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Autore: Estethell    20/11/2017    3 recensioni
Grazie a una promozione, il soldato nazista (non per scelta) Ludwig viene inviato nel campo di concentramento prussiano come co-amministratore di suo fratello, il feroce Gilbert.
Contemporaneamente nel campo arrivano dei prigionieri che vengono subito smistati nei vari blocchi dormitorio-fabbrica. Il blocco H3T4-L14, sopranominato hetalia, è amministrato direttamente da Gilbert ed è il luogo peggiore di tutto il campo. In poco tempo vi si ritroveranno prigionieri di vari paesi, tra cui un dissidente politico e filo-russo lituano, un polacco che aiutava gli ebrei a fuggire dai rastrellamenti tedeschi, un ex soldato volontario francese, una spia canadese e un partigiano italiano.
Ludwig cercherà in ogni modo di aiutare i poveri malcapitati del blocco H3T4-L14 a sfuggire dalla violenza del fratello, sviluppando sentimenti nuovi e complessi per il dolce e ingenuo italiano, mentre Gilbert scoprirà grazie a un timido canadese che l'amore vince su ogni cosa, anche sulla violenza.
Principalmente Gerita e Prucan, Fruk sullo sfondo, qualche accenno di Rusliet.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Era una fredda e uggiosa mattina di gennaio.
Nel campo di concentramento prussiano si era depositata al suolo così tanta neve da potervici affondare interamente un piede fino alla caviglia.
Roderich camminava a passo svelto nel corridoio freddo e umido nell’edificio del personale del campo. Il suo umore era pessimo ed era tale da molti giorni ormai: i rifornimenti tardavano ad arrivare bloccati dalla neve, dalla guerra e da chissà quale altra scusa, e le scorte del suo amatissimo surrogato di caffè, chiamato comunemente orzo, erano esaurite già molto tempo prima di Natale.

Roderich non viveva senza il suo orzo. Certo, preferiva di gran lunga il vero caffè, quello che veniva importato dall’America e che aveva un aroma unico, ma la guerra aveva bloccato ogni tipo di commercio con il Nuovo Mondo costringendo gli appassionati come lui ad accontentarsi di questo nuovo composto creato dalla Germania stessa.
Solo che adesso era finito e non aveva a disposizione altro da molto, troppo tempo.
L’umore del nobile austriaco peggiorava incredibilmente quando non assumeva regolarmente la sua bevanda preferita, rendendolo molto irascibile e nevrotico, davvero intrattabile per chiunque.

Quella mattina era particolarmente ingestibile anche per un altro motivo.
Nel trasferirsi nel campo di concentramento, Gilbert aveva chiesto e ottenuto il permesso di portare con sé il suo amatissimo canarino, un pennuto grasso e dal carattere difficile, che cantava perennemente a squarciagola e beccava chiunque si avvicinasse alla sua gabbietta che non fosse il suo padrone, lasciando grossi segni sulle dita.
Roderich odiava quel canarino demoniaco, era il ritratto sotto forma di uccello del suo fastidioso padrone. E odiava soprattutto quando Gilbert gli ordinava di dargli da mangiare al suo posto perché tornava sempre con grossi segni rossi e dolorosi sulle sue delicatissime mani da musicista.

Entrando spedito in una stanza illuminata dallo scarso sole che filtrava dalle nuvole invernali, Roderich si chiuse violentemente la porta alle spalle e guardò dritto vicino la finestra dove un piedistallo di marmo sorreggeva una grossa gabbietta in ferro battuto. Un piccolo e paffuto canarino iniziò a cinguettare verso di lui agitando le ali come per salutarlo.

“Risparmia le moine per il tuo padrone, stupido uccello” Esclamò con sdegno mentre prendeva un piccolo sacchettino con del mangime dentro da sopra un tavolo pieno di scartoffie.

Il canarino sembrò non capire il disprezzo dell’austriaco e continuò a cinguettare allegramente seguendo ogni movimento del sacchettino tra le mani.
Cautamente Roderich aprì uno sportellino della gabbietta e prese la ciotolina del mangime, chiudendolo velocemente dopo averlo tirato fuori. Quel piccolo e paffuto canarino poteva sembrare simpatico e adorabile a prima vista, ma era un mostro e l’austriaco voleva preservare il più possibile le sue dita dal suo becco.

Velocemente riempì la ciotolina fino all’orlo, poi aprì nuovamente lo sportellino infilando con una mano la ciotolina all’interno.
Il canarino non attendeva altro.
Scuotendo violentemente le ali piccole rispetto al suo corpo, il pennuto si avventò sulle dita del ragazzo beccandone una e stringendo la presa sulla carne rosea.
Roderich lanciò un urlo di dolore misto a sorpresa e tirò velocemente la mano fuori dalla gabbietta, scuotendola violentemente per liberarsi dalla presa di quella bestia.

Dopo vari tentativi il canarino mollò la presa cadendo e rimbalzando sul pavimento dove cominciò a scuotere le ali e a pigolare insistentemente cercando di prendere il volo, ma le sue piccole ali non riuscivano a dargli lo slancio che gli serviva per alzarsi da terra.
Roderich si portò la parte ferita alla bocca guardando con odio puro il pennuto da dietro le lenti degli occhiali. Pur essendo un piccolo canarino, quella bestia malefica aveva una forza spropositata e per poco non gli staccava la carne dal dito.

L’austriaco dovette reprimere con forza l’impulso di schiacciare quell’ammasso di piume sotto i suoi scarponi dalla suola chiodata facendo appello a tutta la sua forza di volontà.
Invece tirò un sospiro esasperato:

“Sei il diavolo sotto forma di uccello, tu. Sei proprio il canarino di Gilbert! Ora da bravo fatti prendere così ti rimetto nella gabbietta e nessuno si farà di nuovo male!”

Il canarino si fece prendere facilmente arruffando le piume intorno al collo. Roderich sperò per un secondo di poter mettere quella bestia nella sua gabbietta senza ulteriori problemi, ma le sue speranze si infransero quando il canarino beccò nuovamente la sua mano appendendosi a un lembo di pelle e procurandogli un dolore atroce.

Accecato dalla rabbia e dal dolore, Roderich afferrò il canarino con l’intero palmo stringendogli il corpo e staccandolo con forza dalla sua mano. La vista del sangue che usciva dal taglio che si era procurato lo fece uscire fuori di testa. Con uno scatto girò su sé stesso e lanciò con forza il canarino fuori dalla finestra verso alcuni edifici lungo il perimetro di recinzione.

Dopo alcuni istanti in cui la sua rabbia era sbollita del tutto e il suo cuore ritornava al battito normale, l’austriaco si appoggiò al davanzale della finestra sui i gomiti con la testa sulle mani ammirando il panorama innevato del campo di concentramento e dei campi incolti limitrofi.
Del pennuto nessuna traccia.

Roderich sorrise.
“Sono nella merda”

 

Matthew camminava lentamente sulla neve lasciando grosse impronte dietro di sé. Le sue scarpe semi distrutte affondavano interamente nella neve e quest’ultima penetrava in qualunque foro, strappo o scollatura di esse. Matthew aveva i piedi, le mani e il naso completamente ghiacciati. Essendo canadese era abituato al freddo quasi polare, ma adesso il suo corpo stremato dalla fame e dalla fatica non riusciva a reggere quelle temperature.
Il ragazzo non sentiva più le estremità periferiche degli arti e cercava inutilmente di riscaldarsi le mani muovendole insistentemente e alitandoci sopra.
I vestiti che indossava erano stracci consumati e troppo leggeri per quella stagione. Molti prigionieri si erano ammalati di febbre e altre malattie che Matthew non aveva mai visto prima finendo all’infermeria. Alcuni erano tornati dopo pochi giorni bene o male guariti o in via di guarigione, altri non si erano più visti.

Continuando ad affondare nella neve il canadese raggiunse una fossa nauseabonda che fungeva da pozzo nero del campo dove i vari dormitori buttavano gli escrementi che erano costretti a fare in un secchio. Ogni dormitorio aveva un solo secchio che quando si riempiva doveva essere svuotato, qualunque ora fosse.
Fin dall’inizio Matthew era stato incredibilmente sfortunato riguardo il secchio. Ogni volta che doveva fare dei bisogni lo trovava pieno ed era costretto dalle guardie di turno a fare buoni 50 metri nella neve per svuotarlo nel pozzo.
Anche quella mattina gli era toccato quel simpatico viaggetto.

Dalla fossa uscivano rivoli di vapore e odori indescrivibili. Mentre svuotava il secchio Matthew cercò di non guardare il suo contenuto né quello che c’era nel pozzo. Si concentrò invece nel fissare altri poveri sciagurati di altri dormitori che come lui erano stati costretti a fare quel servizio.
Matthew li trovò magrissimi e denutriti, curvi su sé stessi e pallidi con gli occhi infossati e le membra così stanche che quasi sembravano sciogliersi staccandosi dalle ossa. Il ragazzo si allontanò velocemente da quel posto chiedendosi se anche lui avesse quell’aspetto così disumano, come se non fosse più un uomo ma un mostro uscito da un incubo di un bambino.

Cercando di camminare nelle proprie orme per non riempire le scarpe di altra neve, il ragazzo biondo si affrettò a raggiungere il suo dormitorio dove avrebbe potuto togliere le scarpe e scaldare i piedi sotto la coperta di cotone per qualche minuto prima di iniziare il lavoro.
All’improvviso qualcosa di duro e pesante, grande quanto un pugno, lo colpì alla schiena facendolo sobbalzare e facendogli cadere il secchio dalle mani.
Matthew si voltò sorpreso e spaventato cercando chi lo avesse colpito con quella che sembrava una palla di neve, poi vide qualcosa a terra.
Incredulo si tolse gli occhiali e alitò sopra le lenti per poi pulirle con un lembo della maglia convinto di avere gli occhiali sporchi, ma quando li rimise i suoi occhi si allargarono ancor più per lo stupore.
Si accucciò su sé stesso mentre un sorriso si diffondeva sul suo volto.

 

Gilbert era furibondo.
Non sapeva per quale motivo non aveva picchiato a sangue quell’inutile damerino che aveva avuto il coraggio di lanciare fuori dalla finestra il suo amatissimo canarino. Le mani gli tremavano ancora per la voglia animalesca di deturpare quel bel faccino curato dell’austriaco, ma si era limitato soltanto ad urlargli contro blasfemie di ogni sorta e a spedirlo con una spinta a sorvegliare una fabbrica del campo.
Non poteva sbilanciarsi troppo con lui, era pur sempre il figlio di un’importante famiglia austriaca legata alle alte sfere del governo tedesco.

La rabbia però non accennava a diminuire mentre usciva dall’edificio e iniziava a cercare tra la neve sperando di ritrovare il suo amato uccellino giallo.
Gilbird, così si chiamava il suo incredibile canarino, era stato l’ultimo regalo di compleanno del nonno prima di morire, l’unica persona che aveva davvero amato Gilbert nonostante il suo aspetto e comportamento.
Gilbird si era sempre comportato in modo protettivo nei suoi confronti: tutti odiavano Gilbert e Gilbird odiava tutti.

L’albino non conosceva una sola persona che non fosse stata beccata dal suo canarino, o bersagliata dai suoi escrementi. Persino Ludwig non era tollerato nonostante Gilbert lo amasse quasi come sé stesso.
Gilbert amava così tanto il suo canarino da aver chiesto il permesso di portarlo con sé nel campo di concentramento, un permesso accordatogli grazie alle influenze del padre che non vedeva l’ora di liberarsi del canto continuo di quell’animale.

La neve era soffice al tatto mentre Gilbert la spostava con gli stivali e le mani guantate, frugando qua è là vicino gli edifici, davanti la finestra, controllando i muri degli edifici di fronte sperando di non trovare nessuna prova che potesse indicare che il canarino era finito contro il muro.
Tutti sforzi inutili.

Disperato, Gilbert cominciò ad allargare l’area di ricerca intorno la finestra. Dopo una decina di minuti era entrato quasi nel panico. Di Gilbird non c’era nessuna traccia e non era possibile perché era un canarino allevato in cattività che non conosceva il mondo esterno, inoltre era grasso e tozzo e non volava molto bene.
L’albino ebbe il timore che qualche prigioniero, trovandolo lì indifeso, lo avesse preso per vendetta o peggio ancora per mangiarselo, affamati com’erano (quel pensiero gli fece venire i brividi) oppure che fosse morto di freddo caduto in mezzo alla neve.

Mentre si guardava per l’ennesima volta intorno sperando di vedere una macchiolina gialla tra il bianco candido della neve, Gilbert notò un passaggio formato dagli angoli di due dormitori largo più o meno mezzo metro proprio davanti la finestra.

“Impossibile… Roderich non può avere una mira così buona…” Pensò incredulo, ma ormai il dubbio si era insinuato nella sua mente, e poi aveva cercato ovunque senza successo, quel passaggio era l’ultima speranza a cui aggrapparsi.

Velocemente affondò i suoi stivali impermeabili di pelle nera nella neve e si infilò nel passaggio percorrendolo tutto. Era incredibilmente in perfetta linea d’aria con la finestra, un buon lancio lo avrebbe percorso tutto fino alla fine dove sboccava sul percorso affianco al perimetro di recinsione.
Raggiunta l’uscita, Gilbert si fermò con la bocca aperta dalla meraviglia.

A pochi passi da lui c’era il prigioniero inglese che gli aveva provocato tanti disturbi emotivi che girava su sé stesso ridendo in modo spensierato. Ai suoi piedi, tra le tante orme che stava lasciando con i suoi volteggi, c’era uno di quei luridi secchi che il campo dava in dotazione ai dormitori come gabinetto.
Ma quello che aveva paralizzato l’albino non era il prigioniero in sé ma piuttosto quel piccolo batuffolo giallo che svolazzava goffamente sulla sua testa.

Gilbird cinguettava allegramente mentre si poggiava sulla testa bionda del ragazzo aggrappandosi con le sue piccole zampette ai capelli arruffati, poi con uno slancio ricominciava a volteggiare mentre il ragazzo ridendo lo seguiva con lo sguardo tenendo le braccia aperte.
Sembravano entrambi felici.
Ma soprattutto Gilbird non stava mordendo, pizzicando, graffiando o sporcando il ragazzo in nessun modo. Sembrava anzi contento della sua presenza esattamente come lo era quando vedeva il suo padrone.
Gilbert era sconcertato e confuso.

Il prigioniero non sembrò accorgersi della sua presenza e continuò a giocare con il canarino. Nuvolette di vapore salivano in aria insieme al suono delle risate formando dei strani disegni in aria. Era una strana immagine da vedere in un campo di concentramento e Gilbert immaginò per un istante di non trovarsi più lì come sorvegliante di un luogo di detenzione, morte e lavoro forzato, ma su un lago ghiacciato dove il ragazzo volteggiava pattinando sul ghiaccio, avvolto in un cappotto e una bella sciarpa colorata, ridendo e chiamandolo con la sua melodica voce.

“Che pensiero stupido!” Esclamò tra sé appena si accorse di avere la testa tra le nuvole.

Era indeciso se andarsene senza farsi notare e di recuperare il suo canarino in un secondo momento o di rovinare quel momento idilliaco e finire ciò che aveva iniziato.
Questa indecisione lo fece accigliare: il vecchio Gilbert non avrebbe mai avuto un dubbio simile, avrebbe messo fine a quello svago immediatamente, punito severamente il detenuto con sadico divertimento e poi lo avrebbe costretto a fare uno dei lavori più pesanti del campo. Da quando era diventato così compassionevole con quella gentaglia?

 Eppure non riusciva a staccare gli occhi di dosso da quel ragazzo. Dalla prima volta che lo aveva notato, quando stava per finirlo nella fabbrica, quella povera anima aveva perso almeno un terzo del suo peso diventando magrissimo. I suoi capelli si erano sfibrati e avevano acquisito un colorito spento mentre la pelle mal coperta dai vestiti troppo leggeri e troppo larghi per la sua corporatura era diventata screpolata e bruciata dal freddo in più punti. Eppure i suoi occhi, pur avendo perso la loro brillantezza e il loro colorito vivace, non erano spenti come quelli di tutti gli altri detenuti, ma anzi erano ancora gonfi di vitalità e di dolcezza.
Gilbert si sentiva ancora incredibilmente attratto da quegli occhi e da quel ragazzo e vederlo in quello stato pietoso aveva alimentato ancor di più il desiderio di prendersi cura di lui. Contemporaneamente vederlo giocare in quel modo con Gilbird lo rendeva incredibilmente sereno.

Dopo uno slancio particolarmente energico, Gilbird non riuscì a tenere il suo corpo in volo e con un forte cinguettio cadde sulla testa del ragazzo dove rimbalzò senza riuscire ad aggrapparsi ai capelli. Gilbert, che aveva assistito a tutta la scena, fece per correre in avanti per afferrare il povero animale che altrimenti sarebbe sprofondato nella neve, quando le mani delicate e screpolare del ragazzo biondo lo anticiparono raccogliendo il pennuto in una morbida coppa.

Il ragazzo sembrava sorpreso da quella presa e preoccupato si portò il canarino davanti al volto, così vicino che se Gilbird avesse voluto avrebbe potuto facilmente beccare il naso o una guancia.
Gilbert rimase con il fiato sospeso.

“Ti sei fatto male piccolino? Devi stare attento, la neve non è un bel posto per cadere per un animale così piccolo come te, sai?” Sussurrò dolcemente. Gilbert ebbe difficoltà a sentire quelle parole per quanto piano parlava.

Il canarino rimase un istante in silenzio a fissare il detenuto, poi iniziò a trillare allegramente arruffando le piume e scuotendo le ali.
Il ragazzo biondo lanciò un gridolino di apprezzamento e strofinò una guancia sull’uccellino ridendo dolcemente mentre quest’ultimo ricambiava il gesto d’affetto con altrettanta dolcezza.

Quella scena trafisse il petto di Gilbert come una lancia.
In tutta la sua vita non aveva mai visto qualcosa di più bello e più dolce come questa scena. Quell’inglesino sembrava davvero un angelo caduto dal cielo con le ali spezzate. Il fatto che Gilbird ricambiasse con così tanto entusiasmo il suo affetto era innegabilmente la prova che quel ragazzo era speciale.
L’albino sentì una fortissima ondata di calore nel petto.
Si, che Dio potesse perdonarlo, si era innamorato… di un uomo!

Dopo qualche istante di affetto reciproco Gilbird girò casualmente la testa e vide il suo padrone. Subito iniziò a cinguettare e trillare animatamente nella sua direzione portando anche il prigioniero a girarsi. Appena lo vide, il ragazzo quasi fece cadere il pennuto dalle mani per quanto fu forte la reazione di spavento che ebbe. Immediatamente si ricompose allontanandosi di qualche passo dall’avvallamento che si era formato a causa di tutte le impronte che aveva lasciato ballando e rimase immobile a fissare il ragazzo albino tremando per il freddo e per la paura. Sulle sue mani tremanti Gilbird sembrava un budino per come veniva scosso ritmicamente.

Gilbert non sapeva come comportarsi. La magia si era interrotta, la sua presenza era stata scoperta e il momento quasi divino era stato rovinato. Ora l’oggetto di quasi tutti i suoi pensieri da vari mesi a quella parte se ne stava immobile davanti a sé impaurito come un topo in trappola.
Dopo qualche istante in cui la sua mente vagliò una decina di possibilità e in cui si fissarono reciprocamente in silenzio, Gilbert concluse che qualsiasi cosa avesse fatto avrebbe sicuramente spaventato a morte il ragazzo, perciò optò per comportarsi in modo spontaneo.

Posizionando la lingua dietro i denti Gilbert fece un fischio acuto. Gilbird subito rispose con uno strano verso e lanciandosi dalle mani del biondino svolazzò verso il suo padrone. Il prigioniero non riuscì a distogliere lo sguardo dal suo carceriere tant’era la paura, ma quando Gilbird si appollaiò tra i capelli argentei del tedesco l’inglese non riuscì a trattenere uno sbuffo e un sorriso che subito coprì con le mani lanciando uno sguardo colpevole.
Gilbert sorrise a sua volta sentendo la tensione generale allentarsi, sperando di non aver sfoggiato uno dei suoi soliti sorrisi da lupo affamato.

“Tu sei quel tizio che ho quasi ammazzato in fabbrica qualche mese fa, vero?”
Nemmeno il tempo di finire la frase e già Gilbert avrebbe voluto darsi un pugno in faccia. Di tutte le cose che poteva dire in quel momento aveva scelto la peggiore… ma che cazzo stava pensando in quella testolina bacata che si ritrovava?

Ovviamente il prigioniero rimase a bocca aperta diviso tra l’incredulità e il terrore puro. Sembrava una bandieruola al vento per come tremava.
Gilbert cercò di recuperare subito l’errore che aveva commesso.

“Tu sei… ehm, non ricordo il tuo nome… ma sei inglese vero?

“M-Matthew Williams… e-e sono canadese” Rispose con un filo di voce incrinato dal tremito.

Gilbert alzò entrambe le sopracciglia annuendo in segno di comprensione. Sulla sua testa Gilbird agirò le ali per tenersi in equilibrio.

“Ah canadese eh? Credevo inglese… sai, l’accento… M-ma a quanto pare hai fatto amicizia con il mio fantastico canarino!” Esclamò indicando il pennuto sulla sua testa.

Matthew sorrise a quelle parole guardando il canarino pulirsi alcune penne.
“O-oh si, è davvero così carino e simpatico! L’ho trovato mentre tornavo dal pozzo nero e non mi ha più lasciato”

“E’ un tipo con un caratterino molto particolare, ma non è abituato ad stare per troppo tempo fuori dalla sua gabbietta, sai? Probabilmente, se tu non lo avessi trovato, sarebbe morto nel giro di qualche minuto tra la neve che si è accumulata qui!”

Il canadese arrossì vistosamente a quelle parole che sembravano quasi un ringraziamento. Imbarazzato e rosso in volto, si inchinò velocemente all’albino e prese il secchio che ormai era diventato gelido al tatto e fece per andarsene.
Gilbert si allarmò, non voleva che se ne andasse, non voleva sprecare quest’occasione d’oro di poter stare in sua compagnia senza che occhi indiscreti lo fissassero e vedessero quanto poco professionale ed etico fosse.

“A-aspetta!” Ordinò con un tono più duro di quanto avesse voluto.

Matthew si fermò all’istante e si girò confuso.
Gilbert cercò di trovare qualche sciocchezza da dire senza che sembrasse davvero un pretesto per tenerlo lì ma non ne trovò nessuna che fosse vagamente intelligente. Il ragazzo biondo rimase a fissarlo in silenzio spostando il suo sguardo dal suo volto a Gilbird accoccolato tra i capelli.
Gilbert ebbe un’idea.

“S-sai, si chiama Gilbird!”
Va bene, forse era stata un’idea stupida, ma inaspettatamente Matthew reagì in modo positivo a quelle parole. Prese il secchio con entrambe le mani e si avvicinò nuovamente al tedesco oscillando.

“Un nome non molto fantasioso. Sembra ancora un pulcino, quanti anni ha?”

Gilbert sorrise. Matthew era diventato più audace e stava chiacchierando con lui con più spontaneità.
Ridendo con il suo tipico suono “kesesese” gli mise una mano sulla spalla e iniziò a parlare di quanto fosse impressionante la storia del suo canarino.

 

Rimasero a parlare di Gilbird e di altro per quelle che sembrarono ore intere, ma in realtà furono solo pochi minuti. Grazie a quei pochi minuti però Gilbert sentiva di aver creato una sorta di legame intimo con quel canadese. Gli aveva raccontato di come Gilbird era entrato nella sua vita, di come odiasse tutti gli altri umani tranne lui e di come era sorpreso che avesse accettato di così buon grado Matthew. Non sapeva nemmeno perché gli stesse raccontando tutte quelle cose ma era felice di farlo. Aveva scoperto in quei pochi mesi che trovava piacevole la compagnia del canadese anche se non aveva mai realmente scambiato parole con lui e sentiva che in sua presenza poteva essere sé stesso senza alcun timore di sentirsi sbagliato o disprezzato.
Da parte sua Matthew gli aveva raccontato di quella volta che voleva a tutti i costi adottare come animale domestico un orso polare visto allo zoo e la madre gli aveva regalato un orsetto di pezza per farlo contento. Aveva amato quel pupazzo come fosse davvero un essere vivente o un secondo fratello. Mentre raccontava quell’intimo aneddoto il suo volto era rosso dall’imbarazzo e Gilbert lo trovò davvero adorabile.

La loro conversazione fu interrotta da qualcuno che chiamava a gran voce Gilbert con un forte accento tedesco. L’albino riconobbe la voce del suo adorato fratellino Ludwig e subito rispose urlando qualcosa in tedesco.
Guardando il suo orologio da tasca e notando l’ora Gilbert lanciò un sorriso di scuse al canadese.

“È arrivata l’ora di andare, il mio fratellino mi cerca e tu devi iniziare a lavorare nella fabbrica. È stato un piacere chiacchierare con te, e so che lo è stato anche per te perché io sono fantastico!”

Ridendo iniziò ad allontanarsi verso dove aveva sentito il fratello chiamarlo. Era sicuro che Matthew lo stesse osservando con quel suo bel sorriso stampato sul volto, ma non si aspettò di sentire il ragazzo chiamarlo.

“A-ancora una cosa!” Esclamò sforzandosi come se stesse urlando quando in realtà stava parlando con un tono normale.
Gilbert lo guardò girando la testa curioso di sapere cosa lo spingesse ad avere così tanto coraggio.
Matthew sembrò prendere fiato varie volte, anche se sembrava più che stesse raccogliendo il coraggio, poi guardando i piedi di Gilbert senza avere il coraggio di incrociare il suo sguardo disse velocemente:

“Sei stato tu a lasciarmi gli occhiali nel letto?”

Gilbert rimase a fissarlo con uno sguardo indecifrabile, poi sbuffò e sorrise. Riprese a camminare verso il passaggio da cui era venuto senza dire una parola ma facendo un ampio gesto con la mano che non lasciava alcun dubbio.
Matthew sgranò gli occhi mentre sul suo volto si formava un ampio sorriso. Quando non vide più la figura pallida del tedesco si girò verso il dormitorio H3T4 e iniziò a correre a perdifiato ridendo come uno sciocco e cercando di scaricare tutta l’adrenalina che sentiva in corpo

 

Quella sera Gilbert sedeva alla scrivania del suo ufficio ripensando agli eventi della giornata. Dopo aver avuto quel momento intimo con Matthew aveva incontrato il fratello e avevano dovuto coordinare lo scarico dei rifornimenti che finalmente dopo quasi un mese di ritardo erano arrivati. Nonostante l’iniziale arrabbiatura che aveva provato nei suoi confronti, Gilbert aveva deciso di accordare a Roderich una quantità extra di orzo per ringraziarlo segretamente per avergli permesso, grazie al suo disgustoso gesto, di passare qualche momento da solo con Matthew. Roderich non aveva fatto domande e aveva accettato con entusiasmo l’orzo extra correndo subito nelle cucine per gustarsi una buona tazza di quella brodaglia.
Oltre ai rifornimenti erano arrivati sia diversi dispacci dai superiori dell’amministrazione del campo a cui Gilbert rispondeva sia alcune lettere personali dirette alle varie altre guardie. Gilbert aveva lasciato l’oneroso compito di leggere e rispondere ai dispacci per la sera, desideroso di non guastarsi la giornata che era iniziata in modo incantevole con le stronzate che pretendevano i suoi superiori: incremento della produttività, meno richieste di rifornimenti.
Ogni volta era la stessa storia.

Quella sera però non aveva in mente solo di rispondere per le rime ai superiori sottolineando quanto fossero fantasiose e irrealizzabili le loro richieste anche per un campo di concentramento. Gilbert stava pensando a Matthew.
L’incontro di quella mattina aveva spalancato una porta su un mondo del tutto nuovo e sconosciuto per Gilbert.
L’albino aveva passato tutto il giorno a fissare insistentemente il ragazzo, quasi a mangiarlo con gli occhi, notando con piacere che Matthew gli lanciava occhiate furtive e sorrisi quanto poteva. Ogni volta che il canadese notava di essere fissato arrossiva vistosamente e diventava più goffo del normale. Semplicemente adorabile.
Gilbert non si preoccupava di poter essere visto dal fratello. Aveva notato da tempo che Ludwig aveva occhi solo per l’italiano. Che avesse anche lui quel determinato tipo di interesse per quel ragazzo?
A quell’idea Gilbert aveva riso di gusto. Era impossibile che Ludwig potesse provare qualcosa del genere per qualcuno; Ludwig era tutto d’un pezzo, un uomo d’acciaio, sempre controllato e rigido, il perfetto ariano che nemmeno una bomba avrebbe smosso dalla sua posizione. Tutto il contrario di Gilbert che era sanguigno ed emotivo.

Quello che stava occupando la sua mente per tutto il giorno era un’idea tanto assurda quanto stupenda. Ormai era iniziato il nuovo anno, il 1945, ed era certo che la Seconda Guerra Mondiale era agli sgoccioli. Gilbert non sapeva di per certo se sarebbe finita con la vittoria della Germania e del Giappone contro tutto il mondo dopo la bruciante sconfitta che avevano ricevuto in Russia e dopo i territori persi in Italia, ma qualora avessero vinto aveva già in mente cosa chiedere come pagamento per i suoi servigi alla causa nazista.
La sua idea era quella di chiedere il permesso di avere la custodia di Matthew per poterlo rieducare secondo il modello ideologico ariano avendo lui caratteristiche idonee per la riqualificazione razziale. Era una scusa bella e buona per permettere di tirare fuori il ragazzo dall’aspirale senza fondo del lavoro forzato e dell’inferiorità razziale che lo avrebbe costretto a una vita di stenti, di soprusi e di dolore. Ma soprattutto era un modo per permettere a Gilbert di poter rimanere al fianco di Matthew, di poter convivere sotto lo stesso tetto, di avere una relazione che dall’esterno non sembrasse compromettente nonostante segretamente lo fosse. Gilbert avrebbe fatto di tutto per realizzare questo sogno, di tutto!

Ancora fantasticando su quanto sarebbe stata bella la loro vita insieme, Gilbert prese i dispacci e iniziò a ad aprire una per una le lettere e a leggerle attentamente.
La maggior parte erano lettere delle varie fabbriche di Berlino che confermavano che i prodotti del campo erano stati consegnati ai loro stabilimenti, roba poco importante, mentre due lettere erano firmate dall’amministrazione centrale del governo tedesco.

Gilbert si accigliò mentre apriva la prima frettolosamente con il suo tagliacarte, per poi rilassarsi quando vide che era una lettera di suo padre che era stata inviata tramite le sue conoscenze per accertarsi che fosse recapitata. La lettera era datata quasi alla fine di novembre e chiedeva come procedeva la gestione del campo, chiedeva se Ludwig si fosse ambientato bene, lodava entrambi i fratelli e informava che tra non molti mesi sarebbero arrivati altri treni merci carichi di nuova manodopera e spronava a liberarsi di quella vecchia e ormai poco produttiva.
Se tempo addietro questi discorsi lo esaltavano molto, ora come ora con il pensiero costantemente su Matthew l’idea di trattare i prigionieri come feccia, come meri oggetti da utilizzare e di cui disfarsi quando non erano più buoni iniziava ad essergli ripugnante.

“Accidenti, quasi non mi riconosco più!” Sussurrò tra sé mentre metteva da parte la lettera del padre per prendere l’altra.

Questa lettera, scritta con una grafia più elegante e ricercata, era firmata direttamente dai collaboratori del Fuhrer stesso. Gilbert intuì che doveva trattarsi di qualche comunicazione importante che era stata diramata a tutta la nazione e l’aprì con estrema delicatezza come se quei fogli di carta emanassero un’autorità propria.

In realtà era solo una pagina che diversamente dalla lettera era stampata a macchina e riportava poche righe. Gilbert si mise comodo sulla sua sedia di velluto e iniziò a leggere.

Dopo poche parole la sua bocca divenne completamente asciutta mentre le sue pupille si assottigliavano diventando piccole come teste di spillo e i suoi occhi si aprivano quasi uscendo dalle orbite. Lentamente la sua bocca si aprì dall’incredulità e le sue mani iniziarono a tremare violentemente.
Quando il suo sguardo alterato arrivò all’ultima parola la mano che reggeva il foglio ebbe uno spasmo improvviso facendolo cadere.
Volteggiando, il pezzo di carta finì sotto la scrivania.
Gilbert non si preoccupò di raccoglierlo tant’era sconvolto. Si portò una mano alla bocca mentre fissava il vuoto con uno sguardo che nemmeno un posseduto che stava per essere sottoposto ad esorcismo avrebbe potuto avere.

No, no, no ,no, no, no!

Gilbert sentì una fitta nel petto. Il suo cuore batteva in modo incontrollato facendogli quasi male e creandogli una sorta di blocco alla gola. O forse quello era colpa dell’ansia, non sapeva dire.
Non credeva a quello che aveva letto, era semplicemente impossibile. Sentì all’improvviso una violenta ondata di sudore freddo mentre la stanza iniziava a ballare davanti i suoi occhi a causa delle vertigini.
Era semplicemente impossibile.

No, no, no, no, no, NO!

Gilbert piantò con forza le mani sulla scrivania e si alzò di scatto rimanendo con lo sguardo fisso sulla superficie lucida del mobile. La sedia fu spinta violentemente indietro e cadde con un sonoro tondo a gambe all’aria, giacendo inerme sul freddo pavimento di pietra.
Aveva bisogno d’una boccata d’aria fredda, cazzo aveva bisogno di una fottutissima boccata d’aria fredda!

NO, NO, NO, NO, NO, NO!

Barcollando si avvicinò alla porta dell’ufficio dove si appoggiò allo stipite cercando di riprendersi. Era solo un incubo quello, era solo un fottutissimo incubo. Non poteva essere vero, non ora che aveva trovato un senso alla sua vita, non ora che aveva realizzato sé stesso, non ora che aveva trovato Matthew.
Lanciò uno sguardo storto verso la scrivania e lo vide, vide quel maledetto foglio di carta con quelle poche righe battute a macchina e firmate da uno scarabocchio in inchiostro nero.

Gilbert fu colto dalla nausea. Premendosi una mano sulla bocca iniziò a correre più veloce che poté nei corridoi dell’edificio. Si scontrò con Ludwig davanti la libreria facendolo quasi cadere. Probabilmente gli urlò qualcosa dietro ma Gilbert era così sconvolto da non prestare attenzione a nulla. Uscì fuori dal dormitorio e cominciò a correre senza meta nella neve con solo indosso la camicia e il pantalone della divisa e un paio di pantofole.

 

Nell’ufficio ormai vuoto, affianco alla sedia accasciata su un fianco e abbandonata a sé stessa giaceva ancora il comunicato del governo che era arrivato quella stessa mattina:

 

Comunicato di massima priorità.
Si comunica a suddetto campo di concentramento collocato in territorio prussiano sottoposto all’amministrazione e gestione di Gilbert Beilschmidt dell’avvistamento dell’Armata Rossa in territorio polacco dirigersi verso i territori tedeschi. Pertanto viene ordinato dall’onorevole Fuhrer a suddetto campo di concentramento collocato sulla traiettoria perseguita dal nemico di occultare ogni documento sensibile riguardo il governo e i progetti di produzione bellica, di procedere con la pulizia etnica eliminando ogni testimone e di abbandonare la postazione ripiegando nella capitale.
        

                                                                                                                                            Data:

                                                                                                                                   13 dicembre 1944






Note dell'autore:
Salve a tutti :D
Eccomi qui a scusarmi nuovamente del ritardo della pubblicazione -_-' 
Purtroppo ho avuto importanti impegni nel real che mi hanno portato a non poter scrivere con frequenza questo capitolo che insieme a quello precedente sugli alleati ritengo chiave in questa ff.
Infatti possiamo ritenere il capitolo degli alleati come uno spartiacque tra i primi capitoli che sono di presentazione dei personaggi, del luogo, delle relazioni ecc. e il blocco di capitoli che inizia con questo dove si affrontano temi più seri e importanti nella storia. Spero che questo cambiamento non vi dispiaccia perché... effettivamente questo è un campo di concentramento non una colonia estiva x'D E per citare un film recensito da Yotobi "E' finito il tempo delle mele P*****a!"
Le date non sono messe a caso ma sono calcolare, non preoccupatevi, non ci sono errori cronologici x'D
Inoltre in questo capitolo c'è una fortissima citazione a una fonte su cui mi sto basando moltissimo e che ritendo bellissima, spero che riusciate ad individuarla!
Detto ciò... a presto :D E spero che questa volta sia davvero presto x'D
   
 
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