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Autore: Pisquin    29/01/2018    0 recensioni
Noemi aveva avuto da sempre grossi problemi a relazionarsi con i suoi coetanei di sesso maschile in quegli anni di Liceo e le cose, con il passare del tempo, non erano che peggiorate. Il suo studio matto e disperatissimo in biblioteca per recuperare quelle carenze in Inglese, però, la fa imbattere in qualcuno che trova nel silenzio di Noemi una sfida personale. Quando, poco dopo quell'incontro, Noemi farà una spiacevole scoperta, chi la aiuterà in quella sorta di investigazione all'ultimo appostamento? Forse proprio la persona a cui rifiutava di proferire parola.
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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2. Tutta colpa mia


Il vento continuava a soffiare su Roma dalla sera precedente così quella mattina mi ero attrezzata con un cappello ed una sciarpa di lana, cercando di evitare le fredde folate autunnali. Mi resi conto di essere in un ritardo assurdo per i miei standard proprio mentre mi affrettavo verso l'enorme edificio tinteggiato di giallo che ospitava la biblioteca. Quella mattina era stata una corsa continua fino a quando non c'era stata l'ora di letteratura inglese ed il fatidico compito di recupero. 

Mi costava ammetterlo ma se non fosse stato per Alessandro probabilmente avrei risposto alla metà dei quesiti. Mi aveva indicato esattamente quali argomenti studiare e aveva avuto assoluta ragione quando mi aveva suggerito di studiare la vita di Shakespeare perché la Bonanno la inseriva in ogni compito. Mentre stavo rispondendo ad ogni domanda del compito avevo sorriso tra me e me. Dovevo sembrare proprio una cretina ma non potevo non sorridere ricordando la bocca di Alessandro muoversi mentre il pomeriggio precedente mi elencava la cronologia delle opere di Shakespeare. Nella risposta alla domanda sulla morte del Bardo avevo aggiunto la curiosità che mi aveva rivelato Alex, assicurandomi un bonus se avessi avuto qualche amnesia durante il compito e sbagliato qualche risposta. Avevo apprezzato il fatto che Alessandro non mi avesse mentito, fuorviandomi o ingannandomi come avrebbe potuto fare qualcun altro. Speravo, dentro di me, di essere riuscita ad essere chiara nella spiegazione di letteratura francese e che il suo compito fosse andato altrettanto bene. 

Raggiunsi boccheggiando l'entrata della biblioteca e cercai di sorreggermi con la mano allo stipite della porta per riprendere fiato. Non ero affatto allenata nella corsa e avevo il fiatone come se pesassi cento chili e avessi appena raggiunto il traguardo della maratona di New York. I libri che avrei dovuto restituire alla bibliotecaria pesavano nello zaino sulle mie spalle e stavo iniziando a risentire del sudore perché avevo corso tutta incappucciata. Appoggiai lo zaino sul muretto vicino la porta; continuava a tirare un vento gelido ed insistente ma, incurante del futuro malanno che avrei preso, tolsi il cappotto, mettendolo sottobraccio. L'aria fredda mi avvolse nel mio maglione non troppo pesante e mi sentii subito meglio. 

Mi strinsi nelle spalle e mi accinsi a rimettere lo zaino in spalla quando, guardando il parcheggio subito davanti la biblioteca, oltre un'aiuola con tre grandi alberi, ebbi una sorta di visione. Un ragazzo dai capelli scuri scendeva da una Opel Corsa. I jeans neri gli fasciavano le gambe mentre la camicia a quadri gli aderiva perfettamente alle spalle. Indossava un berretto di lana nera che lasciava uscire qualche ciocca sbarazzina. Chiuse la macchina che lampeggiò con un clic. Si voltò nella mia direzione. Dato che il pomeriggio precedente non avevo fatto altro che osservarlo, lo riconobbi immediatamente; Alessandro stava vendendo verso di me. Restai lì, ovviamente immobile, ad aspettarlo. Iniziai a sudare come se non lo avessi fatto negli ultimi dieci minuti. Trovai i miei capelli inevitabilmente fuori posto quando le mie mani corsero a districare nodi che in realtà non esistevano. Le ciocche disordinate, che fuoriuscivano dal suo cappello, gli incorniciavano il viso. La sua bocca se ne stava lì, tirata in un sorriso che lo illuminava. Era una visione, ma non potevo di certo ammetterlo a me stessa. 

"Buon pomeriggio" esordì, agitando due dita in segno di saluto. Arrossii ­– tanto per cambiare – mentre Alex ancora attendeva una mia risposta. 

"C-ciao" balbettai, riacquistando il dono della parola. I suoi occhi dardeggiarono su di me, mi analizzarono, neanche fossi un oggetto non identificato. Ed io me ne stavo lì a farmi studiare in silenzio. Lo sguardo di Alessandro si soffermò sui miei stivaletti neri, abbastanza alti. Non avevamo grosse limitazioni riguardanti l'abbigliamento scolastico, dato che la nostra scuola era pubblica. Ogni tanto mi piaceva sentirmi un po' più alta. In quel caso il tacco non aveva sortito alcun effetto dato che Alex era un soggetto particolarmente dotato in fatto di altezza. 

"Che dici, entriamo?" Annuii, prima di voltarmi, zaino in spalla e giacca in mano, per avanzare verso la porta d'entrata. Alessandro mi seguì a passo svelto, fischiettando un motivetto che odiavo. La bibliotecaria mi fece un cenno di saluto mentre poggiavo i libri da restituire sul bancone della segreteria. I suoi occhi si poggiarono su di me e, in seguito, su Alessandro, addossato ad uno scaffale alle mie spalle. La signorina Anna Roma – la bibliotecaria – registrò i libri restituiti sul vecchio computer della struttura e mi fece un sorriso non appena ebbe finito. 

Sentii i passi di Alessandro allontanarsi e mi voltai, trovando che camminava lungo il corridoio dedicato alle Scienze. 

"Aspetta!" esclamai, fermandomi sul posto. Si arrestò anche lui e, voltando la testa, mi mostrò un sorriso soddisfatto. 

"Dai, vieni" concluse, tornando a camminare. Mi affrettai al suo fianco, mentre lo zaino, ormai alleggerito, sbatteva contro la mia schiena. Quel giorno avevo decisamente corso troppo. I suoi occhi mi guardarono per un secondo quando svoltammo nella sezione di Chimica. Quella parte dell'edificio era circondata da scaffali poco più alti di Alessandro; delle scale erano comunque posizionati accanto alle mensole, ad intervalli regolari, per permettere anche a chi fosse basso come la sottoscritta di consultare i volumi posti più in alto. 

"Che professore hai?" esordì, rompendo il silenzio che si era creato. 

"Palmieri" gli risposi, quasi sussurrando. 

"Lo sapevo" concluse, aggiungendo poco dopo: "Ce l'ho anch'io." 

"Allora perché me lo hai domandato?" azzardai. I suoi occhi si spostarono sul mio viso, studiandone l'espressione. Ero determinata ma, allo stesso tempo, ero arrossita non appena mi aveva guardata. Cercavo, invano, di superare i miei blocchi. La notte precedente, mentre me ne stavo sotto le coperte a luce spenta, avevo pensato ad una strategia per l'indomani. Volevo superare il mio blocco con i ragazzi, ma quando Alessandro mi osservava e mi parlava entravo in crisi. Mi sentivo assoggettata. Se non avessi parlato, ai suoi occhi sarei risultata una cretina. Continuavo costantemente a chiedermi perché con le mie amiche ero così logorroica mentre con i ragazzi non riuscivo ad esprimermi decentemente neanche sotto tortura. Dovevo trovare una via d'uscita e subito, prima di rendermi più ridicola di quanto non avessi già fatto. Sorrise alla mia domanda, riportando lo sguardo sullo scaffale davanti a lui. 

"Per farti parlare" rispose, alzando le spalle. Alzai gli occhi al cielo. Era chiaro lo avesse fatto per quel motivo. "Vedrai che riuscirò a farti parlare con me, so che in realtà non sei timida." Quella frase continuava a rimbombarmi in testa dal pomeriggio precedente. Le sue parole, più che spaventarmi, mi coglievano impreparata. Ma perché mai avrebbe voluto farmi parlare con lui? A cosa gli serviva? Sbuffai, ridestandomi dai miei assurdi pensieri. Vidi che Alex teneva tra le braccia quattro grandi volumi dalle copertine scure. 

"Che fai, non vieni?" mi chiese, battendo un piede per terra, quasi spazientito. 

"Sì, ecco." Camminai alle sue spalle, mentre continuavo a tormentare i miei poveri capelli. Quando arrivammo alla Sala Consultazione dedicata a quella sezione mi stupii nel constatare che fosse minuscola, con solamente due tavoli molto piccoli, sistemati agli estremi della stanza. Le pareti erano nascoste dagli scaffali contenenti altri volumi. Una moquette rosa chiaro, sporca e impolverata, ricopriva tutto il pavimento. 

Alessandro poggiò rumorosamente i libri su uno dei due tavoli, quello nascosto da una libreria in legno chiaro. Sistemai il giubbotto sullo schienale della sedia e mi sedetti sulla stessa, poggiando il cellulare di fronte a me. Fu quasi comico quando togliemmo i berretti all'unisono. Alex sorrise e lo appoggiò su una sedia, per poi occupare quella accanto a me. Si passò le dita tra i capelli, districando le ciocche scure. Mi sorrise e prese uno dei libri, aprendolo per scorrere l'indice. 

"Su cos'è la verifica di domani?" domandò, mentre già ero intenta ad arrossire per la troppa vicinanza. La sua gamba sinistra stava per sfiorare il mio ginocchio destro e mi allontanai repentinamente, spostandomi sulla sedia. 

"È sulle formule chimiche, almeno per noi, ma penso sia uguale" risposi, tormentandomi le mani e abbassando lo sguardo su uno dei libri che avevamo preso. Stavo osservando la copertina rosso scuro con fregi dorati quando Alex aprì il volume che stava consultando alla pagina indicata, facendo sbattere la copertina del libro sul tavolo. Sussultai e alzai gli occhi su di lui, intento ad esaminare gli argomenti dei paragrafi. 

"Iniziamo con gli ossidi?" esordì, sistemando il libro sul tavolo in modo che anch'io potessi vedere. "Va bene" risposi, immergendomi con tutta l'ansia che avevo in quel pomeriggio di studio disperato.

 

 

 

Dopo due ore passate in compagnia delle peggiori formule chimiche esistenti nell'universo, da anidridi solforiche o solforose ai più complessi Sali, potevo certamente concludere di averci capito poco o niente. Ero troppo agitata e sotto pressione per potermi concentrare al meglio su qualcosa, soprattutto qualcosa che contemplasse insiemi di elementi chimici dai nomi più svariati. 

Alessandro non faceva altro che peggiorare la situazione, anche se non ne aveva idea. Era esageratamente vicino per i miei standard. Quando chiariva dei concetti che mi erano sembrati assurdi, voltava il busto ed il viso verso di me, sembrando più vicino di quanto già non fosse. Aggrottava le sopracciglia quando leggeva un paragrafo che non riusciva ad afferrare e teneva la testa appoggiata sulla mano sinistra mentre con la destra trascriveva qualcosa sul suo quaderno disordinato. 

Invece di prendere esempio dalla sua solerzia mi perdevo ad osservare le ciocche nere dei suoi capelli che, sfuggite al berretto che aveva tolto precedentemente, gli finivano sugli occhi scuri mentre continuava a scrivere. Quando non ero occupata con queste sciocchezze mi limitavo a leggere le formule e a cercare di capirle, dopodiché le appuntavo sul quaderno limitandomi con gli errori, altrimenti sarebbe risultato qualcosa di incomprensibile quando avrei dovuto ripassare la mattinata seguente. 

Appoggiai, esausta, la schiena contro la sedia imbottita sulla quale mi ero costretta a mantenermi rigida per più di due ore. Alex si stiracchiò, poggiando poi i gomiti sullo schienale della sua sedia. Aveva finalmente trascritto l'ultima formula che ci interessava sapere ed era stravolto tanto quanto me. Probabilmente aveva capito tutto una decina di volte meglio di me, dato che la sua presenza mi metteva sotto pressione. Non ero riuscita a combinare un granché, anche se ieri, grazie al suo aiuto, ero riuscita ad ottimizzare il mio studio di Shakespeare. Dopotutto non era stato male nello spiegare le pagine da studiare e gli argomenti da trattare. Ed in quel momento ricordai del mio aiuto con Ronsard e della sua verifica di quel giorno. Non ci volle molto per farmi coraggio e azzardare una domanda. 

"Ehm, la tua verifica di francese com'è andata?" Alex sembrò essere stato appena punto da un'ape non appena gli arrivò il suono delle mie parole. Si voltò verso di me, completamente, inclinando la testa appoggiata sulla sua mano destra. 

"In realtà non lo so, spero bene. La cosa positiva è che ho risposto a tutte le domande, ma in realtà quello che mi preoccupa è la traduzione della poesia. Non credo di averla fatta decentemente" mi spiegò, alzandosi subito dopo dalla sua sedia per sgranchirsi le gambe. "Ho da sempre dei problemi con la lingua francese, soprattutto con la grammatica. La letteratura si studia e si capisce, ma per la lingua ci vuole impegno costante e, insomma, il francese mi annoia!" concluse, avvicinandosi ad uno degli scaffali e scorrendo le copertine dei libri sulle scienze. 

Non ero affatto d'accordo con la sua visione del francese. Probabilmente per il fatto che adoravo tutto ciò che fosse solo lontanamente francese, o quell'idea di fascino irraggiungibile, l'allure romantico della vita francese ed i monumenti da capogiro che, solo all'idea di contemplarli da vicino, iniziava a battermi il cuore all'impazzata. Adoravo i film francesi, soprattutto quelli della Nouvelle Vague, anche se li guardavo solo saltuariamente perché li dovevo affittare dalla videoteca in centro, dato che in streaming non si trovavano neanche per sbaglio. Per non parlare dell'originalità ed il fascino della moda francese, quella vena di eleganza irraggiungibile che io non avrei nemmeno lontanamente sperato di poter acquisire. Tutto, della Francia, mi dava l'idea di bello, sfarzoso ed un po' bohemien e adoravo le sensazioni che mi suscitava il solo pensiero di poterci andare, un giorno, a Parigi e di vedere tutto questo da vicino, sentire gli odori, toccare i marmi ed i tessuti setosi di Chanel, udire un francese perfetto e non il solito, così annacquato dall'italiano, della professoressa Chiari. 

"Non credo che il francese sia noioso" mi ritrovai a rispondere, conscia di star facendo un errore nella mia visione del mondo in cui non esprimevo le mie idee davanti ad un ragazzo. Si voltò verso di me appena udì le mie parole e mi sorrise, riponendo poi nello scaffale il libro che aveva preso in mano. Incrociò le braccia e venne avanti, pericolosamente avanti. Grazie al cielo, si posizionò in corrispondenza di una sedia e continuò a guardarmi. Arrossita, confusa e terribilmente presa nell'accarezzare i miei capelli, dovevo sembrare un'incapace. Sì, un'incapace nel continuare un discorso.

 "Perché non è noioso? È la lingua più piena di accenti e lettere strane che io abbia mai visto!" ribatté, appoggiando le mani sullo schienale della sedia. 

"È elegante e ha delle belle sonorità. Mi piace perché ha tante declinazioni, può essere estremamente dura ed estremamente soffice allo stesso tempo." Mi stupii quando, quasi involontariamente, pronunciai quelle frasi. Non erano programmate e svelavano la parte più istintiva di me, quella che non si fermava mai nella difesa delle sue idee e convinzioni. Alessandro mi guardò sbalordito e, subito dopo, mi fece un sorriso. In tutta risposta abbassai la testa sul mio quaderno pieno di formule, mentre le mie mani, sotto la superficie del tavolo, continuavano instancabilmente a tormentare la stoffa del mio povero maglione. 

"Lo sapevo" mi sentii dire, mentre Alessandro tornò a prendere posto proprio accanto a me. I suoi pantaloni neri erano entrati nel mio campo visivo, mentre mi scrutavo le mani in cerca di risposte. Erano diventate rosse a forza di sfregare sulla stoffa e lo smalto sbeccato che le ricopriva mi dava un'aria sciatta che mi faceva atterrire ancora di più. Nella mia mente passavano strane scene in cui Alessandro rideva di me, raccontava ciò che gli dicevo alla sua presunta ragazza e mi prendevano in giro; e l'ultima, la più terrificante, in cortile, a ricreazione, mentre mi copriva di ridicolo davanti a tutti. 

"Noemi" sentii chiamarmi, mentre continuavo a tenere lo sguardo fisso in basso, sulle mie mani, sulla stoffa ormai stropicciata del maglione. "Noemi" sentii più forte e trasalii, ricordandomi di stare in biblioteca e di avere Alessandro accanto a me. 

Alzai gli occhi di scatto e mi voltai nella sua direzione. Sapevo quanto fosse esagerata la mia reazione, o le mie paranoie ed i miei pensieri infondati o tutto ciò che mi passava per la testa, così inutile e dannoso, ma mi resi conto solo allora che tutto ciò che era accaduto, era accaduto davanti a lui. Mi sentii morire guardando i suoi occhi incupiti, quasi tristi, che mi osservavano e mi sorpresi intenta a sistemarmi i capelli dietro le orecchie. 

"Sto bene" mi ritrovai a rispondergli, ignara dei suoi pensieri su di me e dubbiosa del fatto che stessi davvero bene. 

"Stai tranquilla" mi rispose, avvicinando la sua sedia alla mia, quel tanto che bastava per permettere alle due estremità dei sedili di toccarsi. Rimasi immobile, mentre mi voltai ancora verso di lui. 

"Sto bene" ripetei, calcando sulla parola 'bene' e tornando ad impugnare la matita per sistemare una formula che sapevo essere già scritta correttamente. 

"D'accordo" mi rispose, chiudendo il suo quaderno. "Che ne dici se andiamo a fare una passeggiata tra gli scaffali?" mi propose, chiudendo la zip del suo astuccio. Tornai ad alzare lo sguardo su di lui. Dopo le mie parole e la conseguente reazione esagerata, credevo avesse abbandonato l'idea di stare con una povera pazza. Invece aveva raddoppiato la posta in gioco ed io mi trovavo sospesa tra l'idea di accettare e quella di fuggire a gambe levate da quel casino. Purtroppo avrei dovuto considerare la seconda il giorno prima, quando mi ero offerta di dargli ripetizioni di Francese; dovevo, invece, abbracciare la prima, concedendomi una pausa meritata dalla Chimica e buttandomi in un vortice senza ritorno.

 

 

 

La sezione di Narrativa era la mia preferita dell'intera biblioteca. Da uno stretto corridoio che comprendeva tutta la storia della lingua inglese, si accedeva ad un'ampia stanza rettangolare. Al centro vi erano dei divanetti – gli unici in tutta la biblioteca – ed un piccolo tavolo da tè tra di essi. Tutti i quattro lati che circondavano la sala erano ricoperti da alti scaffali, con un soppalco che li percorreva lungo tutto il perimetro ed una scaletta ad ogni angolo per permettervi l'accesso. I libri toccavano il soffitto e c'era quello giusto per ogni genere di lettore. 

Mi stupii come sempre non appena accedetti alla stanza, con accanto Alessandro che lì, invece, diceva di non esserci mai stato. Era accogliente e calda, grazie alla luce proveniente dai lampadari pendenti. Percorremmo la moquette giallo-arancio per raggiungere una delle scalette. Salii ed Alessandro mi imitò. Non appena arrivata sul soppalco, mi ritrovai ad osservare la sezione di Narrativa Storica, una delle mie preferite. Scorrevo con l'indice i titoli dei volumi, stipati con cura all'interno degli scaffali, in ordine alfabetico. 

"Tu leggi molto?" mi chiese Alessandro, avvicinandosi allo scaffale per osservare i libri da cui ero stata catturata da alcuni minuti. Mi fermai non appena sentii le sue parole, proprio mentre stavo leggendo la trama di un romanzo ambientato nell'Antica Roma. 

"Abbastanza, tu?" risposi cauta alla sua domanda, alzando gli occhi sul suo viso. Si era appoggiato con una spalla contro lo scaffale, nel mentre accarezzava il dorso di un libro rilegato in verde bottiglia. 

"Non troppo. Leggo soprattutto classici, credo siano la miglior cultura per un lettore, o per qualsiasi persona voglia poter riflettere su grandi temi e ampliare i propri orizzonti" argomentò Alessandro, mantenendo gli occhi su di me, che dopo aver riposto il romanzo al suo posto me ne stavo immobile. Mi imbarazzavano i suoi sguardi così insistenti; a volte mi ritrovavo a pensare a come doveva essere per le altre ragazze essere guardate e desiderate. Cosa si prova nel momento in cui un ragazzo mette gli occhi su di te? Quali sensazioni suscitano gli sguardi rubati in cortile, i saluti timidi in corridoio e le occhiate indiscrete durante le lezioni? Non ero mai riuscita a cogliere i sentimenti e le emozioni provati da qualcun altro in questi casi. Forse perché non ero mai stata oggetto di occhiate fugaci e sguardi rubati. E probabilmente sarebbe stato traumatico da subire a scuola, vista la mia totale incapacità di gestire emozioni forti e inaspettate. 

Lo sguardo di Alessandro, curioso e attento, non mi metteva a disagio – poiché ogni sguardo da parte di un ragazzo aveva il potere di farlo, anche se in maniera fortuita. Quella era, invece, una sensazione più profonda. Gli occhi interessati di Alessandro erano molto più pericolosi. Alex mi faceva parlare, cercava di mettermi a mio agio e farmi uscire fuori dal guscio. Io, in qualche modo, lo assecondavo, benché riluttante. La mia riluttanza doveva però essere imputata all'appartenenza di genere del ragazzo, più che alla persona che si era rivelato essere. Non volevo aprirmi tanto con un ragazzo ma, allo stesso tempo, era inevitabile farlo con lui e sentivo il bisogno impellente di dover parlare in sua presenza, dover esprimere il mio credo. E quella, proprio quella, era una sensazione che non avevo mai provato prima di quei momenti. 

Alessandro ti portava a scoprirti almeno un po' in sua presenza poiché si dimostrava gentile, non troppo indiscreto, andava dritto al punto, ma amava allo stesso modo argomentare le sue idee. Io mi ritrovavo insicura, anche se nel profondo non lo ero, pacata, ma dalle emozioni decisamente strabordanti, silenziosa, ma solo con chi non avevo confidenza – ed ovviamente con il genere maschile. 

I suoi sguardi, così decisi e mai banali, centrarono il punto. Ed il punto non era farmi imbarazzare, affatto, ma permettere di adattarmi, interagire e tastare il terreno per far sì che le mie parole fluissero velocemente e la mia mente si aprisse alla novità, al "mistero" ed al contatto con qualcuno che, per una maniera o per l'altra, tendevo a repellere. Io ero sicura Alessandro volesse far sì che entrassimo in contatto, e non in maniera effimera ma intellettuale; altrimenti non mi avrebbe domandato cosa mi piaceva leggere. Secondo me le letture di una persona esprimono, in un modo o nell'altro, una parte dello spirito e dell'interiorità di quel lettore. Quindi era più che lecito domandare, se proprio deciso a stabilire il famoso contatto. E questo contatto ero sicura volesse fosse fatto di idee ed opinioni condivise, dibattiti e tante, troppe parole; quelle parole che io non riuscivo - ancora - a pronunciare. 

"Anche a me piacciono molto" concordai, muovendomi verso lo scaffale successivo, quello contenente la sezione di Narrativa utopistica. Quello era uno dei generi narrativi che preferivo in assoluto. "Però amo molto anche questo genere di letture" aggiunsi, indicando il cartellino che specificava la sezione, ben visibile al centro dello scaffale. 

"Come mai? È strano trovare una ragazza appassionata di questo genere. Lo dico per esperienza, eh. Piace molto anche a me" rispose immediatamente Alessandro, ponendomi un quesito interessante quanto difficile da argomentare in poche parole. E dato che non riuscivo, in pochi minuti, a formulare una frase il più breve possibile per riassumere il mio enorme pensiero sulla questione, decisi di prendere coraggio e affrontare, non senza difficoltà, il flusso di parole che avevo sulla lingua e che aspettavano solo l'okay dal mio cervello per poter invadere il padiglione auricolare di Alessandro. 

"Io credo sia uno dei modi migliori per poter riflettere sul futuro" iniziai, prendendo pian piano coraggio per procedere, "immaginare un giorno cosa potrebbe accadere e trovarsi a pensare come sarebbe stato se fosse accaduto esattamente ciò raccontato in uno di questi libri. Se adesso fossimo immersi in una guerra contro uno Stato che cambia in continuazione anche se noi restiamo dell'idea che sia sempre lo stesso, se non potessi parlare, o leggere, o scrivere seguendo i miei pensieri in maniera libera e se persino i miei pensieri fossero manipolati, io come reagirei? Cosa farei della mia vita se tutto questo non esistesse? Se questa biblioteca fosse bruciata, se l'insegnamento scolastico fosse ridotto in propaganda spicciola e se perdessimo il potere esercitato dai nostri pensieri e dalla libertà di poterli esprimere? Ci hai mai pensato a come potrebbe essere o come potrebbe essere stato?" conclusi, appoggiandomi di peso alla ringhiera alle mie spalle e respirando, in maniera libera ed evidente, mentre il mio cervello mi portava incondizionatamente a guardare negli occhi Alessandro, come d'altronde avevo fatto durante tutto il mio discorso che, mi resi conto solo in quel momento, potevo benissimo tradurre in un'unica frase, la prima che avevo pronunciato. Alex mi sorrise, di un sorriso sincero e colpito, passando, subito dopo, una mano nei suoi folti capelli scuri. 

"Beh, sei decisamente una ragazza appassionata di questo genere" esordì, facendo spuntare un piccolo sorriso anche sul mio viso, che fino a quel momento era rimasto immobile nel suo rossore post-trauma. "Penso anch'io sia importante riflettere su cosa avrebbe potuto essere il passato e cosa potrebbe essere il futuro. Credo, però, che sia altrettanto importante capire davvero ciò che è successo in passato, per non commettere più errori simili" mi rispose Alessandro, riprendendo a camminare lungo la passerella che permetteva la consultazione degli alti scaffali. 

Mi ritrovai a seguirlo quasi automaticamente, per poi affiancarmi a lui mentre completava l'ultima frase che stava dicendo. Sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro e, intanto, scorrevo con la tremante mano sinistra la balaustra della scaletta che Alessandro aveva deciso di scendere per tornare alla zona dei divanetti. Avanzò verso le sedute e si accomodò; lo imitai, sedendomi di fronte a lui. 

"Io credo che la storia sia fondamentale, se alludevi a questo" ripresi stranamente il discorso, tormentando le mie mani sul maglione. Alex puntò i piedi per terra e si posizionò con i gomiti sulle ginocchia, le mani verso il basso, piegato nella mia direzione. Tornò sul suo viso un sorriso e non riuscii a capire, a primo impatto, perché sorridesse – o forse avrei dovuto dire "ridesse di me" – tanto. Aggrottai le sopracciglia e presi a tormentare le punte dei miei capelli, inumidendole con le mie dita sudate e facendole increspare ancora di più. 

"Finalmente" dichiarò, puntando i suoi occhi nei miei come era, ormai, abituato a fare nel momento in cui si rivolgeva a me. Continuai a non capire anche se doveva sembrare ovvio. Purtroppo stavo ripiombando in quello stato di confusione da cui ero riuscita a riemergere poco prima, ma in cui la vicinanza di Alessandro mi faceva ricadere. Forse fu la mia espressione che lo portò a riprendere la parola, per spiegare meglio quello che aveva già detto e, probabilmente, credeva avessi afferrato. 

"Finalmente è successo. Finalmente hai pronunciato più di due frasi, hai fatto un discorso. Ci volevano proprio i libri per stimolare la tua eloquenza" sorrise, e mi fece piegare le labbra in quello che doveva sembrare un sorriso, ma appariva probabilmente come una smorfia, una delle peggiori, "Qual era il problema? Da cosa eri imbarazzata?" mi domandò, sembrando sinceramente interessato alla mia risposta. 

Avevo argomentato, avevo parlato ed ero stata eloquente; ma su quel punto non potei dire nulla, il mio cervello non me lo permise anche se le parole erano incastrate tra la lingua ed il palato, vogliose di uscire, assetate di essere comprese e comunque incapaci di spiegare qualcosa che non poteva essere spiegato, né compreso. Tutto l'orgoglio che mi pervadeva dopo essere riuscita a spiegarmi si spense alla stessa velocità con cui una folata di vento spegne una candela. Tornai a sentirmi in imbarazzo, incapace di esprimermi, impaurita dalle conseguenze, restìa ad abbandonarmi alle parole, parole che mi tenevano per le briglie come fossi un cavallo da domare. Abbassai il viso sulle mie mani, mi morsi le labbra, tormentai le mie unghie l'una con l'altra, le gambe di Alessandro nel mio campo visivo si muovevano, flettendosi per permettere al ragazzo di alzarsi. 

Non sarei mai stata capace di spiegargli il problema, se solo avesse potuto entrare nella mia mente si sarebbe potuto rendere conto del caos che vi regnava, dell'inquietudine che mi pervadeva, dell'inettitudine che provavo nei confronti della società che mi circondava, dei rapporti convenzionali che avevo stabilito che mi costringevo a mantenere per pura facciata e della profonda, irreversibile e malata infelicità che mi accompagnava ogni giorno. In quei pochi istanti di luce, di felicità, di emozioni nuove e vere non avevano spazio le paure e le incertezze. Ma quegli istanti volavano via in pochi secondi e non restava che l'aridità, la solitudine e l'incomprensione. 

Notai le sneakers di Alessandro davanti i miei stivaletti, anche se la vista era appannata e i miei occhi immersi in un mare salato che iniziava ad essere sempre più profondo. Udii in modo ovattato la voce di Alessandro che diceva qualcosa che suonava come "va tutto bene? Scusami se ti ho messo a disagio." 

Mi alzai di scatto, ritrovandomi il corpo del ragazzo a pochi centimetri. Mi rifiutai di alzare lo sguardo su di lui e scivolai via, ripercorrendo velocemente il corridoio verso la sala dove avevo lasciato le mie cose. Non mi preoccupai di cosa potesse pensare Alessandro, di cosa potesse dedurre dal mio comportamento e, soprattutto, dal mio fuggire dai problemi, grossi ed enormi problemi. Chiusi velocemente quaderno e astuccio che infilai alla rinfusa nella borsa. Fare tutto di corsa richiedeva concentrazione, e concentrazione significava non dover pensare all'accaduto e al fatto che Alessandro poteva ripresentarsi lì da un momento all'altro. Mi infilai meccanicamente sia cappotto che cappello e, raccattando lo zaino, tornai a percorrere velocemente i corridoi della biblioteca, fino all'entrata. 

Quando uscii, dopo che neanche la bibliotecaria mi ebbe notato, il cielo era plumbeo e una fitta e pungente pioggia iniziò a minare i miei stivaletti di camoscio, mentre inumidiva le mie guance già provate dalle lacrime. Mi lasciai così alle spalle la biblioteca, per poi varcare spedita il cancello della scuola, incurante di auto, pedoni, traffico e dei miei pensieri.

 

 

 

Il materasso si abbassò quando mi gettai di peso sul letto. Grazie allo specchio accanto al mobile, mi resi conto solo in quel momento dello stato pietoso in cui versavo: il trucco era colato sulle mie guance, striate di nero e grigio, i capelli bagnati dalla pioggia sembravano un cespuglio umidiccio, gli occhi rossi e gonfi davano risalto al mio pallore cadaverico, frutto del freddo, della pioggia e dell'arido interiore. Il mio maglione era umido e avevo la schiena ed i piedi congelati. Per non parlare dei miei poveri stivaletti di camoscio ridotti in poltiglia dalla pioggia. Stivaletti che avevo messo nonostante le previsioni, solo per sembrare più alta. In un moto di rabbia ne gettai un contro il muro, intenta com'ero a sfilarmeli mentre pensavo al motivo per cui li avevo indossati e ridotti in quel modo.

 In quel momento pensai al compito del giorno seguente, quello di Chimica per cui avevo tentato di studiare tutto il pomeriggio. Tornai al mio zaino, ormai più che umido dopo che era stato sotto la pioggia per più di mezz'ora. Era appoggiato sulla sedia della mia scrivania, di fronte al letto da cui mi ero alzata riluttante. Ne trassi astuccio e quaderno, per poi decidere di svuotarlo e metterlo ad asciugare sul calorifero, accanto alla scrivania che in quel momento sembrava un campo di battaglia, cosparsa di libri e vari articoli per lo studio. Portai il quaderno sul letto e presi la pagina che mi interessava. 

Nel frattempo sentii aprire il portone d'ingresso, segno che mio padre e mia sorella erano appena rientrati, l'uno da lavoro e l'altra da scuola. Mio padre sarebbe andato dritto in doccia, mentre mia sorella avrebbe acceso la tv in camera sua per guardare la sua serie tv preferita che andava in onda proprio a quell'ora. Ricordai allora che mamma sarebbe rientrata di lì a poco da lavoro e che aveva lasciato una cesta di biancheria da sistemare dopo il bucato. 

Mi alzai svogliatamente dal letto e dal mio ripasso di chimica per percorrere il corridoio che mi separava dal soggiorno. L'acqua della doccia già scorreva in bagno, segno che mio padre stava rispettando la sua routine. Raggiunsi il soggiorno non troppo di corsa, individuando la cesta appoggiata su uno dei divani che arredavano il nostro living. Nel momento in cui mi chinai per afferrare i manici della cesta, un trillo mi interruppe. Poi un secondo ed un terzo. Individuai la sorgente di provenienza nel cellulare di mio padre, poggiato sulla spalliera del divano, collegato al caricatore perché tendeva a scaricarsi in continuazione, come ogni smartphone che si rispetti. 

I messaggi di WhatsApp comparvero sul display a pochi centimetri dal mio viso e qualcosa, in quella visione, mi disturbò. Due dei messaggi avevano come mittente un certo 'Amore'. Pensai fosse mia madre, dato che mio padre usava apostrofarla in quel modo. Ma ciò che mi sconvolse fu il messaggio seguente, il cui mittente era 'Angela'. 

Angela è il nome di mia madre. E Angela gli comunicava che avrebbe fatto tardi a lavoro, a causa di un'urgente riunione dell'ultimo minuto. Angela non era 'Amore', che invece usava un tono carezzevole per chiedergli se quel fine settimana sarebbe stato occupato. Angela non aveva usato la quantità sproporzionata di cuori di 'Amore', perché non era sua abitudine farlo. 

Mi alzai e mi posizionai di fronte al cellulare. Alzai gli occhi alla parete di fronte e rimasi a fissarla, anche se nella mia testa la parete non occupava neanche un centimetro di pensiero. Mio padre tradiva mia madre. Mio padre aveva qualcuno chiamato 'Amore' sulla sua rubrica che gli inviava messaggi con cuori rossi. Mio padre stava pianificando il fine settimana con qualcuno chiamato 'Amore' sulla sua rubrica. Eseguii quasi meccanicamente il compito impartitomi da mia madre, quello di mettere a posto la biancheria, mentre la mia mente militava in uno stato disastroso, si rifiutava di pensare ad alcunché se non alla corretta disposizione degli asciugamani nel settimino della camera da letto dei miei. Una volta finito, riposi la cesta nella lavanderia, chiusi la porta e tornai in camera. 

Nel frattempo la doccia continuava a far scorrere acqua e presero a scorrere anche i mei pensieri. Come aveva solamente potuto fare una cosa del genere? Da lì iniziai a capire il motivo per cui alcune sere rientrava tardi, troppo tardi, da lavoro, il motivo per cui sosteneva di avere importanti impegni di lavoro nel weekend o improrogabili riunioni a cui doveva partecipare obbligatoriamente. 

Incominciò a prendere piede nella mia mente la consapevolezza di aver avuto diversi indizi che non avevo saputo sfruttare: l'incuranza con cui si rapportava con mia madre alcune volte ed i regali totalmente fuori luogo in altre occasioni, come se volesse scusarsi implicitamente per il suo comportamento fraudolento. I trolley che il venerdì mattina comparivano nella sua macchina quando mi accompagnava a scuola; lui sosteneva fossero viaggi di lavoro nel weekend ed io, in quel momento, mi resi conto fossero ben altro. Da quanto tempo andava avanti quella storia? Mia madre aveva capito qualcosa o era all'oscuro di tutto? 

Iniziai a pensare troppo, alle conseguenze delle mie possibili rivelazioni, ad una mia dichiarazione in un'aula di tribunale, ai messaggi proiettati dagli avvocati, alle invettive e al gelido clima che si sarebbe creato in casa. Pensai a cosa avrebbe pensato la società benpensante del quartiere, alla parrocchia che frequentava mia madre tutti i venerdì, alle amicizie che avevano i miei nei club che frequentavano, amicizie di borghesi, perbenisti, amanti delle convenzioni sociali, delle apparenze e dei "valori familiari". Gli stessi che erano i genitori delle mie amiche più vicine, quelle che conoscevo da anni, quelle con cui facevo gli sleepover da piccola e gli scout. Le stesse "migliori amiche" che, se avessi detto loro solo qualcosa di quello che avevo visto, lo avrebbero spifferato incuranti alle loro madri e sarebbe finito in pasto alle loro voraci fauci, assetate di pettegolezzi, che non vedevano l'ora di rovinare la vita altrui e di fare la morale sugli errori degli altri perché tanto, i loro errori, chi li avrebbe mai scoperti? 

Dovevo tenere tutti i miei dubbi, le incertezze e le scoperte per me. I dolori di una famiglia che poteva andare in pezzi, di un matrimonio che dipendeva dalle mie parole, quelle parole con cui ero tanto brava, ma con cui avevo fatto un disastro poco tempo prima. Tutto poggiava sulle mie sottili spalle, già piene di ossessioni, già piene di difficoltà e problemi che non riuscivo a superare. 

Un altro pesante macigno si aggiungeva all'insicurezza e all'inettitudine; questo macigno era l'omertà. Avevo visto e non potevo parlare. Non potevo rivelarlo, ci sarebbero state troppe conseguenze ed io non potevo sopportare tutte quelle conseguenze. 

Seduta sul letto fissavo assente una pagina del quaderno di chimica, mentre la mia mente vorticava in un abisso senza ritorno, sempre più profondo e sempre più buio. Quando tornai a vederci chiaramente notai dei numeri in sequenza alla fine della pagina. Erano scritti a matita e non li avevo scritti io, non era la mia calligrafia. Era una grafia disordinata e lunga. 

Aggrottai le sopracciglia e notai subito sopra i numeri delle parole: "Quando vuoi studiamo insieme." Alzai di scatto gli occhi dalla pagina. Alessandro mi aveva dato il suo numero. Nessun ragazzo prima d'ora l'aveva mai fatto. Arrossii di colpo e mi morsi il labbro inferiore. Cosa avrei dovuto fare? 

Quel moto di imbarazzo e strane sensazioni piacevoli cessò quando il mio sguardo si fissò su una foto incorniciata appesa alla parete che ritraeva la mia snella figura da undicenne tra mio padre e mia madre, con mia sorella al mio fianco, ancora molto piccola. I miei pensieri tornarono alla disastrosa scoperta di pochi minuti prima. Mi passai una mano sulla fronte, i capelli ancora umidi per la pioggia ed il viso probabilmente ancora macchiato di nero. Dovevo tenere tutto per me. Dovevo mantenere lo stesso comportamento di sempre, dissimulare con tutti. Con la mia famiglia, con le mie amiche, a scuola... 

Quando tornai a posare gli occhi sul quaderno e sulla sequenza di numeri aggrottai le sopracciglia. Ritornai a guardare la foto e poi di nuovo quei tratti a matita. Nel momento in cui presi il cellulare dalla mia tasca e lo sbloccai probabilmente avevo staccato la spina al mio cervello. 

Ero in uno stato così nuovo, così pieno di problemi, fino all'orlo, che dovevo in qualche modo non pensare. E fu proprio frutto del mio 'non pensiero' quello che feci subito dopo: digitai quel numero come destinatario di un testo che recitava "Ho bisogno di te. Noemi"

Il secondo successivo all'invio del messaggio, quando l'adrenalina era sparita e avevo riattaccato la corrente che alimentava la mia coscienza, mi resi conto di ciò che era accaduto e della portata della mia azione. Avevo inviato un messaggio ad Alessandro. Gli avevo inviato quel messaggio dopo quello che era successo in biblioteca circa un'ora e mezzo prima. Avevo scritto che avevo bisogno di lui. Avevo instaurato un contatto con un ragazzo e l'avevo fatto di mia spontanea volontà. 

Ipotizzai, allora, che probabilmente il mondo sarebbe finito l'indomani e che era, irrimediabilmente e profondamente, tutta colpa mia.

 

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Salve a tutti, eccomi tornata di nuovo con Library Pictures!

Siamo arrivati ad una piccola svolta nella storia, non molto piccola perché in realtà questo sarà un nodo fondamentale: il tradimento del padre di Noemi. Come risolverà la cosa la ragazza? Lo scopriremo solo vivendo!

Nel frattempo vi voglio consigliare l'altra storia originale che sto scrivendo, a quattro mani con la mia BFF. La storia si chiama "Keglevich" (basta che cliccate sul titolo per accedervi direttamentee spero vi incuriosisca anche questa.

Grazie mille per le recensioni, le visualizzazioni, le seguite e le ricordate, mi fa tanto piacere ricevere dei pareri sui miei scritti! 
Come sempre fatemi sapere cosa ne pensate con tante recensioni anche stavolta. 

A presto,

 

Sara xo

 
  
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