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Autore: ChiaFreebatch    20/07/2018    10 recensioni
La mia personale interpretazione del genere Soulbond ( O Soulmate).Scritta per l'evento Happy Birthday Ben del gruppo Facebook Johnlock is the way... DUE CAPITOLI CONCLUSA.
L’anima gemella esiste. Ed è il destino ad assegnarla il giorno stesso della nascita di ogni individuo.
Un piccolo nome inciso sul polso, una cicatrice. Questo è ciò che avviene per la maggior parte della popolazione mondiale , i cosiddetti Bond. Vi è poi una parte di questi che nasce senza il suddetto nome, i No Bond. Tra di essi esiste una piccola percentuale di uomini o donne definibili latenti. Potenziali Bond che inconsapevolmente recano sotto la propria pelle il nome della propria anima gemella. In questi casi, il nome del Soulbond resta nascosto sino al momento in cui il soggetto in questione viene sottoposto ad un’esperienza di forte impatto emozionale .
Così forte, sia essa in positivo o in negativo da far esplodere in superficie il nome della propria anima gemella.
Ambientata nel periodo immediatamente successivo al ritorno di Sherlock “dal regno dei morti” ed ovviamente Mary non è mai esistita XD.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 SOULBOND-ANIME GEMELLE

 

Fanfiction scritta per l'evento" Happy Birthday Ben" indetto del  gruppo Facebook Johnlock is the way...

 

Capitolo uno

 

La neve danzava lenta su Londra imbiancando ogni cosa.

Piccoli soffici fiocchi si posarono delicati sul nero Belstaff del primo ed unico consulente investigativo al mondo.

Sherlock Holmes arricciò il naso infreddolito e sollevò da terra  l’ultimo scatolone depositato con scarsa cura dal furgoncino dei traslochi.

Alzò il viso verso la finestra del salottino al 221b.

La luce fioca della stanza ben visibile in quel tardo pomeriggio di dicembre.

Sorrise scorgendo la sagoma di John Watson.

Inspirò a fondo e riportò la propria attenzione sulla scatola stretta tra le mani.

Leggera ma non troppo.

Camice dedusse, o forse maglioni.

Già, quei maglioni che tanto piacevano all’amico ma che personalmente trovava troppo grandi e sgraziati.

Varcò la soglia di casa e prese a salire i diciassette scalini.

Sorrise.

Era trascorso poco più di un mese dal suo burrascoso rientro dopo il finto suicidio.

Un mese in cui aveva cercato di recuperare quanto più possibile la fiducia da parte di John.

Era stato difficile, c’era stata quella litigata tremenda al Criterion in cui Watson aveva completamente perso le staffe  scordandosi d’essere ad una cena di gala tra dottori.

Ok, forse non aveva propriamente azzeccato il momento in cui fare la propria ricomparsa dal regno dei morti ma…Cielo! Venire scaraventato sul carrello dei dolci gli era sembrato decisamente eccessivo!

Quella crostata ai lamponi schiacciata sul pavimento doveva essere ottima a giudicare dagli schizzi di crema al cioccolato finiti dritti sui suoi zigomi! Che spreco!

Scosse il capo quasi divertito al ricordo e raggiunse il salottino.

Non vi trovò l’amico così proseguì dritto al piano superiore col il chiaro intento di consegnargli l’ultimo scatolone.

Riprese a rimuginare.

Il ritorno a casa da parte di John era stato più veloce del previsto.

Dopo quella scazzottata aveva seriamente temuto di essersi giocato definitivamente la possibilità di ritornare ad essere quello che erano  stati in passato.

Il dottore si era rivelato furibondo.

Quella sera lo aveva lasciato solo, sul marciapiede, con il naso sanguinante ed uno sguardo carico di sconforto come unico saluto.

Ecco.

Quello sguardo lo aveva ferito più delle botte.

Si era sentito perso e sfiduciato.

Fu per questo che aveva accolto con sommo stupore  il rivederlo solo un paio di giorni dopo senza baffi e con un sorriso titubante gironzolare attorno al 221b.

Il suo cuore aveva preso a battere con forza nel petto.

Il nome inciso sulla pelle ben nascosto dal bracciale nero a scottare.

Scosse il capo ritornando alla realtà.

La porta della stanza al secondo piano era aperta.

Holmes avanzò titubante.

Il capo corvino fece capolino.

John se ne stava alla finestra, indice e medio della mancina tamburellavano sul piccolo davanzale interno.

Il consulente trattenne il fiato, gli occhi acquamarina fissi sulla schiena avvolta dal maglione bianco a trecce.

Watson si voltò e gli sorrise.

Il cuore di Sherlock batté veloce.

Quella sensazione di pace, di casa, lo avvolse.

Non resse lo sguardo blu e profondo dell’altro.

Dissimulò la gioia e l’imbarazzo voltandosi e posando la scatola a terra.

“Questa è l’ultima” Si schiarì la voce.

“Grazie” Annuì avanzando verso il centro della stanza.

Holmes si tolse il cappotto guardandosi attorno.

Scatoloni ovunque invadevano quella piccola camera rimasta vuota troppo a lungo.

“Avrai un bel daffare John”

Watson storse le labbra in un mezzo sorriso infilandosi le mani in tasca.

“Sarà piacevole” Accarezzò con gli occhi quanto più poté.

Sherlock si morse il labbro inferiore titubante.

“Vuoi che ti aiuti?”

Il dottore rise, la sua risata così bella e aperta che aveva sempre stretto lo stomaco del consulente.

“Non farlo…” Scosse il capo inginocchiandosi a terra ed aprendo una scatola a caso.

Holmes corrugò le sopracciglia corvine e retrocedette di un passo.

“Fare cosa?”

“Fingerti gentile” Levò il capo in direzione dell’altro.

“Non sto fingendo!” Spalancò la bocca scandalizzato.

“Sì invece, il vecchio Sherlock non sarebbe così dolce e remissivo” Estrasse una buona dose di libri tenendo il capo chino.

“Il vecchio Sherlock?” Inclinò il viso.

“Sì, quello che si è buttato dal tetto del Bart’s ricordi?” Chiese ironico levando il viso ed incatenando le iridi trasparenti alla proprie così blu.

“John…” Sospirò.

“Lascia stare” Sbuffò gonfiando le guance .

“Io…”

“Senti, cerca solo di essere… Normale ok?” Gesticolò quasi volesse scacciare un insetto.

“Normale” Mormorò tra sé e sé.

Il medico si alzò raccogliendo una mezza dozzina di tomi ed avvicinandosi alla piccola libreria.

Prese a disporli in maniera ordinata.

“Sì, normale. Sii Sherlock, non cercare di fare il ruffiano… Quello che è stato e stato, non voglio più parlarne…” Interruppe i propri movimenti mordendosi un labbro.

Lo sguardo vuoto fisso su una copertina scarlatta.

“Non voglio parlarne…” Sussurrò di nuovo “ Non ora almeno” Deglutì seguitando a disporre i testi.

“Come vuoi John” La voce profonda vibrò tra le pareti.

“Ti ringrazio” Gli dette le spalle.

“Sono di sotto, ho delle analisi al microscopio da fare…” Retrocedette lentamente.

Il Belstaff malamente posato sul braccio strisciò sul parquet un poco consunto.

“Buon lavoro” Replicò il medico sfogliando una rivista ritrovata tra i libri.

Holmes annuì e con delicatezza si chiuse la porta .

Rimasto solo John espirò con forza, abbandonò i libri e si sedette sul letto.

Portò le mani alle ginocchia serrandole con forza.

Il denim ruvido sotto i polpastrelli.

Si morse il labbro inferiore.

Aveva deciso di tornare a vivere a Baker Street dopo innumerevoli notti insonni.

I dubbi lo avevano assalito giorno e notte, tarli incessanti che scavavano nella sua testa e nel suo cuore.

Era stata una decisione difficile al quale aveva ceduto ignorando quel forte senso di ripicca che gli suggeriva chiaramente di non cedere alla tentazione.

Lui ti ha fatto soffrire in maniera indicibile.

Ti ha mentito.

Sei finito in analisi e soprattutto quel forte grumo di emozioni scaturite grazie a lui ti ha reso un Bond.

Già.

John Hamish Watson nato No Bond ora si ritrovava inciso sulla pelle il nome della propria anima gemella come un Bond qualsiasi.

Per tutta la vita aveva desiderato rientrare nella casistica di No Bond in attesa.

1 caso su 1.000.000

Una media sconfortante.

Eppure una vaga speranza c’era. C’era per ogni No Bond.

Nessun laboratorio di ricerca era mai riuscito a spiegare scientificamente la dinamica di quanto avvenisse in quei rari casi.

Il concetto base era piuttosto semplice.

I No Bond risultavano essere in numero nettamente inferiore ai Bond. Buona parte della popolazione veniva alla luce con un piccolissimo nome inciso sul polso che con il passare degli anni aumentava leggermente di dimensione .

Esso , rosso e ruvido come fosse una cicatrice rappresentava il nome dell’anima gemella a cui si era destinati nella propria vita.

I No Bond invece ne erano privi ma esisteva tra di essi questa piccola percentuale di uomini o donne definibili latenti. Potenziali Bond che inconsapevolmente recavano sotto la propria pelle il nome della propria anima gemella.

Ben celato.

Invisibile.

Nascosto sino al momento in cui il soggetto in questione fosse sottoposto ad un’esperienza di forte impatto emozionale.

Così forte, fosse essa in positivo o in negativo da far esplodere in superficie il nome del proprio Soulbond.

John aveva perso le speranze di rientrare in quella casistica.

Le aveva perse al rientro dalla guerra .

I suoi anni in  Afghanistan erano stati carichi di un considerevole numero di esperienze chiaramente definibili - di forte impatto emotivo-  ed in nessuna di quelle circostanze il nome si era mai palesato.

Secondo questa linea di pensiero, John si riteneva a tutti gli effetti un  No Bond dichiarato.

Aveva persino smesso di indossare il bracciale nero con il quale quelli come lui camuffavano la propria condizione cercando di mimetizzarsi alla gente “normale”

Lo aveva gettato tra le sabbie del deserto il giorno in cui era stato colpito alla spalla.

Se il destino aveva voluto che fosse solo beh… che lo sapessero tutti e che lo ghettizzassero pure, era stanco di fingere, troppo stanco di tutto.

Così ragionava John Watson.

Così lo aveva conosciuto Sherlock Holmes, senza un bracciale al polso e con una zoppia psicosomatica.

Sherlock lo aveva accolto al 221b e lo aveva trasformato.

Lo aveva reso un uomo nuovo.

 Aveva dato uno scopo alla sua esistenza, lo aveva gettato di fronte al pericolo, immerso nell’adrenalina.

Lo aveva salvato.

Lo aveva riportato in vita.

 Sì, sino a quel giorno in cui aveva avuto la brillante idea di gettarsi dal tetto del Bart’s.

Quel giorno John Watson perse il proprio miglior amico guadagnandosi però un nome inciso sulla carne.

Esperienza di forte impatto emozionale.

Già.

Non la guerra afghana.

Non le bombe.

Non i propri compagni mutilati.

No.

Il proprio miglior amico schiantato sull’asfalto.

Eccola.

Quel dolore, così forte al cuore d’essere inspiegabile.

Quella voglia infinita di morire insieme a lui.

Quel bruciore accecante al polso destro.

John non vi aveva badato inizialmente.

Il sangue di Sherlock sull’asfalto e sulle proprie mani era l’unica cosa visibile ai suoi occhi.

Lo aveva notato un’ora dopo in centrale.

Greg lo aveva accompagnato al bagno quasi fosse un bambino piccolo ed incapace.

Le sua mani forti avevano stretto quelle più piccine portandole sotto il getto d’acqua fredda.

John teneva gli occhi chiusi.

Lestrade, premuroso, gli aveva lavato il sangue dell’amico.

Gli occhi grandi dell’ispettore si erano spalancati sfiorandogli i polsi.

Lo aveva chiamato un paio di volte ma solo alla terza si era deciso a levare le palpebre e ascoltare quanto l’altro avesse da dirgli.

Greg però non aveva emesso fiato.

Si era limitato ad indicargli con un cenno del capo il lavello.

Watson aveva abbassato gli occhi blu umidi ed arrossati.

Incredulo aveva fissato l’acqua limpida scivolare su quel nome rosso e gonfio.

William.

John scosse con forza il capo ritornando alla realtà.

Cercò di scacciare i ricordi con un gesto della mano sfregandosi gli occhi.

Inspirò a fondo e si levò in piedi.

Le mani sui fianchi.

Espirò.

Si guardò attorno, quella era la sua vecchia stanza.

Non il pulcioso monolocale in cui aveva passato gli ultimi due anni.

Squallido e dannatamente silenzioso.

No.

Era al 221b e le note del violino di Sherlock gli giungevano delicate.

Sorrise.

L’amico aveva probabilmente accantonato l’dea dell’esperimento per deliziarlo con della musica.

Sapeva quanto gli piacesse, quanto lo rilassasse.

Scosse il capo e sorrise di nuovo conscio di quella premura che Holmes aveva avuto nei suoi riguardi.

Il consulente seguitava chiaramente a sentirsi in colpa e John dal canto proprio riteneva che fosse giusto.

Il fatto che fosse tornato  a vivere a Baker Street, che avesse compreso le ragioni del finto suicidio, non significava che gli avesse completamente perdonato i due anni di inferno che gli aveva fatto passare!

La melodia era chiaramente una composizione nuova.

Non l’aveva mai udita prima, di questo ne era certo, dolce e malinconica.

Si morse il labbro inferiore e gettò uno sguardo alla finestra.

La neve seguitava a cadere lenta.

Sfiorò il vetro gelido ed un poco appannato.

L’impronta del proprio indice apparve netta.

John corrugò appena le sopracciglia e lasciò che il proprio indice scivolasse con un criterio preciso.

Scrisse.

Scrisse senza sentirsi infantile il nome di William sul vetro.

Retrocedette poi di un passo osservando quelle lettere.

Le sue mani si serrarono in pugni stretti per poi cedere stanche lungo i fianchi.

William.

Chiunque fosse era l’unica ragione per cui dopo il finto suicidio non avesse ceduto all’istinto di piantarsi un colpo di pistola alla tempia.

Non quella terapista inutile e profumatamente pagata.

No.

Non era stata una dannata psicologa a salvarlo dal dolore, dalla disperazione, dalla voglia di farla finita.

Erano state quelle sette lettere apparse sulla propria pelle.

Lo avevano tenuto in vita.

Lo avevano convinto che da qualche parte nel mondo, un certo William avesse bisogno del suo John e che fissare avido i proiettili della Browing non era cosa saggia.

No.

Era un atto di cattiveria nei confronti di un uomo in attesa del proprio Soulbond.

Sfiorò il bracciale. Nero, come quello che era solito indossare prima della ferita.

Lo strinse e si chiese quanto Sherlock ci avrebbe messo a chiedergli il perché di quella novità.

Si morse la lingua e tornò sul letto.

Si stese, lo sguardo blu fisso sulla scritta che andava lentamente sparendo.

Non avrebbe detto nulla ad Holmes, non ancora.

Chiuse gli occhi e si godette la comodità di quel materasso, la consistenza del suo vecchio cuscino.

William lo aveva salvato.

Un po’ come aveva fatto Sherlock anni addietro.

Parallelismo azzardato ma che non poté fare a meno di considerare più di una volta.

Imprecò rammentando nuovamente quel confronto.

In quegli anni si era imposto di non cercarlo.

Non ne sentiva l’esigenza e per dirla tutta, non era pronto.

Si convinse che se il destino avesse voluto renderlo un Bond in età più che adulta beh…Allora avrebbe dovuto semplicemente attendere che il fato agisse di nuovo per sé. Che una forza misteriosa gli facesse incontrare la sua anima gemella per caso e a tempo debito.

 Dal canto proprio doveva solo impegnarsi a restare in vita e possibilmente a non impazzire perché… Chi mai avrebbe voluto un dottore fuori di testa come Soulbond??

Le note della nuova composizione si fecero più alte.

John sorrise visualizzando nella propria mente la figura sinuosa di Sherlock.

Il viso inclinato sullo strumento, l’archetto stretto nella mano perfetta.

Il suo cuore si strinse un poco e per un istante si chiese se fosse tutto vero.

Se Holmes fosse vivo al piano di sotto , se non fosse tutto un sogno, se gli psicofarmaci che per parecchi mesi aveva ingurgitato stessero facendo effetto.

Si alzò con uno scatto che gli procurò un capo giro.

Non vi prestò troppa attenzione barcollando vistosamente verso la porta.

La aprì con un gesto irruento e scese le scale sino a raggiungere il salottino.

Trattenne il fiato scorgendo l’amico alla finestra.

Seguitava a suonare con il volto rivolto verso Baker Street.

Watson si appoggiò con una mano allo stipite.

Inspirò a fondo ed il suo stupido cuore prese a battere con forza.

Troppa forza, lo avrebbe insultato se non fosse stata un’azione tanto ridicola.

Deglutì.

Gli occhi blu legati indissolubilmente a quel corpo aggraziato.

Trattenne un istante il fiato e si rese conto di aver ripreso a vivere.

Sì.

Era tornato dal regno dei morti proprio come Holmes.

A modo proprio certo ma era tornato.

Lì , scalzo, il violino del consulente nelle orecchie, il crepitio del fuoco ad insinuarsi tra le dolci note.

Era dannatamente vivo.

Holmes si voltò senza interrompere la propria esibizione.

Non si stupì alla vista del dottore.

Legò i propri occhi limpidi a quelli così blu.

Il cuore di entrambi accelerò il battito.

John avvertì il nome sotto il bracciale bruciare con forza.

Quasi fosse un monito.

Quasi William gli ricordasse la propria presenza.

Quasi si sentisse tradito dei sentimenti  che il proprio Soulbond stava avvertendo per qualcuno che non fosse lui.

Watson arricciò il naso e espirò deciso.

William lo aveva tenuto a galla, era stato il suo salvagente in un mare burrascoso ma Sherlock…

Sherlock era la sua isola.

Il suo porto sicuro.

Questa consapevolezza lo fece inspiegabilmente arrossire.

Holmes si accorse di quelle gote insolitamente colorite e sorrise voltandosi.

John gliene fu grato.

Raggiunse la propria poltrona e vi prese posto.

Strinse tra le braccia il cuscino con la Union Jack ed imprecò contro sé stesso e la propria incapacità di gestire le emozioni.

Si morse ripetutamente il labbro e chiuse gli occhi posando la nuca sullo schienale .

Cercò di respirare con lentezza, di  far pace con i propri pensieri.

Si concentrò sulla musica.

Le note del violino lo cullarono.

Sherlock suonò, suonò instancabile sino a  che Watson trovò pace con il sonno.

Quando al suo orecchio fino giunse un borbottio sommesso che gliene diede conferma , posò lo strumento.

Si stiracchiò braccia e collo intorpiditi e prese a fissare l’amico.

Gli si avvicinò con passo delicato e movimenti lenti.

Studiò quel viso con precisione maniacale.

Sospirò incredulo nel vederlo placidamente addormentato sulla sua storica poltrona.

Sorrise felice.

Gli era mancato in maniera indicibile.

Si sedette di fronte a lui e per un istante gli sembrò che nulla fosse cambiato.

Che fossero gli Sherlock e John di sempre, che da un momento all’altro Lestrade sarebbe entrato dalla porta richiedendo il loro aiuto o che la signora Hudson si intrufolasse proponendo loro un tè.

Sì, forse sarebbero potuti tornare quelli di un tempo.

O forse no.

Si morse il labbro inferiore osservando quel bracciale nero che fasciava il polso di John.

Lo aveva notato subito quella sera al Criterion ma non aveva ancora avuto l’ardire di chiedergli nulla a riguardo.

John era un no Bond .

Più volte gli aveva più volte narrato di come dopo la ferita in Afghanistan avesse deciso di palesare la propria condizione senza problemi gettando nelle sabbie del deserto quel simbolo di un qualcosa che in realtà non possedeva.

Dunque, quella novità com’era giustificabile?

Riteneva poco probabile che con il passare degli anni l’amico avesse deciso di tornare a nascondere la propria condizione, non ne vedeva un motivo logico, né una necessità.

L’ipotesi che aveva vagliato in alternativa era quella che Watson fosse un Bond latente.

Si sfiorò le labbra con la punta delle dita ripensando a quella teoria che lo tormentava da ormai un mese.

Avrebbe avuto il coraggio di chiederlo all’amico?

Sbuffò ripetendosi per l’ennesima volta che se John avesse mai voluto confidarsi lo avrebbe fatto di propria iniziativa. Il loro rapporto era ancora troppo fragile dopo quanto accaduto e non voleva che si incrinasse ulteriormente.

Il solo fatto che il dottore fosse lì, seduto dinnanzi a sé, era già più di quanto si sarebbe mai aspettato in un così ridotto lasso di tempo.

Gettò uno sguardo al proprio bracciale.

Nero, come quello dell’amico.

Lo sganciò assicurandosi prima con un’occhiata che l’altro fosse ancora tra le braccia di Morfeo.

Sospirò sfiorando con l’indice affusolato quella cicatrice che si portava sin dal giorno della propria nascita.

Aveva sempre detestato la propria condizione.

Riteneva tutta la faccenda dei Soulbond una cosa ridicola e sopravvalutata.

Avrebbe pagato pur di levarsi quel nome dalla pelle, pur di abbandonare quella sciocca convinzione globale che al mondo ci fosse qualcuno destinato a passare il resto della vita con Sherlock Holmes.

Lo trovava semplicemente assurdo, detestava i rapporti umani di qualsiasi tipo, fossero essi fisici o sentimentali.

Essere un Bond era per sé un enorme fastidio che avrebbe ben volentieri ceduto a qualche lagnoso No Bond .

Sì.

Erano questi i suoi pensieri di odio profondo verso la propria natura, verso quelle quattro lettere così marcate sulla pelle pallida.

Pensieri sprezzanti, già, sino a quel freddo mattino nei laboratori del Bart’s, quel ventinove gennaio, giorno in cui era cambiata drasticamente la sua visione del mondo.

Rabbrividì al ricordo.

La prima cosa che vide di lui furono gli occhi.

Gli occhi di John erano belli, blu, grandi e terribilmente espressivi.

Facevano male, male in un modo che non aveva mia sperimentato prima.

Male, come il nome sotto il bracciale che pulsava in maniera insopportabile.

La voce di Mike gli era giunta alle orecchie forte, così forte che i timpani gli dolsero a loro volta, eppure  Stanford aveva appena sussurrato il nome dell’ ex compagno di università. 

Il suo cuore si era fermato.

Sì.

Sicuramente si era fermato un istante. Gli era costata un’enorme fatica dissimulare il proprio turbamento ma ci era riuscito.

Le deduzioni lo avevano salvato come sempre.

Dedurre John era stato più difficile di quanto mai gli fosse capitato.

Non perché l’ex militare fosse una persona complicata ma per la propria condizione di instabilità momentanea.

Si era stupito di sé stesso, di quanto quell’uomo con una chiara zoppia psicosomatica lo avesse annientato ed il suo stupore crebbe quando vide chiaramente che Watson era un No Bond.

Vacillò.

Fisicamente e mentalmente, perché quell’esplosione di sensazioni non riuscì ad attribuirle se non a quella maledetta faccenda dei Soulbond che sempre aveva snobbato.

Com’era dunque possibile che Watson non avesse alcun nome inciso sul polso?

Lì per lì cercò di non darvi troppo peso promettendosi riflessioni successive ed uno studio dettagliato delle casistiche.

Lo promise a sé stesso e mantenne quella promessa nei mesi a seguire ma non ottenne spiegazione scientifica che potesse svelargli l’arcano.

Il legame che avvertiva nei confronti dell’amico era cristallino ed egli lo accettò con totale tranquillità.

Sentiva sotto pelle e nel cuore che il proprio Soulbond , il proprio John, potesse essere solo ed esclusivamente il dottor Watson , poco gli importava che fosse un No Bond.

Al diavolo le regole.

Al diavolo il resto del mondo.

Non avrebbe mai simulato la propria morte, non avrebbe mai vissuto due anni nel peggiore dei modi , rischiando la vita ogni santo giorno se non fosse servito a  salvare il suo John!

Un colpo di tosse del dottore distolse Sherlock dalle proprie elucubrazioni.

Sobbalzò con forza.

Il bracciale gli cadde a terra e con gesti scomposti si chinò a raccoglierlo.

Lo agganciò con rapidità nonostante il tremore della propria mano.

Ansimando cercò il viso di Watson.

Seguitava a dormire placido.

Sbuffò con forza ed allungandosi verso il tavolo afferrò un manuale di chimica organica.

Avrebbe tenuto impegnata la mente sino al risveglio di John in maniera più leggera e meno dannosa.

Numeri, formule, linee di pensiero limpide , concrete, dimostrabili.

Sì.

La chimica lo avrebbe rilassato relegandolo in quel contesto scientifico che tanto lo faceva star bene.

….

Un paio di settimane erano trascorse dal rientro di John a Baker Street e con il Natale era ormai alle porte il 221b necessitava di una dose di addobbi adeguata.

La signora Hudson aveva provveduto in maniera più che discreta a decorare l’ingresso e la scala che portava al primo piano quanto all’appartamento , il dottore si fece carico di quella mansione che Sherlock trovava utile quanto l’ombrello di Mycroft in una giornata di sole.

Quel tardo pomeriggio nevoso John terminò d’appendere la ghirlanda con le lucine attorno allo specchio del salottino dopo di che, con un movimento fluido, scese dallo sgabello fissando  soddisfatto il proprio lavoro.

Le mani sui fianchi, un sorriso sul volto.

Stava seriamente meditando di aggiungere una fila di luci colorate al bordo del caminetto quando lo sbattere deciso della porta del bagno lo fece sussultare.

Sbirciò in quella direzione inarcando un sopracciglio.

Sherlock avanzava verso il salotto stretto in un accappatoio blu e con in testa un asciugamano del medesimo colore.

John retrocedette lasciandolo transitare comodamente.

Deglutì , osservando la mano pallida ed elegante strofinare energicamente l’asciugamano sul capo.

 Si schiarì la voce e quasi inciampò in uno scatolone carico di addobbi.

Crollò sulla propria poltrona evitando una caduta quanto meno ridicola.

Sobbalzò avvertendo un qualcosa sul cuscino.

Si mosse convulso, la punta dorata da mettere in cima albero scivolò sul tappeto .

Holmes non si accorse di quel piccolo trambusto e prese posto di fronte all’amico.

I piedi nudi scivolarono sul tappeto.

Gli alluci presero a battere ritmicamente.

Con un gesto deciso levò la salvietta dal capo.

Il viso pallido e due occhi limpidi fecero capolino oltre i ricci umidi.

Watson si schiarì nuovamente la voce passandosi la lingua sulle labbra.

Si mosse nervoso sulla poltrona evitando accuratamente di guardare la porzione di torace ben visibile oltre la spugna blu.

“Ti consiglio di asciugarti i capelli e rivestirti… Siamo a metà dicembre Sherlock non  al 15 di agosto”

Il consulente inarcò un sopracciglio scostandosi il ciuffo dispettoso con un gesto consumato.

La chiusura argentea del bracciale brillò.

Watson indugiò su quel dettaglio.

“Non sono cagionevole di salute John, dovresti saperlo” Arricciò le labbra in un mezzo sorriso.

“Già” Annuì serrando lebbra in una linea dura “ Ma resta il fatto che sei…Umido…E non è cosa saggia con questo clima…” Si morse la lingua “ Vatti ad asciugare”

“Prima gradirei una tazza di tè” Fece spallucce.

John si perse ad osservare il viso perfetto dell’altro.

Si perse nel fissare le  labbra morbide che si mossero lente nel formulare quella richiesta.

Una fitta al petto.

Un bruciore intenso al polso.

Sbuffò con forza scattando in piedi come una molla.

Si appoggiò con una mano alla mensola del caminetto, il viso chino verso il fuoco scoppiettante.

Sherlock corrugò le sopracciglia non comprendendo appieno quell’atteggiamento nervoso.

“John… Stai bene?”

Il dottore sussultò voltando il viso verso l’amico.

Gli occhi limpidi  lo fissavano preoccupati.

“Si certo” Rispose esitante.

“Hai le guance rosse, non sarai tu quello con la febbre?” Indagò sfiorandosi il mento con pollice ed indice.

“No, sto bene ma… Devo uscire” Serrò i denti con forza.

“Ma non stavi…. Facendo l’albero?” Gesticolò ampiamente indicando quel marasma di decorazioni sparse ovunque.

“Certo , certo… Ma… Ma mi mancano i fili…” Aprì e chiuse la braccia lungo i fianchi.

Holmes inarcò un sopracciglio allungandosi verso  uno scatolone poco distante.

Seguendo i suoi movimenti l’accappatoio di spostò mostrando ampiamente le cosce toniche e pallide.

Watson trattenne un imprecazione strofinandosi con forza i palmi sul viso.

Sherlock riemerse ignaro di aver creato tanto disagio.

 “Fili tipo questi?” Estrasse una grossa matassa dorata.

“Hai detto bene! Tipo!” Lo additò “ Mi servono rossi!” Si voltò verso l’attaccapanni.

“Oh andiamo John! Non vorrai buttare altri soldi per queste idiozie?? Oro andranno benissimo, si intonano con…” Gettò un’occhiata alla testa del medico e distolse lo sguardo “Con le luci” Concluse rapidamente.

Holmes imprecò contro sé stesso.

Sul serio stava paragonando quei dannati addobbi kitsch ai capelli di John?

Santo Dio Holmes vergognati!

Vergognati immediatamente!

Nemmeno una ragazzina isterica si sarebbe azzardata a fare un pensiero del genere!

Si alzò in piedi e con rapidità si diresse alla finestra fingendo di osservare Baker Street così silente quel pomeriggio.

“Allora, è possibile avere questo tè?” Scostò la tendina.

Watson annuì senza replicare, come un automa raggiunse alla cucina.

Si sentì un dannato soldatino ed il fatto che effettivamente lo fosse stato non significava nulla.

Sherlock ordinava e  lui scattava.

Nonostante tutto quello che gli aveva fatto passare, nonostante quei due anni infernali era ancora lì, pronto ad eseguire gli ordini di Holmes.

Non seppe se commiserarsi o meno.

Recuperò un pacco di biscotti dallo scaffale e predispose un paio di tazze sul vassoio.

Sospirò posando poi le mani sul bancone e prese a fissare con sguardo vacuo il bollitore.

Si sentiva confuso.

Confuso come non mai.

Dal suo ritorno a Baker Street un’insana attrazione nei confronti di Holmes lo aveva colpito.

Non che non gli fosse mai capitato negli anni addietro ma gli episodi verificatisi erano sporadici, ridotti più a considerazioni oggettive che ad un chiaro istinto fisico nei riguardi dell’altro.

Si morse con forza il labbro inferiore.

Dal rientro dopo la caduta le vibrazioni che avvertiva nei confronti del consulente erano di chiara natura sessuale e la cosa lo spaventava.

Lo spaventava perché sapeva che Sherlock non era assolutamente interessato ad un qualsivoglia rapporto fisico o sentimentale ed anche in tal caso, il tizio o la tizia il cui nome capeggiava sul polso pallido avrebbe avuto priorità assoluta.

Imprecò pigiando il tasto rosso.

Gettò un’occhiata verso il salottino.

Sherlock stava fissando il filo di luci sullo specchio.

Era bello, di una bellezza totalizzante stretto in quel dannato accappatoio con le mani piantate sui fianchi sottili.

Si avvicinò titubante restando sulla soglia della cucina.

“Non ti piacciono?” Azzardò.

“oh John, sai quanto io ritenga superflue tutte queste cianfrusaglie natalizie” Borbottò.

 “ Vuoi che le tolga?” Domandò poggiandosi allo stipite della porta a vetri.

Il consulente si voltò con sguardo scandalizzato “Certo che no!”

John inarcò un sopracciglio divertito “ Come scusa?”

“A te piacciono, e lì restano. Fine della storia”

Watson sorrise, un sorriso così luminoso che fece arrossire un poco l’amico.

John gli piaceva.

Gli piaceva in ogni occasione e con qualsiasi espressione stampata sul volto.

Tuttavia quando sorrideva…Dio quando sorrideva gli occhi gli brillavano e lui si sentiva in pace con il mondo.

Davanti a quegli occhi blu avrebbe potuto fare qualsiasi cosa e…Bè, quella faccenda dei Soulbond non c’entrava nemmeno un po’.

Aveva accettato quella condizione di dipendenza dal buon dottore e non se ne rammaricava certo.

Era solo un piccolo aspetto di Sherlock Holmes che nessuno conosceva.

Un sentimento che custodiva gelosamente, come il nome inciso sul proprio polso.

John annuì sfregandosi i palmi delle mani l’uno contro l’altro.

“Bene, allora dopo il tè terminerò di addobbare l’albero, solo fili oro” Si voltò andando a recuperare il vassoio.

Holmes tornò alla propria poltrona attendendo d’esser servito.

Si fece spazio scostando dal tappeto  un’improbabile fiocco in velluto rosso, tanto grande che non riuscì ad identificarne un possibile utilizzo.

Il biondino arrivò sedendosi al proprio posto dopo avergli passato la tazza.

Restarono in silenzio per un po’, ciascuno immerso nei propri pensieri.

D’un tratto Sherlock sorrise o meglio ridacchiò.

L’altro inarcò un sopracciglio biondo “Che c’è?”

“Quelle cose, da dove sbucano?” Con la mano elegante indicò i piedi dell’amico.

Watson si sfiorò la nuca un poco imbarazzato e ritrasse i piedi contro la poltrona in un involontario tentativo di nasconderli.

“Antiscivolo natalizie “ Si schiarì la voce “ Sì bè, so che possono apparire infantili ma ogni anno nonostante i nostri malintesi, Harriet me ne manda un paio per Natale, è la tradizione e così….”

Holmes scoppiò a ridere, una risata felice che contagiò l’altro.

“Dai smettila…”

“Buon Dio, non te le ho mai viste addosso John!” La sua risata scemò e posò la tazza afferrando un biscotto.

“Sì, ti ho sempre risparmiato questa visione ma avevo i piedi gelati! A proposito come diavolo fai a rimanere scalzo??!”

“I miei piedi sono caldi ed anche se fossero congelati non mi sognerei mai indossare quella sottospecie di babbucce da elfo” Sgranocchiò un frollino.

“Caldi , sì certo come no…” Si portò la porcellana alle labbra soffiando sul liquido ambrato.

“E’ vero!” Battè le palpebre ostentando un’espressione  un poco risentita.

Watson sorseggiò il proprio tè, gli occhi sbirciarono oltre la tazza legandosi a quelli acquamarina.

“Sei perplesso?” Storse le labbra il consulente.

“Molto” Annuì posando il piattino sul piccolo tavolino accanto.

Sherlock assottigliò lo sguardo mentre John inclinò un poco il capo posando le mani sulle ginocchia.

Il silenzio calò tra i due amici.

Il crepitio delle fiamme unico rumore nel piccolo salottino.

Il movimento di Holmes fu lesto ed imprevedibile.

Sollevò la gamba destra in un gesto fluido e sfiorò con la punta del piede il dorso della mano di John.

Watson sussultò vistosamente.

Chinò lo sguardo senza muovere un muscolo.

Osservò serio quel lungo arto pallido posato sulla propria mano.

Inspirò a fondo.

Era effettivamente caldo.

Più di quanto si fosse aspettato.

Non emise fiato ma la mano libera da quella presa si mosse di volontà propria e titubante sfiorò il collo del piede di Sherlock.

Con delicatezza scivolò sino alla caviglia per poi ridiscendere verso le dita  in un movimento delicato e continuo che fece rabbrividire il consulente.

L’indice sfiorò curioso le vene ben visibili sotto la pelle diafana.

Holmes trattenne il fiato spalancando gli occhi limpidi, le ciglia corvine sfarfallarono .

Annaspò un poco e si chiese come diavolo gli fosse venuto in mente di azzardare un gesto simile.

Fissò il capo chino di John, lo sguardo concentrato.

Le labbra serrate in una linea dura.

Le iridi acquamarina si fossilizzarono poi sulla mano del dottore, su quel movimento ipnotico.

Catturarono infine il bracciale nero che sfiorava il polso muovendosi un poco.

Deglutì sonoramente ed in preda ad un insolito coraggio fu tentato dal domandargli per quale motivo avesse iniziato ad indossarlo.

Mosse le belle labbra piene, un suono flebile ne uscì.

Inspirò a fondo riprovando a formulare la domanda.

“John…”

Il dottore sobbalzò quasi si fosse scottato.

La mano si bloccò all’altezza della caviglia, la strinse appena.

Si morse la lingua legando i propri occhi a quelli del consulente.

“Io…” Seguitò con voce grave.

Il suono del cellulare del medico giunse forte e crudele ad interrompere quel momento.

La bolla invisibile che li aveva avvolti scoppiò miseramente riportandoli alla realtà.

Watson arricciò il naso ed espirò con decisione.

Holmes ritrasse il piede e si alzò afferrando il cellulare del medico posato sul tavolo.

Lo strinse.

Il trillo  metallico incessante.

Lo porse all’amico che con il volto all’insù lo fissava senza emetter  fiato.

John allungò la propria mano sfiorando quella dell’altro.

Indugiò più di quanto fosse necessario.

Le dita di Sherlock contro le proprie.

Lasciò scivolare la propria lingua sulle labbra.

Non si perse il guizzo che attraversò le iridi cristalline.

Deglutì e la ritrasse serrando lo smartphone tra le dita.

“E’ l’ambulatorio…” La voce del consulente vibrò nella mente e sotto la pelle di John “ Dovresti rispondere”

Watson annuì “ E tu dovresti proprio andare ad asciugarti” Sussurrò.

“Già” Sorrise storto.

Il dottore lo osservò allontanarsi a passo lento verso la propria camera.

Sbuffò con decisione e rispose a Sarah.

Una mano si sfiorò la fronte massaggiandola in un chiaro tentativo di rilassarsi.

Quel gesto non si rivelò molto utile.

La dottoressa parlava ma lui ben poco comprendeva  quanto gli stesse chiedendo.

Nella mente , nel corpo, il ricordo della pelle di Sherlock contro la propria.

Fissò il palmo della mano.

Il pollice accarezzò le altre dita.

Si morse il labbro inferiore e scosse il capo.

Il richiamo stizzito della collega gli impose un minimo di professionalità.

Si alzò in piedi e girovagando in tondo per il salottino cercò di apparire attento alle richieste della donna.

……

Gregory Lestrade varcò la soglia del Benny’s Bar (1), il pub che era solito frequentare con regolarità ed in cui, in ogni week-end ,aveva appuntamento fisso con John Watson.

Gettò un’occhiata nel locale affollato.

Gli occhi castani intercettarono quelli verdi di Victor, il barista, intento a spillare birre.

Lo salutò con un ampio sorriso ed un gesto della mano prima di farsi largo tra i ragazzi.

Si mosse a fatica tra gli studenti che nel week-end erano soliti affollare il pub e con un paio di imprecazioni ben serrate tra i denti, riuscì a raggiungere John al bancone.

Il dottore gli sorrise, abbarbicato su uno sgabello con un boccale di birra tra le mani.

Lestrade prese posto a sua volta ordinando una scura alla spina.

“Ehì amico… Dimmi che è il primo giro o inizio a preoccupami…” Si Tolse il lungo cappotto scuro piegandolo di malagrazia sulle gambe.

“Sì, è  il primo giro, rilassati ispettore “ Sorrise pulendosi le labbra dalla schiuma.

 “Come mai questa novità?  Non bevi mai prima del mio arrivo…”

John fece spallucce ed afferrò una patatina portandosela svogliatamente alle labbra.

“Umm… Non mi freghi doc….”  Replicò facendo l’occhiolino al barista ed afferrando il boccale colmo.

Victor arrossì un poco sulle gote e si defilò con un taccuino tra le mani verso una lunga tavolata.

Watson sorrise per metà , si sporse un poco verso l’amico .

“Gli piaci” Sussurrò.

Lestrade rise portandosi il boccale alle labbra “ Lo so” Replicò prima di bere un sorso generoso.

“Ah, lo sai” Si passò una mano nel ciuffo biondo.

“Si , ed è parecchio carino ma….” Scosse il capo, le dita sfiorarono la condensa creatasi sul vetro spesso.

“Ma?” Lo incitò l’altro.

Greg si voltò intercettando le iridi blu rese più scure dalla bassa illuminazione del pub.

“Ma c’è lui….” Lestrade sollevò la mano mostrando un bracciale ben serrato al polso abbronzato.

John si morse il labbro inferiore.

La chiusura argentea baluginò.

“Il tuo Soulbond non è un Victor quindi…” Sospirò tornando alla propria birra.

“No, non è un Victor” Annuì stringendo con  la mano sinistra il polso marchiato.

Il silenzio calò tra i due amici.

Il vociare intenso del pub unito alla forte musica scozzese colpì le loro orecchie ma non le loro menti.

Entrambi con uno sguardo vacuo fissavano il proprio bracciale.

“Non lo hai ancora trovato o… Non vuoi cercarlo?” John domandò mordendosi il labbro inferiore.

“E tu? Il tuo William?”

Il dottore sussultò in maniera che in prima persona giudicò eccessiva.

Gonfiò e sgonfiò le guance tornando ad incrociare lo sguardo calmo dell’amico.

“William… William non lo sto cercando…” Bevve.

“E’ per Sherlock?” Si azzardò a chiedere.

John storse le labbra in un sorriso triste.

Victor da lontano li osservava curioso.

Il dottore intercettò quelle iridi di giada.

Il barman gli dette lesto le spalle armeggiando con lo shaker.

“Non lo so Greg…” Ne uscì un sussurro appena udibile.

“E’ per Sherlock “ Confermò di propria iniziativa in risposta a quella replica evasiva.

Watson si passò la lingua sulle labbra.

Avvertì una mano dell’amico stretta al proprio braccio.

Il dorso abbronzato contrastava contro la lana bianca del proprio maglione.

“Cristo che casino” Scosse il capo “ Se su questo cazzo di polso ci fosse il nome di Sherlock….Sarebbe tutto più semplice” Ammise il dottore.

La presa si rafforzò. Le dita si contrassero.

“Semplice? Avere Sherlock Holmes  come Soulbond lo riterresti semplice?” Scherzò.

John sorrise divertito “ No , in effetti sarebbe terribilmente complicato ma farebbe chiarezza nei miei stupidi sentimenti…”

Greg inspirò a fondo.

Prese nuovamente il boccale e ne bevve un sorso . Il dorso della mano corse poi alle labbra levando  la schiuma con un gesto deciso.

Ponderò bene la propria replica indeciso se scoprire o meno le proprie carte.

Si morse la lingua ed imprecò.

Watson si volse incuriosito inarcando un sopracciglio.

“Terribilmente complicato dici….” Mormorò.

“Bè sì…” Annuì il medico.

Lestrade rise.

Una risata aspra.

Le dita scattarono agili alla chiusura del proprio bracciale.

“Greg non…”

L’ispettore lo interruppe.

“Se Sherlock Holmes lo definisci terribilmente complicato” Sbuffò “ Come cazzo lo definiresti questo?”

John si sporse verso il polso.

Le sopracciglia bionde si levarono verso l’alto incredule attribuendogli un’espressione decisamente buffa.

“Oh cazzo…”

“Già….” Borbottò l’altro in risposta.

Il dottore si morse il labbro inferiore con insistenza trattenendo una risata.

Una risata che presto scoppiò liberatoria destando la perplessità dei clienti attorno a loro.

Gregory si grattò la nuca borbottando mezzi insulti ad indirizzo dell’amico.

“Scusa Greg… Scusa ma…”

“Sì, sì falla finita….” Lo sgomitò afferrando dal bancone il proprio bracciale.

John cercò di porsi un freno posando il palmo sulle labbra ancora curvate in un sorriso.

Gli occhi blu luminosi e divertiti gettarono un’ultima occhiata a quel nome prima che potesse sparire sotto il metallo spesso.

Le sette lettere incise in  maniera netta e priva di sbavatura spiccavano rosse sulla pelle abbronzata.

“Direi che non dovresti avere difficoltà ad identificarlo…” Ghignò.

“Divertente John, molto molto divertente!”

“Scherzi a parte… In tutti questi anni, come mai non glielo hai mai detto?”

Lestrade posò i gomiti sul bancone , i premuti sulle tempie, gli occhi fissi sullo specchio oltre le bottiglie colorate.

“Ti pare facile??” Sbottò stizzito.

“No, ma il fatto che abbia un nome così poco comune dovrebbe darti il coraggio di farti avanti, non hai molti margini di errore” Gli sfiorò la schiena in una carezza consolatoria.

“La sola idea di poter avere una relazione sentimentale con lui è un errore”

“Adesso non esagerare” Replicò il medico.

“Cristo John, hai presente che cazzo di soggetto assurdo sia Mycroft Holmes??! Lo chiamano Iceman! Iceman cazzo! Vorresti intrattenere un rapporto di qualsiasi tipo con un tizio a cui hanno affibbiato un soprannome del genere? Con uno che muove come un dannato burattinaio i fili della nazione?!”

“No ma…”

“Sono un maledetto ispettore di polizia! Sono una persona semplice , terra a terra! Non sono un fottuto damerino che parla come se fosse sceso da un quadro del settecento! Non sono acculturato tanto quanto lui e soprattutto non sono così intelligente! Soffro già di sindrome di inferiorità prima ancora di averci mai cenato insieme, figuriamoci mostragli questo cazzo di polso” Ansimò.

John batté le palpebre.

Soppesò le parole dell’amico e si dispiacque di quel turbamento .

“Sei troppo severo con te stesso Greg”

“No, sono obbiettivo John, obbiettivo!” Piantò un pugno sul tavolo.

La cameriera gli riserbò un’occhiataccia ma tacque rassicurata dallo sguardo tranquillo di Victor.

“Non sei obbiettivo, sei distruttivo….” Scosse il capo gettando un’occhiata all’orologio.

Lestrade non replicò, afferrò una manciata di patatine e se le portò alle labbra.

“Vedi? Pensi che potrei comportarmi così con lui?!”Gesticolò.

“Mycroft non mangia patatine?” Inarcò un sopracciglio divertito.

“Eddai hai capito!! Ma te lo vedi qui al pub? In mezzo al casino? Lo vedresti sugli spalti a vedere una partita? O qui, davanti allo schermo gigante mentre grida per un goal al novantesimo minuto?” Afferrò un’altra manciata.

Watson scosse il capo ridendo e scese dallo sgabello.

“No, ma il fatto che non condividiate certi interessi non significa nulla, per quello ci sono gli amici…”

“Fai il saggio?”

“Un po’” Fece spallucce “ Guarda me… Potrei mai portare qui Sherlock?”

Lestrade lo fissò con un’espressione stupita dipinta sul bel viso.

“No ma…”

“Eppure stiamo benissimo insieme” Ammise sottovoce.

Greg si grattò la nuca perplesso mentre John si rese improvvisamente conto delle proprie parole.

Spalancò gli occhi e retrocedette di un passo.

“Vabbè lascia stare questo esempio, non è pertinente” Si allontanò un altro po’.

“Dove vai?!”

“A casa”

“A casa?? E’ presto, sono arrivato da poco!” Spalancò le braccia.

“Sì ma… Domani mattina ho la mia domenica mensile in pronto soccorso e devo alzarmi presto”

Si allontanò e tese una banconota a Victor appoggiandosi al registratore di cassa.

Greg si passò una mano sul mento.

La barba incolta sfiorò i polpastrelli.

Meditò sulle parole dell’amico e percepì chiaramente quanto la propria condizione dovesse creargli scompiglio.

La mano di John sulla spalla lo fece voltare.

“Offro io stasera…” Sorrise.

“Grazie amico” Sorrise.

Watson scosse il capo “ Non ringraziarmi… Piuttosto , fammi un favore, datti una chance con Iceman…”

“Un favore a te?” Inarcò un sopracciglio un tempo corvino.

“Sì, perché nonostante tu sia così negativo il destino ti ha dato una mano…” Indicò con un cenno del capo il polso “ Io devo lottare ogni fottuto giorno con un nome sul polso e un altro….” Si Morse il labbro “ nel cuore” Si schiarì la voce distogliendo lo sguardo.

“John io….”

“Buona notte Greg” Lo fermò.

Non voleva parole di conforto.

Non voleva pietà.

Nonostante Greg fosse un grande amico, nonostante fosse il suo confidente.

Non voleva leggere compassione in quei grandi occhi scuri.

Si allontanò verso la porta.

Il vento gelido lo accolse.

Le decorazioni natalizie illuminavano la strada un poco buia.

Inspirò  a fondo e fermò un taxi.

Le sue orecchie ringraziarono il silenzio della strada.

Quel pub sovraffollato lo aveva reso più nervoso che altro.

Aveva bisogno della calma del 221b.

Aveva bisogno del violino di Sherlock.

……….

FINE CAPITOLO UNO.

 

 

(1)    Citazione omaggio al film inglese del 1999 The Match .

   
 
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