Libri > Percy Jackson
Segui la storia  |       
Autore: RLandH    25/11/2017    1 recensioni
Da capitolo II:
[...]“E quindi hai pensato che abbandonarmi era meglio?” domandò irascibile lei, “Tesoro, nasciamo, viviamo e moriamo soli. Non è mia abitudine aiutare i mortali, mai, neanche i miei figli. Neanche quelli divini, se per questo” aveva detto con un tono infastidito, continuando a limarsi le unghia.[...]
Da capitolo IX:
[...]Era il figlio al prodigo, aveva bisogno di quel padre a cui aveva voltato le spalle, per uno stupidissimo corvo che non avrebbe potuto fare nulla contro un gigantesco uomo alto venti piedi. Le sentì brucianti le lacrime sulle guance.[...]
July vorrebbe aspettare la fine in pace, Carter si sente perso come mai è stato, Heather è in cerca di qualcosa e Bernie di quella sbagliata.
Se si è cosa si mangia: Arvery è una bella persona; Alabaster, lui è quello furbo. Marlon è un anima innocente e Grace è un mostro dal cuore d’oro.
E quando gli Dei decidono di invocare l'aiuto di quegli stessi figli dannati a cui non hanno mai rivolto lo sguardo, non c'è da stupirsi se il mondo intero va rotoli ...
Buona lettura,
Genere: Angst, Avventura, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Dei Minori, Le Cacciatrici, Mostri, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ei, dove sei stata per tutto questo tempo?” vi starete chiedendo. Forse no. Comunque ho avuto il mio bel da fare con l’università! Vi chiedo comunque umilmente scusa!
Allora, allora, nuovo capitolo: nuovi narratori. Ma tranquilli Vecchi Personaggi. Semplicemente una storia invece da essere narrata come sempre da A e narrata da B.
In più abbiamo il narratore Bonus, che non vedremo molto ma serviva per introdurre un personaggio che ammetto in una storia che parla di Mezzosangue che appartenevano all’esercito di Crono, doveva esserci.
Oltre questo è un capitolo stra-pieno di Mitologia NON greco-romana, la colpa è di Rick Riordan che ha scritto la Saga di Magnus Chase, che io amo troppo, e pure della mia tesi che è tutta sugli uomini del nord mica ho rubato il nome di Eirik dalla Saga di Eirik il Rosso.
Il disegno non mi piace molto: ma …
Vorrei ringraziare e_renna per il sostegno morale.
Vorrei anche ringraziare chi segue/legge/preferisce. Davvero. Grazie.
Buona Lettura.
The Road so far (O quello che ci siamo dimenticati):Grace l’Empusa, dopo essere stata parte dell’esercito di Crono si ritrova ad aiutare i due mezzosangue figli di Apollo: Marlo e Carter.
Dopo uno scontro con il gigante Tizio e l’improbabile alleanza con tre semidee del campomezzosangue (Lauren, Joe ed Emma). I sei approdano a La Fontana di Salamacia, un centro benessere. Qui fanno la conoscenza con la Maga Manto, che permette a Carter di immergersi nella vasca delle lacrime del lago di mantova per vedere il futuro, che ormai sembra difficile da scorgere. Carter infatti aveva avuto in precedenza lampi di visione della morte di sua sorella Heather – che Lauren il giorno stesso lo avvertere essere in missione, a detta del suo ragazzo Darren. Durante la visione mistica del futuro Carter scopre che  la sua sorellastra morente è scortata al campomezzosangue da due semidei che erano stati lealisti a Crono, Alabaster figlio di Ecate e Bernie figlia di Nyx. Heather morente chiama proprio Carter.
La visione è però interrotta dalla guerriera Cenis, che annuncia l’arrivo del Re Lapita Flegias insieme ad alcuni mostri. Qui aiutati anche dal romano Drew, signore delle Argille, Grace e i suoi amici si preparano alla battaglia. Lo scontro lì vede vincitori, con l’unica perdita della giovane figlia di Efesto Joe. Carter e Grace decidono di lasciare il giovane Marlo alle cure di Lauren perché lo riporti al campomezzosangue, mentre loro due proseguiranno nel tentativo di salvare Heather, Cenis la guerriera e Drew si accodano a loro. Il secondo inoltre riceve in dono la lama maledetta che Lauren aveva usato durante lo scontro(, il cui all’interno è infuso lo spirito vendicativo di Didone – e di tutti coloro periti per quel ferro).
Nel frattempo Alabaster C. Torrigton, in compagnia del suo lare personale Dr Claymor Horward, sta aiutando July, figlia di Eris, in una missione …

 
                                                                            

Il Crepuscolo degli Idoli
 
 
 

I briosi mostri di Járnviðr e altre cose molto (poco) allegre

 
 
(Bonus)

“Perché spacchiamo legna?” aveva domandato Will Solance osservando i movimenti fluidi di Chris Rodriguez. “Mi rilassa” aveva risposto quello, facendo cadere la mannaia e spezzando a metà il tronchetto; Clarisse La Rue era seduta su un prato con una mappa del campo sulle ginocchia ed un grosso pennarello viola, “Dove sono i figli di Atena, quando servono?” aveva chiesto nervosa, disegnando dei cerchi e delle x sulla cartina.
Will era slittato dalla sua posizione per affiancarsi a quella della figlia di Ares. Clarisse stava cercando di organizzare un efficace difesa per il campo, non appena i Romani fossero arrivati.  Lui aspettava quel giorno come una condanna, mentre Annabeth e gli altri si impegnavano per fermare i giganti e la rinascita di Gea, a loro toccava resistere fino al loro ritorno. Non molto eroico, doveva ammettere. Clarisse aveva sbuffato, lei non era una stratega, era una guerriera. “Forse dovrei andare a chiamare Malcom” aveva commentato con voce spenta, “No, andrò io da Pace e Chirone” aveva tuonato alzandosi in piedi subito, tenendo i fogli stropicciati in una mano.
Chris l’aveva guardata, abbozzando un mezzo sorriso, che era stato ignorato dalla ragazza, che se n’era andata a passo di carica. “Le cose non vanno bene?” aveva chiesto Will, ficcanasando un po’.
Il figlio di Ermes aveva sistemato un altro tronchetto che doveva essere spaccato, “Come sempre” aveva risposto con un sorriso lezioso sul viso.
Will stava per alzarsi e congedarsi, c’era l’intera infermeria da organizzare, i turni da fare tanto altro di cui occuparsi, ma qualcosa lo aveva fermato.
Lou Ellen era venuta verso di loro, aveva il viso cereo, gli occhi spalancati e tremolava. “Ei!Ei!” aveva esclamato Will scattando in piedi come una molla per andarle incontro, ma Lou lo aveva schivato svelta per dirigersi verso Chris. Il figlio di Ermes aveva fatto cadere l’accetta per indirizzarsi verso la figlia di Ecate. “Ho avuto un sogno” aveva sospirato con una voce miagolante lei, mentre Will metteva le mani sulle sue spalle, si rendeva conto che Lou fosse fatta di cera molle.
“Ne sei certa?” aveva subito tuonato Chris nervoso, i sogni, il futuro, erano tutti un gran caos e foschia di quei tempi. Lou Ellen aveva annuito. “Mia madre, è stata mia madre” aveva spiegato, lasciandosi scivolare sul prato, accerchiata dagli altri due.
“Cosa hai visto?” aveva chiesto incalzante Will, “Dobbiamo andare da Chirone” aveva risposto invece Chris, ma Lou lo aveva afferrato per la maglietta arancione per evitare che scappasse, “Lui non può aiutarlo. Anche se lo volesse” aveva sussurrato. I due ragazzi l’avevano guardata con apprensione, ma anche confusione; “Era su mio fratello Alabaster, qualcuno lo sta seguendo. È in pericolo” aveva bisbigliato lei.
 



(Grace I)

 
Serefone le aveva tenuto con le unghia le gambe spalancate, attraverso il pelo di una delle gambe aveva raggiunto la carne, stillando delle gocciole rosse da una ferita. “Devi essere pronta” aveva detto perentoria fissando Grazia con i suoi occhi carmini.
L’altra non riusciva neanche a respirare bene per il dolore, provava un male che non riusciva a descrivere, come se una forza senza eguali la spezzava dentro. “C’è qualcosa che non va” aveva mormorato, mentre stritolava il lenzuolo sotto le sue unghia.
Una sua compagna le aveva passato le mani sulla fronte. Era sorella Caterina, con il capo nascosto sotto il velo, vestita da suora.
Grazia non riusciva a venire a capo, la foschia si era completamente rarefatta, non riusciva neanche a mantenere l’aspetto umano, i suoi capelli erano fiamme vive e così le sue dita lattiginose schioccavano scintille. Avrebbe incendiato tutta la stanza.
Un’altra delle empuse aveva allungato la mano per posarla sul ventre pingue, “Scalcia, vuole nascere. Senti?” aveva detto entusiasta, prima di voltarsi e ghignare verso di lei.
“Devi spingere, sorella” aveva ringhiato Serefone, tenendole ancora le cosce spalancate, nonostante Grazia non desiderasse altro che serrasse e che quel dolore finisse.
C’era qualcosa che non andava.
Lo sentiva.
Le empuse  le percepivano quelle cose. “Qualcosa non va” aveva piagnucolato Grazia, sentiva nel ventre scalciare, voleva venire al mondo. “Sciocchezze Grazia” le aveva sussurrato una consorella nell’orecchio, tenendole la schiena perché non s’afflosciasse sul letto esanime.
“Brucia, sorella, vero?” le aveva domandato Serefone, avida, tenendole ancora con una morsa ferrea le gambe spalancate, “Sarà forte e potente” l’aveva rassicurato quella. “Il suo fuoco sarà potente” aveva valutato un’altra.
Grazia aveva annuito con le lacrime brucianti sulle guance ed il dolore nel ventre. Le fiamme più potenti di un empusa erano la prima e l’ultima. Quella di Grazia era stato uno dei fuochi più grandi che si fossero mai visti, che era finito poi per mischiarsi con l’ultima grande fiammata di sua madre. Grazia era venuto al mondo rubando l’ultimo fiato di sua madre.
Il loro fuoco era stato così potente da aver bruciato la grandiosa Roma.
“No” aveva mugugnato Grazia, “Non brucia” era riuscita a sussurrato con una fatica abissale. Non bruciava. Faceva male, un dolore inspiegabile, da spaccarla in due, da farla urlare.
Ma non bruciava. “Non brucia! Non brucia!” aveva continuato a ripetere, con le lacrime grosse negli occhi.
L’immagine di Albio era balenata davanti al suo viso, con quel suo ghigno nefasto, bastardo mezzosangue. Goditi del mio dolore, infame? Avrebbe voluto chiedere, ma non aveva fiato, non aveva capacità. Non bruciava.
Albio dietro le sue palpebre rideva di lei, rivoli di bruno sangue scendevano dalle sue labbra piene e dal centro del suo petto. Brucia nel tartaro, Marziale,  io ti ho ucciso. Grazia rise, tra le fitte, tra i lamenti, mordendosi poi le labbra con dolore. Ferro nella sua bocca.
“Sciocchezze sorella” le sussurrò qualcuno.
“Vedo la testa, Grazia! Spingi!” le urlò Serefone.
Per un solo, infinitesimale, momento Grazia sperò la creatura ereditasse gli occhi selvaggi di Albio.
Fu il dolore più forte della sua vita.
Poi vi fu il freddo.
Grazia schiuse gli occhi con fatica, timorosa, lo sentiva il sangue sgorgare dalla sua intimità, sentiva ancora la creatura legata a se dalle carni. Era un grumolo rosso, tra le dita arcigne di sorella Caterina. “Non c’è fuoco” aveva singhiozzato Grazia, stringendo le cosce. Sentendo per la prima volta un dolore più intimo. Poi qualcuno pianse.
Grazia spalancò le palpebre, gli occhi sottili e serpentini erano saettati verso le braccia di sorella Caterina, dove la piccola creaturina rossa aveva cominciato a mugolare. “Tagliate il cordone!” aveva subito strillato un’altra empusa al loro fianco. Grazia aveva alzato le braccia per accogliere il suo frutto. Aveva cambiato idea, sperava non somigliasse per nulla ad Albio. Che di quel bastardo semidio non fosse rimasta alcuna traccia su quella terra.
Caterina aveva bisbigliato a disagio, mentre troncavano il cordone, “È un maschio”. Grazia aveva veduto chiaro come il sole il viso di Albio delinearsi nella sua mente, con quell’espressione superba, selvaggio e con gli occhi argentei come le scure. “Come è possibile?” riuscì a chiedere solamente Grazia, mentre allontanava le mani dall’infante, combattuta da uno strano dissidio. Il timore verso quella così estranea creatura ed il desiderio di stringere al suo seno il suo frutto.
“Perché è umano” sancì Serefone, come una condanna.
 
 

“Ti sei addormentata?” la voce di Carter Gale era carezzevole, vibrava come corde d’arpa, era figlio del sole e della medicina, non vi era da stupirsi che fosse così armonioso. “No. Io … mi ero persa nel passato” aveva  sussurrato Grace, chinando il capo sulla spalla del ragazzo.
“Non ti ho mai chiesto quanti anni hai” aveva buttato fuori Carter.
Era di una bellezza intrigante, con la carnagione cannella, gli occhi scuri dalla forma allungata. Probabilmente oltre la discendenza divina, che lo rendeva particolarmente splendente, Carter aveva delle origini asiatiche, ma Grace non riusciva ad indovinare di quale luogo. Si rendeva conto che il ragazzo non aveva mai particolarmente parlato del suo passato, della sua famiglia. Sembrava che la sua vita fosse cominciata con il campo mezzosangue. Tutto quello che vi era stato prima ruotava intorno a Joelle.
Solo ed unicamente Joelle.
Grace aveva provato ad immaginarla molte volte. Una eterea donna dall’aspetto longilineo e lunghi capelli imbevuti dalla luce del sole, se la pitturava Grace. Una donna capace di rubare uno sguardo ad un uomo per l’eternità.
Ma Carter aveva negato più volte: Joelle era vera, non c’era nulla di superiore e magnetico. Grace un concetto come il vero non riusciva ad afferrarlo, era figlia della magia, tutto del suo aspetto non era che un illusione.
Grace non era vera. Forse non lo era mai stata. Forse solo con Marzio.
Non riusciva proprio ad escludere Marzio dai suoi pensieri ultimamente, perché si era ritrovata costretta a dover lasciare Marlo alle sue spalle. Carter l’aveva rassicurata che senza alcun dubbio il giovane ragazzino sarebbe stato meglio al campo mezzosangue e con Lauren.
Grace si era chiesto quanto avrebbe voluto anche Carter ritornare sui suoi passi e tornare anche lui a casa. Ricordava che dopo la loro mirabolante fuga dopo la battaglia di Manhattan, molte volte Carte le aveva detto che a volte sentiva la mancanza morbosa della sua casa, che avrebbe davvero tanto voluto. L’empusa gli aveva sorriso ed aveva acconsentito, “Bene, Carter, andiamo” aveva detto. Ma gli occhi scuri del ragazzo si erano fatti di ombra ed aveva chinato il viso, “Non posso più tornare a casa, Grace, mi è proibito” aveva mormorato.
Grace avrebbe voluto dirgli che non era vero, che se davvero avesse voluto, avrebbe potuto davvero, ma era rimasta in silenzio, perché non voleva rimanere sola. Perché casa sua non era più raggiungibile, era rimasta  in un altro tempo, in un'altra vita.


“Non è una cosa carina da chiedere ad una donna, Carter” lo aveva preso in giro Grace. Il figlio di Apollo aveva abbozzato una risata, la prima da molte ore, “Sono nata quindici giorni prima delle calende di Agosto, anno 817 dalla fondazione dell’Urbe” confidò alla fine Grace come un mantra. Non era una nomenclatura ancora in vigore si rendeva conto, ma era l’abitudine, dopo quasi duemila anni certe abitudini erano dure a morire. Grace non era di certo un dei mostri più vecchi in circolazione, bastava anche solo pensare alla guerriera che sedeva oltre le loro spalle, Cenis, era di gran lunga più vecchia. Però Grace aveva dalla sua un vanto non indifferente: non era mai morta.
Era strano che il suo corpo d’empusa non fosse avvizzito, ma come le sue illusioni si mantenesse giovane. Forse perché era nato da un rapporto consumato e non solo dalla magia e dal tartaro. Erano rare le empuse come lei.
“Non ho idea di cosa tu abbia detto” aveva confessato Carter.
“Cavoli fanciulla, te li porti benissimo” la voce di Drew delle argille aveva attirato la loro attenzione. Si era sporto dal sedile sul retro, infilando la testa tra i loro. Sorrideva in maniera un po’ affaticata, borse pesanti adornavano gli occhi. Durante il lungo viaggio in pullman non doveva aver dormito molto. Era colpa della spada, questo Grace non faticava ad immaginarla. Era un’entità viva e sobillante, Manto si era guardata bene dal dirlo quando la giovane Lauren l’aveva donata. Ma i suoi effetti venefici si sentivano. La spada sembrava rendere ogni loro emozione più gravosa. Grace aveva vissuto abbastanza allungo da aver visto ferri con volontà proprie, certe anche con personalità difficili e lingue lunghe, ma quella spada sembrava volersi nutrire di tutto ciò che avevano loro da offrire.
Aveva incisione nell’antica lingua dei dardani, ne Grace ne Cenis erano riusciti a leggerla, ma l’empusa sospettava di sapere che arma fosse quella.
“Grazie” aveva ghignato. “Volevo chiedere se per casa a qualcuno di voi due andasse di cambiare posto” aveva buttato lì Drew, occhieggiando la sua compagna di viaggio. Cenis sembrava più interessata a guardarlo storto che a ribattere ancora. Avevano litigato tutta la notte, guidati da una profonda incomprensione.
Cenis sembrava incapace di rispondere in inglese, nonostante lo comprendesse, di rimando Drew non riusciva a comprendere ne a ribattere in greco, così aveva cominciato a sputare veleno in latino. Grace non poteva negare di aver provato un certo brivido di piacere nel risentire la lingua con cui era vissuto. Conosceva il greco per diritto di nascita, tante altre lingue le aveva imparate nei secoli, ma il latino rimaneva sua.
“Come se io volessi sedere accanto a te” aveva ringhiato in arcaico la donna dagli occhi azzurri. “Abbiamo già appurato che nessuno capisce la tua lingua infame” aveva ringhiato il romano, “Io la capisco” aveva risposto Carter, con un sorriso fausto sulle labbra. Era la spada.
“Siamo quasi arrivati” disse decisa Grace, per calmarli. Era un mostro, aveva una resistenza maggiore alle maledizioni, rispetto gli umani.
 
“Dovresti parlare inglese, o il romano ne uscirà pazzo”, Grace aveva sentito quelle parole uscire dalle labbra di Carter, come un monito verso la guerriera lapita. Cenis aveva ridacchiato, mentre con gli occhi freddi aveva ammiccato al giovane signore delle argille. Drew non sembrava in realtà una presenza molto minacciosa, era fin troppo esile per i canoni romani, aveva quello che sembrava in toto uno striminzito petto di pollo e delle braccia sottili come spaghi. Però la spada si era fatta impugnare da lui senza alcun ritroso, lì dove Lauren s era confessata di aver avuto qualche rimostranza, voleva dire che era tanto il rancore che animava quel piccolo corpicino.
Aveva abbandonato i due per avvicinarsi a lui, sembrava proprio che il ragazzo stesse conversando con  la sua muta compagna. Lauren gli aveva donato la spada dicendo che probabilmente apparteneva più a lui che a lei. “Carter mi ha detto che sia Gea sia Giove hanno attriti con la tua divina madre” aveva soffiato Grace cogliendolo di sorpresa, “Si” aveva risposto Drew con la voce sottile di un gatto, “Immagino tu sia figlio di Cura, allora” aveva aggiunto il mostro. Gli occhi scuri del mezzosangue romano si erano sbarrati colti da stupore e sorpresa.
“Ho incontrato tua madre, qualcosa come seicento o ottocento anni fa” aveva confidato Grace, ammorbidendo il viso con un sorriso. Cura signora dell’inquietudine che tanto tormentava tutti gli uomini. Non poteva essere peggiore portatore per una spada che si nutriva di tali malignità. Romano, esiliato – si presumeva – e figlio di Cura.
“Conosci la storia della tua spada?” aveva domandato Grace. Drew aveva chinato il viso, osservando l’elsa con il pomello della sua compagna, il suo viso era macchiato di disagio. “Durante il viaggio in autobus, mi sono addormentato” le aveva risposto invece.  “Nei miei incubi è apparsa questa donna pallida e poi altri cento, tutti spettri, tutti affamati” aveva risposto alla fine il figlio di Cura.
Grace gli aveva preso una mano, lì dove svettava il tatuaggio del Campo Giove, vi era la sagoma nera di un uomo di profilo, le lettere di SPQR e sotto svettavano tre line nere.
“Non conosco la tua storia, Drew delle Argille, magari un giorno vorrai raccontarmela, ma non lasciare che nessuno di quei spettri si nutra di essa” gli consigliò solenne.
“Se avete terminato, di cincischiare, noi abbiamo adempiuto ai nostri doveri” la voce di Cenis era arrivata dura come un dardo, mentre si avvicinava verso di loro, indossava degli occhiali da sole con cui aveva tirato indietro i capelli sul viso e teneva due buste per la spesa in ogni mano. “Ti odio” era stato il freddo commento di Drew, con le sopracciglia crucciate.
Grace le aveva sorriso, accarezzando il viso del romano, prima di abbandonarli per raggiungere Carter. Anche lui avanzava verso di loro, tenendo delle buste. Aveva il viso basso ed un’espressione crucciata, Grace si chiese se pensasse a Marlo, Joelle o sua sorella Heather.
Il figlio di Apollo abbozzò un sorriso tutto stiracchiato e poco convinto, “Ho fatto la spesa” aveva detto imbarazzato, “Avevo già pagato quando mi sono accorta di aver preso le liquirizie” aveva mormorato con un tono spento. Marlo voleva sempre le liquirizie.
Grace aveva allungato una mano posandola sulla spalla di Carter, “La mangerò io” lo aveva rassicurato. “Usciti dall’I-70 E1; siamo praticamente arrivati, comunque” aveva commentato il figlio di Apollo un po’ frustrato, allungando una busta verso di lei. Grace aveva annuito. Avevano praticamente attraversato mezza America negli ultimi tre giorni. Carter non lo capiva bene a pieno perché Grace avesse così desiderio di raggiungere quella città, lui avrebbe voluto trovare Heather, prima che ella raggiungesse il campo, perché voleva salvarla. E Grace voleva dargli una mano.
“Voglio che tu sappia che nel mio passato io non sono stata una bella persona” aveva soffiato Grace, chiudendo gli occhi. Carter le aveva carezzato il viso, prima di stringerla con una certa rigidità in un abbraccio. “A volte mi rendo conto di non sapere nulla di te” aveva commentato alla fine il ragazzo, allontanandosi appena.
“Un’empusa vuole avere i suoi misteri” lo aveva stuzzicato Grace.
L’ultimo tratto di viaggio era stato indecente. Non avevano trovato un bus ed erano stati costretti a farla a piedi, fino a che Cenis non aveva fatto l’autostop e messo K.O. un giovane uomo a cui avevano rubato il mezzo.
“Stiamo andando nella direzione giusta?” aveva domandato Drew, mentre teneva le mani sul volante, Grace aveva annuito, spiando il figlio di Apollo sui sedili posteriori che era caduto a dormire con la testa sulla spalla della guerriera.
Cenis si teneva il braccio attaccato, “Stai bene?” aveva inquisito Grace guardandola dallo specchietto, “Si” aveva risposto seccata la guerriera, “Solo che disprezzo questo mio corpo” aveva aggiunto. “Ed eccola con il greco” aveva bisbigliato Drew. Grace aveva riso, mentre Cenis lo aveva occhieggiato male, “Parliamo di cose da donna, fidati non vorresti saperlo” aveva cercato di addolcire la cosa l’empusa. Le dita del giovane si erano un momento fatte più ferree sul volante, “Guarda che ho …  una sorella gemella, lo so come funzionano queste cose” aveva berciato un po’ arrossato sul viso. Poi gli occhi si erano ombreggiati di una profonda tristezza.
“Dove è tua sorella?” aveva domandato Grace, forse senza troppi riguardi, Drew si era morso un labbro, “Con nostro padre” aveva risposto poi con tranquillità, i suoi occhi si erano fatti un momento liquidi, “Io prima devo risolvere una cosa” aveva chiarito, prima di prevedere qualsiasi domanda Grace avrebbe voluto fare.
Cenis aveva chinato appena il busto, “Come appelli codesta tua cosa?” aveva domandato fastidiosa, “Lingua” era stato l’unico aspro commento di Drew. La donna aveva tirato la testa indietro, nascondendo un ringhio, “Cosa?” aveva domandato a fatica, in un inglese che risultava tanto buffo. “Devo uccidere un figlio di puttana” aveva detto con estrema semplicità il figlio di Cura, le due avevano fatto scattare la testa verso il giovane, perplesse e confuse. La spada che era stata sistemata di fianco a Drew aveva vibrato come il canto di una sirena. “Con tali funicelle?” aveva domandato Cenis, allungando una mano per pizzicare la parte sotto l’omero del braccio di Drew. Aveva parlato in un inglese molto fastidioso.
Il romano aveva fatto scivolare un sorriso piuttosto caustico sulle sue labbra, “Riparliamone quando affogherai nel fango” l’aveva minacciata.
“Basta bambini” aveva preceduto Grace l’altra donna, “Gira a sinistra” aveva aggiunto. Erano quasi arrivati, lo poteva percepire. “Dove è che andiamo?” aveva chiesto Drew, seguendo le sue istruzioni. L’empusa aveva mosso il capo, passandosi le dita tra i filamenti scure. Sentiva le falangi bollenti, ribollenti di fuoco e magia. “In un posto non bello” assicurò i guerrieri.
Cenis si leccò le labbra, improvvisamente vogliosa di uno scontro.
“Avevi un’improvvisa voglia di sciare?” aveva domandato Carter mentre osservava con attenzione la cittadina dove Grace li avevi portato. L’empusa si era limitata a guardarlo con un’espressione piuttosto critica, “Quando hai detto un posto brutto, confesso, non immaginavo Irowood” era stato invece il sagace commento di Drew, che osservava la cittadina con un certo interesse. Anche Cenis aveva mostrato senza vergogna la sua delusione per il luogo, quanto probabilmente più desiderosa di vedere campi di battaglia, così almeno pensava Grace.
“Ditemi l’ultima volta che un posto che innocuo lo è stato veramente?” aveva domandato allora Grace, mettendo le mani sui fianchi, “Perché vi ricordo che neanche una settimana fa eravamo in un centro benessere che si è trasformato in un campo di battaglia” aveva detto, con fermezza. Poi era caduto il silenzio. Tutti, Grace non aveva dubbi in questo, avevano rivolto i loro pensieri a Joe la figlia di Efesto, la pira non si era ancora spenta quando erano fuggiti via da La fontana di Salmace.
Quel silenzio era bastato a Grace perché tutti smettessero di comportarsi in maniera così infantile.
Prese un profondo respiro, “Questo posto non è un luogo dove essere sciocchi” aveva spiegato subito Grace, “Dovete rimanere incollati a me, tutti e tre, tutto il tempo” aveva sottolineato ancora.
Portare dei semidei – Cenis lo era? Non credeva di saperlo – a Ironwood.
Carter aveva annuito, afferrandole una mano, come a volerle dare sostegno.


Si erano incamminati lungo la cittadina continuando a seguire con attenzione tutti i passi che Grace stava compiendo. “Le empusa sono figlie, si diciamo di si, della magia di Ecate. Siamo streghe ed illusioniste” aveva cominciato a spiegare con una certa precisione Grace, mentre dava loro una dimostrazione sottile, manipolando la loro percezione e facendo risultare i suoi capelli da bruni di un colore violaceo, prima di riportare tutto al giusto livello. Tutto il suo aspetto era una costruzione mentale di nebbia e magia. “Ne ho incocciata qualcheduna come te” aveva detto Cenis, non guadagnando un’occhiata fastidiosa di Drew.
“Comunque è qualcosa di naturale per noi. Ma … c’è stato un momento in cui ho avuto bisogno di imparare cose nuove” aveva cominciato a spiegare Grace, “Ironwood è abitata da, chiamiamole, streghe” aveva spiegato poi. No, streghe non rendeva l’idea,  neanche un po’.
Era stata ad Ironwood con Marzio, un posto completamente diverso rispetto quello dove sostavano in quel momento, ma Grace la poteva immaginare sotto tutta quella perfezione la vera Ironwood.
Lui aveva bisogno di addestrare la magia che gli scorreva nelle vene, erano strane le creature come Marzio, era strana la magia che correva in loro.
“Conoscevo un figlio di Tria” aveva provato a buttare giù Drew, mentre teneva una mano sull’elsa della propria spada, non sembrava esserci residui di cattiveria nella sua voce, non era con il figlio di Tria che aveva problemi. Non era lui quello che doveva uccidere.


Grace si arrestò davanti a quello che aveva tutto l’aspetto di un piccolo negozietto di numismatica, si chiamava il Maine Penny2, nonostante fosse locato nel Wisconsin. Ma era una battuta che onestamente non ricordava.
Il negozio aveva due vetrate con esposte diverse monete d’argento, la porta era in legno d’acacia dipinto di un bianco sporco, chiaramente legno di ferro. Vi era affisso un cartello che riportava la scritta: Aperto.
“Un rivenditore di monete usate?” aveva domandato Drew, aggiustando il berretto di lana grezza sul capo, “Antiquariato ma per sole monete” aveva spiegato Grace, stringendo con più enfasi la mano di Carter, che si era voltato verso di lui ed aveva annuito.
Grace si era voltato verso i loro altri due accompagnatori, “Potreste …” aveva cominciato lei, “Essere i vostri occhi, empusa?” aveva domandato Cenis, facendo annuire il mostro. “Non ho idea di cosa abbia detto lei, ma presumo tu voglia chiederci di essere i pali” aveva commentato Drew, prima di farle l’occhiolino e sollevare il pollice in maniera affermativa.
Grace si era voltata repentina contro Carter: “Qualunque cosa accada. Fai parlare me” aveva soffiato con un tono preoccupato, mentre spingeva la porta del Maine Penny, facendo suonare un campanello attaccato dietro la porta.
“Benvenuti” la voce che li aveva accolti era armoniosa.
Il Maine Penny era luminoso, pieno di teche di vetro con monete preziose, ma Grace non si era degnato minimamente di guardarli, per andare dritto dietro al bancone.
“Grazia, che luminosa bellezza” aveva squittito l’uomo.
Eirik sorrideva in maniera così solare che oscurare il mondo. Grace aveva lasciato la mano di Carter senza neanche rendersene conto, quando si era avvicinata all’uomo per baciare le sue gote. “È la tua cena o continui con le strane idee vegane?” aveva domandato imberbe Eirik, osservando con gli occhi grigi come lame Carter.
Grace aveva fatto scivolare una mano sul mento squadrato di Eirik, fino poi a scendere sul suo collo coperto da una morbida pelliccia grigia con chiazze argentee e nere. Che manto stupendo. “Continuo” aveva spiegato subito, prima di voltare il capo verso Carter e sorridere. Il suo compagno non doveva sentirsi molto a suo agio in quel momento riconosceva.
Eirik aveva riso, con gli occhi scintillanti, con la mano rude le aveva carezzato il viso, “Odio questo tuo aspetto” aveva detto con voce spenta. “Ed io il tuo” aveva confermato Grace. Il vero aspetto di Eirik, il suo aspetto di bestia era senza alcun dubbio di una meraviglia unica, migliore di qualsiasi aspetto di uomo avrebbe potuto mai prendere. Questo era certamente vero. Ma Eirik indossava il viso di un uomo morto, che non poteva che stregare Grace. “Sto ancora aspettando quel bacio” aveva sussurrato Eirik, passando le nocche sulle sue guance tonde. Grace si era ritratta con un movimento svelto, ricordando con timore quel bacio che non si erano scambiati eoni ed eoni fa.
Eirik le aveva letto dentro, tanto tempo fa, nel profondo da averla scossa, nel profondo da aver mutato la sua illusione nel suo incubo.
Il lucido nero dei capelli, la carne di perla e gli occhi grigi come scuri lucenti, dopo tutto quei secoli, il viso di Albio poteva ancora stroncarle il fiato.
Perché somigliava così tanto a Marzio.

Grace si era avvicinata a Carter, “Ho bisogno di incontrare la Hag di Ironwood” aveva soffiato poi con sicurezza l’empusa. “La signora saprà già che siete qui. Non c’è cosa che ella non sappia se avviene nei confini del suo regno” aveva spiegato ferace Eirik.
Grace aveva sbuffato, aggiustando il colletto della giacca di jeans, “Sapere che sono qui e volermi vedere sono due cose diverse” aveva detto un po’ più infastidita Grace.
Eirik aveva riso, forse di lei, nonostante avesse rubato il viso di Albio della sua mente e lo avesse riprodotto in ogni minima rifinitura, non riusciva ad interpretare il ruolo con abbastanza convinzione. Non aveva mai voluto Albio e contemporaneamente non aveva mai voluto nessuno che non fosse Albio. “Vedrò cosa un umile commerciante possa fare” l’aveva rassicurata Eirik, “Ma devi sapere che l’Hag ultimamente si è data a parecchi affari” aveva spiegato pragmatico. E forse neanche troppo contento.
 
“La gente di questo posto è tutta inquietantissima” aveva detto Drew, mentre tagliava un po’ di pancake su cui aveva messo sopra sciroppo d’acero. Cenis aveva deciso di chiudersi in un mutismo assoluto, aveva messo la sua lancia rivolta con la punta al soffitto e l’aveva incastrata tra il piede della sedia ed il bordo del tavolo. Gli occhi blu erano come quelli di un rapace, rivolti a tutti i frequentatori del locale.
Carter invece guardava lei, negli occhi nocciola, dalla forma di una mandorla, poteva leggerci benissimo una confusione letale ed un’impellente voglia di chiedere.
Era sempre stato strano il rapporto tra loro due, si erano uniti e legati, come forse solo una famiglia avrebbe potuto, in lui, in Marlo, Grace aveva rivisto Marzio. Ma erano entrambi sempre stati restii a parlare di loro.
Grace aveva avuto poche, se non esigue, notizie di Joelle, spettro che animava il petto di Carter e lei, d’altronde, non è mai riuscita neanche a dirgli del fatto che un tempo è vissuto un uomo che si chiamava Marzio, e che era suo figlio.
“Se vi dicessi tutto, ogni illusione che vi è ad Ironwood crollerebbe. E fidatevi è l’ultimo posto dove vorreste trovarvi” aveva spiegato con sicurezza.
“Taluno si sta dilettando nello scrutarci” aveva sussurrato Cenis, parlando in un basso e stentato inglese, in modo che tutti potessero sentirla.
Tre paia di occhi senza particolare riguardo erano saettati nella direzione in cui erano rivolti quelli della guerriera lapita. Chi gli osservava erano due giovani, uomo e donna … e per Grace erano sinonimo di problemi. “Voi non siete abituali di queste parti?” aveva domandato alla fine con orgoglio.
“Di sicuro ora non siamo gli unici fiammeggianti in città” aveva buttato fuori la donna. Lei aveva la pelle di onice nero e capelli del più setoso corvino che Grace avesse visto, non era bella, non propriamente, aveva un grosso naso schiacciato ed occhi rossi come scintille del focolare. Lui era più signorile, con giacca e cravatta in gessato, incarnato nero come una notte senza stelle, capelli rossi come fuoco scoppiettante tenuti in una coda bassa ed un sorriso piuttosto pieno di se.
Grace aveva fatto schioccare le dita, per un secondo scintille rosse e gialle avevano illuminato i suoi polpastrelli, perdendosi poi in cenere sul pavimento a quadri della locanda. L’uomo aveva portato l’indice alle labbra, intimandoli quasi di far silenzio, ma in realtà aveva soffiato sopra accendendo poi la punta come una candelina. Aveva mosso il dito spegnendolo.
“Ma cosa?” aveva domandato Carter, sorpreso e forse anche colto un po’ in preoccupazione. “Siete lontani da casa” aveva mormorato Grace, cercando di mantenere calma nella sua voce, “Non quanto te” aveva sussurrato l’uomo, facendole l’occhiolino, aveva iridi del colore dell’oro fuso.
Stava cercando in ogni modo di sembrare quanto più controllata possibile per non dover dare motivo di preoccupazione ai suoi compagni.
“Sei decisamente fuori dai tuoi confini” aveva saggiato la donna, alzandosi e lasciando a metà il suo bicchiere. Cenis era scattata su come una molla, per troneggiare su di lei, la guerriera Lapita di certo non spiccava di per sé per altezza, mentre la donna nera sembrava una longilinea figura. “Lady Sinmara” aveva cercato di placare gli animi l’uomo dai capelli di fuoco.
La donna lo aveva guardato con semplice sbieco nel viso, lisciandosi con le mani la gonna a tubino che indossava, tutta vestita in rosso scarlatto. “Non ho intenti bellicosi, Mur” aveva chiarito immediatamente con un tono di voce misurato, “Sono solo molto curiosa” aveva commentato alla fine con onestà Sinmara, sorridendo verace.
Grace poteva dire di condividere la stessa curiosità e di averne anche un discreto timore.
Carter si era alzato, “Non vogliamo creare problemi” aveva anche acconsentito lui, facendo un movimento misurato verso Sinmara e sfiorandole appena la spalla.
Qualcosa di controllato e che sarebbe bastato forse in millesima parte a controllare qualsiasi animosità la signora del fuoco avesse avuto contro di loro. Parte del potere di Apollo era nelle doti dell’empatia, forse se Carter avesse cantato avrebbe fatto venir voglia a Sinmara di ballare tenendoli per mano. Ma Carter come figlio di Apollo non era purtroppo forte.
La donna era scattato prendendolo per un polso, non aveva messo alcuna forza. “In te percepisco un potere simile a quello di Frey. Una potente Alf Seidr” aveva notato la donna, la sua presa si era fatta per un momento di fuoco puro, ma Carter aveva resistito stoico.
“Non vorrei incidenti diplomatici nel mio bar” aveva squillato infastidito un uomo, voltandosi verso il loro quadrato. “Non vorremmo mai indispettire la Hag di Ironwood” aveva detto subito schietta Grace, assecondata da Mur.
Ma Sinmara aveva continuato a tenere Carter per il polso, “Io sono la signora di …” aveva cominciato con virulenza.
“Noi lo sappiamo chi sei tu, signora pallida” la voce era tuonata con il vigore di un tuono. Lì sull’uscio Eirik del Maine Penny teneva premute le mani sulla pelliccia raffinata. Al suo fianco erano due, una donna nerboruta ed un uomo ancora più nerboruto. “Ti ricordo che sei ospite della Hag e per tale motivo sei soggetta alle leggi dell’ospitalità” aveva detto uno dei tre nuovi venuti, “Inoltre, Grazia da Urbe è per sangue un membro dei clan di Ironwood” era andato a sua difesa Eirik.
Sinmara si era seduta nuovamente al suo posto, con un sorriso un po’ freddo sulle sue labbra, “Non vorrei mai mancare di rispetto” aveva spiegato con voce piuttosto rigida la donna, calcando bene sull’ultima parola.
Il polso di Carter era libero finalmente, ma un cerchio rossastro lo adornava, insieme alla pelle cotta e all’odore forte del bruciato.
Grace aveva afferrato il polso senza neanche guardarsi in faccia, cercando di ricordare una formula magica per lenire il dolore, Drew aveva cercato nella sua borsa per estrare dell’ambrosia liquida – doveva aver saccheggiato le cucine o l’infermeria di Manto.
“Il sindaco è pronto a ricevervi” aveva detto loro, la donna nerboruta.
 
“Sarei, in tal momento, curiosa di cognoscere l’ubicazione di tale loco, in cui ci hai scortato” aveva sussurrato Cenis all’orecchio di Grace, ma lei aveva fatto intendere di non averla senta, avendo preferenza nel prendere sotto braccio Eirik. “Quei due erano di Muspellheim3!” aveva sussurrato, a denti stretti, al ragazzo.
Non aveva senso dal punto di vista logico: perché mai due giganti di Muspellheim dovrebbero aggirarsi a Ironwood come i padroni incontrastati del mondo?
“Cosa vuoi che ti dica: Ragnarok si avvicina” aveva scherzato Eirik con un sorriso luminoso che sfoggiava sul viso, aveva denti con una dentatura affilata come spade. “Sei l’unica persona che può essere contenta della fine del mondo” aveva cinguettato Grace. La verità era che no, la notizia della fine del mondo era un problema su cui avrebbe dovuto concentrarsi, ma non ora, prima doveva assicurarsi di sopravvivere alla Hag di Ironwood, di ritrovare Heather, la sorella di Carter, e possibilmente salvarla. In fin dei conti si era sempre guardata bene dall’immischiarsi in quella situazione, probabilmente qualcuno più inerente al campo avrebbe fatto qualcosa per impedirlo …
Che poi non doveva essere ignorato il fatto che se non fossero stati i giganti di fuoco, forse sarebbe stata Gaia a mettere fine al mondo come lo conoscevano.
“Pronto: seconda titanomachia” l’aveva giocata un po’ Eirik. Oh be aveva ragione, decisamente un colpo di testa, non una delle sue migliori idee. Però aveva permesso di incontrare Carter e dunque forse poteva considerarsi come qualcosa di buono. “Avevo le mie ragioni” aveva spiegato solamente acre, “Credo di averle conosciute le tue ragioni. Solo il Signore del Tempo avrebbe potuto …” aveva replicato Eirik.
“Non pronunciare il suo nome” aveva detto solenne, prima di sciogliersi da lui, per ricongiungersi ai suoi compagni, mentre stoici percorrevano la strada per raggiungere l’ufficio del sindaco.
Carter l’aveva afferrata per un braccio, allontanandosi dalla traiettoria sotto lo sguardo piuttosto attento degli accompagnatori. “Grace, mi fido di te. Sei la mia famiglia” aveva sussurrato Carter, senza ombra di dubbio, cercando ti mantenersi più tranquillo, “Ma devo sapere su che uova stiamo camminando” aveva mormorato.
Grace aveva guardato il polso di Carter, era rimasto solamente una sottile linea di un rosa ambrato. “Divinità Norrene” aveva spiegato, “Siamo vicino ad una sorta di porta sul retro per Jotunheim. Non saprei spiegarlo bene” aveva cominciato ad illustrare la creatura, continuando ad accarezzare il polso martoriato. “Ma questo posto riflette esattamente una piccola porzione di un altro mondo, per l’appunto Jotunheim4, dove esiste questo luogo noto come Járnviðr, la foresta di ferro” aveva buttato fuori Grace.
Carter era rimasto in un silenzio brutale, “Esistono divinità nordiche” aveva esclamato confuso e concitato.
Grace aveva sollevato un sopracciglio, “Penso sarebbe un po’ troppo monoteistico pensare che esista solo un pantheon, no?” aveva domandato. Carter aveva aggrottato ancora di più il viso, “Nel senso, se esistito dei greci, perché non dovrebbero esistere dei diversi?” aveva domandato poi. “Questa cosa ha senso, anche se mi crea un numero imbarazzante e sconclusionato di domande sull’origine del mondo” aveva risposto Carter, grattandosi il capo. Grace aveva annuito, “Penso che ne parleremo bene dopo; cercherò di dirti tutto quello che so, non che sia molto” aveva spiegato lei ridente, incrociando le dita con quelle del ragazzo, “Solo che prima dobbiamo incontrare l’Hag – sta per  saggia, diciamo il capo –  di Ironwood” aveva ripreso subito Grace, voltando lo sguardo verso gli altri accompagnatori che sembravano essere a questo punto molto meno accondiscendenti a voler aspettare il loro temporeggiare.
“Vuoi anche spiegarmi perché vuoi incontrare questa signora?” aveva domandato poi Carter, voleva porre altre mille domande, “Perché dopo quell’ultimo messaggio di Laurie con il fidanzato di tua sorella, non si è riuscito più a stabilire alcun contatto. Ho vissuto quasi duemila anni per assicurarti che nessuno è più abile nel trovare qualcuno dell’Hag di Ironwood” aveva spiegato netta.
“Non stiamo per finire in un macello, vero?” aveva chiesto Carter poi, con genuina gentilezza, “Probabilmente sarà peggio” aveva concesso Grace. Prima di ridacchiare, accompagnata da quella del ragazzo.
 
L’ufficio del sindaco di Ironwood era assolutamente inquietante. Una stanza quadrata, dall’aspetto soffocate, su cui svettavano senza vergogna teste di vari animali impagliati e fotografie di panorami innevati, c’erano anche parecchie medaglie  trofei legati al mondo sciistico.
Sul muro dietro la scrivania svettavano, tra le teste di due cervidi, dei quadretti con dei disegni, in uno svettava un lupo, in uno una donna la cui metà del viso era d’ossa ed il terzo era un serpente.
Su una sedia di pelle dallo schienale imbottito, proprio dietro la scrivania, stava una donna con un ingombrante pelliccia di grigio morbido. Ma le attenzione di tutti erano rivolte al grosso lupo che sonnecchiava davanti alla scrivania, sul tappetto su cui erano riportati i colori ed il nome dei Red Sox – Grace non era molto informata, ma era abbastanza certa non fosse una squadra del Wisconsin.
“Quello è un lupo” aveva detto in greco Cenis senza alcuna vergogna, “A me piacciono i lupi” onestamente Grace non aveva idea di come Drew l’avesse capita.
“Nel dubbio posso suonare My heart will go on con il flauto” aveva buttato lì Carter.
“Siete davanti la nostra signora, dovreste avere rispetto” aveva tuonato Eirik.
Grace aveva deglutito, guardando il grosso lupo ronfare e poi alzando lo sguardo verso la figura dietro la scrivania.
L’Hag di Ironwood era decisamente diversa dall’ultima volta che Grace l’aveva vista, non poteva dire se fosse più vecchia o più giovane, fin dal primo momento in cui si erano incontrate l’empusa aveva potuto comprendere che la gigantessa di Ironwood fosse una delle più talentuose signore delle illusioni con cui avesse mai avuto a che fare. Il suo viso era senza tempo, con i capelli di polvere grigia e gli occhi di azzurro luminoso come stelle incandescenti.
Grace l’aveva trovata come qualcosa di profondamente etereo e degno di rispetto, in un certo senso anche antichità, nuda come la terra e solo con indosso la pelliccia di lupo.
In quel momento l’Hag era una donna senza alcun dubbio attraente, con capelli lucenti ed una grossa pelliccia in cui sparire dentro.
Ed era molto infuriata con il suo interlocutore al telefono. “Per il regno di mia figlia, non mi importa quello che state piagnucolando! Trovate quel moccioso” aveva urlato prima di battere giù la cornetta nel fisso. “Penso che sia sorprendente quanto siano incapaci i tuoi fratelli, Mánagarmr” aveva esclamato l’Hag aggiustandosi il colletto di pelliccia. Il lupo che era steso sul tappeto aveva sollevato il muso per guardare la donna, aveva anche quello occhi azzurri scintillanti. “Ma tanto può nascondersi quanto vuole, ma i suoi sedici anni saranno come il quattro di luglio” aveva ghignato, prima di degnarsi finalmente di guardare i venuti.
L’Hag aveva battuto le mani, “Grazia, Gratia, Grece l’Empusa, come devo chiamarti?” aveva inquisito, sollevandosi dalla sua poltrona, sotto la pelliccia, indossava un completo di pelle nera e lucida, “Grace, mia venerabile signora, sarà sufficiente” aveva soffiato l’empusa chinando il capo in maniera rispettosa davanti alla donna.
La gigantessa le aveva sorriso accomodante, aveva scavalcato il lupo fino a raggiungerla, era alta e longilinea come un airone. Aveva allungato una mano e l’aveva posata sulla spalla di Grace. Voleva esserci gentilezza ed amichevolezza nel suo tocco, ma l’empusa aveva sentito il gelo pervaderla. Come un tempo non sembrava riuscire a dare un’età al viso dell’Hag,  gli occhi da lupa erano piantonati nei suoi così tanto da farla sprofondare nel terrore.  “Mi è dispiaciuto sapere di tuo figlio” aveva detto glaciale l’Hag, Grace non aveva avuto il coraggio di voltare il viso verso i suoi compagni ma aveva sentito un profondo cambiamento in loro, in particolar modo in Carter. “Sono la prima a sapere quanto sia inutile una madre senza i suoi figli” aveva mormorato, c’era un po’ più di intimità in lei, gli occhi si erano voltati verso i quadri che ornavano il muro. I tre figli da cui Odino l’aveva separata.
 Gli occhi da lupa dell’Hag si erano di nuovo concentrati su di lei, poi erano scivolati verso i suoi compagni, “Perché, amica mia, non mi presenti i tuoi amici?” aveva domandato leziosa, prima di avvicinarli e sniffali per bene. Anche il lupo l’aveva seguita, quando aveva avvicinato il naso umidiccio a Drew questi era stato tentato di allungare una mano per grattargli il muso, ma un movimento secco del capo di Eirik lo aveva fatto desistere.
L’empusa aveva presentato i suoi compagni in maniera più sbrigativa e meno esplicativa possibile, con l’intenzione di tutelarli dalla gigantessa. “Bene, Greci, Romani, Lapiti!” aveva esclamato entusiasta l’Hag, con gli occhi luccicanti come una bambina nella mattina di Natale, battendo le mani tra loro, “Che gioia! Tesoruccio si scolerebbe il veleno se sapesse di essersi perso tali stranezze” aveva guizzato tutta corretta. Grace aveva speso del tempo, degli anni, nella Foresta di Ferro, ed aveva sentito la presenza di Tesoruccio aleggiare in ogni dove.
Una volta Eirik aveva detto che se la Saggia era una brava ingannatrice, il padre dei suoi figli era ben più pericoloso. Grace aveva visto di sfuggita, una sola volta, una sua immagine spettrale. Parlava con una lingua di miele e le sue chiacchiere stesse irretivano le orecchie di tutti gli uditori. “Miei gentili ospiti, io sono il sindaco di Ironwood, hag di Járnviðr, la nefasta gigantessa che partorisce lupi, quelle cose lì. Potete chiamarmi Angrboða!” aveva esclamato poi, aggiustandosi la pelliccia addosso. Aveva evitato di dire che era una lupa essa stessa, che tutti erano uomini lupo.
“Sei la madre di Fenrir” la voce era uscita da Drew, a tradimento, tutti gli occhi erano ruotati verso di lui, compresi quelli azzurrissimi della gigantessa, “Esatto!” aveva squillato, “Qualcuno qui si è guardato bene dal conoscere anche cose diverse” aveva aggiunto.
Drew aveva sorriso imbarazzato ai complimenti della donna.
Certamente Grace non doveva dirsi stupita che la messaggera del dolore5 ed il figlio dell’inquietudine si fossero trovati.
Angrboða aveva allungato una mano ed aveva messo il dito ad uncino nel bordo della maglietta viola sbiadito ed aveva poi disegnato con il dito una runa sul collo del ragazzo. L’attimo dopo Drew indossava una maglietta dei Red Sox, “Tifi molto questa squadra” aveva biascicato il figlio di Cura, se voleva essere una domanda era uscito più che altro un pasticcio sdolcinato. “Non ho mai perso una partita” aveva squittito Angrboða, avvicinandosi a lui.
“Adesso tutti fuori, io e gli adulti dobbiamo parlare” aveva detto secca, mostrando il viso a Grace. Carter aveva allungato una mano verso di lei per prenderla, ma l’empusa lo aveva guardato ed aveva chinato il capo a volerla assecondare.
“Mia signora” aveva provo Eirik, “Si fuori anche tu, mio caro, resterà solo Mánagarmr con me” aveva berciato la gigantessa sicura di se, “Inoltre non c’è nulla di cui preoccuparsi, Grazia è stata mia allieva e per giuramento di sangue appartiene a questo posto” aveva ricordato a tutti l’Hag.
 
La gigantessa aveva ripreso posto alla sua scrivania, davanti era apparsa una sedia, in cui Grace aveva preso posto sperando non fosse una qualche trappola mortale che sarebbe finita per ucciderla. Non accade.
“Un giorno mi spiegherai come fanno quelle come te a far perdere la testa agli uomini. Dopo tutti questi secoli Eirik è ancora pazzo di te” aveva soffiato l’hag, mentre estraeva una sigaretta dal suo reggipetto e l’allungava verso Grace. Questa l’aveva accesa con una piccola scintilla. L’attimo dopo sapeva di aver fatto crollare ogni maschera, sedeva come empusa davanti la gigantessa, una gamba di bronzo di ferro, e tinte d’azzurro, l’altra d’asina. La sua pelle era bianca come la cenere ed i suoi capelli scoppiettante fuoco vivo.
“Parte del nostro potere ha questo sgradevole effetto collaterale. Per questo di solito li uccidiamo” aveva soffiato Grace. Aveva sentito sulla lingua il sapore delle carni di Albio. “Temo non avrei potuto vincere contro un uomo-lupo” aveva ammesso alla fine.
L’Hag aveva ispirato un po’ del fumo della sigaretta, “Ah la carne degli uomini. Quanto mi manca” aveva sussurrato, con una mezza risata.
“Smettiamola con le stupidaggini, cosa vuoi da me, Grace l’empusa?” aveva domandato alla fine la gigantessa, con un sorriso sornione ad illuminarle il viso. “Ho bisogno di trovare una mezzosangue” aveva ammesso alla fine. Heather Shine, capelli di rame ed una condanna a morte sulla testa.
Angrboða aveva spento la sigaretta con un movimento brusco, “Benvenuta nel club. Gli hai visti quei due simpatici fiammiferi alla tavola calda di Stiff?” aveva domandato infastidita, “Sei entrata in affare con i giganti di fuoco” aveva stabilito Grace. La gigantessa aveva annuito, “Che vuoi che ti dica, una madre alle suppliche di un figlio non sa proprio dire di no” aveva mormorato con un sorriso serafico l’Hag.
Allora Eirik aveva ragione era proprio Ragnarok. Dietro a tutto quello doveva esserci il Lupo che non doveva assolutamente essere liberato, in base a quello che aveva capito nella sua permanenza in quei luoghi. “I miei ragazzi si sono persi un mezzosangue e sembra proprio che non lo riescano a trovare … e per quanto gli anni dei mortali siamo secondi sul mio orologio, siamo quasi ad uno” aveva detto infastidita.
“Stai dicendo che hai perso il tuo tocco?” aveva domandato Grace, alzando lo sguardo per vederla bene, accavallando le gambe e con un sorriso cristallino sul viso. Sapeva di essersi appena giocata una mano difficile. Angroboða era potente ed era intelligente, ma anche consapevole di questo nel bene e nel male. L’ego talvolta era più efficace degli incanti. “Non ho detto questo” aveva precisato immediatamente la gigantessa, ai suoi piedi il lupo aveva ringhiato senza alcuna remora.
“Non volevo mancarti di rispetto” aveva detto subito Grace, “Ovviamente non volevi farlo. Volevi premere sul mio narcisismo” aveva stabilito la gigantessa, con un sorriso forzato sulla faccia.
Grace era rimasta in un silenzio bruciante, temendo per la sua vita.
“Il cuccioletto che devo trovare è ben nascosto da più di un paio di divin mani, quindi forse per la tua mezzosangue avrei più fortuna” aveva ripreso Angroboða con voce più calma, incrociando le dita tra loro, “Ma dovremmo parlare del mio compenso” aveva detto. “Cosa desideri?” aveva domandato Grace, morendosi un labbro, “Hai presente quegli uomini che incontri una volta nella vita, quelli che ti strappano il cuore?” aveva domandato la gigantessa, toccandosi il petto sinistro.
Si, avrebbe voluto dire Grace, ma era lei ad aver strappato cuori. “Ecco, Tesoruccio è un uomo che fa queste cose, in maniera non molto metaforica” aveva ripreso l’hag, facendo scivolare la pelliccia e mostrando le spalle nude, poi aveva abbassato l’orlo dell’abito di pelle, senza alcuna pudicizia, lungo lo sterno, tra i seni una grossa cicatrice tagliava verticalmente lo sterno, “Ti ha strappato il cuore?” aveva domandato Grace confusa, con gli occhi sbarrati, “E lo ha mangiato” aveva berciato Angroboða.
L’empusa aveva schiuse le labbra decisamente raccapricciata da questa cosa, ma anche spaventata da quello che stava per accadere, “È orribile non sentire il battito del proprio cuore. Ne voglio uno, nuovo” aveva soffiato.
“Se potessi scegliere: chiederei Drew; ma so che sei troppo buona per vendere un tuo compagno” aveva detto la gigantessa, “Comunque manderò Magnarmr e i miei ragazzi a cercare chi vuoi, mentre tu mi porterai un grosso, succulente e potente cuore. Non risparmiarti Empusa” aveva soffiato Angroboða.
“Heather Shine, figlia di Apollo” aveva risposto solamente Grace, prima di alzarsi frettolosamente dalla sedia ed uscire senza congedarsi come d’uopo.
 
“Credo tu debba dirmi qualcosa” aveva detto Carter rabbioso, “Io ti ho sempre considerato la mia famiglia e … tu … tu …” aveva cominciato quello, concitato, nervoso, ferito. “Perché tu di Joelle mi hai sempre raccontato tutto, vero?” aveva chiesto lei di rimando. Erano rimasti per un momento in silenzio a guardarsi, poi Grace aveva sussurrato: “Devo uccidere una persona, Carter”, posando il capo sulla spalla del suo amico. Non aveva idea di dove fossero Drew e Cenis, aveva trovato solo Carter quando era fuggita di fretta dal comune. “Lei vuole che io uccida qualcuno, perché è una psicopatica del cazzo e sa che ho scelto molti anni fa di soccombere ai miei istinti” aveva pianto. Aveva compiuto nel tempo scelte difficili, anche l’essersi uniti all’esercito di Crono sembrava andare contro quello che lei stessa aveva detto, ma era stata guidata da qualcosa di diverso della sua natura e dei suoi istinti. Voleva tornare a casa.
Carter l’aveva stretta bene a se, le aveva passato una mano tra i capelli, tornati da fuoco ad illusione. “Raccontami bene” aveva detto poi allontanandola appena un po’. Grace aveva vuotato il sacco.
Il viso di Carter si era fatto cereo come la polvere.
Non avrebbe voluto, anzi dovuto, raccontare tutto al figlio di Apollo. Sapeva di averlo messo in una situazione difficile, gli aveva chiesto di scegliere tra chiunque – non esattamente – e sua sorella Heather.
E Carter era una persona buona, ma anche una persona che amava intensamente.
“Andiamo via, Gracie, non abbiamo bisogno di loro” aveva soffiato, “Non hai giurato, vero?” aveva chiesto poi con un tono ancora più apprensivo. L’empusa aveva scosso il capo.
“Bene. È stata una defiance, non ne abbiamo bisogno. Siamo figli di Apollo, lo so che possiamo trovarci, come ci eravamo trovati io e Marlo” aveva stabilito Carter.
Grace aveva annuito.
“Non ti ho mai parlato di Marzio, perché mi uccide dentro ogni volta che penso a lui” aveva sussurrato Grace, tenendo le mani chiuse su loro stesse. La sua voce aveva tremato, “Cavoli, Carter, lui è … era la mia luce, il mio tutto” aveva aggiunto, “Quando è nato era così piccolo, ma che polmoni. E poi è cresciuto, dovevi vederlo era … perfetto. Uno stregone, un guerriero ed era così intelligente. Carter è stato così agghiacciante, quando mi sono accorta di non star invecchiando con lui. Marzio cresceva così in fretta, che un giorno era lì, vecchio e canuto, mentre io ero impotente a guardarlo” aveva vomitato quelle parole senza rendersene conto.
Carter l’aveva stretta così forte da non lasciarla andare più via, per certi versi, per certi comportamenti non riusciva a non sovrapporlo a Marzio.
Forse il giovane avrebbe voluto raccontargli di Joelle o di come levarsi più in fretta possibile da Ironwood, quando erano stati interrotti da un certo tossire.
Quando Grace aveva alzato lo sguardo aveva potuto vedere era Eirik, “Recupera gli altri due” aveva sussurrato subito a Carter, prima di volgersi verso l’altro.

Eirik non aveva parlato fino al momento in cui non erano rimasti da soli. “Non ho potuto evitare di ascoltare. Cosa stai combinando, Grazia?” aveva domandato preoccupato, mentre la sovrastava. Grace aveva chinato il capo, non riuscendo a reggere lo sguardo dell’uomo davanti a lei. “Me ne sto andando” aveva soffiato con voce spenta.
“Per quanto averti rivisto mi ha acceso il cuore di gioia” aveva sussurrato Eirik, accarezzandole il viso con le nocche, “Non saresti mai dovuta tornare per qualcosa di diverso di una visita” aveva sussurrato. Leggersi, neanche troppo, tra le righe: non dovevo fare affari con l’Hag di Ironwood.
“Non ho giurato su nulla” aveva soffiato di rimando. Poteva andare via lo sapeva, faceva ancora in tempo.
“Andiamo via! Io e te” aveva sussurrato Eirik, cogliendola d’improvviso. Grace aveva battuto gli occhi più volte, perplessa, “Oh” era riuscita a dire, con gli occhi addolciti. Si era alzata sulle punte delle sue scarpe e gli aveva dato un bacio. Un unico ed eterno bacio.
Ricordando quello che non gli aveva dato, allora, quando aveva lasciato quella piccola porzione di mondo, portando suo figlio con sé. Marzio non era più un bambino, era un uomo ed era divenuto estremamente capace nel malleare la magia che poteva apprendere da quel mondo. Molto più di quanto avesse fatto lei.
Ed Eirik gli aveva chiesto di rimanere, non solo a lei, ma anche a lui.
Erano ricordi ovattati e felici, ma era qualcosa in cui nascondersi profondamente per Grace. Ricordava di come era l’uomo lupo con il bambino. E come era con lei. Non aveva rubato il viso di Albio dalla sua memoria perché pensava fosse quello dell’uomo che amava, ma perché era l’aspetto del padre di Marzio.
“Non voglio interrompere questa magia” aveva ghignato Drew, ma in sostanza lo aveva fatto. Quando Grace ed Eirik si erano allontanati aveva potuto osservare come il terzetto gli stesse guardando.
“Andiamo” aveva stabilito l’empusa, “Potrei aver fatto una stupidaggine” aveva soffiato, pensando che alla fine aveva fornito il nome di Heather Shine ad Angroboða.
“Il tuo ferace amante, si aggregherà a noi o …?” aveva domandato Cenis, nella sua fluente lingua natia, facendo aggrottare le sopracciglia di Eirik e sbuffare Drew. Carter aveva fatto scattare gli occhi verso Eirik.
“Vuoi scappare con me?” aveva domandato Grace voltando lo sguardo verso Eirik. “Si, mi pare di averti detto che si, volevo farlo” aveva ripetuto l’uomo lupo senza esitazione. “No, intendevo me-noi” aveva esemplificato meglio la creatura.
Eirik aveva deglutito, mentre con gli occhi aveva fatto saettare lo sguardo verso di loro, “Direi che è meglio di niente” aveva risposto.
 
  1. Autostrada americana. Grazie Google Maps.
  2. E come viene chiamata una particolare moneta di origine vichinga del XI sec. circa, rinvenuta a Goddard.
  3. Uno dei nove mondi secondo la mitologia norrena, in particolare quello abitato dai giganti di Fuoco. Governato da Surt (Uno dei principali cattivi di Magnus Chase e la spada dell’estate). Secondo la mitologia Sinmara dovrebbe essere la sua compagna.
  4. Altro mondo secondo la mitologia norrena, abitato dai giganti di ghiaccio e di fuoco.
  5. Il nome Angrboda vuol dire Messaggera del Dolore. Inoltre, ho trovato versione discordanti su dove sia a tutti gli effetti la locazione geografica di del Bosco di Ferro. Da alcune parti lo ho trovato situato a Joutheim, altre su Asgard, però scoperta l’esistenza di una cittadina chiamata Ironwood non ho potuto resistere.
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: RLandH