genitori lo sapevano. Come spiegare altrimenti le loro

facce tese quando li aveva salutati fuori da scuola quella mattina, sacca da

viaggio in mano? A colazione, aveva cercato di scherzare sul fatto che

avrebbe finalmente perso quel tremendo accento del New England che aveva

preso alla Dover, ma i suoi non gli avevano rivolto nemmeno l'accenno di un

sorriso. Louis aveva pensato che fossero ancora arrabbiati. Non strillavano

mai, e quando lui perdeva il controllo si limitavano a rispondere con un

muro di silenzio. Ora capiva la ragione del loro comportamento: i suoi

stavano già soffrendo della perdita di contatti con il loro unico figlio.

«Manca ancora qualcuno...» cantilenò la custode. «Chissà chi è.» Louis

riportò di scatto l'attenzione sulla scatola, ora piena fino all'orlo di oggetti

che non riusciva nemmeno a riconoscere. Sentiva su di sé gli occhi verdi del

ragazzo dai capelli scuri, ma poi si accorse che lo stavano fissando tutti.

Toccava a lui. Chiuse gli occhi e aprì lentamente la mano: il cellulare cadde

sul mucchio con un tonfo triste. Il rumore della solitudine.

Liam e la bambola di plastica Taylor si avviarono verso la porta

riservando a Louis appena un'occhiata, ma il terzo ragazzo si voltò verso la

custode.

«Posso informarlo io» disse, indicando Louis con un cenno.

«Non fa parte degli accordi» rispose automaticamente la donna, come se

si fosse aspettata quello scambio di battute. «Sei uno nuovo, adesso: vuol

dire che hai le stesse restrizioni dei nuovi. Sei tornato al via. Se non ti piace,

avresti dovuto pensarci due volte prima di infrangere la tua promessa.»

Il ragazzo rimase immobile, inespressivo, mentre la custode spingeva

Louis - che si era irrigidito alla parola "promessa" - verso un atrio ingiallito.

«Muoversi» aggiunse, come se nulla fosse. «Letti.» Indicò la finestra

esposta a ovest di un edificio color cenere. Taylor e Liam iniziarono a

camminare strascicando i piedi in quella direzione, e il terzo ragazzo li seguì

lentamente, come se raggiungerli fosse l'ultima delle cose che aveva in

programma di fare.

Il dormitorio degli studenti era un edificio grigio imponente e squadrato,

con porte massicce che non lasciavano trapelare all'esterno alcun segno di

vita. C'era una grande targa di pietra in mezzo al prato: Louis l'aveva vista

sul sito web della scuola, e ricordava che sopra c'era scritto PAULINE

DORMITORY. Al pallido sole del mattino sembrava perfino più brutta di

quanto lo fosse nella piatta fotografia in bianco e nero.

La facciata era coperta di muffa nera, visibile perfino da quella distanza.

Tutte le finestre erano chiuse da file di spesse sbarre d'acciaio. Louis strizzò

gli occhi. Era filo spinato quello in cima al recinto che circondava l'edificio?

La custode consultò una tabella, sfogliando la pratica di Louis. «Stanza 63.

Metti la borsa nel mio ufficio insieme a quelle degli altri, per ora. Potrai

disfarla nel pomeriggio.»

Louis trascinò la sacca da viaggio rossa verso tre anonimi bauli neri, poi

d'istinto cercò il telefono dove in genere si appuntava le cose da ricordare.

Ma dopo aver frugato nella tasca vuota, sospirò e cercò di imparare a

memoria il numero della stanza.

Continuava a non capire perché non potesse semplicemente stare dai suoi;

la casa di Thunderbolt era a meno di mezz'ora dalla Sword & Cross. Era

stato così bello tornare a Savannah, dove, come diceva sempre sua madre,

perfino il vento soffiava pigro. I ritmi dolci e lenti della Georgia gli erano

molto più congeniali del New England.

La Sword & Cross non somigliava affatto a Savannah, però. Non

somigliava a niente, tranne che a un posto senza vita e senza colore dove era

stato mandato per decisione del tribunale. Aveva ascoltato di nascosto suo

padre parlare al telefono con il preside, annuendo in quel suo modo svanito

da professore di biologia, per poi dire: "Sì, sì, forse la cosa migliore per lui è

essere costantemente sorvegliato. No, no, non intendiamo interferire con il

vostro metodo."

Era chiaro che suo padre non sapeva come sarebbe stato sorvegliato il suo

unico figlio. Quel posto sembrava un carcere di massima sicurezza.

«E cosa diceva di quelle... come le ha chiamate? Spie?» chiese Louis alla

custode, già pronta a concludere il giro.

«Spie» ripetè l'altra, indicando con un cenno un piccolo dispositivo

appeso al soffitto: un obbiettivo con una lucina rossa intermittente.

All'inizio Lou non l'aveva notato, ma non appena lo vide, si accorse che ce

n'erano ovunque.

«Telecamere?»

«Molto bravo» rispose la custode, con la voce piena di condiscendenza.

«Ve le segnaliamo per avvertirvi. Vi tengono d'occhio sempre, dappertutto.

Quindi non andare fuori di testa... se ci riesci.»

Ogni volta che qualcuno gli parlava come se fosse uno psicopatico, Louis si

convinceva sempre un po' di più di esserlo davvero.

I ricordi l'avevano tormentato per tutta l'estate, in sogno e nei rari

momenti in cui i suoi genitori lo lasciavano solo. Era successo qualcosa in

quel bungalow, e tutti (lui compresa) morivano dalla voglia di sapere che

cosa. La polizia, il giudice, l'assistente sociale... tutti avevano cercato di

cavargli fuori la verità, ma Louis ne sapeva quanto loro. Lui e Trevor si erano

divertiti per tutta la sera, inseguendosi fino alla fila di casette in riva al lago,

lontani dagli altri invitati alla festa. Louis aveva cercato di spiegare che era

stata una delle più belle serate della sua vita, finché non si era trasformata

nella peggiore.

Aveva rivissuto quella serata ancora e ancora - la risata di Trevor nelle

orecchie, le sue mani che gli cingevano la vita - cercando di conciliare i

ricordi con il fatto che il suo istinto gli diceva di essere innocente.

Ma ora, tutte le regole della Sword & Cross parevano andare contro quella

convinzione, sembravano suggerire che lui era davvero pericoloso e che

aveva davvero bisogno di essere tenuto sotto controllo.

Louis sentì una stretta salda sulla spalla.

«Ascolta» disse la custode. «Se può farti sentire meglio, ci sono casi ben

peggiori, qui.»

Era il primo gesto di umanità che mostrava nei suoi confronti, e Louis era

Certo che fosse dettato da buone intenzioni. Ma... l'avevano mandato laggiù a

causa della morte sospetta del ragazzo di cui era innamorato e comunque

c'erano "casi ben peggiori"? Louis si chiese con che cosa avessero a che fare

di preciso alla Sword & Cross.

«Okay, fine dell'orientamento» disse la custode. «Ora devi cavartela da

solo. Ecco una mappa per trovare qualunque cosa ti serva.» Gli consegnò la

fotocopia di una rozza cartina disegnata a mano, poi diede un'occhiata

all'orologio. «Manca ancora un'ora alla tua prima lezione, ma ho già

abbastanza gatte da pelare, quindi» agitò la mano «sparisci. E non

dimenticare» aggiunse, indicando le telecamere un'ultima volta, «le spie ti

tengono d'occhio.»

Prima che Louis potesse ribattere, comparve una ragazza magra e bruna,

che le agitò le lunghe dita davanti al viso.

«Ooooooh» cantilenò cupa, danzando in cerchio intorno a Louis. «Le spie

ti tengono d'ooooocchio!»

«Vattene, Danielle, o ti faccio lobotomizzare» replicò la custode,

lasciandosi però sfuggire un sorriso fugace ma sincero, dal quale si capiva

che per quella ragazza nutriva una sorta di ruvido affetto.

E si capiva anche che Danielle non lo ricambiava. Le fece un gesto osceno,

poi fissò Louis con aria di sfida.

«E con questo» ribatté la custode, scribacchiando furiosa sul suo taccuino,

«ti sei appena guadagnata il compito di portare a spasso Mr Sorriso oggi.»

Indicò Louis che, vestita di nero da capo a piedi, tutto sembrava tranne che

sorridente. Nella sezione "Norme per l'abbigliamento" il sito della scuola

assicurava che, fino a quando si fossero comportati bene, gli studenti erano

liberi di vestirsi come volevano, con solo due piccole limitazioni: stile

sobrio e colore nero. E la chiamavano libertà...

La maglia a lupetto troppo grande che sua madre gli aveva imposto quella

mattina gli copriva addirittura le mani, e perfino la sua cosa più bella era

scomparsa: i scompigliati capelli castani, di solito lunghi fino alle spalle, erano stati

rasati. L'incendio della casetta gli aveva bruciacchiato i capelli fino alla

radice in alcuni punti, e dopo il lungo, silenzioso viaggio di ritorno a casa da

Dover, sua madre l'aveva messo nella vasca da bagno, aveva preso il rasoio

elettrico del marito e l'aveva rasato senza dire una parola. Durante l'estate i

capelli gli erano ricresciuti un po', ma quelle che una volta erano onde

lucenti spuntavano ora in bizzarri ciuffetti appena sotto le orecchie.

Danielle lo esaminò, tamburellandosi con un dito le labbra pallide.

«Perfetto» disse, prendendo Louis sottobraccio. «Avevo proprio bisogno di

uno schiavo nuovo.»

La porta dell'atrio si aprì, ed entrò il ragazzo dagli occhi verdi. Scosse il

capo e disse a Louis: «Qui non si fanno problemi a perquisirti. Quindi, se hai

altra roba» alzò un sopracciglio e buttò una manciata di oggetti disparati

nella scatola, «risparmiati il fastidio.»

Alle spalle di Louis, Danielle ridacchiò. Il ragazzo alzò la testa di scatto, e

quando vide Danielle aprì la bocca, ma poi la richiuse, incerto.

«Danielle» disse in tono neutro.

«Zayn» replicò lei.

«Lo conosci?» sussurrò Louis, chiedendosi se anche negli istituti

correzionali si formassero lo stesso tipo di gruppetti che c'erano nelle prep

school come Dover.

«Non ricordarmelo» rispose Danielle trascinando Louis nel mattino grigio e

nebbioso.

Sul retro, l'edificio principale dava su un marciapiede malmesso che

costeggiava un campo incolto. L'erba era così alta da farlo sembrare più un

terreno in vendita che uno spazio comune, ma un tabellone sbiadito e una

serie di tribune di legno lasciavano intendere il contrario.

Oltre il prato c'erano quattro edifici dall'aria severa: il palazzo color

cenere del dormitorio all'estrema sinistra, un'enorme, brutta chiesa

all'estrema destra e nel mezzo due costruzioni massicce che, si disse Louis,

dovevano essere le aule.

Ecco tutto. Il suo mondo era ridotto a quel triste panorama.

Danielle svoltò subito a destra e guidò Louis verso il campo, facendolo

sedere su uno degli spalti fradici.

A Dover nello spazio comune c'erano sempre studenti della Ivy League

alle prese con gli allenamenti, e Louis aveva sistematicamente evitato di

andarci. Ma quel campo vuoto, con i pali delle mete arrugginiti e deformati,

raccontava una storia molto diversa, che Louis faceva fatica a immaginare.

Tre avvoltoi collorosso scesero in picchiata, e un vento triste agitò i rami

nudi delle querce. Louis rabbrividì e infilò il mento nel collo del lupetto.

«Allooooora» disse Danielle. «Hai conosciuto Randy.»

«Avevo capito che si chiamasse Zayn.»

«Non stiamo parlando di lui» ribatté Danielle, brusca. «Ma della cosa là

dentro.» Danielle indicò con un cenno l'ufficio dove avevano lasciato la

custode, davanti alla tivù. «Allora, maschio o femmina?»

«Ehm, femmina?» azzardò Louis. «È un test?»

Danielle sorrise. «Il primo di una lunga serie. E tu l'hai passato. Almeno

credo. Il sesso della maggior parte del corpo insegnante è materia di

dibattito in tutta la scuola. Non preoccuparti, entrerai anche tu nel giro.»

Louis pensò che Danielle stesse scherzando... il che era fantastico. Ma lì era

tutto così diverso dalla Dover. Nella sua vecchia scuola, i futuri senatori, con

le loro cravatte verdi e i capelli lisciati con il gel, in pratica scivolavano

lungo i corridoi in quel signorile silenzio con cui il denaro sembra

ammantare ogni cosa.

Molto spesso gli altri studenti di Dover gli scoccavano occhiate del tipo

"non toccare le pareti con quelle mani". Cercò di immaginare Danielle nella

sua vecchia scuola: a perdere tempo sugli spalti, facendo battute volgari con

la sua voce acuta. Cercò di immaginare che cosa avrebbe pensato Pez di

lei. Non c'era nessuno come Danielle alla Dover Prep.

«Okay, sputa il rospo» ordinò Danielle. Si lasciò cadere sul sedile più alto,

fece cenno a Louis di seguirlo e chiese: «Cos'hai fatto per finire qui?»

L'aveva detto in tono scherzoso, ma Louis d'improvviso sentì che doveva

sedersi. Era assurdo, ma aveva quasi sperato di superare il primo giorno di

scuola senza che il passato l'aggredisse, strappandogli via il suo fragile strato

di calma. Ovviamente, però, gli altri volevano sapere.

Sentiva il sangue pulsare nelle tempie. Succedeva ogni volta che provava

a ripensarci, a ripensare davvero a quella notte. Non aveva mai smesso di

sentirsi in colpa per quello che era successo a Trevor, ma aveva anche

cercato con tutte le forze di non farsi risucchiare dalle ombre, l'unica cosa

che per il momento ricordava dell'incidente. Quelle sagome oscure e

indefinibili di cui non avrebbe mai parlato con nessuno.

Aveva cominciato a raccontare a Trevor della strana presenza che sentiva,

delle ombre informi che incombevano su di loro, minacciando di rovinare la

loro serata perfetta. Ma ormai a quel punto era troppo tardi. Trevor era

morto, il suo corpo ustionato a tal punto da non essere più riconoscibile, e

Louis era... era... colpevole?

Nessuno sapeva delle sagome che vedeva a volte nelle tenebre. Venivano

sempre da lui. Andavano e venivano da così tanto tempo che Luce non

riusciva più a ricordarsi la prima volta in cui le aveva viste. Si ricordava

però di quando aveva capito che le ombre non venivano per tutti, ma solo per

lui.

Aveva sette anni, ed era andato in vacanza con i suoi a Hilton Head. Sua

madre e suo padre l'avevano portato a fare una gita in barca. Era quasi il

tramonto quando le ombre avevano cominciato a riversarsi sull'acqua; lui si

era voltato verso suo padre e aveva detto: "Cosa fai quando arrivano, papà?

Come fai a non aver paura dei mostri?"

Non c'era nessun mostro, le avevano assicurato i genitori, ma Louis aveva

continuato a insistere che sentiva una presenza oscura e indefinita,

guadagnandosi così diverse visite dall'oculista e un paio di occhiali, a cui si

aggiunsero alcuni appuntamenti dall'otorinolaringoiatra quando commise

l'errore di descrivere il roco sibilo che a volte producevano le ombre, e

infine la psicoterapia, ancora psicoterapia e gli psicofarmaci.

Ma niente era mai riuscito a scacciarle.

Quando compì quattordici anni, Louis si rifiutò di prendere le medicine. Fu

allora che trovarono il dottor Sanford, e anche la Dover School. Volarono nel

New Hampshire, e suo padre guidò l'auto a noleggio lungo una strada piena

di curve fino a Shady Hollows, una tenuta in cima a una collina. Louis si

ritrovò davanti a un uomo in camice da laboratorio e si sentì chiedere se

aveva ancora le sue "visioni". I suoi gli tenevano la mano: avevano i palmi

sudati, e le fronti corrucciate per la paura che il loro piccolo avesse qualcosa

che non andava.

Nessuno gli aveva spiegato che, se non diceva al dottor Sanford ciò che

tutti volevano sentire, avrebbe rivisto Shady Hollows ancora molte volte.

Mentì e si comportò normalmente; gli fu permesso di iscriversi alla Dover e

di vedere il dottor Sanford solo due volte al mese.

Louis ebbe il via libera a smettere di prendere quelle orribili pillole non

appena cominciò a fingere di non vedere più le ombre. Ma non aveva il

potere di non farle più apparire. Si limitò a evitare a tutti i costi i luoghi

dove in passato erano venute per lui: fitte foreste, acque oscure. Sapeva che

il loro arrivo era accompagnato da un freddo intenso sotto pelle, una

sensazione nauseante che non somigliava a nessun'altra.

Louis si mise a cavalcioni sugli spalti e si strinse le tempie con il pollice e

il medio. Se voleva uscire indenne da quel primo giorno doveva relegare il

passato nei recessi della sua mente. Lui per primo non sopportava di

scandagliare i ricordi di quella notte, e quindi per niente al mondo avrebbe

spifferato i particolari macabri a una sconosciuta stramba e fuori di testa.

Invece di rispondere si volse verso Danielle, che se ne stava stesa sulla

gradinata, con un enorme paio di occhiali scuri a coprirle buona parte del

viso. Louis non poteva esserne certo, ma pensò che anche Danielle doveva

averlo fissato, perché dopo un secondo si alzò di scatto e gli sorrise.

«Tagliami i capelli come i tuoi» disse.

«Cosa?» reagì Louis. «I tuoi capelli sono bellissimi!»

Era vero: Danielle aveva le ciocche lunghe e folte di cui Louis sentiva

disperatamente invidia. I suoi riccioli castani scintillavano al sole, appena

screziati di un colore più scuro. Louis si sistemò i capelli dietro le orecchie, anche se non

erano ancora abbastanza lunghi e ricadevano sempre davanti.

«E chi se ne frega» ribatté Louis. «I tuoi sono sexy, aggressivi. E li

voglio così anch'io.»

«Oh, ehm, okay» disse Louis. Era un complimento? Non sapeva se sentirsi

lusingato o irritato da come Danielle sembrava dare per scontato di poter

avere tutto ciò che voleva, anche se apparteneva a qualcun altro. «Dove

prendiamo...»

«Ta-da!» Danielle cercò nella borsa e tirò fuori il coltello svizzero rosa che

Taylor aveva buttato nella scatola degli Oggetti Proibiti. «Be'?» fece,

guardando Louis. «Io metto sempre le mani sugli scarti dei nuovi studenti. È

l'unica cosa che mi fa sopportare l'internamento... cioè... il campo estivo.»

«Tu hai passato tutta l'estate... qui?» disse Louis con un sussulto.

«Ah! Un vero novellino. Magari ti aspettavi anche qualche giorno di

vacanza in primavera.» Tirò a Louis il coltello svizzero. «Non ce ne andiamo

da questo inferno. Mai. Ora taglia.»

«E le spie?» domandò Louis guardandosi intorno con il coltello in mano.

Probabilmente c'erano telecamere anche lì fuori.

Danielle scosse il capo. «Mi rifiuto di essere amica di una mammoletta. Ce

la fai o no?»

Louis annuì.

«E non dirmi che non hai mai tagliato i capelli a nessuno prima d'ora.»

Danielle riprese il coltellino svizzero, estrasse le forbici e glielo porse di

nuovo. «E la prossima cosa che voglio sentirti dire è: "Stai benissimo".»

Dopo averlo fatto sedere nella vasca da bagno come se fosse il salone di

un parrucchiere, la madre di Louis aveva raccolto ciò che restava dei suoi

bei capelli in un codino disordinato, che poi aveva tagliato. Louis era certo

che dovesse esserci un metodo migliore, ma avendo sempre evitato di

tagliarsi i capelli conosceva solo il metodo della coda mozzata. Raccolse i

capelli di Danielle, li legò con un elastico di quelli che portava al polso,

impugnò con forza le forbici e cominciò.

La coda cadde ai suoi piedi. Danielle trattenne il fiato e si voltò di scatto.

La raccolse e la guardò contro sole. A Louis si strinse il cuore: soffriva

ancora al pensiero dei capelli perduti, e di tutte le altre perdite che essi

rappresentavano. Ma un lieve sorriso affiorò sulle labbra di Danielle. La

ragazza passò le dita nella coda, una volta sola, poi la mise in borsa.

«Pazzesco» disse. «Va' avanti.»

«Danielle» sussurrò Louis, prima di riuscire a trattenersi. «Hai il collo

tutto...»

«... pieno di cicatrici?» completò Danielle. «Puoi dirlo forte.»

La pelle del collo di Danielle, dall'orecchio sinistro fino alla clavicola, era

segnata, a chiazze, lucida. Louis ripensò a Trevor, e a quelle orribili

fotografie. Perfino i suoi genitori avevano evitato il suo sguardo dopo averle

viste. E adesso gli costava molta fatica guardare Danielle.

La ragazza prese la mano di Louis e se la premette sul collo. Era caldo e

freddo allo stesso tempo. Morbido e ruvido.

«Non mi fa paura» disse. «A te sì?»

«No» rispose Louis, anche se desiderava soltanto che Danielle togliesse la

mano per poter allontanare la sua. Era stata così, la pelle di Trevor? Il

pensiero bastò a fargli torcere lo stomaco.

«Hai paura di chi sei veramente, Louis?»

«No» rispose di nuovo lui, d'impulso. Doveva essere evidente che stava

mentendo. Chiuse gli occhi. Louis voleva solo poter ricominciare da capo,

voleva un posto dove la gente non lo guardasse come lo stava guardando

Danielle in quel momento. Ai cancelli della scuola quella mattina, quando

suo padre gli aveva sussurrato all'orecchio il motto della famiglia Tomlinson - "I

Tomlinson non crollano mai" - gli era sembrato possibile, ma adesso si sentiva

abbattuto, scoperto. Tolse la mano. «Com'è successo?» domandò, con lo

sguardo rivolto verso il basso.

«Quando ti sei chiuso a riccio sul perché ti trovi qui io non ti sono stato

addosso» rispose Danielle, aggrottando le sopracciglia.

Louis annuì.

Danielle indicò le forbici. «Aggiustali dietro, okay? Fammi bella. Fammi

uguale a te.»

Anche con lo stesso taglio Danielle somigliava comunque a una versione

denutrita di Louis. Mentre lui cercava di sistemare la prima acconciatura che

avesse mai fatto in vita sua, Danielle si immerse nelle complessità della vita

alla Sword & Cross.

«Quel palazzo laggiù è l'Augustine. È dove si tengono i cosiddetti Eventi

del mercoledì sera. E le lezioni.» Indicò una costruzione color denti

ingialliti, due edifici più a destra del dormitorio. Sembrava progettato dallo

stesso sadico che aveva costruito il Pauline. Era tetro e squadrato, una specie

di fortezza, protetto dallo stesso filo spinato e dalle stesse sbarre alle

finestre. Una nebbia grigia innaturale avvolgeva le mura come muschio: era

impossibile anche solo intuire se lì ci fosse qualcuno.

«Ti avverto» proseguì Danielle. «Odierai le lezioni. Non saresti umano

altrimenti.»

«Perché? Cos'hanno che non va?» domandò Louis. Forse Danielle non

amava la scuola in generale. Con le unghie smaltate di nero, la matita nera

sugli occhi e la borsa nera che sembrava grande abbastanza solo per il

coltellino svizzero, non aveva proprio l'aria della secchiona.

«Sono senz'anima» rispose Danielle. «Peggio, ti strappano via la tua. Degli

ottanta ragazzi che sono qui, direi che sono rimaste solo tre anime.» Alzò gli

occhi al cielo. «Ben nascoste, comunque...»

Non era una bella prospettiva. Ma fu qualcos'altro a colpire Louis.

«Aspetta, ci sono solo ottanta ragazzi in tutta la scuola?» L'estate prima di

andare a Dover, Louis aveva studiato il voluminoso manuale per i nuovi

iscritti, imparando a memoria le statistiche. Ma tutto quello che aveva

scoperto finora sulla Sword & Cross dimostrava che lui era arrivato del tutto

impreparato al primo incontro con l'istituto correzionale.

Danielle annuì, e Louis tagliò per errore una ciocca di troppo. Per fortuna

Danielle non se ne sarebbe accorta... o forse avrebbe pensato che faceva

tendenza.

«Otto classi, dieci ragazzi per classe. Vieni subito a sapere il peggio di

tutti» disse. «E viceversa.»

«Immagino» commentò Louis mordendosi il labbro. Danielle scherzava, ma

Louis si domandò se la sua nuova amica sarebbe rimasta lì seduta con quel

sorrisetto compiaciuto se avesse conosciuto il suo passato. Più a lungo lo

teneva nascosto, meglio era.

«E ti consiglio di stare alla larga dai casi gravi.»

«Casi gravi?»

«Quelli con il braccialetto elettronico» rispose Danielle. «Più o meno un

terzo degli studenti.»

«Sarebbero quelli che...»

«Non ti ci immischiare. Fidati.»

«Be', ma cosa fanno?»

Louis voleva tener segreto il suo passato, ma non gli piaceva che Danielle lo

trattasse come un sempliciotto. In fondo, quello che aveva fatto, almeno a

sentire che cosa raccontavano alla Dover, era senza dubbio peggio di

qualsiasi cosa potevano aver combinato i ragazzi della Sword & Cross. Ma

se non fosse stato così? Dopotutto, non sapeva quasi niente di quelle persone

e di quel posto. La possibilità che ci fossero studenti con un passato più

oscuro del suo gli smosse una paura fredda e grigia in fondo allo stomaco.

«Oh, le solite cose» cantilenò Danielle. «Istigazione e complicità in atti di

terrorismo. Genitori fatti a pezzi e cucinati allo spiedo.» Si voltò e gli strizzò

l'occhio.

«Piantala» ribatté Louis.

«Non sto scherzando. I fuori di testa vengono sottoposti a restrizioni più

severe di noi sfigati. Li chiamiamo gli ingabbiati.»

Louis scoppiò a ridere per il tono teatrale che aveva usato Danielle.

«Finito» disse, aggiustandole i capelli con le dita per dar loro più volume.

Le stavano davvero bene.

«Caro» ribatté Danielle. Si voltò verso Louis e quando si passò le dita fra i

capelli le maniche del pullover ricaddero mostrando per un attimo una fascia

nera con file di borchie argentate, e sull'altro polso un braccialetto dall'aria

più... meccanica. Danielle si accorse che Louis l'aveva visto e alzò le

sopracciglia con aria diabolica.

«Te l'avevo detto» sibilò. «Pazzi maledetti.» Sorrise. «Dai, finiamo il

giro.»

Louis non aveva molta scelta. Scese dagli spalti e seguì Danielle,

chinandosi quando uno degli avvoltoi collorosso si abbassò pericolosamente.

Danielle parve non accorgersene, e indicò una chiesa coperta da licheni sulla

destra del prato.

«Da quella parte, potete ammirare la nostra modernissima palestra» disse,

con voce impostata da guida turistica. «Certo, a un occhio distratto può

sembrare una chiesa. E infatti lo era. Qui alla Sword & Cross ci troviamo in

una specie di Inferno architettonico di seconda mano. Qualche anno fa uno

strizzacervelli malato di aerobica è venuto qui a pontificare su quanto i

giovani ipermedicalizzati rovinino la società. Ha donato alla scuola una

montagna di soldi perché trasformassero la chiesa in una palestra. Ora le

Potenze del cielo ritengono che possiamo risolvere le nostre "frustrazioni" in

un "modo più naturale e produttivo".»

Louis grugnì. Aveva sempre detestato fare ginnastica.

«Oh, mio compagno di sventura» lo compatì Danielle. «Diante, l'insegnante

di educazione fisica, è il Male.»

Louis si mise a correre per tenere il passo di Danielle, e intanto si diede

un'occhiata intorno. A Dover il parco era tenuto in modo splendido, ben

curato e con gli alberi potati alla perfezione. Quello della Sword & Cross

sembrava una palude. C'erano salici piangenti con rami lunghi fino a terra,

tutti aggrovigliati, il kudzu cresceva sulle mura, e ogni tre passi si finiva in

una pozzanghera.

E non era solo quello che si vedeva. L'umidità si attaccava ai polmoni a

ogni respiro. Alla Sword & Cross respirare era come affondare nelle sabbie

mobili.

«Pare che gli architetti non siano riusciti a mettersi d'accordo mentre

discutevano su come attualizzare lo stile delle vecchie accademie militari. Il

risultato è una scuola a metà tra un penitenziario e una sala delle torture

medioevale. E senza giardiniere.» Danielle scrollò un po' di melma dagli

anfibi. «Disgustoso. Ah, ecco il cimitero.»

Louis guardò nella direzione che Danielle gli indicava, verso l'estrema

sinistra del parco, subito dopo il dormitorio. Un manto di nebbia ancora più

spesso incombeva su una zona cintata da mura. Era circondata su tre lati da

un fitto bosco di querce. Non si riusciva a vedere oltre perché il cimitero

sembrava quasi sprofondare nel terreno, ma c'era puzza di marcio e si

sentivano le cicale frinire fra gli alberi. Per un attimo Louis credette di

vedere il guizzo oscuro delle ombre... ma quando batté le palpebre, erano già

scomparse.

«Quello è un cimitero?»

«Già. Ai tempi della Guerra Civile questa era un'accademia militare, e là

seppellivano i morti. Fa davvero venire i brividi. E Osannai» continuò

Danielle, calcando in modo esagerato un finto accento del sud. «La puzza

arriva fino all'alto dei Cieli.» Le strizzò l'occhio. «Ci passiamo un sacco di

tempo da quelle parti.»

Louis la guardò per capire se stava scherzando. Danielle si limitò a

scrollare le spalle.

«Okay, è successo un'unica volta. E solo dopo un festino a base di

pasticche.»

Festini a base di pasticche... anche Louis poteva dire di averne visti un

paio.

«Ah! » Danielle scoppiò a ridere. «Ho visto una luce! Allora c'è qualcuno

in casa. Be', mio caro, sarai anche andato alle superfeste del liceo, ma non

hai mai visto quelle dei ragazzi di un correzionale.»

«Che differenza c'è?» domandò Louis sorvolando sul fatto che a Dover non

era mai stato a una "superfesta".

«Vedrai.» Danielle tacque e si voltò verso Louis. «Verrai da me stasera,

vero? Verrai a trovarmi?» A sorpresa, prese la mano di Louis. «Promesso?»

«Ma non mi avevi detto di stare lontana dai casi gravi?» scherzò lui.

«Regola numero due: non starmi a sentire!» Danielle scoppiò a ridere

scuotendo la testa. «Sono una pazza patentata!»

Ricominciò a correre, con Louis alle calcagna.

«Aspetta, ma qual era la regola numero uno?»

«Tieni il passo!»

Girato l'angolo dell'edificio color cenere, Danielle si fermò. «Sangue

freddo» disse.

«Sangue freddo» ripetè Louis.

Tutti gli studenti erano assiepati attorno agli alberi divorati dal kudzu

fuori dal padiglione Augustine. Nessuno pareva proprio felice di star lì fuori,

ma allo stesso tempo nessuno sembrava pronto a entrare.

A Dover non c'era un codice d'abbigliamento, quindi Louis non era

abituato all'effetto uniforme. Eppure, sebbene tutti i ragazzi indossassero gli

stessi jeans neri, lupetto nero e maglione nero sulle spalle o legato in vita,

ognuno li indossava in modo diverso.

Un gruppetto di ragazze tatuate stavano in circolo a braccia conserte.

Avevano braccialetti fino al gomito e bandane nere che a Louis ricordarono

un film su una banda di motocicliste che aveva visto una volta. L'aveva

affittato perché si era chiesto: cosa c'è di meglio di una banda di

motocicliste? Una delle ragazze la fissò a sua volta, e lo sguardo che gli

scoccò con gli occhi da gatto truccati di nero bastò a Louis per distogliere

subito il suo.

Un ragazzo e una ragazza che si tenevano per mano avevano un teschio di

paillettes con le ossa incrociate cucito sui maglioni neri. A ogni momento

uno dei due attirava a sé l'altro per baciarlo sulla tempia, sull'orecchio,

sull'occhio. Quando si abbracciarono Louis vide che avevano tutti e due al

polso il braccialetto elettronico di sorveglianza. Avevano l'aria un po' rozza,

ma era evidente che si amavano molto. Ogni volta che vedeva scintillare i

piercing alla lingua, Louis si sentiva stringere il cuore di solitudine.

Dietro gli innamorati, c'era un gruppo di ragazzi biondi, appoggiati contro

il muro. Nonostante il caldo, indossavano tutti il pullover, con sotto candide

camicie oxford con il colletto alzato. I pantaloni neri cadevano

perfettamente sulle scarpe lucide. Di tutti gli studenti erano quelli che più

somigliavano ai suoi ex compagni di Dover, ma a uno sguardo più attento si

capiva che erano molto diversi dai ragazzi che lui aveva conosciuto, i

ragazzi come Trevor.

Solo per il fatto di essere in gruppo, trasmettevano una sorta di durezza,

che si rifletteva nel loro sguardo. Era difficile da spiegare, ma d'un tratto

Louis si rese conto che in quella scuola tutti avevano un passato, proprio

come lui. Tutti avevano segreti che non volevano condividere. Non riusciva

a capire, però, se questa consapevolezza lo faceva sentire più o meno isolato.

Danielle si accorse che Louis stava osservando gli altri ragazzi.

«Facciamo tutti quello che possiamo per arrivare alla fine della giornata»

disse scrollando le spalle. «Ma in caso non ti fossi accorta degli avvoltoi che

volano in circolo, questo posto puzza di morte.» Si sedette su una panchina

sotto un salice e batté con la mano accanto a sé per invitare Louis a fare

altrettanto.

Louis spazzò dalla panchina una manciata di foglie umide e marce, e si

sedette. Fu allora che notò un'altra violazione al codice dell'abbigliamento.

Una violazione molto attraente.

Portava una sciarpa verde scuro. Fuori non faceva affatto freddo, eppure

indossava un giubbotto nero di pelle da motociclista sul pullover nero. Forse

era perché la sua era l'unica macchia di colore in tutto il parco, ma Louis non

riusciva a distogliere lo sguardo. Al confronto tutto il resto impallidiva

talmente che per un lungo istante Louis dimenticò dove si trovava.

Contemplò i suoi capelli color castano intenso e l'abbronzatura leggera; gli zigomi

alti, gli occhiali neri, le labbra morbide. In tutti i film che Louis aveva visto,

in tutti i libri che aveva letto l'oggetto dell'amore era di una bellezza

sconvolgente... tranne che per un piccolo difetto. Il dente spezzato, i capelli

ribelli, una voglia sul collo. Lui sapeva il perché: se l'eroe

è troppo perfetto, rischia di essere inavvicinabile. Avvicinabile o meno, Louis

aveva sempre avuto un debole per il sublime. E il ragazzo davanti a lui lo era

al cento per cento.

Si appoggiò contro il muro, a braccia incrociate. E per un istante Louis

ebbe la visione di se stesso avvolto da quelle braccia. Scosse la testa, ma la

visione rimase così chiara che per poco non si alzò per raggiungerlo.

No. Era assurdo. Era un impulso folle perfino in una scuola di matti, si

disse Louis. E poi, non lo conosceva nemmeno.

Stava parlando con un ragazzo più basso con i dread e un sorriso a

trentadue denti. Ridevano tutti e due tanto forte e di gusto che Louis provò

una strana gelosia. Cercò di ricordarsi da quanto tempo non rideva così, da

quanto tempo non rideva davvero.

«Quello è Harry Styles» disse Danielle chinandosi verso di lui, come se

gli avesse letto nel pensiero. «Mi sa che ha attirato l'attenzione di

qualcuno...»

«"Attirato l'attenzione" è dire poco» convenne Louis, pensando con

imbarazzo alla figura che doveva avere appena fatto con Danielle.

«Be', se ti piace il genere.»

«E come potrebbe non piacere?» ribatté Louis, senza riuscire a trattenersi.

«Il suo amico si chiama Nick» continuò Arriane, indicando con un

cenno il ragazzo con i dread. «È forte. È uno di quelli che sa procurarsi le

cose, mi spiego?»

Mica tanto, pensò Louis mordendosi il labbro. «Cose di che tipo?»

Danielle scrollò le spalle, e tagliò via un filo che pendeva da uno strappo

nei jeans con il coltellino svizzero. «Cose e basta. Del tipo chiedi-e-ti-sarà-

dato.»

«Ed Harry?» domandò Louis. «Come è finito qui?»

«Oh, sei uno che non molla, eh?» Danielle scoppiò a ridere, poi si schiarì la

voce. «Nessuno la sa. Harry coltiva alla perfezione la sua immagine di

uomo del mistero. Potrebbe essere il tipico stronzo da correzionale.»

«Ne so qualcosa di stronzi» ribatté Louis, ma si pentì subito di averlo

detto. Dopo quello che era capitato a Trevor - qualunque cosa fosse - lui era

l'ultima a poter giudicare. Ma soprattutto, le rare volte in cui aveva anche

solo accennato a quella notte, la coltre cangiante delle ombre era tornata da

lui quasi come se fosse ancora in riva al lago.

Guardò di nuovo Harry. Lui si tolse gli occhiali e li infilò nel giubbotto,

poi si voltò verso di lui.

I loro sguardi si incrociarono. Louis lo vide spalancare gli occhi e poi

socchiuderli, come se fosse sorpreso. Ma no, era qualcosa di più della

semplice sorpresa. Quando gli occhi di Harry catturarono i suoi, Louis

rimase senza fiato. Era sicuro di averlo già visto da qualche parte, anche se

non sapeva dire dove.

Eppure, era impossibile. Era impossibile che si fosse dimenticato di aver

conosciuto un ragazzo così. Era impossibile che si fosse dimenticato di

essersi sentito tanto scosso quanto lo era adesso.

Harry gli sorrise, e solo allora Louis si rese conto che non avevano mai

smesso di guardarsi. Un fiotto di calore lo attraversò e dovette

aggrapparsi alla panchina per sostenersi. Sentì le sue labbra scattare a loro

volta in un sorriso, ma poi Harry alzò una mano.

E gli mostrò il medio.

Louis rimase senza fiato e abbassò lo sguardo.

«Che c'è?» chiese Danielle, che evidentemente non si era accorta di niente.

«Non importa, non c'è tempo. Ecco la campanella.»

La campanella suonò come al suo comando, e tutti gli studenti si

avviarono lenti verso l'edificio. Danielle lo trascinò per un braccio senza

smettere di dargli indicazioni su dove incontrarsi, e quando. Ma Louis era

ancora sotto shock per essere stato mandato a farsi fottere da un perfetto

sconosciuto. Il suo delirio momentaneo su Harry era svanito e l'unica cosa

che voleva sapere era: che problemi aveva quel tizio?

Appena prima di immergersi nella sua prima lezione trovò il coraggio di

voltarsi. Il viso di Harry non tradiva alcuna espressione, ma non c'erano

dubbi: lo stava seguendo con lo sguardo.

   
 
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