Anime & Manga > Dragon Ball
Segui la storia  |       
Autore: nuvolenere_dna    16/12/2017    6 recensioni
Prima classificata al contest "Au is the only way" indetto da meryl watase sul forum di Efp
Forse è per questo che ha scelto Freezer, perché le sembrava un alieno esattamente quanto lei.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Freezer, Nuovo personaggio, Vegeta, Zarbon | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

2: I Like You Damaged

 
Someone like me/ Qualcuno come me
Someone like me can’t make it last/ Qualcuno come me che non possa durare
I like you damaged/Mi piaci danneggiata
But I need something left/Ma ho bisogno che rimanga qualcosa
Something for me/Qualcosa che io
Something for me to wreck/Qualcosa che io possa distruggere
[Marilyn Manson – Threats of Romance]2
 
 
22 Novembre, mercoledì, ore 17:37
 
Raggi di una luce calda e amarantina trapassano come laser le tende di lino chiaro, morbidamente increspate sul pavimento. Il sole si nasconde dietro l’orizzonte, colmo di vergogna, insieme a nuvole silenziose, omertose di pioggia, trattenuta amaramente fra i lombi del cielo.
Il cielo è porpora liquida, come la terra ferrosa divorata dai rovi, arida, innamorata del temporale che scorge sempre più vicino. Gli ultimi strali del sole autunnale accarezzano ancora una volta il comodino, colpito dalla luce, prima di ritirarsi nell’ombra dello spazio. Illuminano i fazzoletti usati, una siringa, una goccia ancora sospesa fra l’ago e il legno levigato, un bicchiere di vetro decorato in stile barocco, una boccetta di sonnifero, un pacchetto di Black Devil aperto, con le sigarette che si protendono verso l’esterno, in procinto di sparpagliarsi, e un posacenere consumato, il cui fiore al centro è sbiadito e coperto da una decina di mozziconi.
Una mano sorge dalle lenzuola, stizzita, facendosi strada nell’aria pesante della stanza, pregna di fumo e di aria stantia.
Il volto di Freezer si contrae in una smorfia di disagio: sente la testa esplodere, chiusa in una morsa, gli occhi talmente gonfi e irritati da renderne faticosa l’apertura. Le palpebre sembrano volersi richiudere, attratte dalla gravità, quando osserva l’orologio digitale appeso al muro di fronte al letto: sono le 17.37. Spalanca gli occhi, sorpreso e confuso. Il ragazzo cerca di tirarsi a sedere, indebolito dagli spasmi che gli contraggono lo stomaco in un moto di nausea.
Si accende una sigaretta, mentre l’aria fredda della stanza gli inturgidisce i capezzoli nudi, come stelle scure nella volta chiara del suo petto, esangue e sul punto di esplodere a ogni respiro, tradito dalle vertebre che spingono con veemenza.
Il silenzio regna nella sua mente. È soltanto quando volta il viso e vede la siringa che il suo volto si contrae di rabbia e di vergogna. Si tocca il collo e incontra un enorme livido, gonfio e pulsante. La mano destra corre sotto l’ascella destra, dove nella fondina riposa la sua Raggio della Morte.
È ancora lì, non gliel’hanno portata via, la sua pistola, la pistola che fu di sua madre.
«Zarbon?» grida, stizzito, perplesso per l’oscurità proveniente da sotto la porta.  In casa non sembra esserci nessuno. Si alza, tremando, con la testa rapita dalle vertigini, iniziando a insospettirsi. È decisamente strano che non ci sia, quel leccapiedi del suo servo è sempre lì, quando si sveglia, pronto a porgergli il metacarpo della sua mano affusolata su cui è appoggiata, con precisione millimetrica, una perfetta striscia di cocaina.
Non c’è nessuno in casa.
La porta d’ingresso dell’attico è chiusa a chiave, il pettine di Zarbon dimenticato nel lavello, con alcuni capelli smeraldini avvolti intorno ai denti, come se avesse avuto fretta di andarsene.
Freezer sente lo stomaco bruciare, l’aria diventare solida nella sua gola, un bolo di spilli che lo fa deglutire ripetutamente. Deve farsi, immediatamente, non riesce a pensare mentre il cuore gli batte sempre più insistentemente nel petto, fragile sotto le sue spinte furiose. Ritorna in camera da letto, sul tavolo trova il suo orologio da taschino, le dita febbrili nel ruotare la carica manuale fino a farle fare uno scatto. Il metallo si dischiude, rivelando un piano cavo, traboccante di polvere bianca.
Digrigna i denti mentre la vede rovesciarsi sulla superficie di vetro del tavolo, disciplinandola in una riga ordinata con una lametta. La fissa con cupidigia, famelico, le pupille nere che brillano di una luce sinistra, mentre i capelli lisci, tirati all’indietro, di un viola quasi fosforescente, ricadono sul tavolo come una cascata, nella foga con cui afferra una banconota arrotolata e la aspira dal naso, ringhiando come una bestia.
Le dita tremano, lasciando scivolare la cannula a terra, ancorandosi al tavolo. E ora deve soltanto aspettare, aspettare che il piacere arrivi. E il piacere arriva, lento come un’onda che risale cauta la battigia, poi fragorosa nell’infrangersi sulla sabbia. Una scarica elettrica irrigidisce tutto il suo corpo, eccitando il suo cuore e le sue vene, come radici impazzite che scavano fino a raggiungere le profondità della terra. Digrigna profondamente i denti, mentre sente il buco torbido nel petto restringersi, scivolare fra gli atri e i ventricoli e nascondersi, lasciando il posto all’euforia.
Rimane un attimo a occhi chiusi a godersi il piacere che lo infiamma, fino a quando non scorge un’ombra guizzare dietro le tende candide, luminose per la luce del lampione dietro di esse proveniente dalla strada. Gli sembra di scorgerla distintamente, un’ombra malvagia, l’ombra del nemico e di nuovo tutto arde di gelo, di freddo, di angoscia. Si abbassa istintivamente, stringendo Raggio della Morte fa le dita, adirandosi per quanto è stato vulnerabile: nessuno in casa, il silenzio martellante delle quattro mura abbandonate a se stesse e lui dentro, addormentato, in balia delle bestie.
Allunga l’altra mano verso il cellulare appoggiato sul tavolo, illuminando lo schermo: una chiamata persa da Dodoria alle 16:36, tre chiamate perse da No intorno alle 15 e un sms di suo padre che non ha alcuna voglia di leggere.
Richiama Dodoria, nessuna risposta, chiama Zarbon, nessuna risposta, i loro ultimi accessi su Whatsapp risalenti alle 16. La diffidenza contrae i suoi lineamenti affilati, stringendo le palpebre in una morsa. Non ricorda con precisione cosa sia successo prima di addormentarsi: solo un odore incantevole e le scarpe candide di Zarbon che si ritraggono per paura di sporcarsi.
I suoi seguaci lo hanno sicuramente tradito, lo sa, lo ha sempre saputo che questo momento sarebbe arrivato. Il ragazzo fa scrocchiare la cervicale con un gesto secco, stringendo spasmodicamente la mano intorno a Raggio della Morte, una bestia affamata che attende soltanto di mordere.
Si rialza, arrogante, sfidando l’ombra a rivelarsi. Il suo sguardo viene nuovamente attirato dallo schermo luminoso del telefono, un faro nella penombra, dove lampeggiano ancora le notifiche delle chiamate perse di No. Un gesto di stizza fa volteggiare le sue iridi cupe nella stanza, lontano da quel nome e da quel groviglio di rovi che si annida in un punto imprecisato del suo torace.
Le sue pupille dilatate ricadono sul cuscino destro del grande letto matrimoniale dove ha appena dormito, quello su cui non si appoggia mai: è stropicciato e macchiato da una serie di aloni nerastri, come sbuffi di acquerello nero slavato dall’acqua. Ricorda quella notte e un moto d’ira gli risale ancora lungo l’esofago, seguito di nuovo da un senso di vuoto.
Non l’ha più vista, dopo quella notte.
No è scomparsa insieme alle luci premature di un’alba livida, in cui il sole sembrava lontanissimo, inabissato in coltri spesse come cemento.
Elimina quell’immagine, sradicandola con precisione chirurgica, e attiva le applicazioni di localizzazione: Zarbon e Dodoria si trovano in periferia, insieme a molti altri dei suoi seguaci, in una località dispersa fra i campi e le industrie abbandonate, corrose dal tempo e dalla solitudine di una crisi economica che non ha avuto la minima pietà.
Improvvisamente, ricorda: il Namek Party del 22-23 Novembre, in cui aveva deciso di inviare alcuni delegati per incontrare un sedicente produttore di cocaina sudamericano, la cui purezza della sostanza sarebbe stata ben superiore a quella prodotta nei suoi laboratori. Un vero e proprio nettare del piacere dalle proprietà quasi leggendarie. Si era sentito furibondo al solo pensiero, combattuto fra la voglia di spegnere nel sangue l’insolenza di quello Shenron e il desiderio di incrementare il prestigio del proprio commercio.
«Vedete di non ritornare a mani vuote! Come osa, mancarmi di rispetto!» aveva ordinato infine, caustico, con un’occhiata gelida come il marmo alla quale nessuno aveva osato controbattere.
Riprova a telefonare a Zarbon e Dodoria, alterato, mentre si accende distrattamente una sigaretta, la fiamma dell’accendino che riempie di ombre danzanti la stanza buia.
Ancora nessuna risposta.
Infuriato per l’insubordinazione dei suoi seguaci che osano distrarsi sul lavoro, non riesce a impedirsi di pensare che gli umani siano come i cani, ottusamente distratti pur sapendo che potrebbero ricevere una punizione da un momento all’altro. Non tollera che le persone non siano sempre al suo servizio, sempre disponibili alle sue richieste. Ma troverà il modo di farli pagare, pagare e ancora pagare, come dicono i solchi impressi sul suo tirapugni di ferro.
Si infila il tight candido, perfettamente stirato e appeso su una gruccia all’esterno dell’armadio, allacciando i bottoni di perla del gilet viola e dando una stretta vigorosa alla cravatta dello stesso colore.
La mano corre, esperta, nel tracciarsi sulle labbra fini una linea di Instigator, il suo rossetto preferito. La pelle bianca come porcellana, carne di serpente albino che sibila nell’ombra, i lineamenti come coltelli, le occhiaie corvine, scavate nel volto diafano, Freezer non sembra neppure umano.
Il suo sguardo di porpora, sangue arterioso che trabocca di ossigeno, le iridi come ossa lontane, spolpate, divorate dall’oscurità delle pupille dilatate, non esprime nulla, un cielo indecifrabile che eclissa la neve.

 
 *

Le inglesine immacolate si appoggiano con malcelato disprezzo su quel terreno, brullo e sporco, coperto da un tappeto di foglie autunnali che incespicano al vento fra i radi ciuffi d’erba ingialliti.
Freezer richiude la Lamborghini con un gesto stizzito, talmente brillante e lucida in quel panorama da non sembrare neppure reale. Si volta e inizia a camminare verso la fonte del frastuono, quasi stordito dal volume di un ritmo familiare.
La musica è talmente alta da sembrare solida, i bassi lo attraversano come onde mentre cammina, nella sterpaglia, verso la fonte del suono, scivolando in mezzo a un agglomerato di camper parcheggiati ai fianchi di un edificio abbandonato. Le rovine si contorcono al tramonto come interiora, rovesciate nella terra, tempestate di scritte, nomi di sedicenti padroni che hanno ritenuto opportuno incidere il loro nome sulle mattonelle ruvide. Le sopracciglia di Freezer hanno un fremito di perplessità e di indignazione nel percorrere quei graffiti bugiardi, orribilmente insubordinati.
Tutto, qui, appartiene a Freezer. La terra su cui camminano quegli insetti, l’aria che viene infettata da quei loro polmoni indegni, il cielo costretto a guardare i loro movimenti sgraziati e goffi, tutto è una graziosa concessione della sua bontà, che permette loro di continuare a vivere senza accorgersi della sua mano potenzialmente omicida.
Cammina a passo veloce, mescolandosi empiamente alla folla, una mosca bianca in mezzo a un centinaio di nere, giungendo infine in un grande spiazzo.
La distesa di terra nuda è circondata da un muro di casse, un anfiteatro di pietre di suono, parallelepipedi corvini di ogni forma e dimensione, che sprigionano vibranti e ringhianti bassi potenti. I piedi della gente battono come tamburi primitivi che scalpitano nella ghiaia sollevando una nebbia biancastra, che si alza dalla terra come un fumogeno.
«And now I let it go3» sussurra la voce del cantante, in una miriade di beat a frequenza elevatissima, moltiplicata in una eco che si accresce progressivamente, trascinata dal boato delle urla stridule che si ripetono ossessivamente.
Al centro della piazza una figura balla, schiacciata dalla gravità dei bassi, stella danneggiata al centro di una galassia di pianeti, satelliti, asteroidi, comete e polvere interstellare che gravita intorno a lei, attratta e respinta dal suo ballo spontaneo e sgraziato.
Freezer la osserva da lontano, colpita dalle luci stroboscopiche e celata dal movimento convulso della folla, divorando con occhi famelici il suo corpo da giocattolo rotto, plagiato in un’ipnosi che incarna il ritmo del battito della musica, una pressione invisibile che muove i suoi arti, dispersi in una ciclicità distorta e solida che sconquassa le viscere.
Il colore ombroso delle autoreggenti strappate che le fasciano le gambe, le catene che ondeggiano richiamate dal suo ventre, le asole e le cinghie delle Demonia che scintillano abbagliate dalle luci, una sciarpa di lana avvolta con cura intorno al collo, sfiorato appena dai capelli rasati della nuca. Ad ogni passo che Freezer compie verso di lei, il resto della galassia si disperde, annientato dalla sua potenza gravitazionale, la forza del suo sguardo che non ammette repliche, di un’oscurità soverchiante in cui si materializzano le lame.
«Imperatore» vede i denti di una ragazza, consumati dalla metamfetamina, sillabare il suo nome, gli occhi allarmati. Non prova neppure piacere, nauseato dalla vicinanza di quegli animali, scimmie, vermi, curandosi di evitare il contatto con chiunque come se avesse il terrore di sporcarsi. La gente si allontana, respinta dal candore delle sue vesti, dall’ardore ringhiante dei suoi occhi di fiamma, ossessionato alla vista di quel corpo magro e alto.
Dovrebbe andarsene, non ha proprio tempo per lei, deve cercare Zarbon e Dodoria, eppure il suo sguardo sprezzante continua a percorrere le sue spalle severe, segnate dalla giacca di pelle, sui capelli corti e spettinati che ondeggiano ballando.  
La ragazza finalmente si gira, compiendo una rotazione su se stessa.
Le iridi di No, dello stesso colore malinconico della foresta che decade lentamente alla seduzione autunnale sono spente, come lampadine bruciate, in frantumi, bistrate di un nero cupo, dalle occhiaie così profonde da scenderle lungo il volto come solchi. Le sue pupille sono tagliate dai bagliori fosforescenti delle lampade stroboscopiche, ma si rifiutano di chiudersi, salde su di lui, mentre i lineamenti del suo volto mutano come mosaici, una morsa le accoltella lo stomaco e le viscere, le gambe incerte sul punto di vacillare.
Si guardano, muti, per un numero interminabile di secondi. Il motivo giace nel naso ancora leggermente gonfio, tinto da una sfumatura violacea che illividisce la sua cute pallida. Nell’osservarla, la rabbia dirompente che attende soltanto della benzina per scatenarsi, brucia come veleno serpeggiante nelle vene di Freezer.
«Perché mi hai chiamato?» sputa, mentre le fa segno di allontanarsi dall’anfiteatro di suono. Si estraniano dalla musica e dallo sciame di gente, arrestandosi in uno spiazzo in cui il volume è meno assordante.
«Ho visto Zarbon e Dodoria qualche ora fa e quindi pensavo che fossi qui anche tu!» risponde, torva, aggrottando le sopracciglia mentre si accende una sigaretta.
«Quando, di preciso?» indaga Freezer, aggressivo, digrignando i denti e stringendo i pugni, un senso di fastidio crescente come un bolo doloroso che gli attraversa la gola.
«Non lo so. Non me lo ricordo.» ringhia, la voce che sale di tono, graffiante, mentre i suoi occhi evadono dal volto nervoso di Freezer. Non vuole guardare la maschera gelida del suo viso, non vuole ricordare la veemenza della sua mano algida e vigorosa incrinarle il setto nasale. Non ha paura, sente soltanto il vuoto morderle le viscere e un milione di parole affollarle i polmoni, affilate come ossa scheggiate e disperate come canti di balene.
«Non te lo ricordi?» incalza lui, mellifluo, le labbra scure in un sibilo di un serpente, la contraddizione morbida fra i suoi occhi crudeli e il suo viso fine, cesellato nella porcellana.
«Non sono riuscita a raggiungerli. Volevo che ti restituissero queste.»
Un mazzo di chiavi s’infrange ai piedi di Freezer, in un tintinnio sinistro che affonda nella terra arida. No ha imparato a riconoscere i muscoli del suo volto disordinarsi e riordinarsi come un puzzle e le loro infinite configurazioni, sa a memoria la gerarchia delle sue carni, della sua bocca e delle sue guance, le loro costellazioni, anche quel piccolo nervo sotto il suo occhio sinistro che si contrae proprio prima che esploda. I lineamenti delicati di Freezer si scompongono repentinamente al suono metallico che si moltiplica nei suoi timpani, sgranocchiati dall’ira, mentre si morde le labbra fino a scavarle con i canini.
Le chiavi del terzo piano dell’azienda abbandonata sul lungomare. La casa di No, dove ha il suo materasso sul pavimento e la coppia di valigie che racchiude tutti i suoi averi. Un peluche e un quartetto di cornici consumate, appoggiate per terra, fra la polvere: una con la sua migliore amica, una con una persona appartenente al suo passato, una con lui e una con la sua famiglia, la stessa famiglia da cui è fuggita un giorno lontano.
Ha dormito anche lui su quel materasso, una sola notte, e ricorda l’alba penetrare dai vetri appannati, una luce tenue e calda come la buccia di un’albicocca, illuminare la devastazione della nostalgia del tempo sfuggente, ovunque, nel pavimento ricoperto da oggetti e calcinacci, vestiti e fiori secchi, bottiglie d’acqua accartocciate e sacchetti di cibo take-away, pacchetti di sigarette finiti e posaceneri tracimanti.
«Mi piace la mia imperfezione» gli aveva spiegato No, facendo l’occhiolino e alzando spallucce, di fronte al suo sguardo disgustato nel contenere un disordine simile.
Era stato Freezer a regalarle quell’appartamento, esasperato nel sentire il calore del suo corpo così vicino al suo per più di una notte consecutiva, indispettito da sbadigli e occhiaie irritanti, da capelli sporchi e vestiti spiegazzati di quando dormiva per strada, in una muraglia di cartoni, in modo decisamente sconveniente per uno dei suoi subalterni. 
E adesso la porta di quel piccolo mondo, intriso dall’odore di No e dal suo insopportabile disordine, lambito dalle onde del mare, è ritornata a essere soltanto la chiave di una decadenza morta, di uno specchio destinato a dissolversi e accartocciarsi come una foglia avvizzita, decomposta nella neve.
«Ne vuoi ancora?»
Freezer spalanca le labbra rosse in un sorriso magnetico, bastardo fino al midollo, gli occhi come abissi di oscurità coagulata, l’elettricità che gli fonde il corpo attraversando ripetutamente le sue vene mentre la sua eccitazione cresce. Le dita algide e lisce della sua mano sinistra accarezzano il mento della ragazza, minacciose come serpenti, mentre con l’altra mano le punta Raggio della Morte alla tempia.
«Non era neppure la prima volta.»
Non era neppure la prima volta, No lo sa bene, la sua schiena ancora ricorda i lividi violacei scavati dai suoi tirapugni quando lei e Zarbon hanno smarrito cinque chili di cocaina su un treno, tallonati dai poliziotti che li inseguivano, lanciandosi dalle porte l’attimo prima che si chiudessero, sigillando pistole e manganelli dietro ai vetri sporchi.
Oppure quando, in compagnia di Dodoria, si era ubriacata in un locale ed entrambi avevano dimenticato di alzarsi in tempo per la riunione dedicata all’eliminazione di una serie di persone scomode per la loro organizzazione. Arrivati sul posto, trafelati e barcollanti, Freezer li aveva massacrati e No aveva sputato sangue sulle sue scarpe bianche, meritandosi un ulteriore calcio in faccia.
Eppure, nulla le ha fatto male come quell’unico manrovescio.
Le iridi scure di No gridano, brucianti come il verde di una foresta labirintica, germogliante sotto una coltre di cenere, incatenate saldamente a quelle di lui, pupille fameliche di sangue, dilatate nella porpora cupa.
È un contatto così intenso che No si sente mancare il fiato, come se tutto il mondo intorno al suo volto bianco si fosse disciolto in un mosaico muto e uniforme. La carotide di No sotto il mignolo di Freezer esplode, come un compressore impazzito, mentre la canna della pistola affonda lenta nella sua pelle rovente, scavando un solco.
«Avanti, sparami!» lo provoca, impastata dalla rabbia e dalla tristezza che le incrinano la voce.
Freezer spara, il sorriso che gli muore fra le labbra. Si gode il sobbalzo delle membra di No, la chiusura immediata delle sue ciglia spaventate e l’ottundimento dei timpani per il frastuono, tutti i muscoli del corpo contratti, in attesa di sfracellarsi a terra da un momento all’altro.
Si domanda se sia la volta definitiva. Non le dispiacerebbe affatto morire, specialmente per mano sua, trapassata al cuore da Raggio della Morte e dal suo occhio profondo, colmo di pietà.
No ha sempre pensato che lei e Freezer siano legati da un nastro rosso del destino. Entrambi sono innamorati della morte, lei sedotta dal suo richiamo e lui incarnazione, dominatore, armato della propria pistola, del proprio odio e della propria ira.
Eppure, anche questa volta, l’inevitabile epilogo non si è verificato. L’ha risparmiata, ruotando repentinamente l’angolatura della mano con un movimento impercettibile, gli anfibi di No restano ancorati come radici, sfiorati dai fili d’erba mossi dal vento.
«Sembra che, in fondo, io voglia continuare a farti male.» sibila lui, dolcemente, una confessione sadica soffiata dalle labbra scure che si sfiorano appena, respirando sulle sue. No sbuffa, stanca, ritraendosi e infilandosi una sigaretta in bocca, la brace incandescente che riluce sinistra nei suoi occhi tristi, mentre Freezer osserva quanto siano profonde le sue occhiaie, spenti i suoi occhi, bistrati da linee di kajal colate come acquerelli. 
No si perde per un attimo nei suoi pensieri, tirando una lunga boccata, disperdendo lo sguardo nei recessi della festa che si dirada nel bosco, da dove giungono solo radi echi di musica frammentata.
Ha ormai compreso che Freezer non potrà mai ucciderla.
Non perché la ama, ma perché non la odia a sufficienza.
«Non voglio più vederti» dichiara, determinata, mentre tutto nel suo viso e nel suo sguardo bisbigliano di lui, tradiscono la nostalgia cocente del suo corpo piccolo e muscoloso, del suo sguardo freddo e sicuro, delle sue spalle dietro le quali non si può nascondere.
Forse vorrebbe soltanto stringerlo e cancellare tutto, forse, vorrebbe soltanto strangolarlo a morte e ucciderlo per prendere il suo posto, forse vorrebbe soltanto fuggire senza voltarsi più indietro, ma si costringe a trattenere nel suo campo visivo la figura candida e nobile di Freezer, immobile come una statua di cera, i muscoli talmente tesi da respingere la musica frastornante come un muro.
La clessidra dentro Freezer si interrompe e gli rovescia le viscere, impazzita, incidendo ferite nelle sue ossa.
«Non riesco a credere a quanto sia minuscola la tua intelligenza.» ribatte lui, completamente inespressivo, sigillando le grida della sua furia in un luogo recondito nella sua gola «Pensi che ti lascerò andare?»
Non la tratterrà, non gliene importa nulla di lei, che muoia, che se la mangino i corvi, strappandole i muscoli e i nervi uno per uno.
È lei a non volerlo più, come un giocattolo rotto che ora vibra stridendo fra le sue costole, fastidiosamente acuto. L’ira trapassa le sue membra un centimetro dopo l’altro, umiliandolo. Come osa rifiutarlo, una nullità come lei? Dovrebbe punirla, picchiarla, calpestarle la faccia fino a renderla irriconoscibile, sente le mani in fiamme, ma Raggio della Morte è ancora stretta nel suo pugno, silenziosa come una bestia acquattata fra i rovi.
«Mai quanto è ingenua la tua, se pensi che m’interessi il parere di uno che mi ha abbandonato l’unica, l’unica fottuta volta in cui avevo davvero bisogno di lui.»
Bisogno di lui?
Freezer sbatte ripetutamente le lunghe ciglia, il volto di nuovo contratto, come se fosse stato lui a ricevere uno schiaffo in pieno volto.
Che cosa avrebbe dovuto fare? Continuare ad ascoltare quel pianto velenoso, sciocco e irritante come carta vetrata, forse? Porgerle un fazzoletto e chiederle cosa le fosse successo, colmandosi la gabbia toracica di informazioni inutili e piene di dolore patetico e incandescente? Abbracciarla e stringere quel suo corpo zuppo di pioggia e di fango, contaminandosi di lei e della sua sporcizia nell’omertà della notte?
Ha di nuovo voglia di farsi, di sentire il piacere bruciargli dentro come un incendio, il corpo derubato di ogni energia dal mostro della clessidra immobile, i granelli di sabbia ora trattenuti da tele di ragno invisibili.
No non attende una risposta e si inoltra di nuovo fra le fronde degli alberi, sfiorando lievemente con la sciarpa il solco tracciato dal proiettile.
Non è mai stata così ampia la distanza interstellare fra loro.
Non sono mai stati così sterminati i milioni di anni luce che li separano, siderali i vuoti e irreversibili le gravità che li allontanano.
Freezer digrigna i denti nel vederla camminare incerta sugli anfibi slacciati, una sagoma nera che si disperde nella folla, ma decide di non inseguirla, arrogante, riprovando a chiamare Zarbon e Dodoria. Non ha tempo per le sue cazzate, non adesso che i suoi seguaci si sono come volatilizzati, nessuna traccia, la localizzazione dei cellulari coincidente con la propria.
Riprende a esplorare il rave, infilandosi in ogni anfratto, le iridi affollate dal caleidoscopio di camper, muri di casse, greggi di persone che si muovono ipnotizzate al ritmo della musica, come involucri svuotati e posseduti da un ritmo morboso, sempre più sibillino nel possedere le loro coscienze.
Si infila nelle rovine dei palazzi decaduti, sempre più disgustato dal tappeto di vetri infranti, cartacce, colli di bottiglia che riflettono la luce lunare, preservativi usati, mozziconi, siringhe e polvere scalpitante che gli sfiora i pantaloni candidi.
Inizia a essere confuso, rapito dalla nausea, mentre si sforza di controllare ovunque.
«Ehi, ehiiii... scuuuusa... C’era Dodo prima che ti stava cercando!»
Una voce stridula e boccheggiante lo avvicina e non può che girarsi, dopo che una mano lo arpiona a una spalla. È un ragazzo dal sorriso ebete, il collo avvolto da una collana hawaiana di fiori, che gli traballa addosso come se i suoi piedi non fossero abbastanza per reggere il suo peso.
Un amico di Dodoria, della sua stessa stupidità.
Freezer deve reprimere un moto di orrore e di schifo e si trattiene dal mollargli un ceffone in pieno volto, mentre qualcosa di acido gli risale la gola, oltraggiata per il contatto con un essere così infimo, sporco, un animale dall’alito che sa di alcool e dalle dita sporche.
«E dov’è?» ringhia, staccandosi bruscamente, mentre lo osserva tentennare su se stesso, come un birillo sul punto di sfracellarsi colpito dalla palla da bowling.
«Eeeeeeh a dire il vero non lo so... anch’io l’ho persoooooo!» biascica, deglutendo un sorso di birra, continuando poi più pensieroso «L’ultima volta che l’ho visto era da quelle parti, laggiù... ma ero troppo impegnato con una gnocca, sai com’è, non potevo inseguirlo, eheheheh!»
Il ragazzo ammicca, facendo l’occhiolino e la linguaccia, ma Freezer non lo sta più guardando. Le sue iridi si spalancano, allucinate, punti minuscoli nel bianco immenso nel bulbo oculare, mentre una sinistra angoscia inizia a oscillare nell’aria autunnale di quel party in mezzo alla campagna.
Deve farsi, farsi adesso, non può più aspettare. Il tizio si dissolve, inghiottito da uno sciame di gente che muove la testa a ritmo di musica, sventolando le bottiglie e le sigarette come se fossero bandiere, lasciando Freezer solo nel camminare verso il punto indicato, mentre si esplora le tasche in cerca dell’orologio.
Non è che un normalissimo camper, dipinto di azzurro cielo, tappezzato da un migliaio di adesivi colorati di cantanti e di complessi rock, dalla cui finestra esce uno spiraglio di luce. Il silenzio è troppo profondo, spettrale e denso come catrame che inquina l’oceano riversando la vita intossicata e soffocata sulle coste.
Perché dovrebbero essere lì? Forse a dividersi qualche prostituta, ma quell’ipotesi non convince neppure il più piccolo dei neuroni di Freezer, il cui cuore ghiacciato batte piano, brancolante nella suspense, mentre sale gli scalini e apre la porta.
I corpi di Zarbon e Dodoria giacciono, supini, sul pavimento.
Immersi in abissi scarlatti che sorgono al centro dei loro petti e si propagano come ali liquide sul pavimento, lucide come specchi. Gocce di porpora restano sospese sul precipizio, coagulate nell’attimo prima di contaminare la punta delle inglesine candide di Freezer.  Li guarda, inespressivo, come se non li avesse mai visti, completamente indifferente, lo sguardo rapito dalla lunga treccia di Zarbon, il cui verde smeraldo è stato corrotto dal suo complementare, striato di bruno come la scorza di una castagna autunnale, come il marrone degli occhi scuri di No quando singhiozzava in preda alle lacrime, pregandolo disperata con lo sguardo. 


Continua...



2 Marilyn Manson – Threats Of Romance
https://www.youtube.com/watch?v=AgH1zQBmv1Q
 
3 Tarro – Flashpoint
https://www.youtube.com/watch?v=hDEih0h7SM4

 
  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Dragon Ball / Vai alla pagina dell'autore: nuvolenere_dna