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Autore: swimmila    05/06/2018    6 recensioni
Ti concedo il lusso di chiamarlo amore solo perché voglio rispettare il tuo dolore. Nel frattempo, continuerò a sfogliare l’ipocrisia che riveste questa tua infatuazione. Voglio guardarlo negli occhi, questo presunto amore; in faccia, di lato, di schiena, e prenderlo a picconate ogni volta nel modo in cui l’ispirazione del momento mi suggerisce, fino a fargli confessare il vuoto che lo riempie.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: André Grandier, Axel von Fersen, Generale Jarjayes, Hans Axel von Fersen, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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La solitudine di una rosa

 “Voi vi sposate?!”
Il mio contegno in fuga. La voce in falsetto. Il cuore in frantumi.
“Già, mio padre ha espresso il desiderio che io prenda moglie” .
Il distacco nella sua voce. Il vuoto nello sguardo.
Un minuetto in lontananza. Gli ultimi splendori di Versailles all’orizzonte.
Il mio contegno ripreso al volo.
I suoi occhi disperatamente verso il basso.
La mia mano imposta lungo il fianco. Con la mente ad accarezzargli i capelli. La voce a salvare le apparenze. Il silenzio, dove nascondere le ferite.
Fersen.
Amore. Dal primo incontro.
Vuoto. Dal ritorno in patria.
Emozione. Dal suo ritorno.
Struggimento. Dai giorni in America.
Dolore. Dolore. Dolore. Da queste parole.
 
“Voi potete andare, signore”.
Una regalità misurata. L’accortezza di un sorriso ad ingentilire l’ordine.
Le dame di compagnia di sua Maestà la regina si dileguano velocemente, chine negli occhi e nella schiena.
Rimaniamo sole. La Regina. Il comandante della Guardia Metropolitana Francese.
“Oscar….. Fersen ha deciso di prendere moglie.” La fermezza dello sguardo regale affonda nelle onde di un dolore di donna.
Siamo sole. Due donne in lacrime. Sgorganti le une. Represse le altre.
La resa della regina accolta nelle mani della donna. L’audace scioglievolezza di un singhiozzo che diventa pianto.
La mia attesa in silenzioso rispetto.
 “Oscar io….. vorrei che faceste una cosa per lui.”
 
“Allora Oscar, dimmi, che cosa voleva da te la regina?”
Il tedio dell’attesa che reclama una ricompensa. Te la nego. Non sono in grado di articolare suono che non sia strazio. Perdonami André.
Il galoppo furioso delle lacrime verso i miei occhi. César a pochi, distantissimi passi. La paura di non resistere. La sella sotto le mie gambe. L’urlo selvaggio che sprona il cavallo. Che libera le mie lacrime. In perfetta sincronia.
 
Sei sconvolta. Tenti di controllarti. Di nascondermi la piega amara delle tue labbra serrate. Lo spasmo dei muscoli del collo. Lo sgomento che trasforma il tuo splendido viso in una maschera di sofferenza.
Che cosa ti ha detto la regina?
So che me lo dirai. So che lo saprò presto. Quello che accende il mio dolore, adesso, non è il tuo silenzio. Questa tua fuga impetuosa dalle spiegazioni.
Quello che fa urlare la mia anima con l’accanimento di un carnefice è la visione di te.
Ho visto le tue spalle ritte sulla tua fedeltà allontanarsi verso le stanze della regina.
Vedo la tua figura accartocciata in un groviglio di dolore tornare dai suoi appartamenti.
Monto in sella.
Non so dove sei andata. Ma se pure lo sapessi ti lascerei al sollievo della solitudine.
Non so dov’è finita la tua felicità, amore. Se lo sapessi, andrei a riprendertela e la depositerei nel tuo cuore.
 
Ti ho vista, Oscar, una sera di qualche mese fa, quando tu e i tuoi uomini eravate impegnati nella cattura di quel diavolo di donna.
Quanto orgoglio ho provato per quella tua testa riversa all’indietro sullo schienale della poltrona. Per quel bicchiere di vino stretto in mani assopite. Per quelle gambe allungate sotto la coperta. Per quegli occhi abbassati su una stanchezza che veniva dal profondo.
Quanta fierezza, per quella immagine che mi ha raccontato tutte insieme le lunghe giornate trascorse a rincorrere falsi allarmi. Lo sfinimento in fondo ad artati depistaggi.
Nella piega dura delle tue labbra c’era la risolutezza del comando. La tenacia del soldato. La pazienza del combattente. La determinazione dell’obiettivo. Il rigore della disciplina.
Quanto onore mi hai rovesciato addosso quella sera!
Stavo per chiamare André, Nanny, Marguerite, qualcuno che ti destasse per accompagnarti a dormire. Ma qualcosa in quella tua espressione candita dal sonno mi ha gelato.
Ho guardato meglio. La gloria di poco fa, sulla tua bocca, era una contrazione di dolore. Uno sforzo di resistenza. E in un attimo, tutti i dubbi di questi lunghi anni mi sono piombati alle spalle, rovinosamente.
Orgoglio, fierezza, onore. Tralignati nel rammarico, nella pena, nel rimorso.
Un cretto che ha spaccato in due un cuore che pensavo indivisibile.
Eppure so di avere compiuto il tuo bene, oltre le mie intenzioni.
Volevo un figlio maschio. In cambio ti ho concesso l’indipendenza che spetta ad un uomo.
Ho modificato il corso del tuo destino. Ma i tuoi occhi erano due giare di gratitudine ad ogni visita delle tue sorelle, ad ogni ricamo di tua madre.
Il prezzo per tutto questo è stato alto.
Ti ho vista, Oscar, quelle due settimane che il conte Hans Axel von Fersen, al rientro dall’America, ha trascorso a palazzo Jarjayes come tuo ospite. La tua voce insolitamente dolce; il tuo sguardo sciolto di struggimento; il tuo sorriso luminoso. Poi è andato via, e la tua voce è tornata perentoria; i tuoi occhi solidi; il tuo sorriso raro. Prima di quelle due settimane pensavo fosse il tuo carattere. Ora so che è il prezzo che stai pagando.
L’America. Terra di sovversivi che il nostro tradizionale odio per l’Inghilterra ha spinto a difendere. L’America. Un focolaio contagioso che l’angoscia di un padre prende a prestito per affrancarti dal tuo tributo.
E dal mio.
 
“Oscar, tuo padre desidera parlarti nel suo studio”
La porta della mia camera fra me e le parole di nonna.
“Si, arrivo subito”.
L’ignavia delle mie braccia dietro la nuca.  Il lento trascinarsi delle gambe giù dal letto. Il peso del dovere nel sospiro che non trattengo. L’indolenza su un tasto qualsiasi del pianoforte.
L’assenza di fretta nei miei passi.
Oscar, vorrei che faceste una cosa per Fersen.
Il ricordo ancora piangente nelle orecchie. Lo stordimento ancora vibrante nella testa.
La porta dello studio di mio padre sotto le nocche.
Il Generale nei miei occhi.
L’uomo nel suo sguardo.
L’impeto nelle mie parole.
“Calmati, Oscar. Parliamo con calma, vuoi?”
Entri nel mio studio con l’irruenza delle proteste che ti porti dietro. Le interrompo con un gesto della mano, ti faccio cenno di sedere. Il tuo filiale istinto all’obbedienza mi asseconda. Ti scruto, mentre tu preferisci questo vaso di fiori al mio sguardo.
Mi hai sorpreso Oscar. Come solo tu sai fare. Mi sono sbagliato? No. Certo che no. Mi fido ciecamente delle mie sensazioni. E allora perché non ho visto i tuoi occhi severi illuminarsi di gioia, ieri sera, quando ti ho detto che volevo che ti spogliassi di quella divisa e accettassi la proposta di matrimonio?
Non ti ho detto che sono stato io a chiedere la mano del tuo futuro sposo, e non il contrario. Perché i dettagli fanno l’essenziale, e tu non sei una donna da compromessi. Non sei come le tue sorelle, per le quali il mio volere non è mai passato nel filtro delle loro volontà.
La sedia sotto la mia calma apparente. Il respiro che riavvolgo nella compostezza. Il vaso di fiori, fra me e mio padre. Una macchia di lillà. La solitudine di una rosa bianca. Nonna, la sua paura delle spine, nei primi. André, il suo amore per le rose, in quell’unico candore.
André. Il suo amore disperato, in quella sera della sua rosa e dei lillà….. Immediato, il dolore che sento sciogliersi negli occhi. Fulmineo, il pugno che raggrinzisce le viscere. Lontana, la voce qui di fronte di mio padre.
“Oscar se…se non vuoi sposare il conte di Fersen, troveremo qualcun altro che ti piaccia. Mi dicono che a corte non mancano pretendenti ansiosi di chiedere la tua mano. Il Generale Bouillé mi ha promesso che la prossima settimana darà un ballo in tuo onore. Saranno invitati tutti i migliori partiti di Francia. Potrai scegliere chi vorrai.”
La dolcezza, nella sua voce. Il silenzio, nella mia. La sua illusione del consenso. I nostri occhi, gli uni negli altri. La rosa bianca nel mazzo di lillà. Il coraggio della sua solitudine.
Non rispondi. Prendi una rosa dal vaso e la sfogli lentamente. Mi lasci parlare. Ascolti senza interrompermi. La tua espressione non sembra anticipare un rifiuto, ma io so benissimo che se tu non volessi mi troveresti impotente. Nell’istante in cui ti ho eletta mio figlio, ti ho dato la possibilità di scegliere quando non essere donna.
Se non vuoi sposare il conte di Fersen.
Rivoluzionario, nel suo conservatorismo.
Vorrei che faceste una cosa per Fersen.
Delirante, dal fondo del suo abisso di sofferenza.
Un Generale e la sua Regina. Ignari complici della stessa follia.
Fersen, che inciampa nel mio futuro.
La rosa bianca, scomposta in petalo. Un insieme che diventa frammento. Un soffio, il mio, che sa di sfinimento. Petali di infelicità nell’aria che piange.
 
Ancora birra nel boccale, nella gola, nella testa.
Ho perso il conto di quante ne ho bevute. Delle lacrime che ho versato. Che serata! Birra e lacrime. Amaro e amarezza.
Il Generale Jarjayes è impazzito.
Se qualcosa di buono c’è stato finora nella tua divisa è stato poter crescere al tuo fianco. Ma ora quest’unica prospettiva in cui ho nascosto il mio futuro è stata scoperta. Il mio futuro, cancellato.
Quand’è che tuo padre ha cominciato a meditare di trasformarti in moglie? Come ha concepito l’idea di unire la volontà dello statista svedese a quella del Generale francese? E tu, Oscar, cosa hai provato quando ti ha messa di fronte al matrimonio con il conte di Fersen? Cosa ha gridato il tuo cuore? Il mio, ha emesso un urlo di ghiaccio. Un alito di vita che ha trovato istantanea morte nel gelo assoluto in cui è esalato.
Del delirio di tuo padre mi ha ucciso mia nonna la stessa sera in cui in esso tu probabilmente sei rinata. Anche se non vuoi darlo a vedere. Anche se il tuo viso è una maschera impassibile dietro cui ti sforzi di contenere il fermento della gioia che ti pervade.
Perché non riesco ad essere felice al pensiero della tua felicità? Sono così egoista? Così meschino da amarti con riserva? Mi sono illuso di credere che se avessi scoperto il nascondiglio della tua felicità sarei andato a prenderla e te l’avrei restituita. Ora so dove si nasconde. Ma non muovo un dito. Sono immobilizzato in un’armatura di sofferenza che mi inchioda su questo sgabello di legno marcito come la mia anima. Sono un pusillanime che ha solo il coraggio della viltà, la forza dell’accidia.
Non abbiamo più parlato, io e te, da quel pomeriggio in cui sei andata dalla regina e ne sei tornata sconvolta. Ancora non mi hai detto cosa voleva, ma ora non ha più importanza. Nulla può essere più immane di questa tragedia che ti sta portando via da me.
La birra scende rumorosamente in gola e io voglio assordarmi col suono di questo deglutire selvaggio, brutale, animalesco.
Tutto converge nella stessa direzione. Il tuo amore per Fersen. I suoi progetti di matrimonio. Il tardivo ripensamento di tuo padre. Il mio amore che si nutre della tua gioia. Tutto, verso l’altare che ti unirà a lui.
E la regina? Come reagirà? E’ di questo che voleva parlarti, Oscar? E’ per questo che eri sconvolta?
Se non fossi così irrimediabilmente lacerato, ricomporrei questo mosaico di dolore in un quadro di ilarità.
   
 
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