CAPITOLO UNDICI
L’intervento andò bene, fortunatamente.
I medici ci impiegarono circa una mezzoretta abbondante, e
quando mia madre fu poi pronta per ricevermi nuovamente la trovai sveglia e ben
vigile.
“Ho sofferto un gran male, pensavo di morire. Ma adesso sto
molto meglio”, mi disse, prontamente, non appena mi vide.
“Meglio così, no?”.
Le sorrisi, poi tornai a stringerle le mani, e mi lasciò
fare. Ero stata molto in pensiero per lei, non avrei mai accettato che le
accadesse qualcosa di male, e a primo impatto mi sembrava sicuro che potessi
tirare almeno un mezzo sospiro di sollievo.
“Oh, Isabella! Visto, la mamma sta benone”, esordì
Piergiorgio, facendo anche lui il suo ingresso nella camera.
“Sì, l’ho notato. Grazie”, gli dissi, timidamente.
“E di che? Far stare meglio le persone è il nostro mestiere”,
affermò, raggiungendomi a fianco del letto su cui era distesa mia madre, e
dandomi una dolce e amichevole pacca sul mio braccio destro. Poi, sospirò.
“Sono venuto a sincerarmi della sua situazione, signora
Castaldini. Ho supervisionato il lavoro dei miei colleghi, e tutto è andato
alla perfezione. Lei accusa dei problemi o un qualche disturbo?”, tornò a
chiedere il medico, rivolgendosi alla paziente.
“Tutto a posto! Grazie, dottore” rispose mia madre, che
continuavo a vedere molto sollevata. Doveva stare davvero molto meglio, siccome
fino a prima del piccolo intervento era parsa molto agitata.
“Bene. Ora starà qualche giorno qui con noi, e cercherà di
stare serena, poi se tutto continuerà ad andare bene potrà tornare a casa”.
“Ho capito”.
Piergiorgio si chinò su mia madre e le controllò un attimo
quei fili che le partivano dal petto e che in parte erano coperti dalle garze
bianche, sicuramente sensori per controllare il battito cardiaco e chissà
cos’altro.
“Bene, è tutto a posto”, sussurrò sovrappensiero.
“Isa”.
Mia madre mi chiamò, e mi costrinse a distogliere la mia
attenzione dai movimenti del saggio dottore.
“Puoi tornare a casa. Ci sto da sola”, mi disse, e mi
ricordai che anche quella mattina dovevo recarmi al lavoro. Ed erano già le
otto meno un quarto. Imprecando dentro di me, mi accorsi finalmente che,
essendo così sovrappensiero per mia madre, non mi ero neppure ricordata di
cercare di contattare la mia datrice di lavoro in tempo per sostituirmi. O,
almeno per avvisarla che quel giorno non mi sarei potuta presentare.
“Telefono a Virginia e le dico che oggi non riesco…”, riuscii
a dire, in piena confusione. Avrei voluto battere la testa contro il muro che
avevo di fronte, per chiarirmi le idee.
Mi sentivo così abbattuta, così confusa… forse anche a causa
della nottata disagiata e piena di paura che avevo appena trascorso.
“C’è qualche problema, Isabella?”.
La voce di Piergiorgio mi ricordò che lui era ancora lì che
ci stava ascoltando, chino su mia madre.
“No, niente di che…”, mi premurai, tutta concentrata a
ricercare il mio cellulare immerso nel caos della mia borsetta.
“Isa, ma conosci la strada per tornare a casa?”, continuò ad
interloquirmi mia madre, che mi sembrava, a quel punto, più preoccupata per me
che per lei.
Le donai un’occhiatina distratta; la mia mente confusa era
troppo impegnata a rielaborare le mille e più cose che mi frullavano per la
mente, senza sosta.
“No, ma vedrò di impararla”, le risposi seccamente, scovando
il cellulare ed accingendomi ad utilizzarlo, per notare che ero senza linea e
che nell’ospedale, come c’era da aspettarsi, non prendeva affatto. E avrei
anche dovuto tenerlo spento in quel reparto.
Mi beccai infatti uno sguardo curioso di Piergiorgio, che
però non disse nulla, notando che mettevo subito via lo strumento tecnologico.
“Ecco, adesso sei nei pasticci per colpa mia. Ti prego, torna
a casa, o almeno vai fuori a dare uno squillo alla signora Virginia… per
favore”, disse mia madre, supplichevole.
“Ma non dire sciocchezze, sono sveglia e posso cavarmela. E
la signora capirà, quando le spiegherò tutto”, provai a rassicurarla, ma anche
io sapevo che ero un po’ nei pasticci. Non ricordavo bene la strada da
percorrere per tornare a casa, e mi vergognavo di ciò, ed ero in evidente
difficoltà e in affanno.
“Puoi stare tranquilla per tua madre, Isabella. E, se ti
serve un aiuto, io sono qui”, volle aggiungersi Piergiorgio, ma io scossi la
testa.
“Non se ne parla, resto qui con te, mamma. Non ti lascio
sola”.
“Lasciami sola per un po’. Posso farcela. Quando starò meglio,
poi mi passerai a prendere, se te la sentirai. Adesso vai, torna alla tua vita,
non preoccuparti per me”.
“No”, ribadii, ma mia madre si stizzì.
“Insisto”, ribadì, infatti, con prontezza.
“Lascia un po’ sola la mamma, non preoccuparti. Sa, signora
Castaldini, io e sua figlia ci conosciamo già da un po’, e avrà notato che le
do anche del tu! Ci siamo conosciuti al locale dove lavora”, disse il medico,
affabilmente, inserendosi con tatto nella nostra piccola discussione.
“Il dottore è il signore che mi ha cortesemente portato a
casa, qualche giorno fa a mezzogiorno, quando non avevo la macchina”, aggiunsi,
per far ulteriormente luce sulla questione. Per me quello era stato un appiglio
per spingere la mamma a non insistere più come poco prima.
“Oh”, disse infatti lei, guardando il medico, che ci
rivolgeva un sorrisetto gentile e aggraziato.
“Le ho già detto che è una brava ragazza, una donna di cuore.
Per questo si preoccupa molto, e forse anche troppo, per la sua salute! Ma
adesso, se sua figlia volesse accettare una bella brioches… sa, le vorrei
offrire una colazione, siccome la vedo proprio a terra. Dice che accetterà?”.
Dopo aver detto ciò, simpaticamente, fece l’occhiolino alla
mamma.
Oh, io adoravo Piergiorgio quando si rivolgeva alle persone
in quel modo affabile. Era davvero in grado di farsi amare anche dai suoi
stessi pazienti, e sapeva mettere a proprio agio chiunque. Si trattava di
sicuro di un grande professionista.
“Certo che accetterà. Isabella, il dottore ha ragione, vai a
mangiare qualcosa, ma offrigliela tu la colazione”, mi raccomandò prontamente,
tornando alla carica.
“Mamma…”, dissi, indecisa. Stavo per collassare al suolo dal
tanto che ero abbattuta, era vero, ma non me la sentivo di andarmene da lì,
nonostante il mio innato ribrezzo per gli ospedali.
“Vai con il dottore. E poi vai avvisa la signora Virginia e vai
a casa a riposarti un po’”, continuò ad insistere mia madre, ed allora
Piergiorgio mi prese con un gesto dolce a braccetto, e m’invitò così
tacitamente a lasciarla in pace, poveretta.
Le rivolsi un ultimo sguardo, prima di abbandonare la stanza,
e solo allora scorsi la sua stanchezza, che colsi sul suo viso come se avesse
solo atteso quel momento per balzare fuori. Mi convinsi così a seguire il
dottore e a lasciarla in pace. Doveva aver bisogno di qualche istante da
dedicare solo a lei stessa.
“Isabella, tu sei tanto buona, lo so; ma tua madre ha appena
avuto un intervento alle coronarie, seppur quasi insignificante, e non è un
bene mettersi a discutere con lei. Adesso sarà molto stanca, ed anche se si è
mostrata tranquilla e serena con te, per non farti preoccupare, avrà bisogno di
un po’ di tempo per sé stessa”, mi disse Piergiorgio, una volta in corridoio.
Mi lasciò il braccio, con un movimento lento e delicato, e
quasi mi dispiacque che avesse scelto di interrompere il contatto con me.
“Certo, lo so”, gli dissi, cauta.
“Io ho concluso ora il mio turno. Ora vado un attimo nel mio
ufficio itinerante, prendo su le mie cose, e intanto mi aspetti qui, va bene?
Perché devo offrirtelo proprio un dolcetto, ci tengo”, aggiunse, tornando
indietro.
Io, invece, mi lasciai guidare dal mio istinto e anche dal
mio buonsenso, decidendo di muovermi verso l’ingresso del reparto, decisa a non
voler turbare ulteriormente mia madre e a voler raggiungere l’aria aperta per
un po’, almeno giusto il tempo per telefonare a Virginia, anche se si stava
facendo sempre più tardi.
Tuttavia, mi fermai poi ad attendere Piergiorgio, essendo
stato molto gentile nei miei confronti, e non volendogli sgattaiolare via da
sotto il naso.
Notai però che l’uomo fece una brevissima capatina nella
stanza di mia madre, prima di tornare verso me, sfilandosi il camice.
“E’ andato a sincerarsi con la sua nuova paziente?”, gli
chiesi non appena tornò alla portata della mia voce, coprendo un dubbio con un
pizzico di una simpatica e tentata battutina.
Lui mi sorrise.
“Ma certo. I miei pazienti sono tutto ciò che c’è di più importante
a questo mondo, per me”, rispose, in modo esaudiente ma pur sempre criptico. Mi
fece poi cenno con la testa di seguirlo.
“Senta, io adesso non ho fame…”.
“Non prendermi in giro. Ne hai, lo vedo dal tuo viso stanco e
bisognoso di nuove energie. Spero che tu non abbia di nuovo intenzione di
tornare a stressare la tua povera madre, perché la signora è molto affaticata,
e anche lei ha bisogno di un po’ di giusto riposo”, venne quindi il suo momento
di redarguirmi, seppur in modo dolce.
“Assolutamente no”, lo rassicurai, del tutto convinta a non
voler lasciare dubbi a riguardo, “però deve capire, lei che è anche un dottore,
che tutto quello che è accaduto mi ha fatto stare così in apprensione che la
fame è diventata l’ultimo dei miei pensieri”.
“Ti capisco, ma cerca di stare tranquilla. Qui è tutto sotto
controllo e a posto; entro qualche giorno la mamma tornerà a casa con te e
potrete tornare a vivere normalmente, senza problemi. Quindi, non pensarci
troppo sopra”, provò a rassicurarmi di nuovo, con quella sua solita decisione che
sfoggiava quando si premurava per qualcuno. Eppure, fino a quel momento l’avevo
visto solo preoccuparsi per me.
Mi venne da notarlo all’improvviso, ricordando che, dopo il
nostro primo e recente incontro, tra noi due c’era stato un’escalation di
eventi che ci aveva avvicinato e ci aveva fatto conoscere meglio… e aveva fatto
preoccupare più volte Piergiorgio per me.
Mentre uscivamo da quella struttura ospedaliera, il simpatico
dottore lanciava saluti a tutti quelli che incontrava, ed io gli trotterellavo
dietro, di nuovo in affanno, e pensierosa. In verità, però, ero in ansia anche
per il mio lavoro. La signora Virginia adorava la puntualità e il rispetto
delle regole, e nonostante la mia condizione di emergenza, avrei dovuto fare di
più per ricordarmi i miei impegni quotidiani.
Una volta tornata all’aria aperta, mi lasciai alle spalle con
due balzi quell’ingresso a cui avevo dichiarato guerra durante la notte, e
continuando a seguire il medico, che nonostante la sua età aveva ancora la
camminata sostenuta di un ragazzo, ne approfittai per afferrare il mio
cellulare, e telefonare con grande decisione all’unica persona a cui avrei
dovuto dare l’avviso della mia assenza.
Era ormai tardi, e di sicuro la proprietaria de L’angolo della bontà doveva già essere
su tutte le furie già da un bel po’.
Telefonai quindi al locale, e col cuore in gola rimasi in
trepidante attesa di udire la sua voce, mentre i primi tre squilli andavano a
vuoto. Poi, finalmente, un feedback.
“Pronto?”. La voce
di Ilenia mi giunse alle orecchie in modo lieve, attutito. Non le lasciai il
tempo neppure per provare a inspirare nuovamente.
“Ile, sono Isabella. Per favore, passami Virginia”, le dissi,
affrontando il mio destino.
La mia collega deglutì.
“Ma che è successo,
Isa? Ti stavamo aspettando, ti è successo qualcosa?”, cominciò a curiosare
la ragazza, molto agitata, ma una voce di sottofondo la rimbrottò e mi giunse
alle orecchie, davvero irritata.
Riconobbi subito il tono della proprietaria. Era giunto il
momento della resa dei conti.
“Passamela”, sibilò
la donna, e non appena le fu passata l’antiquata cornetta del suo strumento
telefonico piuttosto vintage, mi parlò con chiarezza.
“Signorinella, cos’è
questa storia? Hai cominciato a darmi buca in questo modo?”, cominciò fin
da subito a sgridarmi con severità, senza neppure darmi il tempo di esordire,
di presentarmi e di cominciare a dire qualcosa.
Sospirai.
“E’ successo un disastro, signora. So che sono imperdonabile,
però sono stata trattenuta… mia madre è stata male, e…”.
Ebbene, Virginia cominciò a parlare, un po’ irata, e a
spiegarmi che in ogni caso c’era da avvisare, e solita manfrina.
Annuii distrattamente con fare scocciato, mentre l’ascoltavo,
senza avere la forza per dire altro.
Piergiorgio, a cui avevo smesso di pensare non appena ero
entrata in contatto telefonico con la proprietaria del locale dove lavoravo,
restò per qualche istante ad ascoltare, e poi si mise in azione.
“Passamela”, mi sussurrò, e notando che non lo facevo, mi
sfilò agilmente il cellulare dalle mani, per avvinarlo al suo viso.
“Virginia, sono io, il tuo amico Piergiorgio”, disse,
esordendo, e subito la voce della signora smise di risuonare ovunque
nell’apparecchio.
“Sono qui con Isabella. Poverina, sai, sua madre ora è una
mia paziente, e questa notte è stata tanto male, ed ha anche affrontato un
intervento molto urgente alle coronarie, qui a Villa Silvia. Per favore, non
prendertela per un ritardo nella chiamata rivolta ad avvisarti, era qui in
ospedale dalle sei e il cellulare non aveva campo”, continuò a spiegare,
saggiamente.
Io osservai la scena ed ascoltai, ad un paio di passi da lui,
senza intervenire in alcun modo; se c’era qualcuno che poteva quietare l’irruenta
signora, quello era proprio Piergiorgio. Lo lasciai fare, quindi. Mi fidavo di
lui e sapevo che aveva buone intenzioni.
A quel punto, infatti, Virginia parlò per un po’, in modo più
quieto, ma non ebbi modo di sentire cosa diceva all’orecchio dell’amico medico.
“Va bene, adesso te la passo di nuovo. Ciao”, disse tutt’a un
tratto il dottore, dopo un po’, e facendomi l’occhiolino mi riconsegnò il
telefonino. Non feci in tempo ad avvicinarmi l’oggetto all’orecchio che la voce
della signora già riecheggiava sonoramente.
“Isabella, perdonami,
non volevo assolutamente mettere in dubbio la tua parola! So che non menti, e
non c’è problema, guarda… se vuoi qualche giorno da stare a casa, non c’è
problema, ripeto…”, cominciò a farfugliare Virginia, in evidente imbarazzo.
“No, assolutamente. Questa mattina non riuscirò a
presentarmi, ma recupererò le ore appena possibile”, dissi.
“Ora abbiamo contattato
la ragazza del part-time, viene lei, non ti preoccupare”.
Sabrina, la diciannovenne assunta da sole tre settimane,
aveva un contratto che le permetteva solo di coprire le ore più impegnative e
quelle in cui ero assente, in modo particolare tra mezzogiorno e le quattordici
del pomeriggio. Quella mattina, dalle otto alle dodici, avrebbe svolto le sue
ore di lavoro previste dal contratto, ma sapevo che non poteva fare dello
straordinario, e quindi immaginavo che la signora sarebbe stata in difficoltà
nel pomeriggio.
“Da mezzogiorno vengo io”, le dissi, spontaneamente.
“Ma che dici? Ma no, se
hai dei problemi è tutto a posto così. Prenditi tutto il tempo che desideri”.
“Insisto, vengo io. A mezzogiorno sono lì, se non le
dispiace”, insistei.
Non volevo stare a casa e non volevo assillare mia madre.
L’unica alternativa era il lavoro.
“Fai come vuoi, allora.
Scegli comunque con calma. Se a mezzogiorno sei qui, ok, altrimenti non
preoccupart e non stare neppure ad
avvisarmi. Va bene? Stai vicino alla mamma, non preoccuparti per il lavoro.
Quando tornerai, saremo tutti qui ad attenderti e a donarti un fraterno abbraccio”,
continuò a rassicurarmi Virginia, ormai sciolta e dolce come il miele d’acacia.
Mi lasciai involontariamente sfuggire un sorriso e sospirai
piano.
“Va bene, restiamo d’accordo così, allora. La ringrazio per
aver ascoltato e compreso, e per essermi vicina in questo momento così
difficile”, le dissi, ringraziandola. Non volevo lasciare nulla al caso, sapevo
che la signora era sempre attenta ai particolari.
“Ma sicuro, cara! È il
minimo, è il minimo, davvero. A presto”, e riattaccò.
Tirai un sospiro profondissimo, a quel punto, e di sollievo.
Era andata, alla fine.
“Grazie, è stato molto gentile a renderla un po’ meno acida”,
mi affrettai a ringraziare anche Piergiorgio, che era ancora lì assieme a me, e
mi guardava, in modo molto assorto. Ed io non feci neppure caso al suo sguardo,
mi resi conto solo tempo dopo quanto fosse profondo, quando lo rievocai in un
momento di sconforto.
Non avevo capito niente, mentre il sole estivo e caldo mi
baciava il viso, e gli alberi del parchetto antistante Villa Silvia lasciavano
che i loro rami frustassero l’aria, spinti dalle brevi raffiche di vento.
“Non preoccuparti. Virginia è fatta così, è molto impulsiva,
ma se la si fa un attimo ragionare è buona come il pane”, mi disse il medico,
smettendo di osservarmi e riprendendo a camminare.
“Solo se le parla lei diventa così buona ed incline al
perdono”, gli ammisi, senza peli sulla lingua.
Piergiorgio sorrise.
“Ci conosciamo da tanto, tantissimo tempo. È normale dare
ascolto agli amici”, minimizzò, bonariamente.
Non trovai opportuno aggiungere altro.
Una volta percorso il calmo vialetto, la caotica Rimini,
seppur periferica, ci riaccolse a braccia aperte.
“Vieni, qui c’è un bar dove i dolcetti glieli porta un pasticcere
bravissimo. Seguimi”, mi accennò il dottore, indicando un locale al di là della
strada che avevamo di fronte.
Attraversai con lui, e mi lasciai avvolgere poi dal profumo
tanto familiare di caffè e bomboloni fritti.
“Prendi quello che vuoi, offro io”, mi disse il mio
accompagnatore, sempre continuando a sorridermi, con quella sua espressione
sincera e cordiale che aveva impressa sul volto, e che aveva un qualcosa di
puro che mi colpiva ogni volta che ricambiavo un suo sguardo.
“Scherza? Sono io che offro”, aggiunsi, ma Piergiorgio si
fece inamovibile e categorico. E allora, accettai la colazione.
Mi fermai al bancone, abbastanza sovraffollato, mentre
Piergiorgio si dirigeva, come sovrappensiero, a sorseggiarsi un caffettino
mentre raccattava un giornale da uno dei tavoli, e si metteva a sfogliarlo, con
gli occhi che gli saettavano da tutte la parti, lungo l’ampio foglio scritto
che si era messo sotto al naso.
Mi misi a fissarlo, proprio quando era così concentrato a
leggere, come per volerlo cogliere per la prima volta di sprovvista; infatti,
fino a quel momento, ogni volta che avevo avuto modo di interagire con lui mi
ero sempre ritrovata già scandagliata dal suo sguardo.
Lasciandomi andare un po’ a quelle mie banalità da ragazza
che era stata in piedi per buona parte della notte e la cui testolina non
sembrava più volersi connettere su questo mondo, feci un po’ di colazione con
una semplice brioches croccante, che nonostante fosse stata di minute
dimensioni ebbi difficoltà ad ingerire, accompagnata da un po’ di misero latte
sfornato da una di quelle diaboliche macchinette delle bibite calde in polvere.
In effetti, era proprio misera acqua calda colorata.
“Hai già finito?”, mi chiese dopo un po’ Piergiorgio,
tornando da me, dopo aver abbandonato il giornale sportivo che aveva appena
concluso di sfogliare, ed io mi limitai ad annuire seccamente.
“Beh, tutto qui? Dai, prendi qualcos’altro”.
“No, davvero, sono già sazia. Basta così, grazie”, gli dissi.
“Va bene”, scollò allora le spalle, andando a pagare alla
cassa.
E fu mentre lui pagava che ebbi una crisi improvvisa.
Mi venne da piangere, fui colta da quel bisogno ancestrale in
quel momento poco propizio, e ben presto regnò dentro di me solo un saporaccio
di bile, di quelli che ti fanno capire che nella tua vita c’è qualcosa che non
va, e temi di toccare il fondo.
Il mancato riposo e l’ansia per mia madre e per la sua
condizione mi fecero crollare in quattro e quattr’otto, e mi spinsero ad uscire
fuori da quel locale pieno di persone che chiacchieravano, dove tutto profumava
di caffè, di cortesia e di pulito, mascherando ciò che era realmente la realtà,
ovvero il contrario di tutto quello.
Uscii in fretta dal locale, con un nodo alla gola; avevo
bisogno di sfogarmi, ed in più avevo appena mangiato, seppur poco, e con tutta
quella tensione che avevo addosso non mi riusciva più di riuscire a stare
tranquilla.
Quando Piergiorgio mi raggiunse, mi ritrovò sul punto di
lasciarmi andare ad un pianto disperato, mentre tornava a guardarmi, ma non con
quel suo solito sorriso bonario, bensì con preoccupazione.
“Isabella! Che c’è?”, mi disse, avvicinandomi.
Io mi appoggiai con la schiena al muro che avevo dietro di
me, e scrollai il capo, senza dire nulla, imbronciata.
“Non devi preoccuparti, davvero… no, non dirmi che è per
colpa mia, ecco, non vorrei esserti sembrato insistente…”.
Non lo lasciai concludere, perché lo abbracciai d’impeto. Fu
un gesto che mi venne naturale; in quei giorni in cui avevo perso tanto di me
ed avevo dovuto affrontare solo alcune tra le mie peggiori paure, quell’uomo a
modo suo aveva fatto tutto quello che poteva per favorirmi e farmi stare
tranquilla. E quando avevo udito quello che mi stava dicendo, ovvero che
pensava che io non apprezzassi i suoi sforzi rivolti al benessere mio, e anche
di mia madre, non ressi l’impulso di abbracciarlo.
Glielo dovevo.
“No, grazie. Quello che sta facendo è bellissimo e gliene
sono immensamente grata”, gli dissi, per poi tornare a sciogliere il contatto,
e ritrovandomelo per la prima volta sbalordito di fronte a me. Non se
l’aspettava il mio gesto spontaneo e naturale. Un gesto dal sapore di amicizia
e di affetto.
“Se potessi fare di più, lo farei. Te lo giuro”, mi sussurrò,
dolcemente.
“Lo so”.
Mi asciugai una lacrima traditrice con un fazzolettino di
carta che estrassi dalla borsa.
“Andiamo alla macchina. Ti accompagno a casa”, tornò a dirmi,
seriamente.
“No, ho l’auto qui… vado da sola, non si preoccupi per me”,
cercai di rassicurarlo, ma, per l’ennesima volta, il caratterino di Piergiorgio
tornò a galla.
“Non se ne parla, sei troppo scossa”.
“Lo desidero. La macchina mi serve, non posso permettermi di
lasciarla qui, capisce?”.
Il dottore sbuffò.
“Va bene. Però mi vieni dietro, non ci perdiamo di vista, ok?
Nello stato in cui ti ritrovi, non vorrei che ti accadesse qualcosa
d’imprevedibile”.
Lo guardai intensamente.
“Ha parlato con mia madre, vero?”.
“Cosa?”.
“Le ha parlato mia madre di questo argomento. Prima di uscire
dal reparto, è andato da lei, e le ha detto di darmi un’occhiata, nel viaggio
di ritorno, dato che sa che non sono una cima con l’orientamento. Giusto?”.
Piergiorgio reclinò il capo, e la sua espressione facciale si
rilassò e divenne improvvisamente divertita. Credevo fermamente di aver fatto
centro; mia madre sapeva che avrei arrancato un po’ nel mio percorso
all’incontrario. Ero lontana da casa e non conoscevo bene le strade che avevo
percorso per la prima volta solo quella stessa notte, tra l’altro andando
dietro ad un mezzo di soccorso.
Ma non volevo assolutamente passare per imbranata, il mio
senso dell’orgoglio me l’impediva, e per questo avevo in un qualche modo
sfidato il mio interlocutore. Conoscevo i miei limiti, e sapevo di aver
sbagliato, ma il senso di amarezza dovuto alla consapevolezza avrebbe cominciato
a germinare con qualche istante di ritardo.
“Sei incredibile! Io mi preoccupo per te, e invece mi trovo
davanti una persona che sembra volermi prendere per la cravatta, poiché starei
proponendo tutto questo solo perché ho ascoltato sua madre, ho parlato con lei,
e tutto quello che, di conseguenza, ci va dietro…”.
Piergiorgio ammutolì improvvisamente e lasciò cadere il
discorso. Tornò serio.
“Non volevo dire questo. Mi perdoni”, cercai di sistemare la
faccenda, diplomaticamente.
Aveva ragione, avevo esagerato con le congetture, tra l’altro
andando a parare in qualcosa di davvero sciocco, in quel momento in cui avevo
solo e tanto bisogno di aiuto e di un amico che mi avesse sostenuto.
“Non continuare a darmi del Lei, puoi darmi tranquillamente del
Tu”, mi sorrise, rilassandosi. Era acqua passata, sapevo che mi aveva
perdonato, nella sua infinita bontà.
“In realtà non ci riesco. E poi, sa, dovrei chiamarla
dottore”.
Cominciai a camminare a suo fianco, mentre la tempesta si
allontanava all’orizzonte, assieme al suo carico di pioggia… di lacrime.
“Non dire sciocchezze, mia cara e giovane amica. Puoi
chiamarmi col mio nome”, aggiunse, banalizzando e continuando a camminare verso
il vicino parcheggio, dove anche io avevo lasciato la mia auto in sosta.
“Va bene, se proprio me lo vuole concedere. Ma se continuo a
darle del Lei non le dispiace, vero?”, gli chiesi, imprudente.
In realtà, era che ero sempre stata una ragazza che se ne
stava sulle sue, e a disagio con i più adulti. Anche quando mi capitava di
contrare le mie ex insegnanti, in giro per la città, mi rivolgevo sempre loro
con un tono formale, anzi, formalissimo, e ciò capitava con ogni altro anziano
o persona più grande di me con cui interagivo. Mi veniva spontaneo e naturale
farlo. E non farlo mi pareva una forzatura.
“Se hai bisogno di prenderti del tempo, a riguardo, fai pure.
Però ti garantisco che non mi dispiacerebbe affatto se un giorno ti azzardassi
a chiamarmi col mio nome”, risultò di nuovo divertito.
Mi fece sorridere.
Giungemmo così in fretta alle nostre macchine, che tra
l’altro erano parcheggiate relativamente vicine, l’una nel posteggio opposto
all’altra.
“Seguimi pure, se vuoi, oppure scegli tu. Io torno a casa,
sai che viviamo nella stessa cittadina. Non mi cambia nulla”, mi disse,
lasciandomi così il giusto spazio per non sentirmi inetta e umiliata nelle
piccole cose.
“Va bene, grazie”, lo ringraziai, per poi salire a bordo del
mio mezzo di trasporto, il cui interno era un disastro, soprattutto i sedili
posteriori, dove la mia roba era tutta ammassata caoticamente, a seguito della
notte passata all’addiaccio.
Non appena mi accinsi a mettere in moto, con Piergiorgio che
già inseriva la retromarcia e cominciava a fare manovra all’indietro, per
uscire dal posteggio, mi sfuggì l’ennesimo sospiro e finii con la testa
appoggiata al volante. Non ce la facevo proprio, e ciò che era accaduto alla
mamma mi aveva definitivamente destabilizzato.
Con un altro sospiro, mi costrinsi a mettere in moto il mezzo
e a cominciare a tallonare il veicolo di Piergiorgio, tanto sapevo che,
pasticciona com’ero, ed immersa nel mio disagio mentale del momento, accentuato
dalla stanchezza e dalla tensione, avrei solo rischiato di perdermi o di
combinare un qualche incidente.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie a tutti voi che siete giunti fin qui ^^