Era una fredda e uggiosa mattina di
gennaio.
Nel campo di concentramento prussiano si era depositata al suolo
così tanta
neve da potervici affondare interamente un piede fino alla caviglia.
Roderich camminava a passo svelto nel corridoio freddo e umido
nell’edificio
del personale del campo. Il suo umore era pessimo ed era tale da molti
giorni
ormai: i rifornimenti tardavano ad arrivare bloccati dalla neve, dalla
guerra e
da chissà quale altra scusa, e le scorte del suo amatissimo
surrogato di caffè,
chiamato comunemente orzo, erano esaurite già molto tempo
prima di Natale.
Roderich non viveva senza il suo
orzo. Certo, preferiva di
gran lunga il vero caffè, quello che veniva importato
dall’America e che aveva
un aroma unico, ma la guerra aveva bloccato ogni tipo di commercio con
il Nuovo
Mondo costringendo gli appassionati come lui ad accontentarsi di questo
nuovo
composto creato dalla Germania stessa.
Solo che adesso era finito e non aveva a disposizione altro da molto,
troppo
tempo.
L’umore del nobile austriaco peggiorava incredibilmente
quando non assumeva
regolarmente la sua bevanda preferita, rendendolo molto irascibile e
nevrotico,
davvero intrattabile per chiunque.
Quella mattina era particolarmente
ingestibile anche per un
altro motivo.
Nel trasferirsi nel campo di concentramento, Gilbert aveva chiesto e
ottenuto
il permesso di portare con sé il suo amatissimo canarino, un
pennuto grasso e
dal carattere difficile, che cantava perennemente a squarciagola e
beccava
chiunque si avvicinasse alla sua gabbietta che non fosse il suo
padrone,
lasciando grossi segni sulle dita.
Roderich odiava quel canarino demoniaco, era il ritratto sotto forma di
uccello
del suo fastidioso padrone. E odiava soprattutto quando Gilbert gli
ordinava di
dargli da mangiare al suo posto perché tornava sempre con
grossi segni rossi e
dolorosi sulle sue delicatissime mani da musicista.
Entrando spedito in una stanza
illuminata dallo scarso sole
che filtrava dalle nuvole invernali, Roderich si chiuse violentemente
la porta
alle spalle e guardò dritto vicino la finestra dove un
piedistallo di marmo
sorreggeva una grossa gabbietta in ferro battuto. Un piccolo e paffuto
canarino
iniziò a cinguettare verso di lui agitando le ali come per
salutarlo.
“Risparmia le moine per il
tuo padrone, stupido uccello”
Esclamò con sdegno mentre prendeva un piccolo sacchettino
con del mangime
dentro da sopra un tavolo pieno di scartoffie.
Il canarino sembrò non
capire il disprezzo dell’austriaco e
continuò a cinguettare allegramente seguendo ogni movimento
del sacchettino tra
le mani.
Cautamente Roderich aprì uno sportellino della gabbietta e
prese la ciotolina
del mangime, chiudendolo velocemente dopo averlo tirato fuori. Quel
piccolo e
paffuto canarino poteva sembrare simpatico e adorabile a prima vista,
ma era un
mostro e l’austriaco voleva preservare il più
possibile le sue dita dal suo
becco.
Velocemente riempì la
ciotolina fino all’orlo, poi aprì
nuovamente lo sportellino infilando con una mano la ciotolina
all’interno.
Il canarino non attendeva altro.
Scuotendo violentemente le ali piccole rispetto al suo corpo, il
pennuto si
avventò sulle dita del ragazzo beccandone una e stringendo
la presa sulla carne
rosea.
Roderich lanciò un urlo di dolore misto a sorpresa e
tirò velocemente la mano
fuori dalla gabbietta, scuotendola violentemente per liberarsi dalla
presa di
quella bestia.
Dopo vari tentativi il canarino
mollò la presa cadendo e
rimbalzando sul pavimento dove cominciò a scuotere le ali e
a pigolare
insistentemente cercando di prendere il volo, ma le sue piccole ali non
riuscivano a dargli lo slancio che gli serviva per alzarsi da terra.
Roderich si portò la parte ferita alla bocca guardando con
odio puro il pennuto
da dietro le lenti degli occhiali. Pur essendo un piccolo canarino,
quella
bestia malefica aveva una forza spropositata e per poco non gli
staccava la
carne dal dito.
L’austriaco dovette
reprimere con forza l’impulso di
schiacciare quell’ammasso di piume sotto i suoi scarponi
dalla suola chiodata
facendo appello a tutta la sua forza di volontà.
Invece tirò un sospiro esasperato:
“Sei il diavolo sotto forma
di uccello, tu. Sei proprio il
canarino di Gilbert! Ora da bravo fatti prendere così ti
rimetto nella gabbietta
e nessuno si farà di nuovo male!”
Il canarino si fece prendere
facilmente arruffando le piume
intorno al collo. Roderich sperò per un secondo di poter
mettere quella bestia
nella sua gabbietta senza ulteriori problemi, ma le sue speranze si
infransero
quando il canarino beccò nuovamente la sua mano appendendosi
a un lembo di
pelle e procurandogli un dolore atroce.
Accecato dalla rabbia e dal dolore,
Roderich afferrò il
canarino con l’intero palmo stringendogli il corpo e
staccandolo con forza dalla
sua mano. La vista del sangue che usciva dal taglio che si era
procurato lo
fece uscire fuori di testa. Con uno scatto girò su
sé stesso e lanciò con forza
il canarino fuori dalla finestra verso alcuni edifici lungo il
perimetro di
recinzione.
Dopo alcuni istanti in cui la sua
rabbia era sbollita del
tutto e il suo cuore ritornava al battito normale,
l’austriaco si appoggiò al
davanzale della finestra sui i gomiti con la testa sulle mani ammirando
il
panorama innevato del campo di concentramento e dei campi incolti
limitrofi.
Del pennuto nessuna traccia.
Roderich sorrise.
“Sono nella merda”
Matthew camminava lentamente sulla
neve lasciando grosse
impronte dietro di sé. Le sue scarpe semi distrutte
affondavano interamente
nella neve e quest’ultima penetrava in qualunque foro,
strappo o scollatura di
esse. Matthew aveva i piedi, le mani e il naso completamente
ghiacciati.
Essendo canadese era abituato al freddo quasi polare, ma adesso il suo
corpo
stremato dalla fame e dalla fatica non riusciva a reggere quelle
temperature.
Il ragazzo non sentiva più le estremità
periferiche degli arti e cercava
inutilmente di riscaldarsi le mani muovendole insistentemente e
alitandoci
sopra.
I vestiti che indossava erano stracci consumati e troppo leggeri per
quella
stagione. Molti prigionieri si erano ammalati di febbre e altre
malattie che
Matthew non aveva mai visto prima finendo all’infermeria.
Alcuni erano tornati
dopo pochi giorni bene o male guariti o in via di guarigione, altri non
si
erano più visti.
Continuando ad affondare nella neve
il canadese raggiunse
una fossa nauseabonda che fungeva da pozzo nero del campo dove i vari
dormitori
buttavano gli escrementi che erano costretti a fare in un secchio. Ogni
dormitorio aveva un solo secchio che quando si riempiva doveva essere
svuotato,
qualunque ora fosse.
Fin dall’inizio Matthew era stato incredibilmente sfortunato
riguardo il
secchio. Ogni volta che doveva fare dei bisogni lo trovava pieno ed era
costretto dalle guardie di turno a fare buoni 50 metri nella neve per
svuotarlo
nel pozzo.
Anche quella mattina gli era toccato quel simpatico viaggetto.
Dalla fossa uscivano rivoli di vapore
e odori
indescrivibili. Mentre svuotava il secchio Matthew cercò di
non guardare il suo
contenuto né quello che c’era nel pozzo. Si
concentrò invece nel fissare altri
poveri sciagurati di altri dormitori che come lui erano stati costretti
a fare
quel servizio.
Matthew li trovò magrissimi e denutriti, curvi su
sé stessi e pallidi con gli
occhi infossati e le membra così stanche che quasi
sembravano sciogliersi
staccandosi dalle ossa. Il ragazzo si allontanò velocemente
da quel posto
chiedendosi se anche lui avesse quell’aspetto così
disumano, come se non fosse
più un uomo ma un mostro uscito da un incubo di un bambino.
Cercando di camminare nelle proprie
orme per non riempire le
scarpe di altra neve, il ragazzo biondo si affrettò a
raggiungere il suo
dormitorio dove avrebbe potuto togliere le scarpe e scaldare i piedi
sotto la
coperta di cotone per qualche minuto prima di iniziare il lavoro.
All’improvviso qualcosa di duro e pesante, grande quanto un
pugno, lo colpì
alla schiena facendolo sobbalzare e facendogli cadere il secchio dalle
mani.
Matthew si voltò sorpreso e spaventato cercando chi lo
avesse colpito con
quella che sembrava una palla di neve, poi vide qualcosa a terra.
Incredulo si tolse gli occhiali e alitò sopra le lenti per
poi pulirle con un
lembo della maglia convinto di avere gli occhiali sporchi, ma quando li
rimise
i suoi occhi si allargarono ancor più per lo stupore.
Si accucciò su sé stesso mentre un sorriso si
diffondeva sul suo volto.
Gilbert era furibondo.
Non sapeva per quale motivo non aveva picchiato a sangue
quell’inutile damerino
che aveva avuto il coraggio di lanciare fuori dalla finestra il suo
amatissimo
canarino. Le mani gli tremavano ancora per la voglia animalesca di
deturpare
quel bel faccino curato dell’austriaco, ma si era limitato
soltanto ad urlargli
contro blasfemie di ogni sorta e a spedirlo con una spinta a
sorvegliare una
fabbrica del campo.
Non poteva sbilanciarsi troppo con lui, era pur sempre il figlio di
un’importante famiglia austriaca legata alle alte sfere del
governo tedesco.
La rabbia però non
accennava a diminuire mentre usciva
dall’edificio e iniziava a cercare tra la neve sperando di
ritrovare il suo
amato uccellino giallo.
Gilbird, così si chiamava il suo incredibile canarino, era
stato l’ultimo
regalo di compleanno del nonno prima di morire, l’unica
persona che aveva
davvero amato Gilbert nonostante il suo aspetto e comportamento.
Gilbird si era sempre comportato in modo protettivo nei suoi confronti:
tutti
odiavano Gilbert e Gilbird odiava tutti.
L’albino non conosceva una
sola persona che non fosse stata
beccata dal suo canarino, o bersagliata dai suoi escrementi. Persino
Ludwig non
era tollerato nonostante Gilbert lo amasse quasi come sé
stesso.
Gilbert amava così tanto il suo canarino da aver chiesto il
permesso di
portarlo con sé nel campo di concentramento, un permesso
accordatogli grazie
alle influenze del padre che non vedeva l’ora di liberarsi
del canto continuo
di quell’animale.
La neve era soffice al tatto mentre
Gilbert la spostava con
gli stivali e le mani guantate, frugando qua è là
vicino gli edifici, davanti
la finestra, controllando i muri degli edifici di fronte sperando di
non
trovare nessuna prova che potesse indicare che il canarino era finito
contro il
muro.
Tutti sforzi inutili.
Disperato, Gilbert
cominciò ad allargare l’area di ricerca intorno
la finestra. Dopo una decina di minuti era entrato quasi nel panico. Di
Gilbird
non c’era nessuna traccia e non era possibile
perché era un canarino allevato
in cattività che non conosceva il mondo esterno, inoltre era
grasso e tozzo e
non volava molto bene.
L’albino ebbe il timore che qualche prigioniero, trovandolo
lì indifeso, lo
avesse preso per vendetta o peggio ancora per mangiarselo, affamati
com’erano (quel
pensiero gli fece venire i brividi) oppure che fosse morto di freddo
caduto in
mezzo alla neve.
Mentre si guardava per
l’ennesima volta intorno sperando di
vedere una macchiolina gialla tra il bianco candido della neve, Gilbert
notò un
passaggio formato dagli angoli di due dormitori largo più o
meno mezzo metro
proprio davanti la finestra.
“Impossibile…
Roderich non può avere una mira così
buona…”
Pensò incredulo, ma ormai il dubbio si era insinuato nella
sua mente, e poi
aveva cercato ovunque senza successo, quel passaggio era
l’ultima speranza a
cui aggrapparsi.
Velocemente affondò i suoi
stivali impermeabili di pelle
nera nella neve e si infilò nel passaggio percorrendolo
tutto. Era
incredibilmente in perfetta linea d’aria con la finestra, un
buon lancio lo
avrebbe percorso tutto fino alla fine dove sboccava sul percorso
affianco al
perimetro di recinsione.
Raggiunta l’uscita, Gilbert si fermò con la bocca
aperta dalla meraviglia.
A pochi passi da lui c’era
il prigioniero inglese che gli
aveva provocato tanti disturbi emotivi che girava su sé
stesso ridendo in modo
spensierato. Ai suoi piedi, tra le tante orme che stava lasciando con i
suoi
volteggi, c’era uno di quei luridi secchi che il campo dava
in dotazione ai
dormitori come gabinetto.
Ma quello che aveva paralizzato l’albino non era il
prigioniero in sé ma
piuttosto quel piccolo batuffolo giallo che svolazzava goffamente sulla
sua
testa.
Gilbird cinguettava allegramente
mentre si poggiava sulla
testa bionda del ragazzo aggrappandosi con le sue piccole zampette ai
capelli
arruffati, poi con uno slancio ricominciava a volteggiare mentre il
ragazzo ridendo
lo seguiva con lo sguardo tenendo le braccia aperte.
Sembravano entrambi felici.
Ma soprattutto Gilbird non stava mordendo, pizzicando, graffiando o
sporcando
il ragazzo in nessun modo. Sembrava anzi contento della sua presenza
esattamente come lo era quando vedeva il suo padrone.
Gilbert era sconcertato e confuso.
Il prigioniero non sembrò
accorgersi della sua presenza e
continuò a giocare con il canarino. Nuvolette di vapore
salivano in aria
insieme al suono delle risate formando dei strani disegni in aria. Era
una
strana immagine da vedere in un campo di concentramento e Gilbert
immaginò per
un istante di non trovarsi più lì come
sorvegliante di un luogo di detenzione,
morte e lavoro forzato, ma su un lago ghiacciato dove il ragazzo
volteggiava
pattinando sul ghiaccio, avvolto in un cappotto e una bella sciarpa
colorata,
ridendo e chiamandolo con la sua melodica voce.
“Che pensiero
stupido!” Esclamò tra sé appena si
accorse di
avere la testa tra le nuvole.
Era indeciso se andarsene senza farsi
notare e di recuperare
il suo canarino in un secondo momento o di rovinare quel momento
idilliaco e
finire ciò che aveva iniziato.
Questa indecisione lo fece accigliare: il vecchio Gilbert non avrebbe
mai avuto
un dubbio simile, avrebbe messo fine a quello svago immediatamente,
punito
severamente il detenuto con sadico divertimento e poi lo avrebbe
costretto a
fare uno dei lavori più pesanti del campo. Da quando era
diventato così
compassionevole con quella gentaglia?
Eppure
non riusciva a
staccare gli occhi di dosso da quel ragazzo. Dalla prima volta che lo
aveva
notato, quando stava per finirlo nella fabbrica, quella povera anima
aveva
perso almeno un terzo del suo peso diventando magrissimo. I suoi
capelli si
erano sfibrati e avevano acquisito un colorito spento mentre la pelle
mal
coperta dai vestiti troppo leggeri e troppo larghi per la sua
corporatura era
diventata screpolata e bruciata dal freddo in più punti.
Eppure i suoi occhi,
pur avendo perso la loro brillantezza e il loro colorito vivace, non
erano
spenti come quelli di tutti gli altri detenuti, ma anzi erano ancora
gonfi di
vitalità e di dolcezza.
Gilbert si sentiva ancora incredibilmente attratto da quegli occhi e da
quel
ragazzo e vederlo in quello stato pietoso aveva alimentato ancor di
più il
desiderio di prendersi cura di lui. Contemporaneamente vederlo giocare
in quel
modo con Gilbird lo rendeva incredibilmente sereno.
Dopo uno slancio particolarmente
energico, Gilbird non
riuscì a tenere il suo corpo in volo e con un forte
cinguettio cadde sulla
testa del ragazzo dove rimbalzò senza riuscire ad
aggrapparsi ai capelli.
Gilbert, che aveva assistito a tutta la scena, fece per correre in
avanti per
afferrare il povero animale che altrimenti sarebbe sprofondato nella
neve,
quando le mani delicate e screpolare del ragazzo biondo lo anticiparono
raccogliendo il pennuto in una morbida coppa.
Il ragazzo sembrava sorpreso da
quella presa e preoccupato
si portò il canarino davanti al volto, così
vicino che se Gilbird avesse voluto
avrebbe potuto facilmente beccare il naso o una guancia.
Gilbert rimase con il fiato sospeso.
“Ti sei fatto male
piccolino? Devi stare attento, la neve
non è un bel posto per cadere per un animale così
piccolo come te, sai?”
Sussurrò dolcemente. Gilbert ebbe difficoltà a
sentire quelle parole per quanto
piano parlava.
Il canarino rimase un istante in
silenzio a fissare il
detenuto, poi iniziò a trillare allegramente arruffando le
piume e scuotendo le
ali.
Il ragazzo biondo lanciò un gridolino di apprezzamento e
strofinò una guancia
sull’uccellino ridendo dolcemente mentre
quest’ultimo ricambiava il gesto
d’affetto con altrettanta dolcezza.
Quella scena trafisse il petto di
Gilbert come una lancia.
In tutta la sua vita non aveva mai visto qualcosa di più
bello e più dolce come
questa scena. Quell’inglesino sembrava davvero un angelo
caduto dal cielo con
le ali spezzate. Il fatto che Gilbird ricambiasse con così
tanto entusiasmo il
suo affetto era innegabilmente la prova che quel ragazzo era speciale.
L’albino sentì una fortissima ondata di calore nel
petto.
Si, che Dio potesse perdonarlo, si era innamorato… di un
uomo!
Dopo qualche istante di affetto
reciproco Gilbird girò
casualmente la testa e vide il suo padrone. Subito iniziò a
cinguettare e
trillare animatamente nella sua direzione portando anche il prigioniero
a
girarsi. Appena lo vide, il ragazzo quasi fece cadere il pennuto dalle
mani per
quanto fu forte la reazione di spavento che ebbe. Immediatamente si
ricompose
allontanandosi di qualche passo dall’avvallamento che si era
formato a causa di
tutte le impronte che aveva lasciato ballando e rimase immobile a
fissare il
ragazzo albino tremando per il freddo e per la paura. Sulle sue mani
tremanti
Gilbird sembrava un budino per come veniva scosso ritmicamente.
Gilbert non sapeva come comportarsi.
La magia si era
interrotta, la sua presenza era stata scoperta e il momento quasi
divino era
stato rovinato. Ora l’oggetto di quasi tutti i suoi pensieri
da vari mesi a
quella parte se ne stava immobile davanti a sé impaurito
come un topo in
trappola.
Dopo qualche istante in cui la sua mente vagliò una decina
di possibilità e in
cui si fissarono reciprocamente in silenzio, Gilbert concluse che
qualsiasi
cosa avesse fatto avrebbe sicuramente spaventato a morte il ragazzo,
perciò
optò per comportarsi in modo spontaneo.
Posizionando la lingua dietro i denti
Gilbert fece un
fischio acuto. Gilbird subito rispose con uno strano verso e
lanciandosi dalle
mani del biondino svolazzò verso il suo padrone. Il
prigioniero non riuscì a
distogliere lo sguardo dal suo carceriere tant’era la paura,
ma quando Gilbird
si appollaiò tra i capelli argentei del tedesco
l’inglese non riuscì a
trattenere uno sbuffo e un sorriso che subito coprì con le
mani lanciando uno
sguardo colpevole.
Gilbert sorrise a sua volta sentendo la tensione generale allentarsi,
sperando
di non aver sfoggiato uno dei suoi soliti sorrisi da lupo affamato.
“Tu sei quel tizio che ho
quasi ammazzato in fabbrica
qualche mese fa, vero?”
Nemmeno il tempo di finire la frase e già Gilbert avrebbe
voluto darsi un pugno
in faccia. Di tutte le cose che poteva dire in quel momento aveva
scelto la
peggiore… ma che cazzo stava pensando in quella testolina
bacata che si
ritrovava?
Ovviamente il prigioniero rimase a
bocca aperta diviso tra
l’incredulità e il terrore puro. Sembrava una
bandieruola al vento per come
tremava.
Gilbert cercò di recuperare subito l’errore che
aveva commesso.
“Tu sei… ehm,
non ricordo il tuo nome… ma sei inglese vero?
“M-Matthew
Williams… e-e sono canadese” Rispose con un filo
di voce incrinato dal tremito.
Gilbert alzò entrambe le
sopracciglia annuendo in segno di
comprensione. Sulla sua testa Gilbird agirò le ali per
tenersi in equilibrio.
“Ah canadese eh? Credevo
inglese… sai, l’accento… M-ma a quanto
pare hai fatto amicizia con il mio fantastico canarino!”
Esclamò indicando il
pennuto sulla sua testa.
Matthew sorrise a quelle parole
guardando il canarino
pulirsi alcune penne.
“O-oh si, è davvero così carino e
simpatico! L’ho trovato mentre tornavo dal pozzo
nero e non mi ha più lasciato”
“E’ un tipo con
un caratterino molto particolare, ma non è
abituato ad stare per troppo tempo fuori dalla sua gabbietta, sai?
Probabilmente, se tu non lo avessi trovato, sarebbe morto nel giro di
qualche
minuto tra la neve che si è accumulata qui!”
Il canadese arrossì
vistosamente a quelle parole che
sembravano quasi un ringraziamento. Imbarazzato e rosso in volto, si
inchinò
velocemente all’albino e prese il secchio che ormai era
diventato gelido al
tatto e fece per andarsene.
Gilbert si allarmò, non voleva che se ne andasse, non voleva
sprecare
quest’occasione d’oro di poter stare in sua
compagnia senza che occhi
indiscreti lo fissassero e vedessero quanto poco professionale ed etico
fosse.
“A-aspetta!”
Ordinò con un tono più duro di quanto avesse
voluto.
Matthew si fermò
all’istante e si girò confuso.
Gilbert cercò di trovare qualche sciocchezza da dire senza
che sembrasse
davvero un pretesto per tenerlo lì ma non ne
trovò nessuna che fosse vagamente
intelligente. Il ragazzo biondo rimase a fissarlo in silenzio spostando
il suo
sguardo dal suo volto a Gilbird accoccolato tra i capelli.
Gilbert ebbe un’idea.
“S-sai, si chiama
Gilbird!”
Va bene, forse era stata un’idea stupida, ma inaspettatamente
Matthew reagì in
modo positivo a quelle parole. Prese il secchio con entrambe le mani e
si
avvicinò nuovamente al tedesco oscillando.
“Un nome non molto
fantasioso. Sembra ancora un pulcino,
quanti anni ha?”
Gilbert sorrise. Matthew era
diventato più audace e stava
chiacchierando con lui con più spontaneità.
Ridendo con il suo tipico suono “kesesese” gli mise
una mano sulla spalla e iniziò
a parlare di quanto fosse impressionante la storia del suo canarino.
Rimasero a parlare di Gilbird e di
altro per quelle che
sembrarono ore intere, ma in realtà furono solo pochi
minuti. Grazie a quei
pochi minuti però Gilbert sentiva di aver creato una sorta
di legame intimo con
quel canadese. Gli aveva raccontato di come Gilbird era entrato nella
sua vita,
di come odiasse tutti gli altri umani tranne lui e di come era sorpreso
che
avesse accettato di così buon grado Matthew. Non sapeva
nemmeno perché gli
stesse raccontando tutte quelle cose ma era felice di farlo. Aveva
scoperto in
quei pochi mesi che trovava piacevole la compagnia del canadese anche
se non
aveva mai realmente scambiato parole con lui e sentiva che in sua
presenza
poteva essere sé stesso senza alcun timore di sentirsi
sbagliato o disprezzato.
Da parte sua Matthew gli aveva raccontato di quella volta che voleva a
tutti i
costi adottare come animale domestico un orso polare visto allo zoo e
la madre
gli aveva regalato un orsetto di pezza per farlo contento. Aveva amato
quel
pupazzo come fosse davvero un essere vivente o un secondo fratello.
Mentre
raccontava quell’intimo aneddoto il suo volto era rosso
dall’imbarazzo e
Gilbert lo trovò davvero adorabile.
La loro conversazione fu interrotta
da qualcuno che chiamava
a gran voce Gilbert con un forte accento tedesco. L’albino
riconobbe la voce
del suo adorato fratellino Ludwig e subito rispose urlando qualcosa in
tedesco.
Guardando il suo orologio da tasca e notando l’ora Gilbert
lanciò un sorriso di
scuse al canadese.
“È arrivata
l’ora di andare, il mio fratellino mi cerca e tu
devi iniziare a lavorare nella fabbrica. È stato un piacere
chiacchierare con
te, e so che lo è stato anche per te perché io
sono fantastico!”
Ridendo iniziò ad
allontanarsi verso dove aveva sentito il
fratello chiamarlo. Era sicuro che Matthew lo stesse osservando con
quel suo
bel sorriso stampato sul volto, ma non si aspettò di sentire
il ragazzo
chiamarlo.
“A-ancora una
cosa!” Esclamò sforzandosi come se stesse
urlando quando in realtà stava parlando con un tono normale.
Gilbert lo guardò girando la testa curioso di sapere cosa lo
spingesse ad avere
così tanto coraggio.
Matthew sembrò prendere fiato varie volte, anche se sembrava
più che stesse
raccogliendo il coraggio, poi guardando i piedi di Gilbert senza avere
il
coraggio di incrociare il suo sguardo disse velocemente:
“Sei stato tu a lasciarmi
gli occhiali nel letto?”
Gilbert rimase a fissarlo con uno
sguardo indecifrabile, poi
sbuffò e sorrise. Riprese a camminare verso il passaggio da
cui era venuto
senza dire una parola ma facendo un ampio gesto con la mano che non
lasciava
alcun dubbio.
Matthew sgranò gli occhi mentre sul suo volto si formava un
ampio sorriso.
Quando non vide più la figura pallida del tedesco si
girò verso il dormitorio
H3T4 e iniziò a correre a perdifiato ridendo come uno
sciocco e cercando di
scaricare tutta l’adrenalina che sentiva in corpo
Quella sera Gilbert sedeva alla
scrivania del suo ufficio
ripensando agli eventi della giornata. Dopo aver avuto quel momento
intimo con
Matthew aveva incontrato il fratello e avevano dovuto coordinare lo
scarico dei
rifornimenti che finalmente dopo quasi un mese di ritardo erano
arrivati.
Nonostante l’iniziale arrabbiatura che aveva provato nei suoi
confronti,
Gilbert aveva deciso di accordare a Roderich una quantità
extra di orzo per
ringraziarlo segretamente per avergli permesso, grazie al suo
disgustoso gesto,
di passare qualche momento da solo con Matthew. Roderich non aveva
fatto
domande e aveva accettato con entusiasmo l’orzo extra
correndo subito nelle
cucine per gustarsi una buona tazza di quella brodaglia.
Oltre ai rifornimenti erano arrivati sia diversi dispacci dai superiori
dell’amministrazione del campo a cui Gilbert rispondeva sia
alcune lettere
personali dirette alle varie altre guardie. Gilbert aveva lasciato
l’oneroso
compito di leggere e rispondere ai dispacci per la sera, desideroso di
non
guastarsi la giornata che era iniziata in modo incantevole con le
stronzate che
pretendevano i suoi superiori: incremento della
produttività, meno richieste di
rifornimenti.
Ogni volta era la stessa storia.
Quella sera però non aveva
in mente solo di rispondere per
le rime ai superiori sottolineando quanto fossero fantasiose e
irrealizzabili
le loro richieste anche per un campo di concentramento. Gilbert stava
pensando
a Matthew.
L’incontro di quella mattina aveva spalancato una porta su un
mondo del tutto
nuovo e sconosciuto per Gilbert.
L’albino aveva passato tutto il giorno a fissare
insistentemente il ragazzo,
quasi a mangiarlo con gli occhi, notando con piacere che Matthew gli
lanciava
occhiate furtive e sorrisi quanto poteva. Ogni volta che il canadese
notava di
essere fissato arrossiva vistosamente e diventava più goffo
del normale.
Semplicemente adorabile.
Gilbert non si preoccupava di poter essere visto dal fratello. Aveva
notato da
tempo che Ludwig aveva occhi solo per l’italiano. Che avesse
anche lui quel
determinato tipo di interesse per quel ragazzo?
A quell’idea Gilbert aveva riso di gusto. Era impossibile che
Ludwig potesse
provare qualcosa del genere per qualcuno; Ludwig era tutto
d’un pezzo, un uomo
d’acciaio, sempre controllato e rigido, il perfetto ariano
che nemmeno una
bomba avrebbe smosso dalla sua posizione. Tutto il contrario di Gilbert
che era
sanguigno ed emotivo.
Quello che stava occupando la sua
mente per tutto il giorno
era un’idea tanto assurda quanto stupenda. Ormai era iniziato
il nuovo anno, il
1945, ed era certo che la Seconda Guerra Mondiale era agli sgoccioli.
Gilbert
non sapeva di per certo se sarebbe finita con la vittoria della
Germania e del
Giappone contro tutto il mondo dopo la bruciante sconfitta che avevano
ricevuto
in Russia e dopo i territori persi in Italia, ma qualora avessero vinto
aveva
già in mente cosa chiedere come pagamento per i suoi servigi
alla causa
nazista.
La sua idea era quella di chiedere il permesso di avere la custodia di
Matthew
per poterlo rieducare secondo il modello ideologico ariano avendo lui
caratteristiche idonee per la riqualificazione razziale. Era una scusa
bella e
buona per permettere di tirare fuori il ragazzo dall’aspirale
senza fondo del
lavoro forzato e dell’inferiorità razziale che lo
avrebbe costretto a una vita
di stenti, di soprusi e di dolore. Ma soprattutto era un modo per
permettere a
Gilbert di poter rimanere al fianco di Matthew, di poter convivere
sotto lo
stesso tetto, di avere una relazione che dall’esterno non
sembrasse
compromettente nonostante segretamente lo fosse. Gilbert avrebbe fatto
di tutto
per realizzare questo sogno, di tutto!
Ancora fantasticando su quanto
sarebbe stata bella la loro
vita insieme, Gilbert prese i dispacci e iniziò a ad aprire
una per una le
lettere e a leggerle attentamente.
La maggior parte erano lettere delle varie fabbriche di Berlino che
confermavano che i prodotti del campo erano stati consegnati ai loro
stabilimenti, roba poco importante, mentre due lettere erano firmate
dall’amministrazione centrale del governo tedesco.
Gilbert si accigliò mentre
apriva la prima frettolosamente
con il suo tagliacarte, per poi rilassarsi quando vide che era una
lettera di
suo padre che era stata inviata tramite le sue conoscenze per
accertarsi che
fosse recapitata. La lettera era datata quasi alla fine di novembre e
chiedeva
come procedeva la gestione del campo, chiedeva se Ludwig si fosse
ambientato
bene, lodava entrambi i fratelli e informava che tra non molti mesi
sarebbero
arrivati altri treni merci carichi di nuova manodopera e spronava a
liberarsi
di quella vecchia e ormai poco produttiva.
Se tempo addietro questi discorsi lo esaltavano molto, ora come ora con
il
pensiero costantemente su Matthew l’idea di trattare i
prigionieri come feccia,
come meri oggetti da utilizzare e di cui disfarsi quando non erano
più buoni
iniziava ad essergli ripugnante.
“Accidenti, quasi non mi
riconosco più!” Sussurrò tra
sé
mentre metteva da parte la lettera del padre per prendere
l’altra.
Questa lettera, scritta con una
grafia più elegante e
ricercata, era firmata direttamente dai collaboratori del Fuhrer
stesso.
Gilbert intuì che doveva trattarsi di qualche comunicazione
importante che era
stata diramata a tutta la nazione e l’aprì con
estrema delicatezza come se quei
fogli di carta emanassero un’autorità propria.
In realtà era solo una
pagina che diversamente dalla lettera
era stampata a macchina e riportava poche righe. Gilbert si mise comodo
sulla
sua sedia di velluto e iniziò a leggere.
Dopo poche parole la sua bocca
divenne completamente
asciutta mentre le sue pupille si assottigliavano diventando piccole
come teste
di spillo e i suoi occhi si aprivano quasi uscendo dalle orbite.
Lentamente la
sua bocca si aprì dall’incredulità e le
sue mani iniziarono a tremare
violentemente.
Quando il suo sguardo alterato arrivò all’ultima
parola la mano che reggeva il
foglio ebbe uno spasmo improvviso facendolo cadere.
Volteggiando, il pezzo di carta finì sotto la scrivania.
Gilbert non si preoccupò di raccoglierlo tant’era
sconvolto. Si portò una mano
alla bocca mentre fissava il vuoto con uno sguardo che nemmeno un
posseduto che
stava per essere sottoposto ad esorcismo avrebbe potuto avere.
No, no, no ,no, no, no!
Gilbert sentì una fitta
nel petto. Il suo cuore batteva in
modo incontrollato facendogli quasi male e creandogli una sorta di
blocco alla
gola. O forse quello era colpa dell’ansia, non sapeva dire.
Non credeva a quello che aveva letto, era semplicemente impossibile.
Sentì all’improvviso
una violenta ondata di sudore freddo mentre la stanza iniziava a
ballare
davanti i suoi occhi a causa delle vertigini.
Era semplicemente impossibile.
No, no, no, no, no, NO!
Gilbert piantò con forza
le mani sulla scrivania e si alzò
di scatto rimanendo con lo sguardo fisso sulla superficie lucida del
mobile. La
sedia fu spinta violentemente indietro e cadde con un sonoro tondo a
gambe all’aria,
giacendo inerme sul freddo pavimento di pietra.
Aveva bisogno d’una boccata d’aria fredda, cazzo
aveva bisogno di una
fottutissima boccata d’aria fredda!
NO, NO, NO, NO, NO, NO!
Barcollando si avvicinò
alla porta dell’ufficio dove si
appoggiò allo stipite cercando di riprendersi. Era solo un
incubo quello, era
solo un fottutissimo incubo. Non poteva essere vero, non ora che aveva
trovato
un senso alla sua vita, non ora che aveva realizzato sé
stesso, non ora che
aveva trovato Matthew.
Lanciò uno sguardo storto verso la scrivania e lo vide, vide
quel maledetto
foglio di carta con quelle poche righe battute a macchina e firmate da
uno scarabocchio
in inchiostro nero.
Gilbert fu colto dalla nausea.
Premendosi una mano sulla
bocca iniziò a correre più veloce che
poté nei corridoi dell’edificio. Si
scontrò con Ludwig davanti la libreria facendolo quasi
cadere. Probabilmente
gli urlò qualcosa dietro ma Gilbert era così
sconvolto da non prestare
attenzione a nulla. Uscì fuori dal dormitorio e
cominciò a correre senza meta
nella neve con solo indosso la camicia e il pantalone della divisa e un
paio di
pantofole.
Nell’ufficio ormai vuoto,
affianco alla sedia accasciata su
un fianco e abbandonata a sé stessa giaceva ancora il
comunicato del governo
che era arrivato quella stessa mattina:
Comunicato
di massima priorità.
Si comunica a suddetto campo di concentramento collocato in territorio
prussiano
sottoposto all’amministrazione e gestione di Gilbert
Beilschmidt dell’avvistamento
dell’Armata Rossa in territorio polacco dirigersi verso i
territori tedeschi.
Pertanto viene ordinato dall’onorevole Fuhrer a suddetto
campo di
concentramento collocato sulla traiettoria perseguita dal nemico di
occultare
ogni documento sensibile riguardo il governo e i progetti di produzione
bellica,
di procedere con la pulizia etnica eliminando ogni testimone e di
abbandonare
la postazione ripiegando nella capitale.
Data:
13 dicembre 1944
Note dell'autore:
Salve a tutti :D
Eccomi qui a scusarmi nuovamente del ritardo della pubblicazione -_-'
Purtroppo ho avuto importanti impegni nel real che mi hanno portato a non poter scrivere con frequenza questo capitolo che insieme a quello precedente sugli alleati ritengo chiave in questa ff.
Infatti possiamo ritenere il capitolo degli alleati come uno spartiacque tra i primi capitoli che sono di presentazione dei personaggi, del luogo, delle relazioni ecc. e il blocco di capitoli che inizia con questo dove si affrontano temi più seri e importanti nella storia. Spero che questo cambiamento non vi dispiaccia perché... effettivamente questo è un campo di concentramento non una colonia estiva x'D E per citare un film recensito da Yotobi "E' finito il tempo delle mele P*****a!"
Le date non sono messe a caso ma sono calcolare, non preoccupatevi, non ci sono errori cronologici x'D
Inoltre in questo capitolo c'è una fortissima citazione a una fonte su cui mi sto basando moltissimo e che ritendo bellissima, spero che riusciate ad individuarla!
Detto ciò... a presto :D E spero che questa volta sia davvero presto x'D