3.
Un
cuore infranto è un cuore che ha amato
Quella
mattina al lavoro, come previsto, era stata un inferno. Aveva dovuto
sbrigare
tantissime pratiche burocratiche e non aveva avuto nemmeno 5 minuti di
tempo
per poter mettere le mani su quel libricino che tanto lo incuriosiva.
La
sensazione di frenesia che lo assaliva ogni volta che trovava un nuovo
libro
che poteva soddisfare la sua brama infinita di lettura era allo stesso
tempo
frustrante e appagante. Frustrante perché non vedeva
l’ora di poter terminare
la lettura, eppure la vita con i suoi noiosi bisogni di sopravvivenza
ne
rallentava considerevolmente la fine ( che tedio ogni qualvolta che
doveva
interrompere la lettura perché doveva dormire, mangiare o
lavarsi). Appagante
perché quando poteva finalmente dedicarcisi una sensazione
di soddisfazione si
impossessava di lui. In un certo qual modo poteva capire le sensazioni
che
suscitava la droga nelle persone che sviluppavano una dipendenza. Ecco,
la
lettura per lui era come una droga. Respirava solo quando leggeva.
Viveva solo
quando leggeva. Per alcuni quest’ultima osservazione poteva
sembrare un po’
triste, eppure lui non era minimamente triste. Leggendo aveva la
possibilità
non solo di vivere la sua di vita, ma anche quella dei protagonisti dei
libri.
Aveva solo 26 anni, ma gli sembrava di aver vissuto centinaia di vite,
di
sensazioni, di emozioni. Pensava di essere un uomo vissuto. Purtroppo
si
sbagliava, infatti, non aveva idea di come affrontare ciò
che da lì a poco
sarebbe accaduto.
Uscito
da lavoro si recò a fare un po’ di spesa per la
settimana e proprio mentre
scendeva dalla macchina fu urtato da qualcuno che correva.
«Mi scusi signore,
sta bene?»
«Ehi
stai attento a dove vai!» ringhiò Sasuke
«Le
ho già chiesto scusa, dovrebbe
imparare
ad essere più gentile!» rispose per nulla
intimorito lo sconosciuto. Sasuke
alzò finalmente lo sguardo e si ritrovò di fronte
un ragazzo sui 20 anni
biondissimo, carnagione ambrata e occhi color del cielo. La sua
espressione
indispettita ricordò a Sasuke che ci stava litigando con
questo ragazzo. Doveva
ammettere che aveva del fegato, non molti erano in grado di tenere
testa al
gelido Uchiha, i più saggi nemmeno ci provavano, gli
incoscienti ne uscivano
bruciati. Il ragazzo, senza dubbio un incosciente, stava lì
a fissarlo con quei
suoi occhi in cui ci si poteva facilmente annegare. Turbato da questi
pensieri,
Sasuke distolse lo sguardo e disse seccamente: «E tu dovresti
imparare a
camminare come una persona adulta e non a correre come un ragazzino
senza regole.
Sta più attento.». Salì
sull’auto e se ne andò scosso. Era talmente su di
giri
che si dimenticò di fare la spesa e appena giunto sotto casa
si maledì
internamente. Perché quel ragazzo lo aveva spiazzato
così tanto? Probabilmente
per il suo aspetto inusuale per essere in Giappone. Sì,
doveva essere così…per
quale altro motivo sennò?! Tranquillizzandosi
salì le scale di casa e proprio
sul pianerottolo sentì il telefono di squillare. Non lo
chiamava quasi mai
nessuno a casa, se non i suoi genitori e pensando che si trattasse di
sua madre
si affrettò a rispondere. Sua madre lo capiva meglio di lui,
quindi non vedeva
l’ora di farsi avvolgere dalle confortanti e calorose parole
di Mikoto per
farsi scivolare di dosso quella giornata infernale, facendo
però finta che fosse
annoiato dalle varie raccomandazioni e rassicurazioni della madre.
«Pronto?»
rispose
«Sasuke!
Allora sei a casa.» si sentì dall’altra
parte della cornetta.
«Itachi?
Perché mi chiami a casa?» suo fratello aveva uno
strano tono, non sapeva
decifrarlo, non lo aveva mai sentito così.
«Sasuke
sono in ospedale. Dovresti raggiungerci il più in fretta
possibile. E’ per
mamma.»
La
cornetta gli scivolò dalle mani. Aveva gli occhi spalancati
e tremava da capo a
piedi. Dopo un paio di secondi sembrò ridestarsi, prese le
chiavi della
macchina e si diresse il più velocemente possibile in
ospedale.
Sasuke
non ricordava granché le ultime due settimane. Le parole di
Itachi, in quel corridoio
d’ospedale continuavano a rimbombargli nella testa.
«Sasuke, la mamma ha avuto un
terribile incidente d’auto e …purtroppo i medici
non sono riusciti a
salvarla.». Quelle parole lo perseguitavano, e da allora la
sua mente si spense
e iniziò a comportarsi come un automa. C’era stato
il funerale e tutti gli
uomini Uchiha erano impeccabili nei loro abiti neri con la loro
carnagione
pallida, i visi tirati. Effettivamente si sentiva come un contenitore
vuoto. Il
fuori era bello, come al solito, ma dentro non era rimasto
più nulla. Suo padre
era devastato, Mikoto rappresentava la parte umana che il suo orgoglio
soffocava. Lui e suo padre erano molto simili caratterialmente e
dipendevano
assolutamente da Mikoto anche se non lo avrebbero mai ammesso, almeno
non fino
a quel momento. L’unica persona sempre buona e gentile,
comprensiva e amorevole
e che riusciva a fronteggiare e placare il malumore tutto Uchiha era
scomparsa.
E probabilmente tutti loro erano morti con lei in quella maledetta sera
di dicembre.
Dopo
cinque settimane Sasuke non dava alcun segno di ripresa delle
funzionalità
vitali. Ovviamente nessuno si aspettava che continuasse a vivere la sua
vita
come se nulla fosse, ma da parte sua non c’era un minimo di
reazione a questo
stato. Era come se ci fosse un muro di vetro tra lui e i suoi
sentimenti. Non
riusciva ad assorbire quest’improvvisa e tragica scomparsa e,
quindi, non
sarebbe riuscito nemmeno a metabolizzarla. Ogni volta che Itachi o
Shisui
cercavano di coinvolgerlo in una qualche attività per
distrarsi tutti insieme,
lui partecipava eppure sembrava come se non fosse realmente presente.
Questa
sua forma di alienazione del mondo e dalla vita iniziava a preoccupare
un po’
tutti. Shisui era convinto che il tempo lo avrebbe aiutato ad accettare
la
situazione e a riprendere il controllo sulla sua vita, ma Itachi,
conoscendo
Sasuke come le sue tasche, aveva paura che questo muro di vetro con il
tempo
diventasse di cemento. Non c’era un secondo da perdere,
avrebbe dovuto rompere
questo muro. Il modo migliore era quello di fargli fare un bel pianto
liberatorio (non aveva ancora versato una lacrima), ma non aveva idea
di come
fare. Alla fine optarono per obbligarlo a prendersi cura di qualcuno
così da
risvegliare piano piano i sentimenti sopiti in lui. Per questo motivo
quando
quella sera Sasuke rientrò a casa, si ritrovò
fratello e cugino comodamente
seduti sul suo divano.
«Voi
non avete idea di cosa significhi privacy, vero?»
domandò atono Sasuke, in
realtà non gli importava particolarmente che fossero
lì o che avessero invaso
la sua proprietà senza consenso. Beh’ al momento
non gli importava di niente.
«Di
ottimo umore come al solito Sasuchan!» disse Shisui sperando
di ottenere una
qualche reazione al sentire pronunciare il soprannome che tanto odiava.
Ma
anche questa volta ottenne solo un’occhiata indifferente.
Itachi, allora, prese
la parola « Sai otouto, in realtà siamo qui
perché abbiamo un regalo per te» «E
cosa sarebbe?» domandò Sasuke non realmente
interessato alla cosa. «Ecco qui»
ghignò Shisui e gli piazzò nelle mani un gatto di
qualche mese, arancione e con
un enorme fiocco al collo. Lo guardò accigliato
finché non realizzò « State
scherzando spero? Portate sto coso fuori da casa mia, ora!»
ringhiò Sasuke.
Alla prima vera reazione di Sasuke dopo settimane, Itachi e Shisui
sorrisero e
poggiando a terra tutto l’occorrente per prendersi cura del
gatto fuggirono
veloci giù per le scale.
I
giorni successivi furono frenetici, quella maledetta palla di pelo gli
stava
dando del filo da torcere, sembrava quasi che doveva prendersi cura di
un
neonato e proprio come un neonato ogni due ore il caro micio voleva
mangiare.
Il poco tempo libero che gli restava lo impiegava a mandare messaggi
vocali a
Itachi e Shisui in cui li malediva in tutti i modi e gli intimava di
andare a
raccattarsi quello stupido gatto. Ovviamente non c’era
speranza che i due
andassero a liberare il più piccolo dalle grinfie di quel
micio anzi gli
rispondevano di smetterla di lamentarsi e di dare finalmente un nome
alla
suddetta palla di pelo. Sì, perché Sasuke lo
apostrofava in ogni modo possibile
ma ancora non aveva dato un nome a quel povero animale. Una sera il
gatto era
particolarmente in vena di giochi e stava facendo letteralmente
impazzire il
povero Sasuke, che lo inseguiva per tutta la casa.
All’ennesimo tonfo Sasuke
perse la pazienza e si mise a gridargli contro, sentendosi subito dopo
un
perfetto idiota, ma a quanto pare ciò bastò per
calmarlo. Sedato il tentativo
di distruzione dell’appartamento, Sasuke si mise a
raccogliere tutto ciò che il
gatto aveva buttato durante le sue nobili gesta. Tra i vari oggetti
(anche i
suoi occhiali da vista, maledetto!), uno attirò la sua
attenzione. Era un
libricino sottile di cui si era totalmente dimenticato e che sembrava
appartenere, ormai, ad una vita fa. Sì, perché
tutti quei sentimenti di
curiosità non gli appartenevano più. Non riusciva
più ad eccitarsi di fronte ad
un potenziale buon libro. Non riusciva più a respirare.
Eppure, quella sera,
dopo più di cinque settimane sentì un qualche
impulso che lo portò ad aprire e
ad immergersi nella lettura di “Dolce Malinconia”.
Il
libro altro non era che un diario tenuto da un ragazzo dalla sua
infanzia fino
ai 20 anni di età più o meno. Si rivolgeva ai
genitori scomparsi,
raccontandogli tutto ciò che si stavano perdendo della sua
vita. I primi litigi
con i compagni, la prima cotta, il primo bacio, ma soprattutto la
tremenda
solitudine che lo accompagnava sempre. Ciò che lo
colpì fu la crescita dei
sentimenti nell’arco di quegli anni. In alcune pagine era
estremamente triste
che non ci fossero i genitori a consolarlo o a dargli un consiglio, in
altre
terribilmente arrabbiato, in alcune l’autocommiserazione
faceva da sovrana ripetendosi
domande del tipo “Perché a me?”. Sasuke
aveva notato che il 10 ottobre di ogni
anno era stranamente laconico, scriveva giusto qualche frase ed era
estremamente triste. Altri giorni era assurdamente felice e asseriva
che
sarebbero stati fieri di lui. Questo crescendo di emozioni si arrestava
al 10
ottobre precedente, giorno dell’ultima lettera.
“Cari
mamma e papà,
probabilmente
questa sarà l’ultima lettera che vi
scriverò. La vita ha continuato a scorrere
da quando non ci siete più e io per troppo tempo non ho
vissuto ancorato al
vostro doloroso ricordo. Sapete in qualche modo sono riuscito a
crescere, anche
se la maggior parte del tempo ho finto che andasse tutto bene. Facevo
lo
sbruffone, mi comportavo da pagliaccio con i miei compagni di scuola,
ma appena
tornavo nella mia stanza la maschera cadeva e davo sfogo a tutte le mie
lacrime
e a tutta la mia rabbia. Se c’è stata una costante
nella mia crescita, questa è
stata una domanda che mi ha accompagnato giornalmente negli anni. Mi
domandavo
“Perché a me?” quando andavo al parco
giochi e guardavo le mamme spingere i
propri figli sull’altalena, me lo domandavo quando camminando
per strada notavo
un padre comprare un gelato al figlio con la raccomandazione di non
dirlo alla
mamma. Me lo domandavo alle feste di compleanno, alle recite
scolastiche, alle
partite di basket quando vedevo i genitori sorridere radiosi ai loro
figli,
orgogliosi di quello che erano e di quello che sarebbero diventati. Me
lo
domandavo nel letto con la febbre alta quando le suore
dell’orfanotrofio in cui
stavo mi schiaffavano una pezza di acqua gelida sulla fronte e io tra i
deliri
della febbre immaginavo che lì accanto ci fossi tu, mamma, a
prenderti cura di
me e a dirmi che sarebbe andato tutto per il meglio. E ancora me lo
domandavo
quando in un tranquillo pomeriggio nel bel mezzo del mio programma
preferito,
il dolore arrivava improvvisamente ad ondate lasciandomi tramortito.
Sapete
quando si è soli, feriti ed impauriti i pensieri che si
fanno non sono del
tutto rosei e alla fine ho iniziato a manifestare la mia insofferenza,
soprattutto a scuola. Sono sicuro che non sareste stati fieri di me
quando
marinavo la scuola, non sareste stati fieri di me quando mi sono
trovato a far
parte di una gang di bulli, non sareste stati fieri di me quando ho
iniziato a
fumare e sicuramente non sareste stati fieri di me quando ho iniziato a
tagliarmi. E proprio quando sembrava che non mi sarei mai
più risollevato dai
miei stessi resti, il vostro infinito amore mi ha salvato.
All’età di 15 anni questo
bizzarro signore dai capelli bianchi (decisamente troppo lunghi per la
sua età)
mi prese con sé. Ero esterrefatto. Non mi aveva mai voluto
nessuno da bambino,
perché proprio adesso? Con il tempo scoprii che
l’Ero-sennin (appena leggerà mi
ammazza sicuro…ti voglio bene eremita porcello) era un
vostro carissimo amico e
addirittura il mio padrino, partito per un viaggio intorno al mondo che
lo
impegnò anni. Appena rientrato in Giappone seppe di voi e
quel vecchio pazzo
mosse mari e monti pur di potermi adottare. E sapete? Mi ha salvato da
me
stesso. Ed è stato allora che ho ringraziato il cielo ce la
vita avesse
continuato a scorrere impertinente, nonostante il mio dolore,
nonostante voi.
Sono ritornato ad essere protagonista della mia vita e non solo uno
spettatore
passivo. Nonostante gli errori, nonostante il dolore, ringrazio la vita
per
aver avuto, seppur per poco tempo, due genitori fantastici come voi. Mi
avete
amato incondizionatamente, mi avete fatto sentire al sicuro, mi avete
dato
tanta felicità e anche dalla vostra assenza ho appreso
insegnamenti di vita
fondamentali. L’amore è , probabilmente,
l’eredità più bella che mi potevate
lasciare e per questo vi sarò grato per sempre. Ho sprecato
anni ad arrabbiarmi
e ad autocommiserarmi, a chiedermi “Perché a
me?”. Beh il punto è “Perché
non a
me?”. Ho finalmente capito che le persone che abbiamo amato
anche se non
fisicamente con noi, non scompaiono mai del tutto. Io vi rivedo nei
miei
piccoli gesti quotidiani: rivedo papà ogni volta che mi
guardo allo specchio,
rivedo mamma quando rido sguaiatamente e senza nessuna grazia
terminando poi
con un bel ‘dattebayo, rivedo te, papà, quando
lascio correre e appiano le
divergenze per un bene superiore come l’amicizia o
l’amore e, infine, rivedo
te, mamma, quando lotto senza mollare mai anche quando ho tutto e tutti
contro
(sì, direi che la testa quadra l’ho presa proprio
da te). Voi siete qui,
proprio nel mio cuore, proprio nel mio sangue, proprio nei miei geni,
proprio
dentro di me e so che mi accompagnerete e mi sosterrete sempre in tutte
le fasi
della mia caotica vita. Ora posso finalmente lasciarvi andare, il
silenzio non
è più così assordante e il vostro
ricordo non è più così doloroso.
E’ dolce, è
triste ma a tratti è anche felice. Ora, quando penso a voi
non c’è più rabbia o
disperazione, ma solo un sorriso dolce amaro. Proprio come una dolce
malinconia.
Grazie
davvero di tutto. Vi amo.”
Il
libro finì e Sasuke ritornò in sé. Era
sul divano, il gatto si era accoccolato
contro di lui e faceva pigramente le fusa. Chiuse il libro e lo
posò sul
tavolino, si passò stancamente una mano sugli occhi e
proprio in quel momento
avvertì qualcosa di umido. Erano lacrime. Inconsciamente
durante la lettura
aveva pianto. Era davvero difficile in quel momento non immedesimarsi
con lo
scrittore. Capiva fin troppo bene la rabbia provata. Dannazione!
Lanciò il
cuscino contro la finestra del balcone e il gatto sobbalzò.
Perché tutto quello
era successo proprio alla povera Mikoto? Sua madre era la donna
più bella,
buona e dolce del mondo. Non aveva avuto una vita facile e non si
meritava
davvero quella fine. E Sasuke pianse. Finalmente dopo più di
sei settimane
pianse e tirò fuori tutto lo shock, il dolore, la tristezza,
la rabbia di
quella perdita. Pianse e urlò fino allo stremo, ricordando i
bei momenti legati
alla madre.
Proprio
mentre stava per addormentarsi, stremato dal pianto, il gatto gli
salì addosso.
Iniziò ad accarezzarlo distrattamente (per la prima volta) e
nel mentre pensava
che forse il ragazzo aveva ragione. Non poteva far passare la sua vita
nel
ricordo doloroso della madre, Mikoto non lo avrebbe di certo approvato
e questa
non reazione era di certo molto poco Uchiha. Avrebbe dovuto imparare a
convivere con il suo dolore, avrebbe dovuto imparare ad esternarlo e
magari
anche a condividerlo con chi stava provando lo stesso dolore come lui.
Proprio
in quel momento pensò a suo fratello Itachi e si
vergognò da morire. Si era
lasciato travolgere dallo shock e aveva smesso anche di sopravvivere,
lasciando
tutto sulle spalle del fratello maggiore. Non poteva continuare
così. Decise
che il giorno successivo sarebbe tornato a lavoro e che avrebbe fatto
tutto
quanto in suo potere per poter riprendere a vivere togliendo
preoccupazioni a
suo fratello e rendendo orgogliosa sua madre. Mikoto sarebbe stata
sempre con
lui, ora lo sapeva.
Mentre
si rigirava nel letto sentì il gatto sistemarsi ai suoi
piedi e sorridendo tra
sé e sé prese il cellulare e mandò un
messaggio ad Itachi: “ Sai Niisan penso
che il gatto lo chiamerò Kyuubi. Buonanotte.”.
Esausto dalle forti emozioni
provate tutte insieme in una sola serata il più piccolo
degli Uchiha si
addormentò al suono delle fusa del suo Kyuubi.