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Autore: Jyushi    21/12/2017    3 recensioni
Sasuke è un ricercatore in Letteratura Giapponese Contemporanea all'Università di Tokyo, con un'indole piuttosto insofferente nei confronti, beh, nei confronti del genere umano! Si annoia facilmente e non ha interessi se non per la lettura. Fino a quando non si trova a dover recensire un libro e per la prima volta prova interesse per un altro essere umano, di cui però non riesce a scoprire nulla!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Itachi, Kakashi Hatake, Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha, Shikamaru Nara | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Salve a tutti! La scorsa volta mi sono dimenticata delle note..sorry, sono irrecuperabile! Comunque oggi sono un po' in anticipo sui tempi per vari ragioni tra cui il lavoro e il Natale. Quindi, avendo appena finito di scriverlo ho deciso di non rimandare a domani quel che posso fare oggi e pubblicarlo. Questo capitolo è bello corposo e abbastanza lungo per i miei standard. Inizialmente non lo avevo immaginato così, poi però mi è venuta un'idea e da lì ho sviluppato il capitolo. Mi ero più o meno delineata la storia, ma mi sa che cambierò spesso idea quindi chissà come andrà a finire, spero di non inguaiarmi! Spero davvero che vi piaccia e ovviamente attendo consigli e pareri nelle recensioni. Probabilmente ci sentiremo dopo Natale, pertanto Buon Natale a tutti voi, spero che sia felicissimo e ricco di cibo eheheh :) A presto! PS Il titolo riprende una strofa della canzone "Supermarket Flowers" di Ed Sheeran.

3. Un cuore infranto è un cuore che ha amato

Quella mattina al lavoro, come previsto, era stata un inferno. Aveva dovuto sbrigare tantissime pratiche burocratiche e non aveva avuto nemmeno 5 minuti di tempo per poter mettere le mani su quel libricino che tanto lo incuriosiva. La sensazione di frenesia che lo assaliva ogni volta che trovava un nuovo libro che poteva soddisfare la sua brama infinita di lettura era allo stesso tempo frustrante e appagante. Frustrante perché non vedeva l’ora di poter terminare la lettura, eppure la vita con i suoi noiosi bisogni di sopravvivenza ne rallentava considerevolmente la fine ( che tedio ogni qualvolta che doveva interrompere la lettura perché doveva dormire, mangiare o lavarsi). Appagante perché quando poteva finalmente dedicarcisi una sensazione di soddisfazione si impossessava di lui. In un certo qual modo poteva capire le sensazioni che suscitava la droga nelle persone che sviluppavano una dipendenza. Ecco, la lettura per lui era come una droga. Respirava solo quando leggeva. Viveva solo quando leggeva. Per alcuni quest’ultima osservazione poteva sembrare un po’ triste, eppure lui non era minimamente triste. Leggendo aveva la possibilità non solo di vivere la sua di vita, ma anche quella dei protagonisti dei libri. Aveva solo 26 anni, ma gli sembrava di aver vissuto centinaia di vite, di sensazioni, di emozioni. Pensava di essere un uomo vissuto. Purtroppo si sbagliava, infatti, non aveva idea di come affrontare ciò che da lì a poco sarebbe accaduto.

Uscito da lavoro si recò a fare un po’ di spesa per la settimana e proprio mentre scendeva dalla macchina fu urtato da qualcuno che correva.

 «Mi scusi signore, sta bene?»

«Ehi stai attento a dove vai!» ringhiò Sasuke

«Le ho già chiesto scusa, dovrebbe  imparare ad essere più gentile!» rispose per nulla intimorito lo sconosciuto. Sasuke alzò finalmente lo sguardo e si ritrovò di fronte un ragazzo sui 20 anni biondissimo, carnagione ambrata e occhi color del cielo. La sua espressione indispettita ricordò a Sasuke che ci stava litigando con questo ragazzo. Doveva ammettere che aveva del fegato, non molti erano in grado di tenere testa al gelido Uchiha, i più saggi nemmeno ci provavano, gli incoscienti ne uscivano bruciati. Il ragazzo, senza dubbio un incosciente, stava lì a fissarlo con quei suoi occhi in cui ci si poteva facilmente annegare. Turbato da questi pensieri, Sasuke distolse lo sguardo e disse seccamente: «E tu dovresti imparare a camminare come una persona adulta e non a correre come un ragazzino senza regole. Sta più attento.». Salì sull’auto e se ne andò scosso. Era talmente su di giri che si dimenticò di fare la spesa e appena giunto sotto casa si maledì internamente. Perché quel ragazzo lo aveva spiazzato così tanto? Probabilmente per il suo aspetto inusuale per essere in Giappone. Sì, doveva essere così…per quale altro motivo sennò?! Tranquillizzandosi salì le scale di casa e proprio sul pianerottolo sentì il telefono di squillare. Non lo chiamava quasi mai nessuno a casa, se non i suoi genitori e pensando che si trattasse di sua madre si affrettò a rispondere. Sua madre lo capiva meglio di lui, quindi non vedeva l’ora di farsi avvolgere dalle confortanti e calorose parole di Mikoto per farsi scivolare di dosso quella giornata infernale, facendo però finta che fosse annoiato dalle varie raccomandazioni e rassicurazioni della madre.

«Pronto?» rispose

«Sasuke! Allora sei a casa.» si sentì dall’altra parte della cornetta.

«Itachi? Perché mi chiami a casa?» suo fratello aveva uno strano tono, non sapeva decifrarlo, non lo aveva mai sentito così.

«Sasuke sono in ospedale. Dovresti raggiungerci il più in fretta possibile. E’ per mamma.»

La cornetta gli scivolò dalle mani. Aveva gli occhi spalancati e tremava da capo a piedi. Dopo un paio di secondi sembrò ridestarsi, prese le chiavi della macchina e si diresse il più velocemente possibile in ospedale.

 

 

Sasuke non ricordava granché le ultime due settimane. Le parole di Itachi, in quel corridoio d’ospedale continuavano a rimbombargli nella testa. «Sasuke, la mamma ha avuto un terribile incidente d’auto e …purtroppo i medici non sono riusciti a salvarla.». Quelle parole lo perseguitavano, e da allora la sua mente si spense e iniziò a comportarsi come un automa. C’era stato il funerale e tutti gli uomini Uchiha erano impeccabili nei loro abiti neri con la loro carnagione pallida, i visi tirati. Effettivamente si sentiva come un contenitore vuoto. Il fuori era bello, come al solito, ma dentro non era rimasto più nulla. Suo padre era devastato, Mikoto rappresentava la parte umana che il suo orgoglio soffocava. Lui e suo padre erano molto simili caratterialmente e dipendevano assolutamente da Mikoto anche se non lo avrebbero mai ammesso, almeno non fino a quel momento. L’unica persona sempre buona e gentile, comprensiva e amorevole e che riusciva a fronteggiare e placare il malumore tutto Uchiha era scomparsa. E probabilmente tutti loro erano morti con lei in quella maledetta sera di dicembre.

Dopo cinque settimane Sasuke non dava alcun segno di ripresa delle funzionalità vitali. Ovviamente nessuno si aspettava che continuasse a vivere la sua vita come se nulla fosse, ma da parte sua non c’era un minimo di reazione a questo stato. Era come se ci fosse un muro di vetro tra lui e i suoi sentimenti. Non riusciva ad assorbire quest’improvvisa e tragica scomparsa e, quindi, non sarebbe riuscito nemmeno a metabolizzarla. Ogni volta che Itachi o Shisui cercavano di coinvolgerlo in una qualche attività per distrarsi tutti insieme, lui partecipava eppure sembrava come se non fosse realmente presente. Questa sua forma di alienazione del mondo e dalla vita iniziava a preoccupare un po’ tutti. Shisui era convinto che il tempo lo avrebbe aiutato ad accettare la situazione e a riprendere il controllo sulla sua vita, ma Itachi, conoscendo Sasuke come le sue tasche, aveva paura che questo muro di vetro con il tempo diventasse di cemento. Non c’era un secondo da perdere, avrebbe dovuto rompere questo muro. Il modo migliore era quello di fargli fare un bel pianto liberatorio (non aveva ancora versato una lacrima), ma non aveva idea di come fare. Alla fine optarono per obbligarlo a prendersi cura di qualcuno così da risvegliare piano piano i sentimenti sopiti in lui. Per questo motivo quando quella sera Sasuke rientrò a casa, si ritrovò fratello e cugino comodamente seduti sul suo divano.

«Voi non avete idea di cosa significhi privacy, vero?» domandò atono Sasuke, in realtà non gli importava particolarmente che fossero lì o che avessero invaso la sua proprietà senza consenso. Beh’ al momento non gli importava di niente.

«Di ottimo umore come al solito Sasuchan!» disse Shisui sperando di ottenere una qualche reazione al sentire pronunciare il soprannome che tanto odiava. Ma anche questa volta ottenne solo un’occhiata indifferente. Itachi, allora, prese la parola « Sai otouto, in realtà siamo qui perché abbiamo un regalo per te» «E cosa sarebbe?» domandò Sasuke non realmente interessato alla cosa. «Ecco qui» ghignò Shisui e gli piazzò nelle mani un gatto di qualche mese, arancione e con un enorme fiocco al collo. Lo guardò accigliato finché non realizzò « State scherzando spero? Portate sto coso fuori da casa mia, ora!» ringhiò Sasuke. Alla prima vera reazione di Sasuke dopo settimane, Itachi e Shisui sorrisero e poggiando a terra tutto l’occorrente per prendersi cura del gatto fuggirono veloci giù per le scale.

I giorni successivi furono frenetici, quella maledetta palla di pelo gli stava dando del filo da torcere, sembrava quasi che doveva prendersi cura di un neonato e proprio come un neonato ogni due ore il caro micio voleva mangiare. Il poco tempo libero che gli restava lo impiegava a mandare messaggi vocali a Itachi e Shisui in cui li malediva in tutti i modi e gli intimava di andare a raccattarsi quello stupido gatto. Ovviamente non c’era speranza che i due andassero a liberare il più piccolo dalle grinfie di quel micio anzi gli rispondevano di smetterla di lamentarsi e di dare finalmente un nome alla suddetta palla di pelo. Sì, perché Sasuke lo apostrofava in ogni modo possibile ma ancora non aveva dato un nome a quel povero animale. Una sera il gatto era particolarmente in vena di giochi e stava facendo letteralmente impazzire il povero Sasuke, che lo inseguiva per tutta la casa. All’ennesimo tonfo Sasuke perse la pazienza e si mise a gridargli contro, sentendosi subito dopo un perfetto idiota, ma a quanto pare ciò bastò per calmarlo. Sedato il tentativo di distruzione dell’appartamento, Sasuke si mise a raccogliere tutto ciò che il gatto aveva buttato durante le sue nobili gesta. Tra i vari oggetti (anche i suoi occhiali da vista, maledetto!), uno attirò la sua attenzione. Era un libricino sottile di cui si era totalmente dimenticato e che sembrava appartenere, ormai, ad una vita fa. Sì, perché tutti quei sentimenti di curiosità non gli appartenevano più. Non riusciva più ad eccitarsi di fronte ad un potenziale buon libro. Non riusciva più a respirare. Eppure, quella sera, dopo più di cinque settimane sentì un qualche impulso che lo portò ad aprire e ad immergersi nella lettura di “Dolce Malinconia”.

Il libro altro non era che un diario tenuto da un ragazzo dalla sua infanzia fino ai 20 anni di età più o meno. Si rivolgeva ai genitori scomparsi, raccontandogli tutto ciò che si stavano perdendo della sua vita. I primi litigi con i compagni, la prima cotta, il primo bacio, ma soprattutto la tremenda solitudine che lo accompagnava sempre. Ciò che lo colpì fu la crescita dei sentimenti nell’arco di quegli anni. In alcune pagine era estremamente triste che non ci fossero i genitori a consolarlo o a dargli un consiglio, in altre terribilmente arrabbiato, in alcune l’autocommiserazione faceva da sovrana ripetendosi domande del tipo “Perché a me?”. Sasuke aveva notato che il 10 ottobre di ogni anno era stranamente laconico, scriveva giusto qualche frase ed era estremamente triste. Altri giorni era assurdamente felice e asseriva che sarebbero stati fieri di lui. Questo crescendo di emozioni si arrestava al 10 ottobre precedente, giorno dell’ultima lettera.

“Cari mamma e papà,

probabilmente questa sarà l’ultima lettera che vi scriverò. La vita ha continuato a scorrere da quando non ci siete più e io per troppo tempo non ho vissuto ancorato al vostro doloroso ricordo. Sapete in qualche modo sono riuscito a crescere, anche se la maggior parte del tempo ho finto che andasse tutto bene. Facevo lo sbruffone, mi comportavo da pagliaccio con i miei compagni di scuola, ma appena tornavo nella mia stanza la maschera cadeva e davo sfogo a tutte le mie lacrime e a tutta la mia rabbia. Se c’è stata una costante nella mia crescita, questa è stata una domanda che mi ha accompagnato giornalmente negli anni. Mi domandavo “Perché a me?” quando andavo al parco giochi e guardavo le mamme spingere i propri figli sull’altalena, me lo domandavo quando camminando per strada notavo un padre comprare un gelato al figlio con la raccomandazione di non dirlo alla mamma. Me lo domandavo alle feste di compleanno, alle recite scolastiche, alle partite di basket quando vedevo i genitori sorridere radiosi ai loro figli, orgogliosi di quello che erano e di quello che sarebbero diventati. Me lo domandavo nel letto con la febbre alta quando le suore dell’orfanotrofio in cui stavo mi schiaffavano una pezza di acqua gelida sulla fronte e io tra i deliri della febbre immaginavo che lì accanto ci fossi tu, mamma, a prenderti cura di me e a dirmi che sarebbe andato tutto per il meglio. E ancora me lo domandavo quando in un tranquillo pomeriggio nel bel mezzo del mio programma preferito, il dolore arrivava improvvisamente ad ondate lasciandomi tramortito. Sapete quando si è soli, feriti ed impauriti i pensieri che si fanno non sono del tutto rosei e alla fine ho iniziato a manifestare la mia insofferenza, soprattutto a scuola. Sono sicuro che non sareste stati fieri di me quando marinavo la scuola, non sareste stati fieri di me quando mi sono trovato a far parte di una gang di bulli, non sareste stati fieri di me quando ho iniziato a fumare e sicuramente non sareste stati fieri di me quando ho iniziato a tagliarmi. E proprio quando sembrava che non mi sarei mai più risollevato dai miei stessi resti, il vostro infinito amore mi ha salvato. All’età di 15 anni questo bizzarro signore dai capelli bianchi (decisamente troppo lunghi per la sua età) mi prese con sé. Ero esterrefatto. Non mi aveva mai voluto nessuno da bambino, perché proprio adesso? Con il tempo scoprii che l’Ero-sennin (appena leggerà mi ammazza sicuro…ti voglio bene eremita porcello) era un vostro carissimo amico e addirittura il mio padrino, partito per un viaggio intorno al mondo che lo impegnò anni. Appena rientrato in Giappone seppe di voi e quel vecchio pazzo mosse mari e monti pur di potermi adottare. E sapete? Mi ha salvato da me stesso. Ed è stato allora che ho ringraziato il cielo ce la vita avesse continuato a scorrere impertinente, nonostante il mio dolore, nonostante voi. Sono ritornato ad essere protagonista della mia vita e non solo uno spettatore passivo. Nonostante gli errori, nonostante il dolore, ringrazio la vita per aver avuto, seppur per poco tempo, due genitori fantastici come voi. Mi avete amato incondizionatamente, mi avete fatto sentire al sicuro, mi avete dato tanta felicità e anche dalla vostra assenza ho appreso insegnamenti di vita fondamentali. L’amore è , probabilmente, l’eredità più bella che mi potevate lasciare e per questo vi sarò grato per sempre. Ho sprecato anni ad arrabbiarmi e ad autocommiserarmi, a chiedermi “Perché a me?”. Beh il punto è “Perché non a me?”. Ho finalmente capito che le persone che abbiamo amato anche se non fisicamente con noi, non scompaiono mai del tutto. Io vi rivedo nei miei piccoli gesti quotidiani: rivedo papà ogni volta che mi guardo allo specchio, rivedo mamma quando rido sguaiatamente e senza nessuna grazia terminando poi con un bel ‘dattebayo, rivedo te, papà, quando lascio correre e appiano le divergenze per un bene superiore come l’amicizia o l’amore e, infine, rivedo te, mamma, quando lotto senza mollare mai anche quando ho tutto e tutti contro (sì, direi che la testa quadra l’ho presa proprio da te). Voi siete qui, proprio nel mio cuore, proprio nel mio sangue, proprio nei miei geni, proprio dentro di me e so che mi accompagnerete e mi sosterrete sempre in tutte le fasi della mia caotica vita. Ora posso finalmente lasciarvi andare, il silenzio non è più così assordante e il vostro ricordo non è più così doloroso. E’ dolce, è triste ma a tratti è anche felice. Ora, quando penso a voi non c’è più rabbia o disperazione, ma solo un sorriso dolce amaro. Proprio come una dolce malinconia.

Grazie davvero di tutto. Vi amo.”

 

Il libro finì e Sasuke ritornò in sé. Era sul divano, il gatto si era accoccolato contro di lui e faceva pigramente le fusa. Chiuse il libro e lo posò sul tavolino, si passò stancamente una mano sugli occhi e proprio in quel momento avvertì qualcosa di umido. Erano lacrime. Inconsciamente durante la lettura aveva pianto. Era davvero difficile in quel momento non immedesimarsi con lo scrittore. Capiva fin troppo bene la rabbia provata. Dannazione! Lanciò il cuscino contro la finestra del balcone e il gatto sobbalzò. Perché tutto quello era successo proprio alla povera Mikoto? Sua madre era la donna più bella, buona e dolce del mondo. Non aveva avuto una vita facile e non si meritava davvero quella fine. E Sasuke pianse. Finalmente dopo più di sei settimane pianse e tirò fuori tutto lo shock, il dolore, la tristezza, la rabbia di quella perdita. Pianse e urlò fino allo stremo, ricordando i bei momenti legati alla madre.

Proprio mentre stava per addormentarsi, stremato dal pianto, il gatto gli salì addosso. Iniziò ad accarezzarlo distrattamente (per la prima volta) e nel mentre pensava che forse il ragazzo aveva ragione. Non poteva far passare la sua vita nel ricordo doloroso della madre, Mikoto non lo avrebbe di certo approvato e questa non reazione era di certo molto poco Uchiha. Avrebbe dovuto imparare a convivere con il suo dolore, avrebbe dovuto imparare ad esternarlo e magari anche a condividerlo con chi stava provando lo stesso dolore come lui. Proprio in quel momento pensò a suo fratello Itachi e si vergognò da morire. Si era lasciato travolgere dallo shock e aveva smesso anche di sopravvivere, lasciando tutto sulle spalle del fratello maggiore. Non poteva continuare così. Decise che il giorno successivo sarebbe tornato a lavoro e che avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per poter riprendere a vivere togliendo preoccupazioni a suo fratello e rendendo orgogliosa sua madre. Mikoto sarebbe stata sempre con lui, ora lo sapeva.

Mentre si rigirava nel letto sentì il gatto sistemarsi ai suoi piedi e sorridendo tra sé e sé prese il cellulare e mandò un messaggio ad Itachi: “ Sai Niisan penso che il gatto lo chiamerò Kyuubi. Buonanotte.”. Esausto dalle forti emozioni provate tutte insieme in una sola serata il più piccolo degli Uchiha si addormentò al suono delle fusa del suo Kyuubi.

   
 
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