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Autore: Chipped Cup    27/08/2018    4 recensioni
[ Mini Long di 6 capitoli | Johnlock | Victorian AU ]
Di ritorno dalla guerra in Afghanistan, John Watson si ritrova senza un lavoro né un posto dove vivere. Finisce così a servire la famiglia Holmes, prima come cameriere e, in seguito, come valletto personale del loro secondogenito, Sherlock, un uomo solitario, scorbutico e intrattabile, che sembra nutrire, però, una certa simpatia per l'ex soldato.
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sherlock Holmes



Se c'era una cosa in cui Mycroft Holmes eccelleva, era senza ombra di dubbio risolvere una crisi. Era un genio, lo era stato fin da bambino, e il suo cervello aveva cominciato a renderlo famoso fin dall'adolescenza. Se una famiglia potente aveva un problema da risolvere, un problema che non poteva assolutamente rischiare di diventare di dominio pubblico, Mycroft era la persona da chiamare, l'unica della quale tutti si fidavano in momenti come questi – perfino la famiglia reale, ma questo non è permesso raccontarlo.

Mycroft aveva sempre fatto affidamento su quella sua capacità, ne aveva fatto un mestiere, uno stile di vita e, sicuramente, gli era servita a tenere d'occhio quell'incosciente di suo fratello, nonché a nascondere i vari danni che si lasciava dietro con la sua sconsideratezza.

Proprio per questo motivo era tanto tormentato, al momento. Più si arrovellava il cervello, più non riusciva a vedere una luce in fondo al suo problema. Non era da lui, faticava a riconoscersi e, francamente, era spaventato da quella piega che stava prendendo la sua vita. Se non riusciva a risolvere quell'ennesima crisi, cosa ne sarebbe stato di lui? Se non riusciva a far cadere le accuse su suo fratello, cosa gli sarebbe rimasto?

Si interrogava ormai da svariati minuti. La sua figura stonava completamente con il quadro generale di cui si ritrovava a far parte: lui, sempre così composto, spalle e schiena dritta, abito elegante con tanto di fazzoletto nel taschino della giacca, il bastone inseparabile che si portava dietro fin dai suoi primi anni di educazione, il suo sguardo distante ed impenetrabile. In poche parole, niente di lui andava d'accordo con gli strati di polvere, le scartoffie spalancate su ogni superficie disponibile, la puzza di chiuso e di muffa e le numerose crepe su muri e soffitto della stanza, nell'ufficio di una guardia del carcere, in cui era rinchiuso da, all'incirca, tredici minuti.

Un tempo interminabile, gli era parso, fastidiosamente lungo eppure immensamente utile. Ogni minuto, anzi, ogni secondo era importante, aveva la possibilità di far muovere gli ingranaggi di quella meravigliosa macchina del suo cervello, ancora e ancora; poteva arrivare ad una brillante idea da un momento all'altro, poteva salvare Sherlock e così archiviare quella triste vicenda. Ma Mycroft era tutto meno che un sognatore, non ingannava gli altri e benché meno riusciva a farlo con se stesso. Sapeva che niente sarebbe venuto in suo aiuto, non aveva chiuso occhio dalla notte prima, studiando ogni possibile mossa da giocare. Le aveva pensate davvero tutte e, certo, era pronto a presentare delle idee a suo fratello, ma erano una meno probabile dell'altra e sapeva che l'uomo le avrebbe, giustamente, bocciate tutte – facendosi beffe di lui, magari.

La verità era che sperava che, insieme, potessero riuscire ad arrivare a qualcosa. Erano le due menti più geniali e brillanti di tutta l'isola, maledizione.

«Signor Holmes?» Una delle guardie catturò la sua attenzione, finalmente. Mycroft tirò velocemente fuori il suo orologio da taschino, sbirciò rapido l'ora constatando di aver atteso con esattezza ventiquattro minuti, simulò un'espressione infastidita per la lentezza dimostrata da chi di dovere e poi si apprestò a seguire l'uomo, con passo sicuro e rilassato, totalmente l'opposto del caos che stava vivendo dentro di sé: la prima impressione era quella che importava, era bene che si dimostrasse calmo e tranquillo, e, magari, se fosse stato abbastanza bravo sarebbe riuscito ad ingannare anche Sherlock.

Mentre percorreva il lungo corridoio che lo avrebbe portato in una stanzetta isolata – aveva, infatti, a lungo insistito affinché avesse un colloquio privato con suo fratello, lontano da orecchi indiscreti di altri carcerati o guardie che fossero – si ritrovava a guardarsi intorno con disgusto: non aveva mai perso tempo a interrogarsi su quali fossero le condizioni delle loro prigioni, gli era sempre importato poco di ciò che avveniva all'interno delle mura di un carcere, essendo dell'idea che chiunque fosse stato troppo sciocco da credersi al di sopra delle leggi arrivando così a infrangerle, era più che meritevole di scontare le pene più severe. Ora, invece, le cose erano ben diverse.

Si era visto portare via Sherlock sotto i suoi occhi ed improvvisamente aveva ricordato quel bambino dai disordinati capelli ricci alla continua ricerca di attenzione, perennemente solo e dallo sguardo triste, che si era ripromesso, molti anni prima, di proteggere come meglio avrebbe potuto. E lo aveva fatto, per anni, era riuscito a tenerlo fuori dai guai, o a farcelo uscire, lo aveva sempre tenuto d'occhio e sotto controllo. Non riusciva a capacitarsi di aver fallito in quel compito.

La guardia alla fine si fermò davanti ad una porta chiusa, fece per allungare la mano verso la maniglia ma Mycroft fu più rapido e gli diede un leggero colpetto con il manico del bastone che portava sempre con sé. L'uomo lo guardò, forse in attesa di una spiegazione, ma Holmes non gli rivolse parola, limitandosi a lanciargli uno sguardo di fuoco: voleva entrare da solo e non avrebbe ricevuto un no come risposta.

La guardia parve, comunque, pensarci e pensare agli ordini che gli erano stati precedentemente dati. Alla fine si scostò, indicando ironicamente la porta e lasciandolo passare. Mycroft lo ignorò e se lo lasciò alle spalle.

Sherlock non alzò subito la testa verso di lui, il che gli diede giusto il tempo di prendere un lungo respiro profondo e catturare quell'immagine inedita e desolata del suo fratellino. Si ricompose, proprio quando l'altro alzava lo sguardo rivelando due occhi stanchi e, questo gli procurò un tuffo al cuore, luminosi: era contento di vederlo, a quanto pareva, aveva paura, adesso, che nutrisse troppe speranze, che fosse certo che avrebbe trovato il modo di farlo uscire da lì.

Mycroft si ritrovò a scacciare via, ancora una volta, l'immagine di suo fratello bambino – il che si rivelò piuttosto difficile, visto che al momento non trovava la minima differenza con quella che si ritrovava davanti – ed andò a sedersi davanti a lui.

Sapeva di dover dire qualcosa, si era anche preparato un discorso, in effetti, qualcosa di pratico, ovviamente, niente di sentimentale; era sempre stanto intenzionato ad arrivare dritto al sodo, niente convenevoli, niente giri di parole o frasi fatte, sapeva di avere poco tempo a disposizione ed era necessario cominciare ad illustrare il piano. Che in realtà non aveva, ma non era comunque questo ad impedirgli di aprire bocca.

Semplicemente, la visione di Sherlock lo aveva devastato. Saperlo rinchiuso dentro una cella lo stava uccidendo piano, lo colpiva nel profondo, e il peggio era che non erano passate neanche ventiquattro ore. Ovviamente, a lui riuscì a non farglielo capire. Lo osservò dritto negli occhi per un tempo che parve infinito, serio e truce. Era la solita occhiata che gli riservava per dirsi amareggiato dal suo comportamento, solo che in quell'occasione non era altro che uno scudo usato per proteggersi – Sherlock sarebbe sopravvissuto, almeno a quello sguardo.

«Non farlo» mormorò, alla fine, il più piccolo tra i due Holmes. Mycroft sbatté piano le ciglia, non capendo subito cosa gli stesse davvero chiedendo.

«Cosa?»

«Chiedermi come sto, oppure farmi notare quanto la mia situazione sia critica o come ci sia poco da fare per cambiarla. Perfino Anderson ci arriverebbe» rispose svogliato, abbassando gli occhi e guardando in direzione di un angolo della stanza oltre la spalla del fratello.

Mycroft alzò un sopracciglio, offeso. «Credi davvero che io non sia in grado di dedurre il tuo stato d'animo e le tue condizioni con una semplice occhiata? Non ho bisogno di porre domande tanto sciocche per avere una risposta» affermò con un tono pratico e, giusto un pizzico, adirato.

Il fratello si lasciò andare in un piccolo sorriso privo della minima allegria. «Vedo che vedermi nei guai non ti ha addolcito.»

«Lo ha forse mai fatto, d'altronde?» Sherlock ridacchiò appena scuotendo piano la testa, straordinariamente divertito. Mycroft si beò di quel suono che non era per niente abituato ad ascoltare, mentre metteva su un'espressione spazientita, con tanto di occhi rivolti al cielo. Al fratello non sfuggì quell'occhiata, e presto tornò serio. «Dobbiamo parlare di John» affermò, guardandolo dritto negli occhi, Mycroft riusciva a percepire quelle lame di ghiaccio delle sue iridi puntate contro minacciosamente.

«Con estremo piacere» mormorò, veloce. «È chiaro che io non abbia ancora visto il signor Watson, andrò da lui subito dopo questo colloquio e mi assicurerò che non gli manchi nulla» si pentì subito della pessima scelta delle parole, si morse la lingua e si affrettò a correggersi «per quanto questa condizione gli consenta, certo.» Non guardò l'occhiataccia che Sherlock gli rivolse, costernato, piuttosto preferiva concentrare l'attenzione di entrambi su altri punti. «Gli riferirò qualunque tuo messaggio, ma adesso dobbiamo pensare a come farti uscire da qui – farvi uscire entrambi

«È proprio questo il problema» lo interruppe nuovamente. Sherlock si prese del tempo per trovare il modo migliore in cui dirlo, ma lo sguardo spazientito di Mycroft non giovò al suo scopo. «Non c'è un modo per far uscire entrambi, per questo dobbiamo concentrarci sul far tornare John a casa.» Mycroft sbatté le palpebre innumerevoli volte, perplesso.

«Non credo di seguire il tuo discorso» pronunciò, anche se gli era fin troppo chiaro dove volesse davvero arrivare suo fratello.

«Ascoltami senza interrompere, ho pensato a tutto» cominciò l'altro, mentre si guardava intorno sospettosso, neanche avesse timore che i muri potessero ascoltarlo e spifferare tutto ai quattro venti. «Ho intenzione di confessare la mia colpevolezza e l'innocenza di John – aspetta, devi farmi finire Mycroft!» Il fratello maggiore richiuse la bocca scocciato, Sherlock non se ne curò ed andò avanti. «Sono pronto a parlare, dichiarerò di aver sempre obbligato John Watson a soddisfare ogni mio capriccio o desiderio. Lo minacciavo di accusarlo di molestarmi, per farlo stare zitto. Non è un valletto qualificato, se la cavava maldestramente come cameriere, non ha un posto o una famiglia da cui tornare, per questo il lavoro presso di noi gli risultava l'alternativa migliore, nonostante tutto. Mi stai seguendo?»

Gli ci volle giusto il tempo per immagazzinare tutte quelle nuove informazioni, prima di ricordarsi di avere l'uso della parola. «Non vorrei guastarti la festa, ma dubito che il Signor Watson accetti di far parte di questo teatrino. Se ti aspetti che io riesca a convincerlo, allora–»

«No» lo fermò subito «non me lo aspetto minimamente. Ti ho già detto che ho pensato a tutto: John non dovrà sapere niente.» Mycroft si passò una mano sugli occhi, stanco dopo la notte insonne che aveva passato, e lo esortò ad andare avanti, consapevole che difficilmente sarebbe riuscito a farlo stare zitto. «John non è stupido quanto sembra, è necessario che lui non sospetti niente, quindi non dovrai in alcun modo andare a parlargli. Né tu né nessun altro, Mycroft, è importante questo, non possiamo rischiare che vada tutto a monte per colpa di una Miss Morstan qualunque che non è riuscita a mantenere la bocca chiusa.»

«Nessun contatto con il resto del mondo, ho capito» annuì Mycroft, assecondandolo come meglio poteva nello stesso modo in cui avrebbe trattato un bambino che dichiarava di aver visto un mostro sotto il suo letto «ma cosa ti fa credere che tutti ti daranno retta? Ai giudici non importa che tu sia Sherlock Holmes, non prenderanno per vere le tue parole solo perché ti stai assumendo la colpa.»

«È proprio per questo che dovrete darmi una mano, tutti voi. Già una volta siete riusciti – o meglio, i nostri genitori – a far condannare esclusivamente Victor, questa volta si tratterà di fare esattamente l'opposto. Non potranno non credere alla versione di tutta la famiglia, i miei stessi genitori che confermano tutto, disgustati? Deve essere vero senz'altro.»

«Mamma e papà non ne saranno molto entusiasti, temo.»

«E tu persuadili, Mycroft. Me lo devono.»

Il tono di Sherlock era incredibilmente fermo e sicuro, una persona esterna ai fatti avrebbe avuto non poche difficoltà a credere che fosse stato arrestato quella stessa notte. «So cos'è che ti terrorizza» provò a dire Mycroft, con un tono insolitamente più dolce del normale «ma nessuno vuole che si arrivi ad un altro Victor Trevor, Sherlock, e tu non puoi sapere se il signor Watson–»

«Esatto, Mycroft!» Sbottò allora l'altro, perdendo almeno per un secondo quell'apparente tranquillità che aveva dimostrato fino ad allora «Non posso saperlo, nessuno può sapere come reagirà alla reclusione. Così come nessuno poteva immaginare che Victor si sarebbe tolto la vita. Non possiamo saperlo, per questo non ho nessuna intenzione di rischiare una seconda volta» dagli occhi di Sherlock traspariva ancora tutto il suo dolore e rancore per la morte di quel ragazzo; non li aveva mai perdonati e non lo avrebbe mai fatto, e non gliene faceva una colpa. Mycroft stesso, aveva odiato i suoi genitori per aver consegnato Trevor alle autorità, una volta aver scoperto della relazione con Sherlock. E aveva odiato anche se stesso per non aver saputo come fermarli e convincerli a lasciare stare. Per questo era più che determinato a far uscire entrambi di cella.

«Permettimi almeno di trovare un avvocato» riprovò, dopo circa due minuti di silenzio «il migliore in circolazione, per te e per il signor Watson.»

«Sappiamo entrambi che non c'è la minima possibilità di vincere questo processo per due ragioni: la prima, siamo stati beccati mentre dormivamo insieme e, la seconda, ai giudici non importa un accidente di chi ci difende, sono felici nel vedere più gente possibile finire in prigione. Se godono di attenzione pubblica, ancora meglio.»

«Potresti almeno lasciarmi provare» ribatté, scocciato, questa volta «prima di confessare, potresti stare a sentire cosa ha da dire un avvocato, qual è, secondo lui, la strategia migliore per tirarvi fuori da qui e poi – soltanto in seguito, potrai decidere di non starlo a sentire.»

Sherlock sospirò rumorosamente, abbassò il capo, nascondendo il viso dietro i ricci lunghi che gli cadevano sulla fronte «Ascoltami, Mycroft» sussurrò appena il suo nome, l'uomo si sentì raggelare «lo dirò una volta sola: sono stanco di nascondermi, non voglio più farlo. Questo è ciò che sono, non me ne vergogno. Non ho motivi per farlo.»

Il fratello deglutì, prima di abbassare gli occhi anche lui. «Non c'è niente di male nel proteggersi, Sherlock» disse con voce bassa e pacata «fino a trent'anni fa, la gente veniva uccisa per questo.» (1)

Sherlock non riuscì a trattenere un sorriso amaro «Per fortuna che ci troviamo in un'epoca tanto progressista, allora.»

«Una volta fuori sarà tutto diverso, verrai allontanato da tutti.»

«Dimentichi che il primo ad allontanare tutti sono io» Mycroft alzò gli occhi al cielo.

«Sherlock, sono serio» fece, leggermente adirato dai toni leggeri che sentiva dal fratello. Era infastidito dal fatto che non volesse sentire altre ragioni, che avesse deciso tutto ancora prima del suo arrivo e che ora si rifiutava di ascoltare ciò che aveva da dire. Non meritava di essere sbeffeggiato in questo modo, aveva passato tutta la notte a studiare casi su casi e a spedire lettere indirazzate a cariche qualificate per sentire il loro parere. Non aveva chiuso occhio per inventarsi un piano per mettere a tacere i giudici e far uscire il suo fratellino di prigione, ed ora si sentiva dire dal suddetto fratello che era stato tutto inutile e che non aveva la minima intenzione di mettere piede fuori da lì.

«Lo sono anche io, Mycroft.» ribatté non senza una certa furia negli occhi, freddi e letali come il ghiaccio. «Non rinnegherò i miei sentimenti, sono pronto a raccontare la verità – o almeno la parte più importante. Non negherò ciò che provo per il signor Watson, un altro uomo, non posso farlo. Lo devo a John, e anche a Victor. E soprattutto, lo devo a me stesso.»

Mycroft abbassò gli occhi, osservò il tavolo che aveva di fronte, pensieroso. Aveva bisogno di un momento per se stesso, di estraniarsi ed entrare nel suo palazzo mentale così da incassare il colpo appena ricevuto e a superarlo indenne. Sherlock lo lasciò in pace, finse di ignorarlo concentrandosi a guardarsi intorno, fingendo interesse per i muri della stanza. Avevano poco tempo ormai per parlare, e c'erano ancora tante altre cose che avrebbero dovuto dirsi, ma lui conosceva molto bene il suo fratello maggiore, sapeva che quella era la sua prima sconfitta e che gli serviva del tempo per assimilarla.

Altri due fratelli, in un momento del genere, avrebbero ignorato ogni regola del carcere e si sarebbero stretti in un abbraccio tanto forte che avrebbe assorbito ogni insicurezza e preoccupazione dell'altro; ma loro non erano due fratelli normali, non lo erano mai stati, il loro rapporto era stato sempre freddo, distaccato, a volte complicato.

Eppure, entrambi desiderarono di essere diversi, almeno per qualche secondo.

Alla fine, Mycroft alzò lo sguardo, trovando subito quello del fratello specchiato nel suo.

«Non posso proprio farti cambiare idea, vero?» Domandò, ovviamente non ci credeva neanche lui. Sherlock alzò gli angoli della bocca in un sorriso triste e non rispose. Mycroft sospirò appena. «Dovrò fermare tua moglie, allora» cominciò a dire, con il suo vecchio tono derisorio «era più che pronta a decantare le tue doti in camera da letto di fronte ai giudici, stava facendo pratica con i domestici, quando l'ho lasciata questa mattina.»

Il viso di Sherlock si contrasse in una smorfia disgustata e imbarazzata, le gote si arrossarono per la vergogna e non poté impedirsi di coprirsi la faccia con le mani, come se la terribile visione di se stesso con Irene potesse togliersi dalla sua mente con tanta facilità. «Ti prego, Mycroft, risparmiami. Fermala, non potrei sopportare la vergogna» fece, drammatico, sotto lo sguardo divertito del fratello.

«Va bene, lo farò, te lo prometto» affermò leggero, prima di tornare serio. «Voleva davvero aiutarti, sai.»

«Lo so» gli fece eco l'altro, con gli occhi bassi, appena lucidi «è una buona amica.»

Scese ancora una volta il silenzio tra loro, entrambi persi nei loro pensieri, fino a quando qualcuno non bussò un paio di volte da dietro la porta. Sobbalzarono e si voltarono istintivamente verso questa, ma nessuno vi entrò: li stavano avvisando che il tempo era ormai scaduto.

Mycroft tornò a rivolgersi grave al fratello «Riuscirò ad evitarti i lavori forzati (2), te lo garantisco» gli promise più che deciso, neanche ci fosse in gioco la sua stessa vita.

«Non ti ostacolerò» ribadì l'uomo, che riuscì a nascondere la sua gratitudine al meglio.

«Sai che lui non potrà venire a trovarti, vero» tentò un'ultima volta, mentre si alzava.

«Non riuscirai a dissuadermi, Mycroft» replicò lui, pacato.

«Parliamo di due anni, Sherlock» sospirò il fratello, che non avrebbe mai voluto saperlo in prigione neanche per un giorno o per un'ora.

«Allora puoi stare tranquillo, non ho intenzione di rimanere qui dentro per i prossimi due anni» lo disse così tranquillamente che, per un attimo, Mycroft pensò stesse solamente scherzando, ma, per quanto il suo viso si dimostrò sereno, riusciva a scorgere sicurezza e serietà nei suoi occhi, tanto che quasi sbiancò. Aprì la bocca per ribattere, per chiedergli cosa avesse in mente, ma proprio in quel momento la guardia che lo aveva accompagnato prima, entrò per interromperli. Sherlock guardò prima l'uomo, poi di nuovo il fratello «Ti spiegherò meglio la prossima volta» sentenziò, come se niente fosse, e Mycroft non poté fare altro che annuire e lasciarlo fare.


*


John aveva ormai perso il conto dei giorni che aveva passato chiuso tra le quattro mura del carcere; solo e depresso, sentiva di star smarrendo qualsiasi contatto con la realtà. Mai, nella sua vita, aveva pensato di ritrovarsi in una situazione del genere e, mai, aveva percepito quel tale senso di abbandono. Neanche nei suoi giorni peggiori in Afghanistan, quando si era più volte domandato a cosa servissero tante lotte se non a vedere degli amici venir dilaniati sotto i propri occhi, il suo futuro gli era sembrato tanto nero.

Non era la prospettiva di ritrovarsi rinchiuso dietro a delle sbarre ad abbatterlo, era il non avere la minima idea di quello che accadeva al di fuori, o di quello che sarebbe stato di lui, o del perché nessuno dei suoi amici era mai venuto a trovarlo per tirargli su il morale. Sapeva che avrebbe saputo come affrontare quella situazione a testa alta con loro dalla sua parte.

Di certo non sperava di vedere nessuno degli Holmes oltrepassare la soglia del carcere per vedere come se la cavava; era certo che Sherlock avesse chiesto a Mycroft di tenerlo d'occhio, ma era ugualmente sicuro che l'uomo doveva averla valutata come una pessima idea. E a lui andava bene così, non avrebbe comunque saputo cosa dire a quella famiglia.

E di certo non si aspettava di veder comparire suo padre, o sua sorella – per il padre di sicuro quella notizia sarebbe stata solamente la prova finale del suo fallimento come figlio, Harriet, invece, la immaginava fin troppo occupata dietro ai suoi problemi con la bottiglia.

Era stupito, però, e amareggiato, soprattutto, dal fatto che nessuno dei domestici si fosse fatto vivo. Una parte di lui, più di una parte, aveva sempre creduto di aver instaurato dei buoni rapporti con la maggior parte di loro, dei rapporti solidi, stretti. Non aveva mai avuto problemi a definirli come amici, Lestrade, Mary, Mrs Hudson e anche Molly con i suoi modi talvolta esasperanti. Nell'ultimo anno, loro tutti si erano rivelati la sua famiglia, insieme a Sherlock, e li aveva sempre creduti dalla sua parte. Glielo avevano ribadito loro stessi, dannazione.

E allora perché i giorni passavano e nessuno, nessuno, si era mai fatto vedere? Che gli Holmes avessero impedito loro di farlo? Non dimostrandogli supporto lo avrebbero incolpato di aver sedotto il figlio o chissà cos'altro, tutto pur di far uscire Sherlock di prigione. Avrebbe pagato lui? A loro cosa importava? Già una volta avevano fatto condannare un innocente. E lui che aveva veramente creduto che fossero cambiati.

Eppure, conosceva Mary, sapeva che avrebbe ignorato qualsiasi loro ordine, cocciuta com'era pur di dimostrargli sostegno. Se neanche lei si era fatta vedere, forse significava che gli ultimi mesi erano stati solamente un bel sogno, un'idea fantastica che si era creato da solo, quando nella realtà nessuno ricambiava davvero il suo affetto e la sua simpatia.

Ma gli risultava così difficile da credere, nonostante quel silenzio.

Durante i primi giorni di reclusione, si era ritrovato a condividere la sua cella con un altro prigioniero, un tale di nome Michael, o forse Thomas, o addirittura Matthew – non gli aveva mai prestato troppa attenzione e a malapena gli aveva rivolto parola. Fortunatamente, il tale sembrava ignorarlo di rimando, non gli aveva mai posto domande o accennato a voler intavolare una conversazione. Nessuno dei due voleva davvero compagnia e perciò si comportavano di conseguenza, chiudendosi entrambi nel loro personale mutismo. Michael, o Thomas, o Matthew, uscì dal carcere all'incirca sei giorni dopo, senza che John sapesse nemmeno per quale motivo era stato arrestato. Non che gli importasse, in ogni caso.

Le prime ore di reclusione le aveva vissute come un automa. Non aveva toccato cibo né acqua, a stento aveva chiuso occhio, non aveva fatto caso al sorgere del sole, o al suo tramontare, non aveva fatto caso all'ora di libertà che gli era stata concessa, gli altri carcerati gli apparivano tutti come delle ombre, o forse l'unica ombra, lì dentro, era lui. Aveva a stento pensato, a qualunque cosa, alla sua situazione attuale, a ciò che si era lasciato dietro, a quello che aveva perso per sempre.

Non avrebbe saputo dire con esattezza se tutti quei pensieri avevano seguito un filo logico, o se erano stati solamente un'accozzaglia di immagini e parole. Ricordava confusamente quei momenti, gli sembravano quasi un lungo sogno. Arrivò a chiedersi se in realtà non avesse dormito per giorni interi, avrebbe avuto senz'altro più senso e sarebbe stato già qualcosa.

Quando il suo coinquilino fu chiamato per incontrare i suoi famigliari, il suo cuore perse un battito. Fu quello il momento in cui tuttò cambiò, in lui. Pensò che non poteva in alcun modo farsi vedere dai suoi affetti in quel modo così miserabile, che li avrebbe solamente fatti preoccupare. Certo, non poteva sapere, allora, che nessuno si sarebbe mai fatto vedere, ma almeno ricominciò a mangiare – poco, ma era già qualcosa, e a tentare di dormire almeno per un paio d'ore a notte, o quattro, nei giorni più fortunati.

Subìto quel cambiamento, trovò la forza di concentrare ogni suo pensiero in un'unica persona: Sherlock. Fino a quel momento, infatti, aveva impedito al suo nome d'insinuarsi nella sua mente perché sapeva che in lui avrebbe trovato la forza per alzare la testa ed affrontare quella pessima piega che aveva preso la sua vita come un soldato sul campo di battaglia. Non era stato pronto per questo, si condannava per ciò che era avvenuto e cercava di punirsi con l'unico mezzo a sua disposizione. Perché il carcere non era abbastanza, si ripeteva, un processo, la vergogna, la reclusione e i lavori non erano abbastanza per espiare le sue colpe; perché era stato lui ad aver convinto Sherlock a lasciarsi andare, all'inizio, gli aveva promesso che non sarebbe accaduto loro niente, che sarebbe stato prudente ed avrebbe impedito che la loro storia venisse alla luce. E cosa aveva ottenuto? Prima si erano fatti scoprire dalla famiglia, e poi da tutti gli altri. Davvero un ottimo modo di proteggere la persona amata, decisamente.

Non riusciva ancora a capire come fossero stati scoperti, perché le guardie si erano presentati davanti la loro porta per portarli via. Se lo chiedeva spesso, ma l'unica risposta che sapeva darsi era che non erano stati abbastanza prudenti. Tutto qui. D'altro canto, la stessa Mary Morstan aveva ammesso che i suoi sentimenti per Sherlock erano chiari come la luce del sole, senza parlare di Anderson e la Donovan, che confabulavano da mesi alle sue spalle. Se se ne erano resi conto loro, allora–

Il pensiero che fosse stato proprio uno di loro a denunciarli lo tormentava, ma cercava di non pensarci troppo; lo avrebbe scoperto al processo, quando ci sarebbe stato.

A proposito del processo, aveva chiesto più volte alle guardie quando gli avrebbero concesso di parlare con un avvocato, ma nessuno gli aveva saputo dare una risposta – o nessuno aveva mostrato la minima intenzione di rispondergli, comunque. Si diceva che quello era il trattamento riservato a tutti i carcerati, e allora se ne faceva, in qualche modo, una ragione.

Aveva però ottenuto dei vantaggi, giorno dopo giorno. All'inizio non se ne rese conto subito, in quanto si trattava di piccoli cambiamenti. La sua tanto agognata ora di libertà era raddoppiata, non ci aveva fatto caso la prima volta che era successo, credeva si dovesse trattare di una sorta di occasione speciale, ma quando vide che, per i giorni a seguire, tutti gli altri prigionieri – ad eccezzion fatta per pochi cognomi importanti – venivano riaccompagnati nella loro cella, al contrario suo, cominciò a farsi sospettoso. Notò che anche le sue razioni dei pasti cambiarono: solitamente, veniva riservata loro la solita brodaglia e il solito pezzo di pane raffermo, duro come una pietra, ma ben presto i suoi pranzi e le sue cene diventarono più sostanziose, con l'aggiunta di un pezzo di formaggio, della carne e della frutta. Osò domandare se era possibile avere dei fogli su cui tenere un diario e, all'incirca un'ora dopo, gli furono recapitati.

Cominciò così a buttare giù ogni suo pensiero – certo, quelli riguardanti Sherlock li riservava unicamente a se stesso – e a descrivere lo svolgersi delle sue giornate – non che ci fosse poi molto da riportare, comunque. Lo aiutava a restare concentrato e a non impazzire, essendo così estraniato dal mondo e dal minimo contatto umano. Non si era fatto amici in carcere e non osava farseli. Non era mai stato uno molto incline al fare amicizia, una volta tornato dall'Afghanistan, e dubitava che la galera fosse il posto migliore per migliorare quella sua abitudine.

Tutto, però, mutò presto, molto presto e molto velocemente, che quasi non se ne rese neanche conto.

Era impegnato alla stesura delle sue “memorie” – le chiamava così, tra sé, per sdrammatizzare la faccenda, quando la porta della sua cella fu spalancata e una delle guardie che era solito andare a portargli la sua razione di cibo, fece capolino guardandolo con autorità.

«Andiamo, forza» lo intimò, con un certo guizzo crudele negli occhi. John restò immobile, suo malgrado, allibito dalla nuova piega che aveva preso la sua storia. Fece per formulare una domanda, ma l'uomo non glielo concesse. «Non me lo faccia ripetere una seconda volta» ribadì gelido e irato, tanto che John scattò subito in piedi per evitare altri guai.

L'uomo si fece da parte, lasciandolo uscire dalla cella. John non osò parlare, nonostante avesse più di una domanda da rivolgergli, lasciandosi condurre lungo un corridoio. Immaginò che qualcuno era finalmente venuto a fargli visita, non poteva essere altrimenti. Era senz'altro sorpreso dopo tutte quelle settimane di silenzio, ma anche eccitato ed euforico, anche se riusciva a trattenersi dal farlo notare. Partì a chiedersi chi fosse lì per parlargli. Il primo nome che gli venne in mente fu Lestrade, neanche a dirlo, seguito da Mary e, perché no, il dottor Stamford. Gli sarebbe andato davvero bene chiunque, in ogni caso, vedere una faccia amica non poteva che fargli bene, scambiare qualche stupido convenevolo con qualcuno lo avrebbe aiutato davvero molto.

Ma il percorso che avevano intrapreso gli pareva di riconoscerlo, sembrava lo stesso che aveva fatto quando era stato portato lì, solo a ritroso. Non capiva, chi lo stava aspettando? E dove?

«Dove stiamo andando?» Trovò il coraggio di chiedere, la confusione batté a mani basse la paura di essere in qualche modo punito. E cos'altro potevano fargli, tra l'altro, quando gli avevano già tolto tutto? Le ore d'aria, il cibo, i quaderni, non erano niente se paragonati a tutto quello che aveva perso. Anzi, non erano degni neanche di esservi paragonati.

L'uomo, in ogni caso, non rispose, sguardo duro piantato in avanti. Lo sollecitò appena con una spintarella, esortandolo a muoversi più in fretta, a non fargli perdere altro tempo. Dopo pochi minuti, un'altra guardia li raggiunge, mettendogli malamente un fagotto tra le mani. John riconobbe subito i suoi effetti personali, quelli che gli avevano tolto prima di rinchiuderlo, e ciò gli seccò la bocca. Cosa significava tutto ciò? Era uno scherzo? Le guardie del carcere si annoiavano così tanto che, nei momenti più piatti della giornata, si mettevano a giocare brutti tiri agli occupanti? Guardò la sua roba e, in seguito, entrambi gli uomini, gli occhi spalancati e la fronte aggrottata. Quelli non parvero farci caso, il secondo arrivato lo afferrò per un braccio malamente e lo condusse verso – la riconobbe subito – l'uscita.

Ma John, inebedito e scemo, non si mosse. La porta principale del carcere era aperta, riusciva a vedere il cortile, le persone che si affrettavano a passare velocemente davanti a quel luogo buio, riusciva ad assaporare il caldo sole primaverile sulla pelle, ma non mosse comunque un passo. Perché? Perché proprio adesso? Settimane di silenzio avevano condotto a questo? Era davvero libero? Ma come era possibile? E Sherlock, era così anche per lui? Una cosa era certa, non intendeva mettere piede fuori dall'edificio se prima non fosse stato certo che la stessa sorte fosse capitata anche a Sherlock Holmes. Già avvertiva di non aver scontato appieno la sua punizione, non avrebbe sopportato di sapere l'uomo ancora in cella, al contrario suo.

«Cosa significa tutto questo?» Chiese ancora, sentiva le mani tremare sotto il fagotto che teneva stretto, sperò che l'uomo non lo notasse. Questo alzò gli occhi al cielo, infastidito.

«Senta, non la faccia troppo lunga. È libero di andare, le accuse sono cadute. Non so altro» gli spiegò malamente – quella seconda guardia era stata comunque più gentile della prima, doveva riconoscerlo. John riflettè sulle sue parole e sul significato che esse portavano. Le accuse erano cadute, questo non poteva che significare che, chiunque li avesse denunciati in primo luogo, aveva fatto un passo indietro, pentito e magari impietosito. Doveva essergliene grato, probabilmente, chiunque fosse. O forse no. Rimandò quella decisione a quando fosse stato un po' più lucido. C'era però un'altra questione: li avevano trovati a dormire nello stesso letto. Certo, erano, grazie a Dio, entrambi vestiti – Sherlock indossava addirittura, ancora, gli indumenti della giornata, John aveva memorizzato la sua immagine perfettamente - e questo li aveva senz'altro aiutati a smentire un determinato rapporto. Stavano solamente dormendo, agli occhi di un estraneo. Magari non si erano trovate troppe prove a favore della teoria di un rapporto o una relazione fra loro, non avevano potuto insistere su quel verso. Forse gli Holmes c'entravano in quella storia, dovevano aver per forza raccolto le testimonianze di tutta la casa per esserne certi e tutti, così pareva, dovevano averli coperti.

Le accuse erano cadute, si ripeté. Quindi anche Sherlock doveva essere tornato a casa, probabilmente lo stava aspettando fuori proprio in quel momento.

Fu quello a dargli la spinta che gli serviva. Camminò questa volta più sicuro, in ansia, in fretta. Non era così sciocco da credere che Sherlock fosse proprio lì ad accoglierlo, ma ogni minuto che perdeva a decidersi era un minuto perso prima di rivederlo. Sempre se gli Holmes gli avessero consentito di mettere di nuovo piede in casa, anche solo per pochi istanti. Non sapeva davvero cosa pensare, quando c'era in mezzo quella famiglia. I loro trascorsi non riuscivano ad aiutarlo a prevedere come si sarebbero comportati con lui. C'era la storia di Trevor da una parte, c'era quella del matrimonio poi, ma c'erano anche le parole di gratitudine del signor Holmes, proprio il giorno del suo arresto. Se avevano davverp testimoniato in suo favore, allora non dovevano incolparlo, ancora, per l'accaduto. Anche se forse avrebbero dovuto farlo.

Si domandò a quel punto se Sherlock stesso volesse vederlo, dopo aver passato tutti quei giorni recluso. Non gliene avrebbe fatto una colpa, in caso contrario. Non aveva forzato Sherlock, è vero, ma il suo padrone era stato il primo ad allontanarlo, quando si era spinto troppo oltre con quel bacio. Forse non era il caso si fasciarsi la testa prima del tempo però, avrebbe affrontato ciò che sarebbe venuto, avrebbe accettato ogni conseguenza delle sue decisioni e delle sue azioni.

«Signor Watson.»

Avvertì il cuore sprofondare prima di cominciare a battere all'impazzata, le gambe molli e pesanti, un'aria gelida improvvisamente dietro la schiena. Aveva riconosciuto subito la voce di Mycroft, ovviamente, voce che l'aveva raggiunto come un fulmine a ciel sereno. Voltò appena il capo, lento, per assicurarsi di non esserselo immaginato. Non sapeva spiegare cosa lo aveva messo così tanto in allarme, forse era il tono grave dell'uomo, o forse il fatto che fosse l'ultima persona che aveva pensato di vedere appena messo piede fuori dal carcere.

Eppure era lì, adesso gli veniva in contro, piano, senza fretta. Cercò di intuire qualcosa dal suo sguardo ma, come aveva imparato nell'ultimo anno, era praticamente impossibile decifrarlo.

«Signor Holmes» si sentì dire, senza rendersene davvero conto. «Cosa sta succedendo?» Domandò ancora, l'ignoranza lo stava divorando brutalmente. Mycroft non batté ciglio, limitandosi ad indicare la carrozza alle loro spalle con un cenno del capo. John la osservò subito di rimando, vide entrambi gli sportelli chiusi, cercò di capire se Sherlock era lì dentro, se lo stava aspettando cercando di non farsi vedere per non destare troppi sospetti. Si alzò lentamente, sperava di non farsi notare da Mycroft, sulle punte dei piedi, ma non gli sembrava che ci fosse qualcun altro nella carrozza. Sospirò amareggiato, ma d'altra parte cosa poteva aspettarsi di più?

«Le spiegherò tutto più tardi» pronunciò l'uomo svelto, mentre cominciava ad avviarsi verso il veicolo.

John non scattò subito, non lo seguì a comando, rimase indietro, sospetto e confuso. C'era qualcosa che non gli quadrava, ma non avrebbe saputo dire di cosa si trattava realmente. Mycroft si accorse di non essere seguito, puntò i piedi e voltò il capo, gli lanciò un'occhiata impaziente e gli indicò, nuovamente, il mezzo.

«Sherlock è a casa?» Non poté, ancora, trattenersi dal chiederlo. Sapeva che era rischioso per l'uomo farsi vedere ad aspettarlo fuori dal carcere, ma conosceva Sherlock e sapeva che avrebbe saputo come trovare il modo per presentarsi senza dare nell'occhio. Era un asso del travestimento, lo aveva imparato a sue spese e, per questo, non riusciva a non fermarsi dal studiare tutte le persone che gli passavano intorno.

«Le ho detto che le spiegherò tutto più tardi» ripeté, Mycroft, gelido «non mi piace ripetermi, signor Watson, la prego di seguirmi adesso. Non ho tempo da perdere con queste stupidaggini» John aggrottò la fronte, offeso, ma non replicò. Serrò la mascella e si morse la lingua, cominciando ad andargli dietro. Ovviamente, la carrozza era vuota.

Il viaggio si rivelò insolitamente lungo e snervante. Mycroft non gli rivolgeva parola e a malapena pareva ricordarsi della sua presenza. Di tanto in tanto lo osservava, lo trovava sempre pensieroso con lo sguardo rivolto verso un paesaggio che però non riusciva a godersi. Non sapeva decidere se quella luce diversa nei suoi occhi, celasse preoccupazione, rammarico o colpevolezza. O magari qualche altro sentimento che, però, dubitava che avesse mai toccato quell'uomo di ghiaccio. Cercò di concentrarsi lui stesso su quello che il finestrino gli dava la possibilità di osservare, non riuscendo, come prevedibile, a liberare la mente dai suoi pensieri.

Si domandava perché era venuto proprio lui a prenderlo. Poteva delegare benissimo qualcun altro, anche l'ultimo arrivato nella servitù, sarebbe andato bene, e invece no, si era mobilitato addirittura Mycroft Holmes in persona. A circa metà strada gli venne il sospetto che non erano diretti a casa, ma in tutt'altro posto, e fu assalito dal panico.

«Dove stiamo andando?» Chiese, tossicchiando appena un po' di tensione dietro al pugno chiuso. Mycroft parve non sentirlo, o forse stava semplicemente evitando la domanda, ciò non faceva altro che aumentare la sua ansia. «Signor Holmes?» Lo chiamò, alzando leggermente la voce. Niente, a malapena intercettò un battito di ciglia. «Mycroft

«Si calmi, per l'amor del cielo» sbadigliò l'uomo, che comunque non osò degnarlo di uno sguardo «è stato rinchiuso fra quattro mura per tre settimane e mezzo, si goda la ritrovata libertà e faccia silenzio – sto lavorando

Non replicò chiedendogli in che modo stesse lavorando, capì che era meglio starsene zitto e contenere quella rabbia che sentiva crescergli in fondo allo stomaco. Riconobbe ben presto la strada che aveva intrapreso all'incirca un anno prima e che lo aveva portato dritto a casa Holmes, senza un soldo né vere e proprie speranze, e questo lo fece tranquillizzare e lo aiutò a rilassarsi lungo il tragitto che era rimasto loro.

Chiuse appena gli occhi, respirò a pieni polmoni, per la prima volta in quella giornata, più sereno.

Ci vollero un'altra decina di minuti prima di intravedere la dimora, in lontananza, e altrettanto tempo prima di raggiungerla. Appena arrivati, John non poté far a meno di spalancare la bocca, vedendo come tutta la servitù stesse uscendo fuori, probabilmente, per salutarlo. C'erano tutti, come poté notare mentre la carrozza si fermava, perfino i camerieri più giovani con cui aveva scambiato davvero poche parole. Non sapendo bene come affrontarli, lasciò andare avanti Mycroft, nella speranza che ristabilisse l'ordine e mandasse tutti dentro a svolgere le proprie mansioni. E invece Mycroft non disse nulla, passò avanti lanciandosi un'occhiata veloce con Lestrade, come se volesse comunicargli qualcosa, e poi andò dentro. A questo punto, a John non rimaneva altra alternativa che lasciarsi abbracciare, per esempio, prima da una Mrs Hudson in leggere lacrime di commozione, e poi da Mary, che lo tenne stretto il tempo di sussurrargli un «Mi dispiace di non essere mai venuta a farle visita, non ce lo hanno permesso.» E questo non fece altro che confermargli quelli che erano stati i suoi pensieri, in carcere: la famiglia Holmes aveva impedito che chiunque di loro andasse a trovarlo. Ma perché riportarlo a casa, allora, se preferiva prendere le distanze da lui?

Anche se, ora che li vedeva tutti insieme, e stringeva la mano di Molly e perfino quella della Donovan che, strano ma vero, sembrava sinceramente rammaricata dalla sua situazione, si disse che forse era stato meglio così, non avrebbe sopportato, in effetti, sapere che chiunque dei suoi amici lo avesse visto in quelle condizioni disperate. Per questo quando Lestrade si fece avanti, per ultimo, amareggiato e sul punto di dirgli qualcosa, riuscì a fermarlo e a mormorare «Non fa niente.» Lestrade capì il senso delle sue parole, gli diede una pacca sulla spalla e gli sorrise felice di rivederlo, prima però di tornare serio e prenderlo da parte.

«Il signor Holmes vuole parlarle in biblioteca» lo informò, indicandogli l'entrata della casa con un gesto del capo. John si voltò, notando come Mycroft fosse rimasto lì tutto il tempo, ad aspettare in disparte.

Lo raggiunse allora, con Greg alle proprie spalle. «Preferirei vedere Sherlock, prima» affermò «solo... solo un minuto» aggiunse poi, supplichevole. Ora che si ritrovavano entrambi sotto lo stesso tetto, l'impazienza di vederlo aveva quasi raggiunto le stelle.

«In biblioteca» lo rimproverò aspramente Mycroft, nonostante tutto, senza voltarsi e continuando a salire le scale con passo imperterrito. John lo fulminò con lo sguardo, serrando i pugni; analizzò l'idea di allontanarsi comunque e di dirigersi verso la camera di Sherlock, ma poi il pensiero che l'Holmes che volesse parlargli in biblioteca fosse proprio lui lo fulminò sul colpo. Era ovvio, si disse. Non poteva aspettarlo fuori insieme alla servitù, non potevano dare spettacolo in pubblico, così come non poteva farsi raggiungere nelle sue camere – non sapevano ancora chi li aveva denunciati, o almeno John non lo sapeva, e quindi non potevano rischiare. In biblioteca, invece, poteva apparire come un incontro formale. Sperava almeno che Mycroft avesse la decenza di lasciarli soli per un po'.

Peccato però che, sì, c'era un Holmes ad aspettarli, ma, no, non si trattava affatto di Sherlock. Il signor Holmes in persona li aspettava, seduto su una delle varie poltrone presenti nella stanza, mentre occupava il tempo a studiare carte legate, probabilmente, all'economia della tenuta. Appena li vide arrivare, mise via tutto e si rizzò in piedi.

«Signor Watson» lo salutò, con voce neutra; non gli porse la mano, non aggiunse parole di bentornato, non gli chiese come se la passava. Si limitò a fissarlo, in silenzio, questo lo fece sentire un po' in imbarazzo.

«Signor Holmes» pronunciò lui, un po' smarrito. Osservò Mycroft mentre entrava anche lui nella stanza e poi Lestrade che seguiva il padrone e si chiudeva la porta alle spalle. Tornò a guardare così il capo famiglia «Non credo di capire cosa stia succedendo» buttò fuori, anche se pensava che fosse abbastanza ovvio quel fatto, soprattutto a due menti geniali come quelle degli Holmes.

«Mycroft non le ha detto niente, allora» mormorò l'uomo, lanciando un'occhiata al figlio maggiore, che non sembrava affatto sentirlo «be', direi che sia meglio mettersi comodi, tanto per cominciare, sarà più facile» aggiunse subito, tornando al suo posto sulla poltrona, imitato dal figlio; Lestrade, invece, rimase in disparte, in piedi sulla porta, come una presenza spettrale che aveva il compito di vegliare su quel particolare incontro. John rimase in piedi ancora per qualche secondo, entrambi gli Holmes lo osservarono in attesa facendolo sentire, non si sa come, in trappola. Si sedette su un'altra poltrona ed aspettò. Il signor Holmes si schiarì la voce «Bene, signor Watson, andrò dritto al punto. Ci siamo assicurati che le sue stanze rimanessero in ordine, come le aveva lasciate. Abbiamo ancora i suoi effetti personali, non sono stati toccati, glielo garantisco. Le suggerisco di darsi una ripulita – ne sentirà il bisogno, sicuramente, Lestrade le porterà qualcosa di più sostanzioso di quello che avrà mangiato fino ad ora, e poi si riposi, non vedrà l'ora immagino» si trattenne dal dire che l'unica cosa di cui sentiva bisogno era quella di ricongiungersi con Sherlock, rimase zitto ed aspettò la sentenza di morte che si aspettava, ora era quasi curioso «Quando avrà recuperato le forze, qualcuno l'accompagnerà a casa.»

John si ritrovò, a malincuore, a strabuzzare gli occhi. Si era ripromesso di rimanere composto, qualunque cosa avesse sentito, ma questa lo lasciò perplesso. Lo avrebbero portato a casa? Ma quella era casa sua, lì, insieme a Sherlock. «A casa?» Ripeté, quindi, irritato. Beh, certo. Se lo era aspettato, comunque, per settimane aveva visto come quella famiglia avesse tenuto tutti lontano da lui, non doveva essere così stupito. Anche se, continuava a non capire per quale motivo lo avevano portato prima lì. «Va bene» affermò, eventualmente, poco dopo – Mycroft e suo padre sembravano avergli concesso il tempo di incassare il colpo «ma prima ho bisogno di scambiare qualche parola con Sherlock. Voglio solo vedere come sta, voglio – non può essere d'accordo con questa decisione!» Esclamò, più rivolto a se stesso che ai due uomini. Perché non gli era venuto in contro? Ed era a conoscenza dei piani di suo padre e di suo fratello?

«Non credo che sarà possibile, questo» affermò Mycroft, nascondendo la sua voce dietro un finto colpo di tosse. John lo guardò torvo.

«Non lo starete mica tenendo segregato in camera sua, vero?» Ne sarebbero stati capaci? Non avrebbe saputo dirlo. «È almeno a conoscenza di questa vostra idea?»

«John» Holmes lo richiamò alla calma, con voce grave «Sherlock è d'accordo con noi, è stata una sua idea.»

«No» biascicò. Di certo non avrebbe mai creduto a tanto. A meno che... a meno che Sherlock non avesse pensato a tutto questo esclusivamente per tenerlo al sicuro, lontano da lui. Era un ragionamento plausibile, considerato quello che aveva architettato più di un mese prima, scappando nella sua luna di miele. «No» continuò a dire, nonostante quella realtà che lo logorava.

«Signor Watson, se ci lasciasse spiegare» John guardò il suo ex datore di lavoro con sguardo truce, mosse appena il capo per invitarlo a parlare. Era in ascolto. «Per prima cosa, la casa. Parliamo di un appartamento nel cuore di Londra, forse si rivelerà troppo grande per una persona sola, ma sono certo che saprà come riempire lo spazio lasciato vuoto–»

«Io – io non credo di potermi permettere un appartamento in piena Londra, signore. Con tutto il rispetto, ma con il vostro stipendio messo da parte potrei arrivare a pagarne l'affitto giusto per qualche mese.»

Il signor Holmes alzò gli occhi al cielo, Mycroft sbuffò appena e guardò verso Lestrade, scocciato – John non poté vedere l'espressione sul viso del maggiordomo. «Le abbiamo detto di lasciarci finire di parlare» lo rimproverarono, neanche fosse un bambino. «Abbiamo pensato a tutto noi, la casa è sua, intestata a lei. Lo prenda come un regalo.»

«Un regalo» non poté trattenersi dal fargli da eco. Un regalo oppure un accordo a tenersi alla larga dal figlio? «E dietro a tutto questo, c'è Sherlock?»

«Mycroft le spiegherà tutto, adesso vogliate scusarmi, ma ho delle faccende importanti di cui occuparmi» il signore invitò il figlio a prendere la parola, prima di alzarsi in piedi e congedarsi in fretta e furia. Mycroft ebbe giusto il tempo di fulminarlo con lo sguardo, un'occhiata di fuoco spaventosa, che avrebbe fatto rabbrividire qualsiasi altro membro della servitù.

«Signor Watson» cominciò a dire, gli occhietti maligni ancora fissi sulla porta che il padre si era chiuso alle spalle. Tornò a rivolgergli uno sguardo gelido, e continuò a parlare con cautela. «La prego di mantenere la calma, le assicuro che la situazione è sotto controllo» John lo fissò allarmato, un campanello di allarme era scattato nel suo cervello, un campanello che gli diceva che forse Sherlock non stava bene, forse era costretto a letto, forse – «Sherlock si trova ancora in carcere.»

«Come sarebbe a dire?!» Esclamò a voce alta, scattando improvvisamente in piedi. Mycroft, nonostante tutto, non batté ciglio.

«Stia calmo, Watson, non glielo ripeterò un'altra volta» fece l'altro, glaciale; John, comunque, non mosse un muscolo: stava cercando di non mettersi ad urlare, doveva ringraziarlo per non essere esploso. «È stata una richiesta dello stesso Sherlock, ha pensato ad ogni dettaglio per tirarla fuori da lì, quindi cerchi di mostrarsi riconoscente.»

«Riconoscente? Sta scherzando, spero» sbottò ancora «dovrei essere felice? Suo fratello ha pensato a tutto per farmi uscire, d'accordo, e per quanto riguarda la sua, di libertà? Non siete riusciti ad architettare niente?!»

Le parole colpirono Mycroft come schiaffi, ma non lo diede a vedere. «Ci stiamo lavorando» pronunciò, piano «Sherlock mi ha chiesto di dirle che deve fidarsi di lui, che presto sarà fuori» John sbatté le palpebre.

«Quando? Come?!» Domandò, gesticolando vivacemente. Non gli diede tempo di rispondergli, fulminato all'improvviso da un'altra terribile verità «Tutto questo tempo, in solitudine, nessuna visita... È per questo, vero?»

«Era necessario che lei non sospettasse nulla, o non sarebbe mai stato d'accordo ed avrebbe mandato a monte tutto.»

«Certo che non sarei stato d'accordo, maledizione! È della vita di Sherlock che stiamo parlando, non potrei mai condannarlo a questo destino» cosa che, però, anche se indirettamente, aveva fatto. Non si sarebbe mai perdonato, così come non avrebbe perdonato nessuno in quella famiglia per questo, incluso Sherlock, che continuava a tenerlo fuori da tutto. «Perché sono fuori? Perché le accuse sono cadute?» Chiese, la voce bassa, timorosa.

Mycroft si prese qualche secondo, valutò se potesse reggere il peso di un'ulteriore verità. Alla fine, si decise a parlare. «Ha raccontato di come la obbligasse, sotto ricatto talvolta, a soddisfare ogni suo capriccio, anche il più malsano. Lei è la vittima del padrone perverso, Watson, qualcuno, nella giuria, l'ha presa come martire battendosi fortemente contro i più maligni che continuavano a volerla dentro, nonostante la confessione. Ha parlato del suo vecchio rapporto con Victor Trevor, di come, vigliacco, avesse fatto ricadere tutta la colpa su di lui, e di come si fosse stancato di nascondersi, dopo tutti questi anni. È stato interrogato più volte in queste settimane, si aspettavano di vedergli commettere degli errori forse, per questo c'è voluto un po'.»

Quel turbine di parole gli diede alla nausea. Indietreggiò appena, cercò a tentoni il bracciolo della poltrona che si era lasciato alle spalle e, non appena la sua mano sinistra ne ebbe sfiorato la superficie, vi si abbandonò, crollandovi seduto di colpo. Gli veniva da vomitare, cercò di ricordare quando fosse stata l'ultima volta che aveva mandato giù del cibo e si domandò se corresse davvero il rischio di rovinare il costoso tappeto su cui poggiava i piedi con i rimasugli della sua colazione. Si prese la testa fra la mano destra, aveva cominciato a girargli e lui continuava a sentirsi sempre più confuso. «Non è possibile» riuscì a mormorare, forse a se stesso. Mycroft lo lasciò in pace, ma non gli tolse gli occhi di dosso neanche per un istante; John, tuttavia, non se ne rese conto. «E voi» pronunciò, alla fine «voi tutti siete rimasti a guardarlo mentre si rovinava con le sue stesse mani?!»

Ancora una volta, Mycroft valutò se fosse il caso di vuotare il sacco tutto in una volta, o se fosse meglio aspettare. Quando cominciò a scorgere l'impazienza negli occhi dell'ex valletto, decise per la prima opzione. «Non ce ne siamo rimasti in disparte, Sherlock ci ha chiesto di giocare la nostra parte.»

John spalancò la bocca «Quanti?» Domandò soltanto.

«Io, i miei genitori, ovviamente Irene – lei è stata fondamentale, e Gregory, il più vicino sia a Sherlock che a lei» rispose pacato, guardando velocemente il maggiordomo da oltre la spalla di Watson, sperando di non averlo messo nei guai. John provò il forte istinto di ucciderli tutti, seduta stante, con le sue mani. Serrò i pugni, lo sguardo omicida fisso su quello del fratello maggiore di Sherlock. Alla fine, proprio il pensiero dell'uomo, lo fece desistere, calmare, sprofondare nello sconforto.

Si prese la testa con entrambe le mani ed abbassò il capo «Non dovevate lasciarglielo fare» disse, la voce spezzata.

«Mi creda» pronunciò Mycroft «sono del suo stesso avviso, ma lei conosce Sherlock, sa che è impossibile dissuaderlo anche dall'idea più folle.»

Lo sentì parlare ma non ascoltò davvero quello che disse – e, francamente, ormai non gli importava più niente di quello che aveva da dire. Continuava a tenere lo sguardo basso, si sentiva sfinito, le poche ore di sonno accumulate negli ultimi tempi si stavano facendo sentire e non contribuivano al suo stato d'animo. Sapeva che per quanto Mycroft potesse essere preoccupato per la sorte del fratello, non poteva capirla fino in fondo. Non era mai stato dall'altra parte delle sbarre, non aveva avuto su di sé lo sguardo disgustato di guardie e prigionieri, non aveva sentito quello che dicevano alle sue spalle. Stando a quanto gli avevano raccontato, i due anni di reclusione avevano distrutto Victor Trevor, e ora John non faceva fatica a comprendere perché. Sherlock aveva sicuramente voluto evitargli una sorte del genere, ma per quanto riguardava la sua, di sorte? Chi si sarebbe preso cura di lui? Chi lo avrebbe protetto? Si sentiva così impotente.

«Segua il consiglio di mio padre, John» Mycroft pronunciò il suo nome con un innaturale tono fraterno «vada a riposare per qualche ora, sarà distrutto.»

L'uomo annuì, pur sapendo che in realtà non avrebbe potuto chiudere occhio. Si alzò dalla poltrona con fatica e si diresse verso la porta; si fermò a pochi passi da Lestrade che era rimasto in silenzio e in disparte per tutto il tempo, parve pensarci un attimo, dopodiché si voltò di nuovo verso Holmes. «Perché state facendo tutto questo per me?» Domandò, in un sussurro. «Non può essere solo per Sherlock.»

Mycroft sospirò «I miei genitori si sentono come in debito nei suoi confronti» gli rispose. John aggrottò le ciglia: lo avevano tirato fuori dalla prigione, era stato riaccolto, in qualche modo, in famiglia, gli avevano assicurato un posto in cui vivere, esclusivamente perché un mese prima aveva salvato la vita del figlio? Holmes parve leggergli nel pensiero e decise di scoprire tutte le carte in tavola una volta per tutte. «È stata Eurus a denunciarvi, John» affermò, grave.

John, sorprendentemente, non rimase particolarmente colpito da quell'informazione. Una parte di lui forse ne era già a conoscenza, non avendo dimenticato l'occhiata di veleno che quella ragazza gli aveva lanciato quella notte. «Sherlock lo sa?» Chiese, però, gli serviva quell'ulteriore conferma.

Mycroft si limitò ad annuire «Lo ha capito subito, prima ancora di me.»

Anche John annuì, tipico di Sherlock, avrebbe voluto dire, se si fosse ricordato come si parlava. Si girò alla fine e, finalmente, si trascinò verso la sua vecchia camera, per utilizzare quelle poche ore di riposo per fare il punto della situazione e mettere in ordine i suoi pensieri.


Lestrade si era assicurato che nessuno lo disturbasse, non per tenerlo isolato, questa volta, ma con il semplice e premuroso intento di lasciarlo riposare. John gliene fu grato, ma di certo non chiuse occhio per le ore che seguirono, più che altro cercò di rilassarsi in qualche modo, steso sul suo vecchio letto ad ascoltare i rumori che caratterizzavano la casa: i passi dei domestici che correvano da una parte all'altra, indaffarati a preparare la cena o a soddisfare i capricci dei padroni, erano quelli che risaltavano di più, ma più che infastidirlo lo tranquillizzavano. Era quasi rassicurante, essere ritornato in quella dimora, anche se soltanto per qualche ora, dove si era sentito parte di una famiglia dopo parecchi anni. Non gli dispiaceva abbandonarla, però, senza Sherlock non aveva senso e si sarebbe sentito come un pesce fuor d'acqua.

Ovviamente fu soprattutto il pensiero dell'uomo a tenerlo sveglio, soprattutto perché non sapeva niente della sua attuale situazione, Mycroft gli aveva spiegato le faccende pratiche, ma per il resto non aveva saputo dirgli nulla. O non aveva voluto. Sherlock si trovava dietro le sbarre, proprio in quel momento; come stava? Come aveva passato quelle settimane? Aveva ricevuto molte visite, Mycroft si recava da lui ogni giorno, oppure anche lui si era sentito isolato nella maggior parte del tempo? C'era qualcuno a dividere la sua cella? Se così fosse stato, povero il diavolo che avesse avuto a che fare con Sherlock Holmes, si disse, l'uomo era capace di far impazzire tutti nel giro di pochi minuti. Quel pensiero, in qualche assurdo modo, lo fece sorridere.

Non riusciva a realizzare come l'uomo si fosse sacrificato affinché lui, John, riavesse la sua vita indietro. Strani sentimenti si accavallavano dentro di lui, avrebbe voluto mettergli le mani intorno al collo al momento, e un attimo dopo eccolo a desiderare di baciarlo fino a terminare ogni traccia di ossigeno. Era una dimostrazione d'amore, quella di Sherlock? John cercava di non pensare a quella parola se poteva. Non glielo aveva mai detto, eppure di occasioni ce n'erano state – Sherlock aveva sempre trovato il modo di interrompere ogni confessione. Non gliene aveva mai fatto una colpa, o non ci aveva mai dato troppa importanza, però, perché sapeva che dopo quello che gli era successo in passato, aprire il suo cuore o parlare di sentimenti non fosse il suo forte. E poi, a John non importavano molto le parole, quanto i fatti, i gesti, le reazioni che provocava in Sherlock.

Si domandò quando avrebbe potuto rivederlo, se davvero avrebbero dovuto aspettare due anni. Nessuno gli impediva di andare a trovarlo, certo, ma sapeva che fargli anche solo una singola visita avrebbe smontato tutto il piano dei fratelli Holmes, e tutto quello che Sherlock aveva fatto per lui non sarebbe servito a niente. Ma in qualche modo dovevano riuscire a comunicare, o sentiva che sarebbe impazzito. Poteva fargli arrivare delle lettere, magari anonime, magari in codice – certamente si sarebbe divertito a decifrarle. Sì, potevano riuscire a parlarsi così, avrebbe fatto bene ad entrambi.

Momentaneamente risollevato, si alzò dal letto dirigendosi alla scrivania dove era stata poggiata quella che sarebbe dovuta essere la sua cena, ormai fredda da un pezzo. Ingoiò comunque qualche boccone e bevve un bicchiere di vino che gli diede di nuovo un leggero colorito sul volto. Si prese del tempo per darsi una ripulita e poi si vestì, proprio quando, quasi in simultanea, avvertì un bussare timido alla sua porta.

Era Lestrade.

«È pronto ad andare?» Gli domandò, dopo che lo ebbe invitato ad entrare. John annuì con il capo, aggiungendo come lui stesso stesse per scendere a cercarlo: non aveva senso ritardare ancora l'inevitabile. Preferiva partire in quel modo, senza salutare nessuno, senza dare spiegazioni a nessuno – in realtà non sapeva se il resto della servitù era al corrente di quello che stava succedendo, ma non aveva molta importanza ora. Prese le sue cose e seguì Lestrade nella carrozza che li stava già aspettando davanti casa; nessuno degli Holmes era sceso a verificare che se ne stesse andando – non si aspettava di certo parole di addio da parte loro.

Durante il viaggio, Lestrade provò ad intavolare un discorso: insinuò che non fosse cambiato niente durante il suo periodo di assenza, che era stato difficile convincere Mrs Hudson a non presentarsi in carcere e che ogni giorno era stata una vera e propria lotta per impedirglielo, che la Signora Anderson aveva finalmente scoperto della relazione tra il marito e la Donovan e che, lo lasciò per ultimo probabilmente di proposito, Eurus era stata cacciata di casa e mandata a vivere da dei parenti in Svizzera – tuttavia la sua dipartita era stata spacciata per una vacanza. John non replicò a nessuno di quei discorsi, non ne aveva voglia e, francamente, preferiva lasciarsi dietro la sua vita come valletto, la sua vita con quelle persone, il prima possibile, sarebbe stato meno sofferente.

Arrivarono a destinazione prima che se ne accorgesse; Lestrade gli scosse appena la spalla, vedendolo sovrappensiero e gli indicò la fila di appartamenti di Baker Street che si apprestavano a raggiungere.

Seguì l'uomo in silenzio, lo vide tirare fuori delle chiavi ed aprire il portone dell'appartamento subito alla destra di un cafè «È abbastanza frequentato durante il giorno» gli spiegò, notando il suo sguardo «conosco i proprietari da una vita, sono delle brave persone, riservate; abitano proprio qui davanti» John annuì ma, ancora, non replicò, non sapendo davvero cosa aggiungere. «L'appartamento è al piano superiore» continuò Lestrade, prima di indicare una porta vicino alle scale «la padrona di casa abita qui, Mrs Turner (3): l'ho incontrata soltanto due volte ma mi è sembrata una donna gentile e disponibile, ricorda un po' la nostra Mrs Hudson.»

Salirono, quindi, al primo piano, la porta era già aperta e Lestrade si fermò sulla soglia per farlo andare avanti. John entrò in casa e subito rimase di sasso; Poteva osservare solamente il salotto dalla posizione in cui si trovava, ma subito capì che quella casa era certamente troppo grande per un uomo solo. Tuttavia avanzò provando a guardarsi intorno: il salotto era ampio, come già detto: quasi del tutto spoglio, vi si trovavano un divano lungo la parete, un tavolino proprio davanti ed una scrivania accanto ad una delle finestre; un caminetto privo del minimo strato di cenere che non doveva essere acceso da un bel po', una libreria totalmente vuota e due poltrone nel centro della stanza, una difronte all'altra. La cucina, come notò avanzando ancora, era piccola rispetto al resto, ma accogliente. Un piccolo corridoio mostrava altre due camere, quelle che, presumeva, fossero la camera da letto e il bagno.

«Come le sembra?» Domandò Lestrade, andandogli dietro «La camera da letto è spaziosa, ma priva della maggior parte dei mobili per il momento – il signor Mycroft vuole che lei sappia che si assumerà lui stesso tutte le spese per l'arredo, non deve fare altro che sceglierne uno.»

«Non ce ne sarà bisogno» mormorò John, che si sentiva soffocare ogni volta che pensava a quello che i signori Holmes stavano facendo «pagherò io, almeno i mobili, non sarà una grande spesa.»

«Il signor Mycroft immaginava che lo avrebbe detto» sorrise l'altro «ma insiste, e non ha intenzione di cambiare idea» John sospirò, riusciva perfettamente ad immaginare il tono autoritario del suo ex padrone, perfino Sherlock non poteva fare altro che ubbidire, almeno la maggior parte delle volte, quando lo tirava fuori. «Ah, anche il piano di sopra le appartiene» si ricordò il maggiordomo «non è molto grande, solamente un'altra stanza. È completamente vuota, il signor Mycroft ha pensato che fosse lei a scegliere cosa farne.»

«No» affermò prima che se ne rendesse conto «voglio dire, non ne ho bisogno, questa casa è già abbastanza grande, non mi serve un'altra stanza.»

Lestrade lo guardò comprensivo «Beh, è sua, in ogni caso, è libero di scegliere di lasciarla vuota.» Watson annuì, girandosi a dare un'altra occhiata a ciò che lo circondava: non riusciva davvero ad immaginarsi a vivere lì dentro, non da solo, non dopo tutto quello che aveva passato. «Non mi ha ancora detto se le piace, John. Sa, l'ha scelta il Signor Mycroft personalmente, e non è stato facile trovarne una che lo aggradasse, mi creda. Avremmo visto una dozzina di appartamenti, in queste settimane: alcuni erano troppo piccoli, altri avevano un vicinato rumoroso, altri si trovavano troppo fuori dalla città, uno era troppo freddo, in un altro non gli piaceva la luce che penetrava dalle finestre. Non lo avevo mai visto in quel modo» provò ad accennare una risata, ma l'altro non gli diede molta corda «alla fine, Baker Street gli è parsa perfetta. E non è stato semplice assicurarsela, dico davvero, erano in parecchi a trattare per averla.»

John lo guardò stranito, Greg capì di aver detto troppo. Non poteva credere che Mycroft si fosse scomodato tanto, temeva che le condizioni di Sherlock fossero peggio di quanto immaginava se suo fratello si era fatto in quattro per soddisfare quel suo insano desiderio. «Ci sono da sistemare un po' di cose, ma mi piace» rispose, comunque, sorridendo appena «solo che – solo che continua a sembrarmi troppo grande» ribadì, forse più a se stesso.

«Sono certo che se il signor Mycroft ha scelto proprio questo appartamento, avrà avuto i suoi motivi» sentenziò l'altro, cercando di trasmettergli un po' di fiducia.

John annuì, prima di fronteggiarlo e guardarlo serio. «È mai andato a fargli visita?» Gli chiese, di getto. Lestrade impallidì, aprì e richiuse la bocca tre volte, come se non sapesse se fosse il caso di rispondere o meno.

«Sì,» disse, alla fine «ma soltanto due volte.»

Un brivido percorse la schiena di Watson «E» cominciò a dire, prima di fermarsi per pochi secondi «come ti è sembrato?»

Ancora una volta, Greg parve non sapere bene quale strada percorrere. Prese tempo, andò ad affacciarsi alla finestra più vicina, le mani dietro la schiena. «Provato» sentenziò «ma mi è sembrato il solito Sherlock» aggiunse, tornando a guardarlo «è la persona più forte che io abbia mai conosciuto, del resto.»

Si sentì come colpito da un fulmine. Avrebbe voluto dirgli che, no, Sherlock non era così forte come amava farsi credere; lui non lo aveva visto per come era davvero, nessuno aveva potuto andare oltre quel muro che aveva innalzato per proteggersi, nessuno lo aveva visto nei suoi momenti peggiori, nessuno aveva potuto osservare le sue debolezze, anche le più piccole. Non ce l'avrebbe fatta, da solo. «Certamente» ribadì, comunque, cercando di farsi vedere appena appena convinto di ciò che stava affermando.

Lestrade annuì appena, poi guardò l'orologio da taschino «È meglio che vada, ora» John alzò appena le spalle e lo accompagnò alla porta, sentendosi incredibilmente goffo nel farlo. Greg fece per uscire, ma restò fermo ed esitò per qualche secondo, prima di voltarsi «John, davvero, mi dispiace tanto di averla lasciata solo.»

John sospirò sonoramente, i giorni passati in reclusione improvvisamente sembravano pesargli tutti sulle spalle, ancora una volta. Si domandò se quella sensazione lo avrebbe mai lasciato troppo presto. «È tutto okay» mormorò «non deve preoccuparsi di questo, capisco che non è stata colpa sua. Di nessuno di voi.»

L'uomo parve leggermente più rilassato, o così almeno voleva sembrare. Prima di andarsene gli raccomandò di riposare, poi gli consegnò le chiavi di quella che sarebbe stata la sua casa, probabilmente per il resto della sua vita.


*


Non gli ci volle molto ad ambientarsi - ma d'altra parte veniva da quasi un mese di reclusione in un carcere, quindi tutto quello che sarebbe venuto dopo sarebbe stato oro dal suo punto di vista - ma non riusciva a sentirsi pienamente sereno, e tutto per colpa, ancora, della solitudine. Questa volta nessuno lo lasciò solo, riceveva parecchie visite dei suoi ex colleghi di lavoro, almeno una persona al giorno da quando si era trasferito: Mary, Molly, Lestrade e tutti gli altri con qui aveva più o meno legato, sembravano alternarsi per arrivare fino a Londra, spesso con un cestino pieno di cibarie, a vedere come stava. Era molto felice di poter mantenere i contatti con loro, così come era contento di vederli arrivare, ma il problema era, può sembrare scontato, vederli andare via.

La casa era silenziosa, Mrs Turner saliva spesso a controllare le sue condizioni ma non si fermava troppo per non disturbare. E allora John leggeva, libri, giornali, i suoi stessi diari - che continuava a tenere - qualunque cosa, purché gli impegnasse la mente. Ben presto capì che, se Mycroft aveva scelto proprio quella casa, per lui, non poteva che trattarsi di un velato invito a cercare una compagna e mettere su famiglia. Non c'era altra spiegazione: si aspettava che ben presto ci sarebbe stato qualcun altro, lì con lui, peccato che John non aveva la minima intenzione di trovare moglie. Non fino a quando Sherlock si trovava in prigione e, francamente, neanche dopo.

Dubitava che sarebbe mai riuscito a farsi una vita con qualcuno che non fosse lui.

Per il resto, non usciva molto di casa. Si concedeva un paio d'ore di passeggiata all'incirca una volta ogni tre giorni. Solitamente si fermava a comprare nuovi libri e, ovviamente, cose da mangiare, ma cercava di non dare troppa confidenza a nessuno, anche se, come gli aveva detto Greg, il quartiere era tranquillo e affabile, nessuno aveva osato ficcare il naso nei suoi affari da quando era arrivato, anzi, nessuno sembrava anche solo lontanamente interessanto a farlo. Il che lo lasciava indifferente.

Aveva anche iniziato a cercare lavoro, o meglio, teneva d'occhio le inserzioni sul giornale, alla ricerca di qualcosa che facesse al caso suo, ma per il momento non era riuscito a trovare nulla che lo esaltasse. Non se ne crucciava troppo, comunque. Non quando aveva ben altre cose più importanti di cui preoccuparsi.

«La signora Holmes è riuscita a far perdere la pazienza a Mrs Hudson» esordì Mary, accaldata, mentre si toglieva il cappello che sfoggiava sempre nel suo giorno di riposo, e glielo passava così che potesse andare a metterlo a posto «riesce a crederci? Mrs Hudson che perde le staffe, e davanti a tutti noi! Perfino il signor Lestrade non sapeva come intervenire.»

Sembrava parecchio divertita, così John la assecondò, incurvando appena gli angoli della bocca. «Faccio fatica a immaginarla, onestamente.»

Mary capì subito come stesse cercando di non smontarle l'entusiamo, le bastò un'occhiata per rendersi conto di come la mente di John non fosse lì con lei al momento. Sorrise appena, comprensiva «Si è messa a cucinare, per calmarsi» pronunciò, con un tono di voce più dolce del solito che doveva aver usato più volte nel suo passato da infermiera «Mrs Anderson non era molto contenta di doverle lasciare i fornelli, ma quando ha assaggiato i suoi biscotti ha smesso di fare troppe storie. Gliene ha mandati un po', voleva venire a portarglieli di persona, in realtà, ma ci sono ospiti arrivati all'ultimo minuto e doveva restare ad occuparsi della casa» spiegò velocemente, mentre cominciava a sistemare i biscotti sul tavolo e si apprestava ad andare a preparare del té.

«Non deve farlo per forza» fece John, andandole dietro e osservandola mentre si muoveva da una parte all'altra.

«John, senza offesa, ma lei non è molto portato per la cucina. Per il mio bene, mi lasci preparare, almeno per questa volta» replicò lei, senza voltarsi a guardarlo, troppo indaffarata, forse. John cominciò a sentirsi inutile, però, così cominciò a dare una sistemata al salotto, che era disseminato da libri mai riposti. Aprì poi le finestre in modo che potesse entrare un po' d'aria - il caldo estivo cominciava a farsi sentire, e aiutò la donna almeno a portare le due tazze.

Si sederono entrambi e mangiarono i biscotti della signora Hudson in silenzio, entrambi troppo occupati a pensare a cose diverse che però riguardavano la stessa persona, per poter proferire parola.

Alla fine, dopo aver aspettato che anche Mary finisse di bere il suo té, John assunse un'aria serie ed uscì dal suo mutismo. «Come sta?» Domandò, senza alludere esplicitamente a chi si stava riferendo, sapeva che lei avrebbe inteso.

«Cosa le fa pensare che lo abbia già visto?» Domandò lei, piuttosto, lo sguardo basso sulla tazza vuota che andava a riporre sul suo piattino. John sorrise appena.

«Non è mai stata così silenziosa, Mary. C'è qualcosa che la preoccupa, e sono certo che riguardi Sherlock» pronunciò, riuscendo ad impedire alla sua voce di rompersi. Mary continuava a non guardarlo, John si sentì il cuore in gola «Gli è successo qualcosa?» Chiese, l'agitazione interiore che lottava per poter uscire allo scoperto, ma lo sguardo ancora sotto controllo - non aveva intenzione di crollare davanti a lei. «Non sta bene?»

«Io - io non ne sono molto sicura, John» quelle poche parole bastarono per far sì che il suo cuore saltasse un battito; le sue mani cominciarono a tremare, le tolse velocemente dalla vista della donna, che comunque stava guardando da tutt'altra parte e non se ne sarebbe accorta. Durante le ultime settimane - da, con esattezza, due giorni dopo che John si trasferisse nel 221B - Mary visitava spesso Sherlock, in prigione, e questo per far sì che i due comunicassero, in qualche modo, attraverso lei. Mary aggiornava entrambi sulle condizioni dell'altro, riferiva dei messaggi, riportava a casa aneddoti che facevano sempre sorridere i due uomini, una volta rimasti soli. Fino a quel momento, Mary gli aveva sempre garantito che l'umore di Sherlock era sempre lo stesso e che difficilmente era stato scalfito; John sospettava che non poteva essere vero, ma il pensiero che almeno l'uomo si sforzasse di apparire in quel modo lo rassicurava, significava che stava ancora lottando.

«Mi parli, Mary, per favore. Ha detto qualcosa? Era agitato? Era ferito?»

«Niente di tutto questo, sembrava tranquillo come al solito. Forse più del solito» rispose lei, mentre cominciava a frugare nell tasca della giaccia «mi ha detto che non ci saremmo potuti vedere per un po', mi ha pregata di non intraprendere un altro viaggio a vuoto e poi - mi ha dato questa» tirò fuori una lettera e gliela porse; John se la rigirò tra le mani più volte, era chiusa ma nella busta non c'era scritto niente «l'ultima volta mi aveva chiesto di portargli dei fogli, penne e calamaio. Il signor Holmes si assicura di fargli avere delle visite private, quindi nessuna guardia ne è a conoscienza, ma doveva comunque sbrigarsi a scrivere, non si aspetti una lettera troppo lunga, John.»

«Non l'ha letta, però» affermò, sovrappensiero. Mary sorrise - riuscì a percepirlo, dato che non osava alzare gli occhi da quel pezzo di carta.

«L'ha scritta davanti a me, ma no, non l'ho letta, non mi sembrava giusto» gli rispose. Cadde il silenzio per vari minuti, John avvertiva gli occhi fissi della donna su di sé, capì ben presto che non gli aveva ancora detto tutto, perciò posò la busta ed alzò il capo verso di lei, per esortarla. Mary fece una smorfia, prima di prendere coraggio «Non so come interpretarlo, sinceramente, ma mi ha detto un'altra cosa» esclamò, mentre prendeva a torturarsi le mani; John resistette alla tentazione di mettersi ad urlare: l'unico che aveva tutto il diritto di essere agitato era lui, ma cercò di restare calmo ripetendosi che Mary era una buona amica che non faceva altro che fargli un enorme favore. «Mi ha detto che sa cosa sta facendo, e che deve fidarsi di lui.»

Mary andò via poco dopo, sembrava più tranquilla e con un peso in meno sullo stomaco; praticamente tutto il contrario di come si sentiva lui. Aveva lasciato la lettera sul tavolo e non l'aveva più guardata fin da quando Mary aveva annunciato che sarebbe tornata a trovarlo fra qualche giorno; l'aveva accompagnata alla porta, con la sensazione di un cattivo presagio ad alitargli sul collo; si sentiva strano, si sentiva letteralmente male: non appena la donna fu uscita di casa, cominciò a camminare più volte per il salotto, lento, le gambe pesanti. Sapeva che quella lettera non sarebbe stata portatrice di buone notizie, forse stava esagerando, ma non riusciva a trovare il coraggio di aprirla. Andò alla finestra e seguì la figura di Mary che si allontanava, i suoi vicini di casa che si incontravano per strada e cominciavano a chiacchierare amichevolmente, le voci cordiali e, all'apparenza, spensierate. Si allontanò dal vetro e tornò vicino al tavolo. Si passò le mani sul volto, sospirò sonoramente contro i palmi e poi osservò la busta.

Restò a guardarla per un'ora o forse un minuto. Sperava quasi che le parole potessero uscire fuori ed entrargli nella testa senza che lui muovesse un muscolo, sperava che loro agissero per lui, che trovassero da sole la forza di farsi leggere. Si chiedeva, soprattutto, perché Sherlock aveva deciso di scrivergli una lettera adesso. Perché aveva detto a Mary di non tornare? Perché gli aveva chiesto di fidarsi di lui? Era una cosa che John aveva sempre fatto, anche se controvoglia, anche quando non era d'accordo, ma si era sempre fidato. Cosa aveva in mente? Temeva di scoprirlo.

«Desidera del té, caro?» Mrs Turner si era presentata in casa in punta di piedi, lo aveva risvegliato da quel torpore e ora lo osservava con apprensione, dalla porta di casa. John annuì, simulando un sorriso e ringraziandola gentile. Non appena la padrona di casa si allontanò, John prese la lettera e l'aprì.

Come aveva detto Mary, era piuttosto corta. Le linee leggere della calligrafia di Sherlock erano eleganti come al solito ma gli sembravano leggermente disordinate. Ma questo non era sinonimo, per forza, di irrequietezza, si disse, poteva essere dovuto alla fretta e al poco tempo a disposizione. Nonostante quell'appunto mentale, non si sentì decisamente più tranquillo.

Le dita andarono ad accarezzare lievemente il foglio, parola per parola, senza, in un primo momento, leggerle. Sherlock aveva toccato quel foglio, solo qualche ora prima, poteva fingere che il calore che sentiva fosse il frutto del contatto della sua pelle, e non del sole e caldo estivo. Non aveva avuto modo di osservare la calligrafia dell'uomo da un bel pezzo, lo avvertì, avvertì il suo tocco, quasi gli sembrava di poterlo osservare mentre scriveva. Quando si rese conto di stare sorridendo, si ricompose, e cominciò a leggere.


Mio John,

Spero che prima o poi tu possa perdonare le scelte che ho preso in questo ultimo periodo. Non mi aspetto che tu le condivida, anzi, francamente riesco ad immaginare la tua espressione contrariata e, lo so, arrabbiata, anche ora, mentre leggi questa lettera, ma devi cercare di capirmi (e so che, tu più di chiunque altro, lo farai). Non mi scuserò per ciò che ho fatto, né ora né mai. Non lo rinnego, anzi, ne vado piuttosto orgoglioso e lo rifarei di nuovo, anche domani, anche in questo momento, se significherebbe salvarti la vita.

So che questa lettera ti lascerà con un'infinità di domande, mi dispiace non poterti spiegare tutto subito, impiegherebbe troppo tempo e io non ne ho molto a disposizione. Ti prego, John, devi fidarti di me. Andrà tutto bene, ho pensato ad ogni cosa. Sappi che non poteva andare diversamente, non ho mai avuto un attimo di esitazione.

Sei nei miei pensieri, costantemente. Sei la mia ragione per vivere.

Sherlock


Rilesse quelle poche righe ancora, e ancora, fino a quando quelle parole non gli penetrarono nella pelle, fino alle ossa. Le tempie gli pulsavano, la testa cominciò a fargli male. I suoi occhi non facevano altro che tornare sull'ultima riga, continuava a percorrerla con lo sguardo velocemente, come se temesse di averla solamente immaginata. O forse ci sperava. Perché se Sherlock era arrivato a metterla per iscritto, voleva dire che la situazione era grave. Non riusciva ad immaginare, cosa avesse in mente. Lo conosceva bene, ma più ci pensava, più si spremeva le meningi, più non arrivava alla soluzione. Non poteva fare molto dal carcere, del resto. Mycroft, d'altra parte, poteva essere il suo galoppino. C'era dell'ironico, se si pensava che Mycroft solitamente era colui che teneva tutti gli altri sotto il suo controllo.

La mia ragione per vivere, lesse di nuovo, un nuovo calore nel petto.

La mia ragione per vivere. Non "di vita", ma "per vivere". Era quello il tocco di stile. Anche Sherlock era la sua ragione per vivere, e per sopravvivere (4). Lo era stato durante i suoi giorni in carcere e lo era anche allora, intrappolato tra i muri di quella casa. Si domandò se, quando l'uomo avrebbe finito di scontare la pena, ci sarebbe stata, per loro, la possibilità di vivere insieme, in quell'appartamento. Avrebbe spiegato parecchie cose, forse era proprio quello a cui Sherlock si riferiva. Forse sarebbero scappati insieme, alla fine di quella storia, come già avevano fantasticato. Quel pensiero servì da calmante, e lo rassicurò.

John si fidava di lui, sapeva che avrebbe agito per il meglio. Non gli rimaneva che contare i giorni che lo separavano da lui, e poi gli avrebbe detto che lo perdonava, per prima cosa, e che lo amava come non aveva mai amato nessun altro essere vivente, e che anche lui era la sua ragione per vivere.

Gli avrebbe detto questo, e anche altro, non gli avrebbe dato la possibilità di aprire bocca.

O così sarebbe stato, se Sherlock, due giorni dopo, non si fosse tolto la vita.


*


Ricordava il funerale di sua madre: erano i primi giorni di primavera, almeno stando al calendario; faceva freddo, dei nuvoloni grigi avevano coperto ogni raggio di sole minacciando pioggia per tutto il tempo. Non erano una famiglia numerosa, aveva perso i suoi nonni quando era molto piccolo e sua madre non aveva fratelli o sorelle, eppure la chiesa era quasi del tutto piena, e, una volta al cimitero, tante persone – per la maggior parte sconosciuti – lo avevano avvicinato per consolarlo, esprimendo solamente parole di affetto nei confronti della donna.

Quello era uno dei ricordi più dolorosi che possedeva, eppure ogni volta che gli tornava alla mente, avvertiva sempre una sorta di calore nel cuore: era bello pensare a quante persone avevano, come lui, voluto bene a sua madre.

Il funerale di Sherlock, invece, si rivelò essere completamente l'opposto.

Era una bellissima giornata di sole, questo, tanto per cominciare, lo faceva imbestialire. Avrebbe voluto un'atmosfera tetra, scura, fredda come il suo stato d'animo, come il suo cuore. Voleva il rumore violento della pioggia, ad accompagnare i suoi passi durante il tragitto, voleva un vento rabbioso, crudele, che avrebbe fatto impallidire anche i più coraggiosi, così da non essere costretto a sentire le chiacchiere della maggior parte dei presenti. Avrebbe voluto restarsene a casa, come seconda cosa, non avrebbe mai voluto percorrere il corridoio vuoto del suo appartamento, non avrebbe voluto farsi accarezzare dai raggi caldi e gentili del sole una volta fuori. Voleva che tutta Londra condividesse il suo stesso lutto, non poteva accettare di vedere bambini giocare giocosi per strada, o innamorati che si davano appuntamento in qualche cafè della zona. Era stato anche lui così felice, pensava quando passava loro davanti senza però soffermarsi a guardarli. Era stato felice, si appigliava a quel ricordo consapevole che non sarebbe più riuscito ad esserlo di nuovo. Non dopo quello che era successo.

Due giorni dopo la lettera di Sherlock, Mrs Turner gli aveva fatto avere il quotidiano come ogni mattina, portandoglielo insieme alla colazione. John aveva dato una misera occhiata alla prima pagina, facendo cadere, quasi contemporaneamente, la tazza del té a terra, non appena scorto la notizia. Non aveva ancora raccolto i pezzi di ceramica dal pavimento, tra l'altro, Mrs Turner si era offerta di pulire ma lui l'aveva fermata. Molly e Mary, che erano passate da lui sia quello stesso pomeriggio che il seguente, non avevano avuto il coraggio di farglielo notare – Mary ci aveva provato, ma era bastato uno sguardo per farle inghiottire di nuovo qualsiasi parola era pronta a pronunciare.

I suicidi in carcere facevano sempre molta notizia, se protagonisti erano uomini importanti o alti borghesi. Un suicidio dopo un'accusa di omosessualità fece praticamente venire giù il mondo. Non si parlò d'altro per le successive quarantotto ore, o così gli riferirono. Le testate dei giornali più importanti facevano riferimento a lui, ma mai una volta era stato fatto il suo nome - non sapeva bene come sentirsi a riguardo. Mycroft non si era fatto sentire, ma, una volta tanto, non riusciva a fargliene una colpa. Lestrade gli aveva fatto avere una lettera, tramite Molly, ma non l'aveva ancora aperta. Mrs Hudson si era presentata da lui, la mattina del funerale, obbligandolo a prepararsi e a presentarsi per la funzione. Nessuno gli fece domande, nessuno gli chiese se stesse bene. Sapevano che non avrebbero ottenuto una risposta. E lui per primo, non avrebbe saputo cosa dire.

Si era sentito cadere in un limbo, all'inizio. Ora avvertiva solo un grandissimo senso di confusione. Era frastornato, gli girava la testa la maggior parte del tempo. Non aveva versato una lacrima, non aveva dormito, non si era neanche steso sul suo letto. Non era uscito di casa, non aveva fatto caso al tramontare e al sorgere del sole. Aveva bevuto due tazze di tè e mangiato un pezzo di pane, o almeno credeva. Si assentava dalla realtà e smetteva di ascoltare ciò che gli dicevano. Non aveva pensato a Sherlock neanche per un secondo.

Gli capitava di osservare la lettera che gli aveva fatto avere, sempre lì, aperta e ormai tutta stropicciata sul tavolo. Non l'aveva toccata, si limitava soltanto a fissarla. E ora, mentre saliva sulla carrozza ed arrivava al cimitero, si domandava il reale significato di quell'ultimo messaggio che Sherlock Holmes gli aveva lasciato. Non gli aveva detto che era la sua ragione per vivere? Non doveva essersi rivelato un appiglio abbastanza forte, allora. Gli aveva chiesto di fidarsi di lui, e così aveva fatto. Ma ancora, fidarsi riguardo cosa, se soltanto due giorni dopo aveva deciso di farla finita? Quelle parole cominciarono a tormentarlo, mentre si preoccupava di tenersi in disparte e aspettava l'inizio del funerale. Funerale che non doveva avere neanche luogo, tra l'altro, se gli ufficiali di polizia non avessero cambiato la causa del decesso da suicidio a morte naturale. Sospettava che dietro tutto ci fosse Mycroft, ma la realtà era che nessuno credeva davvero a quella versione.

Vide gli Holmes arrivare insieme, teste alte e serie; Eurus era assente. Irene Adler, o Holmes, con un velo nero a coprirle il viso, si piazzò accanto alla madre del defunto.

Tutto ciò gli appariva ridicolo. Quel teatrino era ridicolo. La lettera era ridicola. Non erano le parole di un condannato a morte, di un uomo che aveva intenzione di ammazzarsi una volta chiusa la busta. John vi aveva letto forza e speranza, tra le righe, tra le tante cose. Allora forse doveva credere davvero alle cause naturali della sua morte. O forse, cosa?, Sherlock aveva sperato che John seguisse i suoi passi, con la promessa di ricongiuncersi in un'altra vita, o qualcosa del genere? Quel pensiero gli fece storcere il naso, Sherlock non credeva in quelle stupidaggini e John dubitava che avesse cominciato a farlo dopo neanche due mesi di reclusione. C'erano tante cose che non gli tornavano.

Il sacerdote aspettò per un'altra decina di minuti l'arrivo di qualche altro fedele. La realtà era che nessuno si aspettava la presenza di molte persone: Sherlock non era mai stato molto popolare, l'omosessualità, il carcere e il presunto suicidio non avevano giovato alla sua causa. La sepoltura cominciò, ebbe qualche difficoltà a restare attento e a sentire le parole del prete. Avvertì una leggera pressione sulla spalla, ad un certo punto, si voltò per trovare Stamford che gli sorrideva imbarazzato. Watson rispose al saluto con un cenno del capo; l'uomo si allontanò lasciandolo nuovamente solo e John gliene fu grato.

Vide Irene farsi avanti e posare una rosa rossa sulla tomba, poi portarsi una mano sulla bocca e soffocare a stento un pianto silenzioso. Provò pena per lei, ma soprattutto molta rabbia: a lui non era concesso di versare neanche una misera lacrima, mentre lei poteva benissimo farlo alla luce del sole. Girò il capo dalla parte opposta per non impazzire.

Si rese conto tardi che le persone intorno a lui cominciavano ad allontanarsi. Gli Holmes furono i primi, nessuno di loro lo avvicinò, o lo guardò. Lui fece altrettanto, non avrebbe mai saputo cosa dire, del resto. Solo quando tutti furono andati via, lui si fece avanti, guardò le lettere che componevano il nome di Sherlock, restò a fissarle come se si aspettasse di vederle cambiare forma, di tramutarsi in un'altra persona da un momento all'altro.

«Non capisco, Sherlock» affermò, la voce bassa, roca. Tossì appena, scuotendo il capo. «Tutto questo... a cosa è servito tutto questo? Ho bisogno di sapere. So che c'è una spiegazione, so che non avresti mai - non così, almeno. Forse ti aspettavi che avrei inteso al volo, ma non è così. Non sto capendo niente, ho bisogno che tu mi spieghi. Devi spiegarmi, devi–» la voce gli si spezzò, non riusciva più a respirare. Ben presto si ritrovò il volto interamente bagnato, guardò in alto verso il cielo privo di nuvole; capì che stava, finalmente, piangendo. Si accasciò in ginocchio sulla tomba di Holmes, così restò fino al tramontare del sole.


*


Tornò a casa tardi, camminò piano per Baker Street, godendosi la calma serale del quartiere. Andava piano perché non aveva nessuno ad aspettarlo a casa, e, soprattutto, lui non aveva più nessuno da aspettare. Ora, e per tutto il resto della sua vita. Per la prima volta dopo due giorni, si sentì cogliere da un leggero languorino; non sapeva se ci fosse qualcosa nella dispensa con cui potesse mettere sù una cena sostanziosa, o uno spuntino prima di coricarsi a letto - sperò con tutto il cuore che Mrs Turner avesse pensato a lui, facendogli trovare o la spesa pronta o qualcosa da mangiare, ormai raffreddato. Si disse che doveva smetterla di servirsi così tanto della sua padrona di casa, e che doveva trovare il modo per ripagarla, dopo quegli ultimi giorni di cure e premure.

Arrivato davanti al portone di casa tirò fuori le chiavi ma, subito, si rese conto che era stato lasciato aperto. Si accigliò all'istante, Mrs Turner non era una donna sbadata e lui... beh, in realtà non era sicuro di aver chiuso neanche la porta del suo appartamento, prima di uscire, non ricordava molto di quella giornata appena trascorsa. Aveva la testa da un'altra parte, poteva benissimo aver dimenticato il portone aperto, un altro motivo per cui scusarsi con la padrona di casa.

Salì le scale cercando di non fare rumore, sapendo che la donna fosse solita andare a letto presto. Evitò i gradini scricchiolanti e ben presto si ritrovò davanti la sua porta, anch'essa, neanche a dirlo, lasciata socchiusa. Ma non fu quel particolare a meravigliarlo, tanto il fatto di vedere la luce delle lampade ad olio che filtravano da sotto la porta, seguiti da dei passi rapidi che si susseguivano oltre di essa. Chi era entrato in casa sua? Lestrade? Mycroft? Non aveva voglia di affrontare nessuno dei due.

Varcò la soglia d'ingresso, ancora non sapeva bene cosa dire per mandarli via senza offenderli, ma si rese conto ben presto che non ce n'era bisogno. Restò spiazzato, privo di fiato, trovandosi davanti tre valigie ancora chiuse - sembravano piuttosto pesanti, e qualche scatolone sparso qua e là per il salotto.

«Che diamine–?» Cominciò a dire, a se stesso, o all'occupante indesiderato, o forse a qualche entità divina in ascolto. Lo stavano sfrattando? Holmes lo aveva ritenuto responsabile dell'accaduto e aveva deciso di non dovergli più niente? Avrebbe capito, certo, non ne sarebbe stato felice ma avrebbe capito, ma perlomeno potevano avvertirlo invece di fargli trovare tra capo e collo il nuovo inquilino --

«John?» La sua voce proveniva dalla cucina, alle sue spalle. Subito si irrigidì, sentendosi come colpito da un vento gelido. No, non colpito, quasi attraversato. Da piccolo, sua sorella per spaventarlo gli raccontava storie di spiriti capaci di attraversare qualsiasi superficie, capaci di passare attraverso un corpo umano. Non pensava più a quelle fantasie da anni, e adesso - adesso quasi avvertiva lo stesso terrore di allora. «Mi era sembrato di avvertire dei passi, in realtà cominciavo a chiedermi dove fossi.»

La sua voce sembrava più che determinata a tormentarlo. Chiuse gli occhi, passandosi una mano, rapido, tra i capelli corti. Non credeva che sarebbe mai arrivato quel momento, il momento in cui avrebbe perso il nume della ragione e il contatto con la realtà. Era ancora giovane, dopotutto, ne aveva di cose da fare. O così gli piaceva raccontarsi, almeno. La voce continuava a parlargli ma non l'ascoltava più, si rifiutava perfino di girarsi, non sapeva bene cosa lo trattenesse, se la paura, o la speranza. Aveva paura, in realtà, di quest'ultimo sentimento. Era terrorizzato anche soltanto dal suono di quella parola, speranza.

«John?» Ancora una volta la voce, la sua voce, più vicina, i passi si muovevano verso di lui.

«Vai via» mugugnò a denti stretti, pentendosene subito. L'ultima cosa che ci mancava, era che iniziasse a parlare, o ancora meglio a litigare, con il vuoto. Però, il vuoto non faceva rumore, il vuoto non poteva spostarsi da una stanza all'altra, il vuoto non poteva – cos'era quella stretta che avvertiva al braccio sinistro? Il calore di una mano, una mano ferma, forte, le dita lunghe e sottili. La sua mano. No, no, no. Come poteva sperare? Era stato al suo funerale soltanto poche ore prima.

«John, guardami.»

Dove trovò la forza di muovere le gambe non sapeva dirlo neanche a distanza di anni. Si sentiva come asservito, non sapeva se fosse lui a muoversi o se lo stessero manovrando tramite dei fili, come aveva visto fare a delle marionette e al loro burattinaio. Aveva lo sguardo puntato verso il basso, non poteva ancora alzarlo, non poteva ancora guardare. Strizzò gli occhi più volte, due paia di scarpe nere lo fissavano, o meglio lui fissava loro. Non poteva essere vero. La stretta ancora intorno al suo braccio, era diventata più gentile ma pareva non volerlo lasciare andare. Era ora, rifletté.

«Cristo» esclamò, ritrovandosi, finalmente, occhi negli occhi con Sherlock Holmes. Le iridi dell'uomo sembravano più scure, più letali. Il volto era sicuramente più magro addirittura rispetto a quando lo aveva conosciuto, gli zigomi erano più marcati e profonde occhiaie risaltavano sulla sua faccia. Era pallido, molto pallido, i capelli erano più lunghi, scompigliati; dei riccioli gli coprivano interamente la fronte. Indossava uno dei suoi completi eleganti, non era la prima volta che glielo vedeva addosso, completamente nero, a lutto: il contrasto perfetto con la sua carnagione.

«Non proprio» le labbra si aprirono in un mezzo e sospirato sorriso, le osservò meglio, le ricordava diverse, più rosa, più carnose. Notò quello che doveva essere un taglietto, quasi all'angolo destro. Uno spettro non può mordersi le labbra. Eppure, tutto il resto, nel suo aspetto, non faceva altro che ricordargli un fantasma. «Sono soltanto io, temo» rise, piccole rughe andarono a disegnarsi intorno ai suoi occhi, intorno alla sua bocca, sulla sua fronte. Conosceva bene quei segni, li aveva baciati, diverso tempo prima, li aveva ammirati e li aveva accarezzati. Voleva farlo ancora, ma il terrore di allungare una mano e non poter toccare niente lo bloccava. Eppure lui lo stava toccando, la sua mano era ancora lì.

«Non è possibile» ribatté Watson, scuotendo appena il capo. Abbassò gli occhi - sì, la mano dell'uomo lo stringeva ancora; riuscì a divincolarsi e indietreggiò, cercando di non notare l'espressione amareggiata che si dipinse sul volto di Sherlock «non puoi essere qui. Sto - sto impazzendo, tu sei... sei...» non riuscì a pronunciare quella parola, non ci era riuscito per quarantotto ore e non lo avrebbe di certo fatto adesso.

«Sono vivo» pronunciò Holmes, con cautela. Forse si aspettava di ricevere un pugno in faccia, lo stesso John non poteva negare di non essere altamente tentato da quell'opzione.

«Sono stato al tuo funerale» replicò, a denti stretti. Non era più l'incertezza a frenarlo, quanto la rabbia che si sentiva montare dentro per l'ennesima presa in giro. L'altro annuì.

«Mi sarei offesso se non ci fossi stato» scherzò. Watson strinse i pugni; come poteva scherzare, in un momento del genere?

«Ho pianto sulla tua tomba» ribatté di nuovo. Questa volta, Sherlock apparve realmente mortificato, e scosso. Abbassò lo sguardo per un istante, cancellò il sorriso dal volto e tornò poi a guardarlo colpevole, triste.

«Non avrei mai voluto questo, John, credimi» cominciò a dire, mentre tornava ad avanzare verso di lui; questa volta, Watson non indietreggiò «Mycroft avrebbe dovuto avvertirti, glielo avevo fatto giurare. Lui credeva che non saresti riuscito a mantenere il segreto, o quanto meno che ti saresti tradito in qualche modo, mandando a monte il piano.»

«Il piano» gli fece eco, come se poi fosse la cosa più importante tra tutto quello che aveva sentito.

Sherlock annuì «Ho cominciato ad organizzare tutto la sera del nostro arresto. A difesa di Mycroft, devo dire che neanche lui era a conoscenza di tutti i dettagli fino a pochi giorni fa, temevo potesse tirarsi indietro o impedirlo. Non è stato semplice convincerlo a inscenare il suicidio, ma-»

«Tutto ciò è da pazzi» esclamò John, interrompendolo bruscamente. Gli scoppiava la testa, non riusciva a guardarlo negli occhi per più di un minuto. Perché lui era lì, finalmente era lì, davanti a lui, come aveva desiderato. Lo aveva aspettato, aveva sognato quel momento, e ora che lo stava vivendo a frenarlo era il sospetto che tutto ciò potesse svanire da un istante all'altro – così come era già successo loro fin troppe volte.

Eppure Sherlock era lì per lui, i numerosi scatoloni e le valigie stavano ad affermare che non se ne sarebbe più andato, che avrebbero davvero vissuto insieme in quell'appartamento per il resto delle loro vite. Lo guardò, si sforzò di non abbassare lo sguardo e di mantenere il contatto visivo. Sherlock riuscì a leggergli negli occhi la paura, l'attesa, la trepidazione, la rabbia. Gli sorrise.

«Non lo nego» disse, avanzando di un altro passo, ormai gli stava di fronte, le punte delle loro scarpe si sfioravano «ti spiegherò tutto, ma prima ho urgente bisogno di fare una cosa.»

Un attimo dopo era contro le sue labbra e improvvisamente gli parve che ogni cosa fosse tornata al suo posto. Sentì di essere tornato a respirare dopo un periodo interminabile di apnea, si domandò come aveva potuto resistere tanto, senza poter baciare quella bocca, accarezzarla e poi morderla, e perfino leccarla. John gli si strinse contro, prendendolo per le spalle e facendo aderire il petto contro il suo. Prima che potesse rendersene conto, una mano accarezzò il collo di Sherlock, e l'altra si posò sulla sua guancia. Gli schiocchi dei loro baci riempivano il silenzio del 221B, nessuno dei due riusciva però a sentirli. La mente di John era completamente svuotata, gli sembrava quasi di fluttuare nel nulla. Tutta la rabbia era svanita, così come la tristezza e la stanchezza. Si sentiva rigenerato, rinato. E forse lo erano entrambi, rimessi al mondo, un mondo che non li voleva, che li ripudiava. Quel bacio mise fine a tutto ciò, niente sembrava avere più importanza.

«C'è una cosa che non ti ho mai detto» mormorò ad un tratto John, alternando ogni parola a un bacio veloce – non riusciva a saziarsi «credevo che non avrei mai più avuto l'occasione per dirtela.»

«Dilla adesso» lo invitò Sherlock, prendendogli il viso fra le mani e posando la fronte contro la sua, gli occhi ancora chiusi, il respiro spezzato.

«Ti amo come non ho mai amato nessun altro prima» confessò Watson, obbligandolo a guardarlo negli occhi; gli tremavano le gambe, tremavano ad entrambi e i loro cuori parevano dover esplodere da un momento all'altro. «E so per certo che non riuscirei mai ad amare nessun altro, dopo di te.»

Gli occhi di Sherlock brillarono, si illuminarono di una sfumatura celeste, così chiara che non l'aveva mai vista prima, poi si inumidirono, si velarono di lacrime che non furono mai versate. «Ti ho aspettato tutta la vita, John, l'ho realizzato solo dopo averti incontrato. Ti amo da allora, non smetterò mai di farlo.»


Epilogo


Non potevano restare a Londra ovviamente, almeno per qualche tempo. Passarono il resto della serata a parlare – Sherlock aveva tentato di preparare qualcosa da mangiare, mentre John era fuori, con risultati disastrosi. C'erano tante cose che dovevano dirsi, tante altre che andavano spiegate. Mike Stamford aveva aiutato gli Holmes a trovare un cadavere dalla fisionomia simile a quella di Sherlock, in modo da avere un corpo da seppellire. Aveva procurato, inoltre, una pillola per simulare la morte apparente, e delle guardie fidate che dovevano alla famiglia non pochi favori li avevano aiutati a scambiare i corpi e a far uscire Sherlock senza che desse nell'occhio.

«Mi sembra fantascienza» esclamò John, ad un tratto, nel bel mezzo del racconto. Sherlock storse il naso, indignato «Lasciami raccontare» gli rispose, frettoloso, ma l'altro non voleva dargliela vinta «Ho come l'impressione che tu stia gonfiando questa storia.»

Nessuno sapeva di questo piano, solamente Mycroft, Stamford e il resto della famiglia Holmes, ad esclusione di Eurus per ovvi motivi. Probabilmente Mycroft avrebbe avvertito in seguito anche Lestrade, e magari anche Mrs Hudson. John si sentiva in qualche modo obbligato anche nei confronti di Mary, Sherlock alzò gli occhi al cielo, a sentire quel nome «Se la reputi degna di fiducia» gli concesse, con un'espressione che faceva trasparire la sua antipatia, o sospetto, nei confronti della donna. O forse, banalmente, si trattava solo di gelosia. «Irene lo sa?» Domandò John, ad un certo punto; capì presto che nessuno aveva pensato di avvertirla «Cristo, Sherlock, era distrutta. Ha pianto per tutto il tempo!» «Va bene, va bene» tentò l'altro «le farò avere una lettera, gliela consegnerà Mycroft.»

Erano andati a letto ma non avevano dormito; per Sherlock ciò costituiva la norma, mentre John era semplicemente troppo spossato da tutto quello che era successo per poter riuscire a chiudere occhio. E di certo l'avere Sherlock steso accanto a lui non lo aiutava.

Erano partiti la mattina presto, dopo che Mrs Turner aveva fatto trovare loro la colazione – una donna riservata, Mrs Turner, gli disse Sherlock durante il viaggio, lui e Mycroft avevano aiutato suo figlio, in passato, e da allora si era sempre sentita in debito nei confronti di tutta la famiglia. John capì perché Mycroft aveva scelto proprio Baker Street.

John aveva proposto di cambiare nome, ad un certo punto, spiegando che sarebbe stato più sicuro per loro due, tornare in Inghilterra, un giorno, ma Sherlock non ne aveva voluto sapere niente. Nessuno sarebbe venuto a cercare un uomo morto, a suo dire – gli anni gli avevano poi dato ragione. Avevano girato gran parte dell'Europa, la Francia era stata la prima tappa, poi era seguita l'Olanda, la Germania, la Svizzera, l'Austria. Avevano trascorso parecchio tempo in Irlanda, dove John aveva ripreso a studiare medicina mentre Sherlock passava il tempo ad aiutare i cittadini e la polizia locale – il suo sogno si era finalmente realizzato.

Quando tornarono a Baker Street, dodici anni dopo, non la trovarono cambiata di una virgola. Mrs Turner li accolse raggiante, mostrando i segni del tempo che era passato ma rivelandosi sempre forte ed esuberante. Era strano tornare in quell'appartamento, era strano ripercorrere la stessa strada, salire le stesse scale, aprire la stessa porta. John vi aveva passato relativamente poco tempo, nei suoi giorni peggiori, forse, eppure quella sembrava ormai una storia vecchia secoli. Per la prima volta osservò il 221 B reputandolo accogliente.

«Da non credere!» Sentì Sherlock blaterale qualcosa a bassa voce e si girò, incuriosito. Notò subito la lettera che teneva in mano, che aveva appena preso da sopra il caminetto spento. Alzò lo sguardo rendendosi conto di essere osservato, gli mostrò la lettera colpendola con la mano in un gesto di stizza. «Mycroft!» Spiegò.

John si accigliò «È stato qui?!»

«Ne dubito» replicò Sherlock sospirando, mentre si metteva a sedere ed apriva reclutante la busta «avrà fatto fare il lavoro sporco al vecchio Lestrade; immagino che l'avanzare degli anni lo abbia impigrito ancora di più.»

«Cosa dice?» Gli domandò, evitando di ridacchiare alla sua affermazione, avvicinandosi a lui e mettendosi alle sue spalle per poter leggere.

Gli occhi di Sherlock scorrevano rapidi sul foglio «Dice che verrà a trovarci domani in mattinata e che porterà con sé –» si bloccò all'istante, irrigidendosi.

John gli toccò la spalla, preoccupato. Lanciò un'occhiata rapida alla lettera non capendo cosa lo avesse scosso tanto «Cosa c'è? Cosa dice?» Improvvisamente, l'idea che fosse successo qualcosa a qualcuno dei loro cari o, peggio, a qualcuno della servitù lo fece tremare.

«Dice che verrà con William, suo figlio, per farmelo conoscere» gli rispose sbrigativo, mettendo via la lettera, riponendola prima nella busta e gettandola poi su un tavolino.

«Oh» mormorò John, continuava a non capire, o forse la semplice notizia che Mycroft fosse padre gli impediva di concentrarsi su altro, ma, alla fine, realizzò «William! Tuo fratello ha chiamato suo figlio in tuo onore, Sherlock.»

«Bah» mormorò l'altro, alzandosi in piedi e dirigendosi verso una delle valigie – John sapeva perfettamente che aveva bisogno di suonare un po' il suo caro violino. Abbassò gli occhi verso la lettera, abbastanza commosso da quella rivelazione, sorrise al solo pensiero e doveva ammettere di essere abbastanza curioso di conoscere il nipote di Sherlock. «Togliti quell'espressione dalla faccia, ti riempi di rughe.»

«Dovresti vederti tu» replicò offeso, ma poi scosse la testa divertito. «Tuo fratello ha un figlio, riesci a crederci?»

Sherlock parve davvero pensarci per un po', poi anche lui scosse la testa e ridacchiò. «Voglio sperare che non abbia ripreso la sua passione per il cibo» John si unì alla sua risata quando Mrs Turner li raggiunse con una tazza di té al seguito.

«Chiedo scusa per il ritardo, cari. Sono stata trattenuta giù in città da una vecchia conoscenza di mio figlio. Era abbastanza sconvolta, non potevo non rassicurarla» Sherlock prese il suo violino e si allontanò verso la finestra, John invece, aiutò la donna con il vassoio e si mostrò apprensivo.

«Cosa le è accaduto?» Si informò educatamente, mentre prendeva la sua tazza da tè.

«Oh, una faccenda a mio parere abbastanza sciocca e priva di senso. Suo marito ha ricevuto una lettera contenente cinque semi d'arancio e sembra essere impazzito per questo, la povera donna non sa più cosa fare per farlo uscire di casa.»

John era pronto a dirsi d'accordo con la donna, ma Sherlock aveva smesso subito di suonare ed era corso verso di lei. «Mrs Turner, potrebbe mettermi in contatto con questa famiglia? La faccenda potrebbe essere ben più seria, non c'è un minuto da perdere!» La donna apparve piuttosto scossa da quel cambiamento repentino, ma acconsentì ad inviare subito una lettera per chiedere un incontro.

Quando fu scesa al piano di sotto, John si voltò verso l'uomo che ora appariva piuttosto eccitato. «Una faccenda seria ed urgente? Probabilmente si tratterà di uno scherzo, Sherlock, niente per cui allarmare un'intera famiglia» ma Sherlock gli rivolse uno sguardo serio che lo mise subito a tacere.

«È un avvertimento, John, una minaccia, una sentenza di morte. Rimarresti stupito da quante organizzazioni criminali ricorrino a questi metodi per avvertire le loro vittime, solitamente ex membri. Potrebbe trattarsi di una sciocchezza, ma non voglio correre rischi.»

«Aspetta un secondo, hai intenzione di indagare? Ne avevamo già parlato, Sherlock, non possiamo continuare così anche in Inghilterra, non puoi dare nell'occhio» lo avvertì Watson, improvvisamente preoccupato sia dalla storia dei semi d'arancio, sia dalla piega che aveva preso il loro ritorno in patria.

«Te l'ho promesso, John. Non ho intenzione di apparire sui giornali, resterò nell'ombra, non mi prenderò i meriti per nessun caso» l'altro sospirò, avevano avuto quella discussione diverse volte, Sherlock gli aveva sempre ripetuto quelle parole ma lui non poteva non preoccuparsi ugualmente «E poi, sei tu quello che continua ad appuntare tutti i miei casi sul suo quaderno. Pensa se tutte quelle informazioni finissero nelle mani sbagliate» lo canzonava perché sapeva di averlo messo alle strette. «E non dirmi che questa faccenda dei semi di arancio non ti incuriosisce neanche un po'» continuò, prendendolo per i fianchi e portandolo verso di sé.

John alzò gli occhi al cielo, mentre gli passava le mani dietro la schiena «Va bene,» affermò, con un sospiro «seguiremo questo caso» Sherlock gli piazzò un bacio sulla fronte, soddisfatto, prima di lasciarlo andare e riprendere il suo violino.

«Sapevo che non avresti resistito all'ennesima avventura. Noi due, contro il resto del mondo – sì, ho dato un'occhiata al tuo ultimo resoconto, non ti sembra un po' troppo melensa, come conclusione?»

«Non direi, no. Dimentichi che è stato così fin dal primo giorno» replicò Watson, sedendosi sulla sua vecchia poltrona con la tazza di tè in mano, mentre Sherlock cominciava a suonare il pezzo che aveva composto per lui, così tanti anni prima «Non riuscirei ad immaginare una conclusione diversa, o più adatta.»

  1. Nel 1533, in Inghilterra venne adottato il Buggery Act, legge che puniva qualunque atto sessuale non procreativo con la pena di morte (impiccaggione). Questo fino al 1861, anno in cui fu abolita la pena di morte per sodomia.

  2. Nel 1861, comunque, entra in vigore il Criminal Law Amendment Act che, tra le tante cose, prevedeva una pena di non oltre i 2 anni di carcere, con o senza lavori forzati, per ogni uomo colpevole di atti osceni con un altro uomo (non fu mai specificato cosa si intendesse con atti osceni e le donne non furono mai incluse in questo provvedimento); lo stesso Oscar Wilde fu condannato ai lavori forzati. Tutto questo andò avanti fino al 1967. Inoltre, per chi è interessato, nel libro Mio diletto Holmes viene affrontata proprio questa legge.

  3. Per la serie “anche i migliori sbagliano”, in Uno scandalo in Boemia, Conan Doyle definisce la signora Turner come la padrona di casa di Sherlock Holmes. In molti si sono chiesti che fine avesse fatto l'iconica signora Hudson, ma alla fine tutto si è rivelato essere soltanto uno sbaglio dello stesso scrittore – ho approfittato, quindi, dell'errore per affidare John alle cure di una Mrs Hudson 2.0, sì. Tra l'altro, Mrs Turner viene nominata anche nella serie (A study in pink) come la proprietaria dell'appartamento vicino.

  4. Citazione presa da uno dei miei libri preferiti, Espiazione (devo seriamente smetterla di leggere certi romanzi mentre sono impegnata a scrivere su questi due.)


Angolo dell'autrice: Hello!! Wow, mi fa stranissimo mettere ufficialmente la parola fine a questa storia. Grazie mille per avermi accompagnata in questo viaggio, purtroppo non posso dilungarmi perché (come al solito) mi tocca andare e postare di fretta.... Spero che questa storia non vi abbia fatto troppo schifo. Grazia ancora a tutti quelli che hanno letto e a coloro che leggeranno, aspetto le vostre recensioni :)
Spero di non farvi aspettare troppo con le nuove storie,
A presto

  
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