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Autore: Lost In Donbass    21/11/2017    3 recensioni
Tom è un alcolizzato, cinico, apatico, coltiva marijuana e se ne frega del resto.
Bill è uno scrittore, ha subito un crollo psicologico non da poco, cucina torte di mele a raffica e mostra cicatrici che nemmeno lui sa di avere.
Ma se questi due squilibrati si trovassero a dover condividere la casa? In una campagna opprimente e inquietante, tra segreti sepolti in cantina, torte di mele, musica punk, fantasmi non del tutto morti, esperimenti umani, occhiate languide e case-reliquiario, riuscirà Tom a salvare sé stesso e Bill? Oppure sprofonderanno nel baratro dove nessuno li tirerà mai fuori?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
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CAPITOLO DUE: RACCONTAMI DI TE

Tom deglutì abbastanza rumorosamente e si tirò il colletto della maglietta. Ecco, partivano già male, lo sapeva. Guardò Bill, con la sua aria triste e gli occhi all’ingiù e gli posò timidamente una mano sulla spalla
-Ehm, Bill, mi dispiace, condoglianze. Io … beh, non sapevo, e …
-Va tutto bene, Tom. È già passato un anno, dopo tutto.- Bill sorrise, quel suo sorriso vuoto e inquietante e si passò una mano tra i capelli color platino. Poi si mosse, con quella sua buffa andatura ondeggiante e vagamente danzante e con un cerimonioso gesto della bella mano pallida e inanellata, lo invitò ad accomodarsi – Spero ti piacciano le torte di mele. Io ne ho una vera e propria passione.
Tom si limitò ad annuire, mentre si sedeva con circospezione al tavolo perfettamente pulito e ordinato. Però non era normale, si ritrovò a pensare, squadrando le tazze di porcellana tirate così a lucido da luccicare e da farlo riflettere nella loro superficie. Era tutto così pulito e profumato da dare quasi la nausea … sembrava una casa delle bambole in formato gigante. Non che d’altronde il padrone di casa non sembrasse lui la Barbie inserita da qualche bambina capricciosa in quella casa contemporaneamente da sogno e da incubo. Era tutto così statico e soffocante, non c’era nulla fuori posto, come se quello fosse una sorta di cristalleria, di reliquario. Se non l’avesse saputo, Tom sarebbe stato convinto che nessuno vi avesse mai vissuto dentro, ma che fosse solo rassettata nell’attesa di qualcosa che ancora non era arrivato. Ma com’era umanamente possibile mantenere tutto come in una bolla temporale, senza sconquassare nulla, senza lasciare depositare il minimo granello di polvere? Era … stressante, decise. Sì, lo stava già agitando tutta quella perfezione assoluta. Lui avrebbe sicuramente rovesciato qualcosa, avrebbe inavvertitamente rotto qualcos’altro, avrebbe rovesciato la marmellata sulle poltrone dove sembrava che nessuno vi si fosse mai accomodato sopra.
Guardò con ancora più circospezione Bill che gli tagliava meticolosamente una fetta di torta, un’enorme, soffice, perfetta, torta, come tutto il resto. Si guardò in  giro con nonchalance, cercando di individuare l’armadietto degli alcolici, perché poteva anche essere la casa perfetta ma nessuno, nemmeno la bambola bionda, avrebbe fermato le sue incursioni notturne a impossessarsi di qualche bottiglia.
-Mi dispiace, Tom, ma in casa non c’è alcol.
Quell’affermazione lo fece letteralmente sobbalzare sulla sedia, e non tanto per il contenuto in sé della frase, era quasi ovvio che ci sarebbe stata la fregatura, ma per il modo in cui Bill aveva parlato, così pacifico mentre gli serviva la benedetta fetta con una tazza piena di the bollente. Cioè, c’era qualcosa che non gli quadrava.
-Ah ehm … ma come hai fatto a capire che stavo pensando a quello?
Non doveva aver l’espressione particolarmente intelligente in quel momento, con gli occhi a palla e la bocca mezza aperta, perché Bill rise, di nuovo.
-Non è così difficile, i tuoi amici mi hanno detto che tu sei un alcolizzato appena uscito dalla riabilitazione. E cosa deve cercare un alcolizzato se non dell’alcol?- Bill si versò una tazza di the, con quei movimenti lenti e meticolosi – Per l’appunto, io ti ripeto che qui non troverai nemmeno una goccia di alcol. Mio marito non beveva molto, io non posso per via delle medicine che prendo. Quindi, caro Tom, qua dovrai sul serio affrontare la riabilitazione. E non ti credere, lo scopro immediatamente se porti qualcosa in casa.
“Seh”, pensò Tom, “non mi scopriva mia madre, vuoi scoprirmi tu, con i tuoi occhioni allucinati?”, ma non disse nulla, limitandosi ad annuire distrattamente e a distogliere lo sguardo. Aveva quasi paura di assaggiare quella soffice torta di mele e zucchero a velo, quasi che potesse contenere veleni a lui ignoti.
-Beh, Bill, cosa fai nella vita?
Ok, lo sapeva da solo che era veramente il modo peggiore per iniziare una conversazione, ma non ce l’avrebbe fisicamente fatta a reggere quel silenzio intoccato e perfetto da tomba che c’era in quella casa da incubo. Come faceva Bill a sopportare quel silenzio? Come faceva a vivere in quella dimensione di cristallo?
-Scrivo.- Bill gli sorrise timidamente, sedendosi accanto a lui e accavallando le lunghe gambe magrissime, sorseggiando il the con quel modo vagamente principesco e affettato – Ho una certa fama nel mondo del noir, anche se scrivo sotto pseudonimo femminile, ovviamente. Non so se hai mai letto i libri di Dafne Skuld: beh, sono io.
-Ma dai!- Tom tentò per un sorriso rassicurante – Georg è un tuo grandissimo fan! Se sapesse che fossi tu … come mai non ti vuoi far conoscere? Avresti uno stuolo di fan che ti chiederebbero di autografargli qualche copia dei tuoi romanzi.
Bill rise, un risolino schivo e imbarazzato, arrossendo delicatamente
-No, Tom, figurati. Non mi piace la fama, preferisco stare nell’ombra, è tutto molto più stimolante. È un po’ come avere due parti di uno specchio: una avvolta da un morbido velluto nero, e l’altra di delicata seta trasparente. Cosa scegli?
Tom non aveva capito fosse una domanda fino a quando non si rese conto che Bill lo stava fissando con troppa insistenza, battendo il pregiato cucchiaino di argento sulla superficie linda del tavolo di legno. Preso in contropiede, tossì
-Io? Ah … boh, direi … quella di velluto?
Fissò Bill quasi con maleducazione, rendendosi conto solo di stare quasi aspettando un segno: aveva detto giusto? O sbagliato? Qual’era la risposta che s’aspettava quella buffa creatura platinata?
-Esattamente.- Bill gli dispensò un bellissimo sorriso, e il ragazzo quasi sospirò di sollievo per aver azzeccato la risposta – La seta è più fresca, e più pregiata, forse, ma quel suo candore è così stancante, e si sporca così facilmente. Mentre il velluto no. Rilassa, culla, avvolge. E se lo macchi, non si vede così chiaramente. Le vedi quelle tende? Sono di broccato nero, e sono una sorta di schermo per la vita che voglio condurre. Mi tengono chiuso nel guscio che non voglio venga rotto.
-E non vorresti uscire, qualche volta? D’estate, per esempio?- sussurrò Tom, affascinato da quei occhi persi che vagavano per la stanza come se non appartenessero davvero a quel mondo, quel sorriso gentile eppure perso che sembrava impossibile da cancellare ma che sembrava così affascinante.
-Non ne ho bisogno, Tom.- rispose pacificamente il biondo, bevendo graziosamente un sorso di the – Ho sempre avuto ciò che desideravo nel mio guscio, e di uscire proprio non ne ho voglia. Chissà quanti incubi potrebberero soffocarmi. E comunque Hansi, mio marito, non ha mai voluto che la gente mi vedesse. Diceva che mi avrebbero fatto del male, è sempre stato molto protettivo nei miei confronti e io … beh, mi fido di lui. Se voleva tenermi segregato in casa, sicuramente avrà avuto un ottimo motivo per farlo.
Tom alzò un sopracciglio, assumendo un’espressione costernata e posò la tazza di porcellana sul tavolo, squadrando il suo anfitrione
-Cioè, credo di essermi perso un passaggio. Lui ti teneva chiuso qua? Ti obbligava? Ma Bill, è … ingiusto! Non poteva costringerti a rimanere in casa se volevi uscire e conoscere gente.
-Non dire sciocchezze.- Bill lo guardò storto, roteando gli occhi al cielo – Hansi ha sempre saputo cosa è meglio per me. La gente … è pericolosa. Dove sei nato, Tom?
-Qui, a Magdeburgo. La triste città di confine.- Tom fece una smorfia, stringendosi nelle spalle – Perché? Tu di dove sei?
-Appunto. Tu non puoi davvero sapere quanto le persone possano essere cattive.- non sapeva perché, ma Bill stava cominciando a spaventarlo seriamente. Gli faceva paura quella voce infantile e cocciuta da bambina nel corpo di un uomo, gli facevano impressione quegli occhi spalancati che giravano istericamente per la stanza con una velocità assurda, gli faceva strano quella mano completamente tatuata che, in un ossessivo tic, stringeva e mollava la tazzina di porcellana. Si stava agitando, presuppose il ragazzo, scompigliandosi da solo i capelli. E ora, che avrebbe dovuto fare? Sul manuale delle Giovani Marmotte non aveva mai letto di come calmare uno psicopatico, avrebbe dovuto fare tutto a sentimento. Lui. Ahah. – Non sei nato nella periferia di Berlino, in mezzo alla violenza che io ho vissuto giorno per giorno. Ne consegue che la gente è cattiva. Hansi voleva solo proteggermi da quelli che mi hanno fatto del male in  passato. La gente è cattiva. Cattiva. Cattiva cattiva cattiva.
Sempre nel suo mutismo basito, Tom lo guardò ingoiare rapidamente due piccole pillole azzurrine, sfarfallare un po’ gli occhi, e poi sorridergli teneramente. Ok, quello sì che faceva paura. Ma, d’altronde, lui cosa doveva temere se non la presunta guarigione dai suoi angeli alcolici? Sicuramente, non avrebbe temuto un ragazzetto omosessuale con gli occhi matti e la risata da bambina. O forse sì?
-Senti, non volevo offenderti. Non era mia intenzione. Tornando comunque al discorso di prima … sei di Berlino? E come ci sei finito in questo posto infame?-Non è infame.- rispose pacificamente Bill, spazzolandosi i pantaloni neri estremamente aderenti – E’ molto pacifico, un altro mondo rispetto a Reinickendorf. Sai, dove vivevo prima era tutto così … rumoroso. E sporco. E la gente era pericolosa, strana, non so come ne sarei uscito vivo se Hansi non mi avesse portato via con sé. Diceva che qui era perfetto, perché io sarei potuto vivere in pace, senza fastidi e rumori molesti, e non avrei dovuto temere nulla quando lui se ne andava. Spesso andava all’estero per lavoro, e io rimanevo solo, ma renditi conto di quanto possa essere più rassicurante rimanere soli in questo paradiso, oppure farlo in un quartiere degradato e malfamato come Märkisches Viertel. Più ci pensava, meno Tom riusciva a visualizzare un Bill adolescente che fumava sugli enormi scaloni distrutti dei palazzi del blocco del Märkisches Viertel. Sembrava un ragazzo così a modo, così fine, un tipo più da Charlottenburg, per dirla tutta, e invece pareva che fosse proprio un figlio dei peggiori agglomerati urbani della capitale. Lo faceva sentire quasi un borghese, lui, nato, cresciuto e dilaniato dalla triste e spenta Magdeburgo, sotto alle fabbriche metallurgiche e al cielo della Pannonia buio e morto. Niente di cui vantarsi, nessuno dei due.
-Beh, sì, effettivamente sono d’accordo. Non so, ma non ti ci avrei visto molto a spacciare eroina, ecco.- commentò Tom, scostandosi i capelli dal viso. Bill rise gettando indietro la testa e lui sorrise, impacciato.
-Oh, Tom, sei così divertente. Forse parlare di eroina è esagerato, ma la mia dose di marijuana l’ho dovuta smerciare anche io, ovviamente. Se non volevo finire male.- Bill abbassò le lunghe ciglia truccate, bevendo un sorso di the, con un sorriso vago sulle belle labbra magistralmente ricoperte di un pallido rossetto. Spacciava droga. E ne parlava come se gli stesse raccontando di aver fatto lo scout. Beh, effettivamente, per i ragazzi del blocco, spacciare era come fare lo scout per i ragazzini di Magdeburgo, solo che la posta in gioco era molto più alta che qualche stelletta di latta sulla camicia: il tuo posto nel branco, o una vita da reietto.
-Non so perché ma mi sto sentendo particolarmente stupido in questo momento a dire che io ero stato costretto a fare lo scout per i Lupi della Pannonia mentre tu passavi la tua infanzia a vendere canne e ascoltare musica illegale.- commentò Tom, masticando lentamente la sua torta di mele. Per un attimo, pensò a come sarebbe stato se quella torta fosse stata imbottita di cocaina.
-Beh, non sono tanto sicuro che sia una bella cosa gironzolare fino a tarda notte col rischio di essere preso a pugni e calci praticamente ogni giorno.- Bill si strinse nelle spalle – Ma, d’altronde, Hansi mi ha portato via prima che fosse troppo tardi, dunque il problema in sé per sé non sussiste. Parliamo di te, adesso. Dove lavori?
Tom lo guardò sfregarsi distrattamente la fede d’oro zecchino con un brillante che portava al dito, in mezzo a una cascata di grotteschi anelli dark.
-In un’officina. Sì, lo so, è triste, ma non ho nessuna laurea e diciamo che il mio esito dell’esame finale delle superiori lascia vagamente a desiderare, dunque … no, non sono come te, non sono un genio della letteratura, sono solo un meccanico che arrotonda lo stipendio con la coltivazione di marijuana, appunto e …
-Ah  no!- Bill lo interruppe agitando un dito, lungo e ossuto, coronato da un artiglio smaltato di rosso ciliegia – Io non voglio più avere a che fare con la droga. Se proprio devi coltivarla, non mettermi a parte di nulla.
-Non avevo intenzione di farlo.- si difese Tom, socchiudendo gli occhi scuri – Ma non c’è nulla di cui tu ti debba preoccupare, te lo prometto. Piuttosto, non per farmi gli affari tuoi, però … tuo marito … era malato?
-Intendi se è morto di malattia? Oh no, è stata una cosa molto più rapida.- Bill si strinse nelle spalle, avvolgendosi una delle molte collane attorno al dito. – Non ne parlo molto volentieri, però, quindi preferirei che l’argomento si chiudesse con oggi.
Tom si sentì particolarmente in quel momento, scandagliato da quegli occhioni più vuoti dello spazio e più bui degli oceani. Occhi morti ancora prima di aprirsi, occhi ciechi che però vedevano. Occhi inquietanti. Occhi da bambola.
-Hansi è stato ucciso. Accoltellato.
-Co … cosa? Assassinato?- Tom non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi, strozzandosi con la tazza di the. Faceva sempre strano sentirselo dire in faccia.
-Un suo paziente aveva perso la calma.- Bill si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore – Era uno degli psichiatri più quotati del mondo, sai? Ma se n’è andato così giovane … e io … comunque, possiamo non approfondire ancora l’argomento? Preferirei raccontarti di quando era ancora in vita. Del matrimonio, cose del genere.
Tom annuì, tentando di sembrare comprensivo, quando in realtà l’unica cosa a cui stava pensando era di voler scoprire qualcosa di più su quella strana coppia che aveva abitato il cottage. Non poteva fare a meno di sentirsi particolarmente ficcanaso, ma contemporaneamente come poter ignorare quella strana e amara sensazione che strisciava nel suo stomaco ogni volta che inavvertitamente posava l’occhio su quelle fotografie. Non aveva mai sperimentato prima nulla di simile a quella cupa atmosfera grottescamente felice che gravava in casa, e nel sorriso dolce del suo biondo coinquilino, e ancora non era sicuro di essere felice di esserci finito dentro. L’unica cosa che poteva dire era che almeno, wow, la torta di mele era davvero insuperabile.
-Ti faccio vedere la tua stanza.
Bill si era alzato, spazzolandosi i jeans da pieghe inesistenti. Gli sorrise teneramente, indicandogli le scale che sparivano al piano superiore.
Silenziosamente, Tom lo seguì, così a disagio in mezzo a tutta quella perfezione tirata a lucido, osservando i finti Munch alle pareti, le belle lampade Tiffany che illuminavano le scale, le porte di legno massiccio, i tappeti morbidi con motivi persiani sul pavimento di legno. Sembrava un sogno quell’abbaino velato sopra la loro teste, esattamente come la camera perfettamente in ordine dove lo condusse Bill. Tom non era mai stato abituato ad avere una stanza bella e in ordine. Quando viveva con sua madre, la sua stanzetta era sempre sporca, in disordine, con poster alle pareti e vestiti buttati alla rinfusa. Ogni tanto sua madre tentava di metterla a posto, ma arrivava la sera così stanca e distrutta che proprio non aveva tempo per stare dietro a lui in questioni così fondamentalmente inutili. La stessa fine l’aveva subita il suo piccolo appartamento dove aveva vissuto fino a prima di essere deportato a fare la riabilitazione. Un covo lercio dove vivere era quasi stressante. E invece, adesso, gli veniva offerta una camera bellissima, con un letto lindo e tirato a lucido. Qualcosa di meraviglioso. Entrò quasi con reverenza, guardandosi curiosamente attorno, sembrava un bambino in un castello incantato. Beh, pensò, per uno che l’adolescenza non l’ha vissuta, troppo impegnato a rovinarsi la vita con le proprie mani, questo sì che è un castello magico. Con una principessa trans dentro, ma magico comunque.
-Wow, è … è fantastica.- commentò. – Credo che sia la camera più bella che abbia mai avuto il piacere di vedere in ventott’anni di vita.
-Non è niente di speciale, Tom.- cinguettò Bill con voce flautata, scivolando silenziosamente dietro di lui per aggiustare l’impercettibile spostamento di un quadretto alla parete. Chissà perché, si chiese Tom con un brivido, era la copia della Vampira di Munch. Grottesco, a pensarci, esattamente come trovarsi a pensare alla favola di Barbablu. Sì, solo che qui lui si sentiva la sposa e vedeva quel giunco glamster come il malvagio e sadico sposo con la cantina piena di cadaveri spenzolanti. Sarà l’effetto di non aver più potuto toccare dell’alcol che mi porta a sragionare, pensò, grattandosi distrattamente il collo. – Oh, a proposito, sei impegnato con qualcuno? A me non da fastidio se porti gente in casa. Basta che nessuno sposti le foto.
-Eh? Ah, no, non ho nessuno. Sì, beh, ci sono Georg e Gustav ma non contano.
-Pensavo che potessi avere una ragazza. Un ragazzo come te è strano sia solo.- Bill sorrise ancora, scivolando di nuovo accanto alla litografia. Si assomigliavano così tanto, lui e la Vampira. Non avrebbe saputo davvero dire come, ma c’era un qualcosa, un’aura mistica, che permeava quella casa, i suoi quadri, il padrone, e le fotografie. Almeno in quella stanza non ce n’erano, fortunatamente. Non sapeva bene definire la sensazione amara che gli si era depositata nello stomaco, ma gli sembrava che ogni cosa lì dentro nascondesse del marcio dietro a tutta la pulizia perfetta e al profumo delizioso di mele e vaniglia. Come se da un momento all’altro fosse crollato tutto e fosse rimasto uno scheletro ingioiellato in un rudere avvolto da rovi e corvi spelacchiati, puzzolente di morte e disperazione. C’era qualcosa di strano, anche nella dolcezza stucchevole di Bill. Erano due uomini coetanei che avrebbero dovuto vivere insieme per un tempo indeterminato, e allora perché si comportava come fosse la servetta di un castello principesco perso nella Foresta Nera? Perché nulla era fuori posto? E come mai quelle fotografie che riempivano ogni angolo sembrava angosciarlo così tanto? Tom diede la colpa alla riabilitazione, anche se sapeva da solo che non era solo per quello che si sentiva così dannatamente a disagio. Non era un ragazzo incline alla paura, non lo era mai stato, troppo menefreghista della vita per potersi permettere il lusso di spaventarsi e provare qualche emozione così triviale. Ma quel luogo riusciva a inquietare anche lui. Doveva esserci qualcosa di strano, sicuro.
-E invece sono da solo. Non mi piacciono le ragazze.- appena si rese conto della gaffe e vide gli occhi di Bill luccicare ritrattò immediatamente la sua dichiarazione – Cioè, no, non mi piacciono nemmeno i ragazzi. Non mi piace la gente, in  generale. Com’è che si dice? Asessuato? Beh, allora sì, sono asessuato.
Bill rise, scuotendo la testa, e Tom trovò che la risata di Bill era vagamente oscena. Ma per questo non meno sensualmente isterica.
-Che cosa buffa, Tom. Ammetto che non me lo sarei mai aspettato.
Effettivamente, nessuno riusciva mai a crederci quando lo diceva. Quantità industriali di ragazze, e occasionalmente qualche ragazzo, avevano provato a estorcegli un appuntamento, un bacio, una notte insieme ma lui era sempre riuscito a svicolare elegantemente. Lui odiava le persone. Trovava tutto così insulso, così inutile, così indegno di attenzione che preferiva starsene in pace con una bottiglia e una pianticella nana di marijuana da coltivare piuttosto che stare a letto con una zoccola rifatta e tinta di biondo platino. Trovava il sesso la cosa più inutile del mondo, lo vedeva come uno spreco di tempo nel quale invece lui poteva starsene a fare filosofia insieme a una bottiglia di vodka e a una sigaretta sul tetto di casa. Non capiva Georg quando litigava con la sua fidanzata, non capiva Gustav che faceva commenti sulle tipe che vedeva per strada. Per lui non erano altro che inutili creature che si frapponevano tra lui e il mondo parallelo nel quale si rifugiava. Solamente che oramai non era più in grado di distinguere tra mondo reale e mondo fantastico, l’alcol aveva fatto in modo che si fondessero e che lui vivesse perso in un limbo inumano tra realtà e follia, camminando in mezzo alla gente ma senza davvero vederla, sopportando cose umane che non gli si addicevano. Tom viveva sospeso, sospeso nel vuoto, nella morte cerebrale, nei mondi che si distruggevano e creavano a milioni davanti ai suoi occhi bruciati e stanchi. Tom era diverso, diverso da tutti, fluttuava nei suoi cieli, nelle sue nuvole, nella sua apatia congenita. Voleva scappare, ma non aveva ancora capito come me. Voleva nascondersi, ma era sempre stato una schiappa a nascondino. Voleva volare, ma nessuno gli aveva medicato la ali. Voleva affogare, ma l’acqua gli era nemica. E allora beveva, beveva perché quando lo faceva riusciva a scappare, a nascondersi, a volare, ad affogare. Riusciva a vivere quello che nella realtà gli era vietato. Tom era ancora un ragazzino, un rigetto della società, quello che tutti volevano eliminare, il fallimento generazionale di gente che non aveva futuro perché era nata senza passato, l’orribile esempio che nessuno avrebbe dovuto seguire. Tom era semplicemente l’aborto fallito di un mondo sull’orlo del collasso, con figli imperfetti e storie vuote come gli schermi delle televisioni. Onde radio ormai morte, stanze solitarie, bambini ciechi con giochi d’acciaio, pecore spaventate da incubi inesistenti. Tom avrebbe anche voluto piangere, ma non aveva lacrime, solo vuoto dentro di sé, non aveva batterie, non aveva una spina: era solo una bambola abbandonata in un parco giochi avvolto da fiamme di fuoco greco.
-A me la gente fa paura, quindi sono sicuro che andremo d’accordo.- cinguettò Bill, sistemandosi la camicia. – La nostra sfera di solitudine ci cullerà fino alla fine dei nostri giorni, e noi staremo in pace. L’ho scritto anche in un mio libro. Comunque, sistemati quando vuoi, intanto ti faccio vedere il resto della casa. C’è solo una cosa che ti vorrei chiedere, per favore. La cantina. Ecco, … preferirei che tu non ci entrassi. Almeno per adesso, vedi, ci sono tutte le cose di Hansi e … oddio, so che non dovrei chiedertelo, ma preferirei che almeno per un po’ nessuno le vedesse o le toccasse. Quando mi deciderò cosa farne, te lo farò sapere.
Quando Tom si trovò ad annuire con quello che sperava fosse un sorriso comprensivo e blaterava un “Certo, capisco, non ti preoccupare non avrei nulla da fare in cantina”, gli venne in mente il raccapricciante dettaglio della storia di Barbablu. La cantina, con tutti i corpi brutalmente uccisi che penzolavano tristemente dal soffitto, sopra a una piscina di sangue scarlatto. E chissà perché si stava sentendo sempre di più la giovane e innocente sposina data in pasto al maligno nel meraviglioso castello nelle campagne.
  
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