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Autore: alessandroago_94    09/07/2018    14 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo otto

CAPITOLO OTTO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutto si mantenne calmo fino al giorno successivo, quando la situazione tornò a degenerare; e fu un vero peccato, siccome a casa ero riuscita a ritrovare un po’ di pace con la mamma, nonostante ci fossimo sforzate di ignorarci pur di evitare di finire di nuovo a discutere della piega degli eventi recenti. Anche al lavoro andava tutto alla grande.

Virginia aveva pietà di me più che in qualsiasi altro periodo del nostro rapporto lavorativo, e il pomeriggio scorso, quando ero tornata a riprendere il mio turno, seppur triste e sfinita, mi aveva accolto con grande gentilezza, senza apparire mai contrariata o ingelosita per il fatto che quel galantuomo all’antica del suo filarino mi aveva portato a casa. Anzi, ne sembrava felice, ed era come se la sua buona azione fosse stata positiva anche per lei.

Piergiorgio, invece, non l’avevo più rivisto.

Ebbene, quando mi recai al lavoro, giungendo con qualche minuto d’anticipo, come mio solito, intravidi subito, mentre parcheggiavo, che davanti all’ingresso del locale si era posizionato uno dei miei peggiori nemici; il padre di Marco. Era seduto ad uno dei tavolini liberi.

Sbuffai, nervosa. Ero proprio stanca di quella messa in scena, e di quella famiglia… mi veniva davvero da scendere dall’auto e cominciare a gridargli contro come una forsennata.

Volevo liberarmi dai vincoli di quelle persone insistenti, che ai miei occhi apparivano sempre più come malate, ossessive ed opprimenti; era proprio vero che non tutto ciò che luccicava era oro, e non mi ero mai accorta, durante la mia lunga relazione con Marco, di quanto fosse insistente il suo genitore. Forse, perché non avevamo mai avuto problemi gravi come quella volta.

Mi lasciai alle spalle l’auto e mi avviai verso il mio calvario quotidiano, che aveva surclassato il lavoro, ed era il mio impegno con i problemi che la pausa da me voluta col mio fidanzato aveva provocato. Una reazione a catena, proprio.

Coprii la distanza che mi separava da L’angolo della bontà con rapidità, a passi svelti, tenendo lo sguardo a terra e cercando di non mostrare il mio volto che, in quel momento, doveva essere livido dal nervoso che stavo provando. Il mio doveva essere uno stupido tentativo di depistaggio, nella speranza che quello che ormai vedevo come un nemico stesse solo attendendo un caffè, ma naturalmente non era così.

“Isabella, per favore, potrei parlarti un attimo?”, esordì infatti l’uomo, tossicchiando per attirare la mia attenzione mentre cercavo di avvicinarmi alla porta del locale.

Per un istante, mi baluginò per la mente di far finta di non aver udito nulla, ma poi compresi che, in fondo, avrei solo aggravato la situazione, siccome Valerio, come ben sapevo, non era un tipo che demordeva facilmente.

“Senta, mi spiace, ma io sono qui per lavorare…”, partii anch’io in quinta, innervosita come non mai, ma il signor Benedetti mi prese dolcemente per una spalla, dopo essersi alzato in fretta e senza che io avessi avuto modo di evitare il contatto; e mi si avvicinò, in una sorta di viso contro viso.

Mi ritrovai proprio col suo volto a meno di un palmo dal mio, coi miei medesimi segni d’irrequietezza ben impressi sulla sua pelle ben rasata, che sembrava quella di un bambino, e il suo odore di dopobarba spalmato da poco stuzzicava improvvisamente le mie narici. Mi sentivo quasi in pericolo.

Valerio si affacciò poi per un attimo all’interno del locale, rivolgendo uno sguardo perentorio alla signora Virginia, già collocata dietro alla cassa, nella sua solita postazione quotidiana.

“Devo scambiare due parole con la sua dipendente, signora. So che lei è tanto gentile e me la concederà di nuovo per un paio di minuti. Dopo le lascerò una generosa mancia, per il disturbo recatole”, disse con fermezza, e senza attendere un’ipotetica risposta mi prese a braccetto e mi fece sedere al tavolino dove mi aveva atteso.

“Ora devi ascoltarmi. Questa volta, devi”, mi disse, sussurrandomi quasi all’orecchio e lasciando che il suo alito rancido, così tanto differente da quello sempre gradevole del figlio, sferzasse brutalmente il mio viso.

Mi ritrassi, mi faceva davvero schifo.

“Ripeto; io non ho niente da ascoltare, niente da dire, e non so cosa vuole da me e non m’interessa nulla”, dissi, scandendo per bene le parole e cercando disperatamente di farmi coraggio, siccome quest’ultimo si stava un po’ eclissando di fronte alla sicurezza che emanava quell’uomo.

Il signore si sedette di nuovo di fronte a me, esattamente come aveva fatto un paio di giorni prima, seppur in modo più educato, e mi guardò con una smorfia rancorosa che mi trafisse, con quei suoi insipidi occhiacci che parevano divorarmi, e quel suo sguardo da uomo prepotente e arrogante che non era abituato a ripetere due volte le cose.

“Ti interessa, invece. Riguarda te e mio figlio…”.

“Suo figlio, per l’appunto, quel maleducato! Ieri ha fatto una tale scenata, a casa di mia madre, che mi ha lasciato senza parole!”, gli dissi, esasperata, interrompendolo.

“Sì, e lo sai perché è cambiato così in fretta?”.

Lo sfidai con il mio silenzio. In fondo sapevo già quale era la risposta a quella sua domanda retorica, e tanto valeva che fosse lui a darsela da sé.

“Per colpa tua. Solamente tua”, infierì infatti dopo il mio silenzio placido, “e ora desidero che tu rimedi a tutto questo”.

“Doveva educarlo meglio”.

Di fronte alla mia faccia tosta, che soffocava una disperazione disumana, il mio interlocutore sorrise amaramente.

“Parliamo seriamente, da adesso in avanti. Faccia a faccia, come qualsiasi persona adulta. Ascoltami; cosa desideri, pur di ritornare con mio figlio?”.

Spalancai la bocca, e quasi mi venne da lanciare uno strillo da pazza, da indemoniata.

“Ancora?! Ancora con questa storia?! Ma la vuole capire, lei e quello stronzo di suo figlio, che non sono in vendita e che non sono un oggetto? Io non ne posso più, più, di sentire questo discorso, e di essere obbligata da voi due ad ascoltarlo!”.

Dalla rabbia mi veniva voglia di gettare in strada il tavolino, e la sedia addosso a quel fetente. Ero andata fuori di testa anch’io, a seguito di quell’ennesima e stupida pressione.

“Farò finta di non aver udito l’orribile epiteto che hai dedicato e rivolto a mio figlio, sai”, disse Valerio, senza scomporsi minimamente di fronte alla mia reazione furiosa, “comunque, non posso darti totalmente torto. Mio figlio è disgustosamente infantile, e mi aspettavo che, prima o poi, qualche tensione sarebbe venuta fuori, tra te e lui. Siete due persone così diverse! A volte mi stupisco del fatto che siete riusciti ad andare avanti per così tanto tempo. Tu cerchi la vita di coppia nella sua interezza, lui cerca lo svago, come durante la fanciullezza, e non prende nulla sul serio, limitandosi a bramare e a volere”.

“E, mi scusi, quindi lei pretende che, viste le circostanze attuali, io ritorni tra le sue braccia con tanto di grande gioia?”, gli chiesi, nella medesima maniera che avrebbe utilizzato lui nei miei confronti.

“Isabella, io sono qui per dirti che… per supplicarti… di tornare con lui. Costi quel che costi. Non posso vederlo soffrire così! A casa non mangia più niente da giorni, batte la testa contro il muro della sua stanza, e se gli parliamo strepita come un folle. Se tu torni con lui, Marco smetterà e si rimetterà in sesto, proprio come prima, e per me e per mia moglie sarebbe un immenso sollievo. Facci questo regalo, ti imploro”.

Sollevai un sopracciglio, con sarcasmo.

“Mi avete solo riservato rancore, perché io ero diversa da voi. Mi dispiace, ma fintanto che non me la sento, non posso…”.

“Cosa vuoi in cambio? Ti posso dare ogni cosa. Ogni cosa, ripeto. Se mi dici che vuoi dei soldi, ti faccio avere tutti quelli che ho; se vuoi case, gioielli, un posto di lavoro da direttrice… tutto. Se desideri che io stesso ti faccia da domestico, anche solo per il tuo gusto di umiliarmi, lo farò. Tutto, farò ogni cosa che mi dirai di desiderare. Se vuoi che m’inchini…”.

“Basta così, io non voglio niente da lei! Lo capisce o no? Questa è una faccenda tra me e suo figlio, ed è ora che la smettiate d’immischiarvi in questo modo! E la smetta anche di sparare sciocchezze!”, sbraitai, continuamente angustiata da quella marea di insistenza, che non riuscivo in alcun modo ad arginare.

“Ma io mi intrometto proprio perché riguarda mio figlio, questa questione. Io non voglio che lui soffra, o che commetta stupidaggini a causa di questa… di questa tua voglia di intestardirti, Isabella. Lui ti ama e tu pure; semplificate le cose e tornate assieme, così non…”.

“Allora c’è qualcosa che proprio non capisce!”.

Mi venne da sorridere, tristemente, e in modo alquanto goffo, dopo averlo interrotto per l’ennesima volta, durante quelle sue futili digressioni, a quelle inutili parentesi ricche di supposizioni che volevano solo impormi di fare proprio ciò che al momento non volevo fare.

Ma, a quel punto, Valerio era stanco; aveva messo sul piatto della bilancia tutto quello che poteva offrire, anche la sua sudditanza, e ci avrei scommesso che se gli avessi chiesto la sua sudditanza lui mi avrebbe detto di sì anche in quel caso. Persone del genere e di quello stampo non dimostravano dignità, quando si tratta dei loro bambinelli un po’ troppo cresciuti.

Insomma, il signor Benedetti era ormai paonazzo in volto, e si era umiliato davanti a me con quelle sue proposte così aberranti che faticava lui stesso a riconoscere di avermele proposte. Ci aveva provato, ma io in ogni caso non avevo abboccato, e si sa, quando il pesce non abbocca all’amo, nonostante le succulentissime esche messe in acqua, è il momento in cui il presunto pescatore perde la pazienza e impreca.

Andò proprio così.

Il padre di Marco, d’altronde, si era chinato così tanto al mio cospetto da aver perso la faccia, e non era più disposto ad accettare che, dopo aver ascoltato tali parole da uomo disperato, io non facessi ciò che mi aveva implorato di fare.

Gonfiò le guance, quel mio interlocutore sul ciglio di uno sfogo rabbioso, e si lasciò andare con qualche secondo di ritardo sul tempo che avevo imprevisto per l’esplosione della sua rabbia repressa.

“Ma sentiti… sei tu invece che non capisci! Ma sai qual è il problema? Il problema è che tu sei una vera egoista. Non ti importa nulla di nessuno, e ti diverti solo e in modo sadico a mettere zizzania in casa nostra”, sancì, infine, il mio insigne interlocutore, perdendo quel contegno da calmissimo pallone gonfiato che aveva sempre cercato di mostrare di fronte a me, tranne in quella giornata, dove stava finalmente calando la maschera.

Sapevo che quelli erano attimi cruciali, siccome ero riuscita a spingerlo con le spalle al muro, e quindi ogni mia altra parola avrebbe influito in modo netto sui nostri ipotetici rapporti. Perché io non consideravo di avere un qualche rapporto con quel signore, neppure di semplicissima conoscenza.

“Se io voglio prendermi una pausa da vostro figlio, secondo lei, è solo perché voglio farvi litigare in casa?”, gli dissi, in tono più calmo.

Più Valerio perdeva le staffe, più pareva assorbire la mia aura negativa, che fino a quel momento mi aveva portato ad essere più innervosita del solito.

“Sì, perché sei una persona fredda, glaciale, che non vuole mettersi nei panni degli altri… egocentrica. Non capisco che cosa ci trovi mio figlio in te!”, mi disse, allontanandosi dal tavolino con una spinta, come a voler preannunciare che si sarebbe alzato di lì a poco e che era stanco di conversare con me, finalmente.

“Lei…”.

“Ma vai a farti fottere assieme al tuo lei!”, m’interruppe, alzandosi dalla sedia.

Quasi esultai interiormente; avevo vinto lo scontro.

Avevo fatto calare definitivamente la maschera al nemico, l’avevo fatto uscire dal suo mondo falsamente perbene, e mi aveva anche imprecato in faccia e nei miei confronti.

La barca era stata colpita, ed imbarcava acqua; per finire il lavoro, non mi restava altro che colpire in modo più forte ed allargare la falla, per farla affondare definitivamente e in fretta.

Ero sicura che, se avessi ferito di nuovo il padre di Marco, lui non sarebbe mai più tornato a cercarmi e ad importunarmi.

“Senta, ora mi ascolti lei. Per oggi ne ho avuto abbastanza, e anche per i giorni a venire, quindi non m’importuni più, altrimenti non mi farò problemi a chiedere aiuto o a telefonare immediatamente ai Carabinieri. E ora, se vuole un mio consiglio, vada a casa a lavarsi i denti, per favore; mi ha quasi steso”, e così dicendo, mi alzai anch’io e gli lanciai un’occhiataccia che, da sprezzante come avevo progettato che fosse, si tramutò più in qualcosa di vacuo, di tremolante.

Ebbi subito la consapevolezza di non aver solo allargato la falla, ma di aver colpito ripetutamente la nave già affondata, in modo gratuito. Avevo quindi esagerato.

Valerio si alzò anch’egli, livido in volto, con un’espressione tra lo sbigottito e il sorpreso, e s’impettì, rimettendosi a posto i suoi begli abiti molto formali e passandosi poi una mano sui capelli imbrillantinati.

“Mi fai schifo. Ti credevo una ragazza di classe”, mi disse, ormai ripetutamente pugnalato nell’orgoglio.

“No, lei mi credeva un’oca, che è diverso”, gli risposi, senza rimorsi, ma non guardandolo più. Anzi, cominciai, in modo naturale, a muovermi verso l’ingresso del limitrofo locale.

“Parlerò a mio figlio e cercherò di dirgli di non pensarti più. Tu non sei adatta a un individuo delicato come lui”, mi redarguì, ormai già distante qualche metro da me, che lo stavo distanziando.

“Ah, sì, ottima idea. Anzi, gli dica proprio che io e lui abbiamo rotto del tutto, e che non voglio sapere più niente delle sue bambinate”, quasi gli urlai, per far sì che udisse tutto per bene.

Ero così arrabbiata… e, un attimo dopo, come mi capitava spesso, mi ritrovai a rinfacciarmi il fatto che avessi parlato di nuovo in modo esagerato. D’altronde, che colpe aveva Marco? Era solo una vittima dei suoi genitori, che l’avevano educato male e volevano sempre accontentarlo in tutto e per tutto.

Non mi passò neppure per la mente che dietro a tutto ciò potesse esserci un suo progetto intenzionale, e che fosse cosciente della situazione imbarazzante nella quale ormai versavo da solo qualche giorno, ma che mi pareva un’eternità. Quella era una faccenda che doveva restare tra noi due, e non dovevano intromettersi altri… e così, avevano rovinato tutto, in primis proprio il signor Benedetti, che con la sua faccia tosta mi aveva indisposto in una maniera assurda.

No, il mio ragazzo restava quasi immacolato, nei miei pensieri del momento.

“Non mi stupirei se scoprissimo che te la stai facendo con un altro!”, borbottò Valerio di rimando, andando poi in senso opposto al mio.

Io, invece, mi bloccai sul posto; sentii il mio volto andare in fiamme, dopo quell’ennesima insinuazione. Era troppo, per me.

Se solo avesse saputo quant’ero stata fedele a suo figlio, e quanto l’avevo amato, per poi ricevere solo mezze fregature in cambio, e quello schifo di vecchia boccaccia puzzolente che mi sparlava alle spalle, e che magari era stata proprio essa stessa a mettere la pulce nell’orecchio a Marco, siccome il giorno prima aveva sollevato anche lui la medesima questione.

Fui in procinto di voltarmi e di urlargliene quattro, sconvolta e ferita, constatando che anche il Benedetti alla fine ci aveva dato sotto, ma per fortuna non tornai ad aggravare la situazione, anche perché la signora Virginia fece capolino dalla porta del suo locale e me la ritrovai proprio di fronte.

“Le chiedo scusa…”, esordii, ma lei mi face cenno con la mano che era tutto a posto, zittendomi.

“Perché quell’uomo è così insistente, con te? Hai dei problemi con lui?”, mi chiese, incuriosita e nervosa, mentre osservava Valerio che si allontanava. Non le aveva neppure dato la tanto proclamata mancia che aveva promesso un quarto d’ora prima.

“E’ il padre di Marco, il mio fidanzato ed ormai ex convivente”, le risposi, in sintesi.

“A me sembra che quello abbia dei disturbi, delle manie di persecuzione… con tutto il rispetto, ma io ti consiglio di smetterla di dargli udienza”.

“Lo farò senz’altro. Anche io non ne posso più…”, riconobbi, entrando all’interno de L’angolo della bontà, finalmente.

Mi diressi subito verso lo sgabuzzino, felice, per la prima volta dopo tanto tempo, di cominciare a lavorare, seppur con una decina di minuti di ritardo.

“E il tuo ragazzo cosa ne pensa? Crede di rimediare mandandoti tutti i giorni suo padre a parlarti?”, mi chiese di nuovo la signora, tornando anche lei alla sua solita postazione. Quel giorno il locale era ancora quasi vuoto, e non c’era molto da fare, almeno per la padrona, poiché Ilenia mi stava già egregiamente coprendo senza difficoltà.

“Non so di preciso quel che vuole, ma credo che lo lascerò… almeno, a suo padre gli ho già detto che è come se lo avessi lasciato”, le risposi, mettendomi i guanti e dirigendomi verso il primo tavolino da pulire, munendomi anche di una spugna umida.

“I dieci minuti di ritardo li recupero a mezzogiorno, se non le dispiace, va bene?”, tornai a chiederle, per essere corretta, e finalmente mettendo da parte l’asfissiante discorso del signor Benedetti e di suo figlio.

“Non preoccuparti, è tutto a posto così. Non è stata colpa tua”, mi concesse Virginia, da dietro la sua cassa. Le rivolsi un sorriso di ringraziamento, prima di tornare a svolgere le mie mansioni.

“Ah, figliola”, tornò a dirmi, quando meno me l’aspettavo, dopo qualche minuto di silenzio durante il quale avevo creduto che il nostro discorso fosse decaduto, “non farti pestare in questo modo, sii tu a decidere il tuo futuro. Se quel ragazzo non ti convince più, ora che stai imparando all’improvviso a conoscerlo meglio, lascialo perdere”.

La guardai, esterrefatta, dopo quel suo intervento inatteso, ma né a lei e né a me fu concesso di aggiungere altro, siccome un paio di petulantissimi clienti varcò la soglia del bar e cominciò disordinatamente ad ordinare, e mi diedi così da fare con grande solerzia.

Poi, fui assorbita interamente da quell’ennesima e ormai abitudinaria giornata di lavoro, dove tutto, di solito, procedeva sempre alla stessa maniera e mi erano concessi solo pochi attimi di riposo.

 

A mezzogiorno, quando staccai, la signora Virginia non mi fece recuperare i minuti di ritardo, come precedentemente promesso, ed io non potei neppure ringraziarla adeguatamente per la sua sempre più insolita gentilezza che mi riservava, siccome il locale si era riempito di clienti e non c’era verso di star fermi un istante.

Quando mi diressi all’uscita, pronta a tornare alla mia macchina, accaldata ma più tranquilla in confronto all’ultima volta in cui avevo varcato quella soglia, incrociai il signor Piergiorgio, che invece stava entrando.

“Buongiorno!”, mi salutò allegramente, non appena mi scorse.

Aveva sempre ben impressa sul suo viso un’espressione simpatica, accogliente e cordiale, e mi donò un sorriso.

“Buongiorno a lei”, lo salutai, affiancandolo e continuando poi ad andare per la mia strada.

Ero contenta che anche la rabbonita Virginia fosse riuscita a ritrovare un amico così assiduo. Nella sua solitudine, era proprio quello che ci voleva, e speravo che nel caos di quella giornata potessero trovare un momento per confabulare, come erano soliti a fare.

D’altronde, ero certa che era stato grazie a quel signore e alla sua positiva presenza se la mia datrice di lavoro aveva abbandonato il suo comportamento da megera incallita e si era trasformata, almeno nei miei confronti, in un agnellino docile.

“Te ne vai già, oggi?”, mi gridò poi dietro Piergiorgio, quando ormai già diversi passi ci separavano, e stavo per essere avvolta dal rovente sole di mezza estate.

“Stacco a mezzogiorno, se ricorda! Arrivederci”, gli risposi, volgendomi un secondo indietro e dicendogli a voce alta la risposta.

Incontrai il suo sguardo, e lo riconobbi cambiato; era forse deluso? Ma deluso per che cosa? Tirai dritto, di nuovo sovrappensiero, e attraversai la breve landa misera di asfalto rovente che mi separava dalla mia auto, per poi affrettarmi a salirci a bordo e ad infilarci la chiave nel cruscotto.

Stavo per mettere in moto e sgommare via, quanto il cellulare cominciò a squillare disperatamente.

Imprecai, dissi un paio di parolacce che rimossi un attimo dopo dalla memoria, e recuperai la mia borsetta mezza distesa sul sedile del passeggero, per afferrare il mio telefonino e rispondere.

Credevo fermamente che si trattasse di mia madre, che aveva sempre da fare due o tre monumenti attorno al suo beato pranzo che ogni giorno mi preparava, ma quando mi ritrovai ad osservare lo schermo illuminato, sentii il mio battito cardiaco che già aumentava a dismisura. Marco mi stava chiamando.

Tolsi la chiave dal cruscotto, con un gesto involontario, e attesi qualche altro squillo prima di rispondere, emettendo qualche sospiro nel tentativo di riprendere fiato e di lasciare andare la mia emotività, che mi stava improvvisamente travolgendo. Accadeva solo quando era lui a telefonarmi.

Da una parte, ero felicissima di ricevere una sua chiamata, ed ero gioiosa. Dall’altra, una vocina nella mia testa mi ripeteva che mi attendevano brutte soprese, come era accaduto continuamente di recente, a riguardo.

Alla fine, risposi, proprio quando temevo che avrebbe riattaccato, quando poi sarebbe entrata in funzione la segreteria telefonica.

“Pronto”.

Cos’è questa storia?”, mi aggredì Marco, all’istante.

Ecco, di nuovo il mio castello di carte si ritrovava a collassare miseramente su sé stesso.

“Quale… quale storia?”, balbettai, ferita.

In un attimo, cominciai a star male; se con tutti mi permettevo, a volte, di essere fredda e strafottente, ed ero riuscita ad umiliare anche un uomo vecchio stile come Valerio, con Marco tutto questo non funzionava. Al massimo, il più delle volte balbettavo, come in quel caso.

Che vuoi lasciarmi. Me l’ha detto mio padre, prima che tu me lo sbatta in faccia, siccome questa mattina ti ha incontrato casualmente per strada, e tu gli hai detto tante cose che dovevi dire a me”.

A quel punto scattò la molla nella mia mente che era rimasta sperduta per qualche attimo, e la ritrovata e rinnovata rabbia mi aiutarono a riprendere il mio solito piglio che utilizzavo per affrontare certe descrizioni.

“Senti, ciccino, non t’incazzare subito in questo modo, ok? Per la cronaca, è stato il tuo paparino bello a venire a cercarmi sul lavoro…”.

Ma figurati! Le tue sono solo stronzate. Credi forse di volermi far bere che mio padre ti scoccia ogni santo giorno? Tu vuoi solo farmi litigare con lui. Taci, ora, e lasciami parlare”, mi disse, a sorpresa, più arrabbiato che mai.

Ero sorpresa da quello che stava accadendo; e compresi che, in tutta la vicenda, anche il signor Benedetti, per suo tornaconto, motivato con la storiella del bene che voleva al figlio, stava facendo il doppiogioco con noi, mettendoci magari involontariamente l’uno contro l’altra e viceversa.

“No, non ascolto le tue baggianate. Anche oggi sei partito col piede sbagliato; richiamami quando ti passa”.

No, non mi passa niente, hai capito? Basta, hai rovinato tutto, hai detto che mi hai lasciato senza neanche dirlo con me… siamo in pausa, mi dicevi! In pausa un cazzo”.

“Non ho voglia di litigare con te, ora. Ho un pranzo che mi attende”, tentai con la diplomazia.

Sì, il pranzo di mammà tua! Vai da lei, tu che sei tanto indipendente… sai cosa ti dico? Visto che non hai avuto il coraggio di dirmi tu per prima e in faccia che mi lasci, sono io a dirtelo. Isabella, ti lascio! Mi sono rotto di te, dei tuoi modi di fare, dei tuoi discorsi sul lavoro… tutto mi ha rotto, hai capito? Mi hai rotto!”, scandì per bene, all’apice della sua sfuriata telefonica.

“Va bene, lasciamoci. Sono d’accordo con te”, gli dissi, abbassando la voce, delusa e mortificata.

Ecco qui, è tutto. A mai più, bugiarda che non sei altro! Falsa! Hai sempre e solo voluto mettermi contro la mia famiglia, io non pensavo che si potesse giungere a un tale grado di cattiveria…”.

Riattaccai.

La sua voce mi rimbombava ancora nelle orecchie, e spensi il cellulare, gettandolo di nuovo nella borsa, come se volessi dimenticarmi per sempre anche di quell’oggetto personale, e non solo.

“Affanculo, Marco”, borbottai, tra me e me, mettendo finalmente in moto la mia auto e sgommando via, col volto che mi scottava dal tanto che era arrossato. Non vedevo neanche la strada, dal nervoso e dallo sconforto che stavo provando.

Pensai che, se mi fossi ammazzata alla guida, in quel momento, non sarebbe poi stato così male.

Ma morire per un verme? No, io e Marco avevamo chiuso. Mi faceva venire il vomito solo a pensarlo.

Con questo spirito compii l’ultimo chilometro di guida che mi separava da casa di mia madre, e balzai poi fuori dalla mia automobile con grande agilità, come se avessi avuto un peso in meno a gravitare su di me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Mi scuso ancora, perché a livello di struttura delle frasi non ci siamo molto. Alcune, le più evidenti, le ho risistemate, ma non sono riuscito a mettere in sesto un capitolo abbastanza difficoltoso.

Questi sono ancora capitoli che hanno più di un anno.

Vi ringrazio per continuare a seguire il racconto, e spero almeno che la trama vi stia interessando e intrattenendo. Spero anche di poter riprendere la battitura del testo prima o poi, e di fare molto meglio ^^

   
 
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