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Autore: Happy_Pumpkin    30/08/2018    2 recensioni
Il detective Shisui Underwood è stato mandato alla città di Innsmouth per risolvere uno strano caso di omicidio che vede presumibilmente coinvolta una setta locale. Ma già a partire dalla notte stessa ha modo di ricredersi ancora sulla realtà dietro gli oscuri avvenimenti della cittadina popolata da misteriosi personaggi.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Parole. Nomi. Suoni gutturali che sembravano vomitati dalle profondità della terra e delle acque abissali. Le sentivo nella testa, sibilanti, gorgheggianti nelle orecchie, mi avvolgevano la lingua, stringendomela come per mozzarmela.

[Accenni ShiIta | Presenza di luoghi e nomi ispirati a H.P. Lovecraft]
Fanfiction partecipante alla challenge 20.000 storie sotto i mari indetta dal gruppo SasuNaru Fanfiction Italia
Genere: Dark, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Itachi, Shisui Uchiha
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Abisso


I
Innsmouth





Mentre guidavo, osservai i paesaggi del Massachusset dipingersi davanti ai miei occhi: pennellate di verde intenso accarezzavano l’orizzonte nuvolo che si stagliava sulla linea incerta del tramonto. Il mio collega, Henry Allen, mi guardò un istante come in cerca di qualcosa, ma sembrò lasciar perdere perché alla fine scrutò a sua volta il panorama, tamburellando le dita sul finestrino.
“Quel posto non mi piace per niente, Shisui. Accadono cose strane, l’omicidio di quel ragazzino un anno fa sembra avvenuto per mano dei membri della sua stessa famiglia, tanto per dirne una – tirò fuori una sigaretta da un contenitore metallico, se la accese e soffiò una boccata di fumo, mentre girava la manovella sulla portiera per abbassare il finestrino – la gente fa schifo.”
Lo sguardo sembrò distante, come se non volesse incrociarsi con il mio. In testa, aveva un fedora scuro che gli conferiva un’aria di classe, nonostante la barba non fatta da qualche giorno e le scarse rughe di un’anzianità precoce rispetto agli anni effettivi.
Scrollai le spalle, grattandomi la tempia con un dito. C’era una cicatrice in quel punto. Non mi ricordo come me l’ero fatta, ma ogni tanto prudeva, simile a un insetto microscopico che cercava di risalire in superficie.
“Su questo non c’è dubbio, con il nostro lavoro di gente pessima ne incontriamo tutti i giorni; eh già, non ci pagano abbastanza.”
Ironizzai, con una mezza risata. A modo mio, avevo sempre cercato di stemprare i toni con del sano sarcasmo. Paradossalmente, mi aiutava a rimanere concentrato, scacciando la paura, il senso di colpa, l’idea di non aver fatto abbastanza: tutte sensazioni estremamente comuni, quando si lavora come detective della Omicidi a Boston.
Allen, però, non rise. Non rideva mai, almeno, da quanto mi ricordavo. Sospirai, scrollando le spalle, per poi fischiettare un motivetto in stile charleston. Un tempo mi avevano affascinato i locali in cui si ballava; mi ripromisi di andarci, una volta risolto il caso che ci aveva portato fino a lì, in quel posto dimenticato da Dio e, probabilmente, anche dagli uomini.
“Innsmouth.”
Sussurrò Allen.
Avvertii un brivido lungo la pelle. Davanti a noi si stagliavano le porte della cittadina che sorgeva sul mare: un’area limacciosa, incassata in una costa dalla sabbia cupa e il mare oscuro che, raramente, rigettava spuma bianca lungo i bassi declivi rocciosi dove si incastravano i pali di legno marcescente del porto; presso le banchine deserte navi colme di ragnatele e vele rammendate galleggiavano sinistre ancorate ai ponteggi.
Le nuvole soffocavano i raggi arancioni e rosati del tramonto, riflettendo al contrario il grigio del mare e il senso opprimente di chiuso, simile a una bolla fatta di silenzio e luci smorzate.
Parcheggiai la macchina presso uno degli spiazzi adiacenti, poco distante dal porto. Le strade erano pressoché deserte, mentre i lampioni a petrolio erano stati già accesi: la notte sembrava prossima a calare e il sole faticava a passare in spiragli frammentati attraverso il cielo nuvolo.
Mi salì alle narici un rivoltante odore di pesce marcio e di salsedine, avvertii il gusto del mare sulle labbra secche, come se qualcuno mi avesse appena spinto la testa sotto l’oceano per farmi inghiottire con violenza acqua salmastra.
Aprii la portiera per uscire, mentre Allen schiacciava il mozzicone di sigaretta gettato per terra. Scorgemmo entrambi un poliziotto poco distante che, appena ci vide, avanzò verso di noi: era tarchiato, dalla pancia gonfia che sporgeva oltre le brache tenute su da bretelle di cuoio consumato, spiegazzando al di sotto una camicia azzurra slavata; sopra, la giacca della divisa era lasciata sbottonata.
Gli occhi sembravano acquosi, protrusi come affetti da esoftalmo, le labbra piene disegnate in una smorfia di fastidio, mentre il collo massiccio faticava a stare dentro il colletto della camicia.
Mi presentai, anticipandolo con piglio relativamente cordiale:
“Detective Shisui Underwood, questo è il mio collega Henry Allen. Piacere.”
Il poliziotto mi guardò negli occhi, nella stessa maniera in cui si potrebbe osservare un vecchio conoscente. Poi abbassò il volto per contemplare brevemente la mano. La strinse qualche istante dopo con una presa massiccia, al punto che le dita tozze sembrarono avvinghiarsi attorno alle mie; notai che aveva la pelle leggermente traslucida, come di chi fosse appena emerso da un catino d’acqua senza però essere bagnato.
“Zadok Marsh.”
La ritrassi accennando un sorriso, emerso più per un confortante senso d’abitudine. Allen non tese la mano, limitandosi a guardare con occhi attenti l’uomo di fronte a noi.
“Se ci può portare sul luogo del delitto, vorremmo esaminare la scena. Nel frattempo, ci dia tutti i dettagli che può.”
Asciutto, dritto al dunque, sbrigativo. Sospirai, mettendomi le mani in tasca dopo essermi grattato brevemente la cicatrice. Allen sembrava molto più capace di me di mostrare freddezza quando serviva; anche se lo conoscevo da poco, sono sempre stato bravo a capire le persone: forse era pensando di comprenderle e capire cosa animasse i loro desideri più oscuri che, in gioventù, mi sono laureato in parapsicologia alla Miskatonic University. Questo è un qualcosa che non dimenticherò mai.
Una pretesa un po’ stupida, quella di capire gli altri, dato che gli unici posti in cui finivo erano scene del crimine legate a gente fuori di testa: sette religiose, cultisti di religioni provenienti da angoli dimenticati del mondo, persone che credevano di essere possedute da spiriti malvagi o uomini d’intelletto in preda a deliri d’onnipotenza convinti di avere il dominio sulla natura. Insomma, un insieme di simpatici disagiati che, un anno anno fa, mi hanno portato a fare un bel giro di permanenza all’ospedale psichiatrico di Arkham. Almeno, questo è quanto redatto sulla cartella clinica letta dopo il rilascio, diversi mesi più tardi; eccetto questo, la perdita di memoria subita in seguito al trauma non è stata decisamente mia alleata nel ricordare chi o cosa avesse contribuito a farmi andare fuori di testa.
“Underwood, hai dimenticato anche come usare le gambe?”
Mi richiamò Allen, fermandosi nel mezzo della via che collegava l’ingresso della città al porto.
Simpatico: quando si trattava di insultarmi, Henry dimostrava di saper fare delle battute di spirito quasi intelligenti.
“Ah-ah, che umorista Allen. Arrivo, arrivo.” Borbottai, per poi accennare comunque una risata, anche se l’atmosfera opprimente e quell’odore di marcio non facevano decisamente propendere verso una conclusione allegra della serata.
Specie per quello che ci prospettava: un omicidio in piena regola, con però degli elementi insoliti che avevano attirato il Dipartimento della Omicidi di Boston, al punto da sguinzagliare due tra i suoi più efficienti detective esperti nei riguardi delle sette locali e le loro follie sacrificali; si trattava di una diramazione della Omicidi sorta da pochi anni in realtà, quindi bisognosa di buttarsi in mezzo a casi persino nei posti più sperduti, pur di continuare a guadagnare fondi governativi.
“Vi posso portare sulla scena, abbiamo recintato la zona per non attirare i curiosi.”
Spiegò Marsh, camminando con andatura un po’ ondeggiante, forse per via del corpo massiccio e sproporzionato, anche se non potevo immaginare di che curiosi stesse parlando, dato che le strade sembravano costantemente deserte.
“Capisco. L’uomo che ha trovato il cadavere? – domandò Allen – Dov’è?”
“Non lo so. Da qualche parte nella taverna di Bob a ubriacarsi.” Rispose il poliziotto senza particolare interesse, mentre continuava ad avanzare.
Bene, tappa al pub; poteva rivelarsi un momento più piacevole, forse unico, rispetto alla prospettiva di addentrarsi ancora a lungo tra quelle strade odorose di pesce marcio; anche se, a ben pensarci, l’idea di che razza di birra ci fosse dietro al bancone mi faceva rivoltare lo stomaco.
Allen mi guardò e io annuii. Ovviamente, dopo l’analisi della scena del crimine potevamo pensare di dividerci e procedere rispettivamente verso l’obitorio, oppure a cercare di svegliare da uno stato di collasso post-ubriachezza il primo e per ora unico testimone della scena del crimine, eccetto ovviamente la polizia. Non sapevo cosa fosse più piacevole tra le due opzioni, ma ritenni che forse un cadavere poteva dare più informazioni rispetto a un vecchio ubriacone; scrollai le spalle: nemmeno sapevo perché, ma ritenevo che il nostro uomo fosse decisamente anziano, consumato sin dentro la pelle dal mare e dalla sua salsedine che entrava fin dentro i polmoni.
Svoltammo poi in una delle vie laterali, più oscure, dalla pavimentazione irregolare e le acque di scolo che gocciolavano in rigagnoli sudici da oltre le canaline arrugginite. Mi sembrò di vedere occhi gialli, intensi, intenti a fissarmi dalle ombre vicino a cassonetti colmi di spazzatura, per poi sparire con un ticchettare ovattato di zampe. Ratti.
Entrammo in uno scantinato.
Sentii un odore di umido, mischiato con quello di acqua stagnante e di muffa, muffa che sembrava intaccare le pareti di mattoni a vista, con la malta secca che si sbriciolava passando la mano sulla superficie viscida, coperta a tratti da uno strato simile a muschio.
Incurante dell’odore e dell’ambiente soffocante, il poliziotto estrasse dalla fodera vicino a quella della pistola una torcia. La accese dopo aver dato qualche lento colpetto con il palmo della mano; per qualche istante il fascio di luce giallognolo sfarfallò, poi si stabilizzò, illuminando le scale.
“Attenzione, è scivoloso – disse, senza nemmeno guardarci – nella stanza abbiamo lasciato delle candele per illuminare. Le scale sono la parte più buia.”
Ci fece avanzare, illuminandoci le gradinate. Allen mi precedette e io lo seguii, sentendo sul collo il fiato e la presenza del poliziotto, con la luce che sembrava tagliare l’oscurità; forse era solo per colpa di tutti quegli odori nauseanti, ma mi sembrava che anche l’uomo di Innsmouth puzzasse di pesce.
Quando completammo la discesa, vidi Allen bloccarsi sulla soglia d’ingresso della stanza. Si portò una mano sulla testa, come per trattenere il fedora elegante dal volare a terra.
“Cristo Santissimo.” Mormorò, con voce resa raschiante dalle troppe sigarette.
Mi misi al suo fianco portando una mano sulla bocca, assalito fin dentro l’encefalo dall’odore di putrefazione.
“Il corpo – commentai, ricacciando un conato di vomito – l’avete lasciato qui.”
Non ci giurerei, ma mi sembrò di sentire il poliziotto sogghignare e poi rispondere:
“Non volevamo contaminare la scena del delitto. È tutto come l’ha trovato Daves quando vi ha chiamati.”
“Curioso: dopo aver trovato un cadavere, un vecchio ubriacone pensa come prima cosa di mandare un telegramma urgente proprio alla Polizia di Boston, pure con le forze dell’ordine qui presenti.” Commentai d’istinto, con ironia tagliente.
Sentii il poliziotto ringhiare qualcosa, mentre Allen si limitò a guardarmi un istante per poi avanzare verso il cadavere, illuminato dalla luce danzante di numerose candele disposte su mobili piegati dall’umidità e nicchie, incassate in punti dove i mattoni mancavano o si erano sbriciolati.
Lo accostai, per poi osservare il cadavere riverso a terra con una piega innaturale degli arti, come se fosse stato lanciato da un’altezza di decisamente troppi metri, per essere uno scantinato sotto al livello del mare. Attento, aggrottai le sopracciglia quando mi chinai per scostare una ciocca di capelli scuri dal volto. Nel scorgere i tratti del viso, deglutii e per qualche istante il cuore mi batté più forte, fu come provare un’emozione forte, scaturita da un ricordo antico.
Forse, perché il volto di quell’uomo morto ai miei piedi – giovane, era terribilmente giovane – vagamente assomigliava al mio, anche se gli occhi erano meno grandi, eppure ugualmente scuri, profondi, come era profondo l’oceano.
Erano vitrei, gli occhi di chi non aveva più vita, e una mosca solitaria camminava vicino alle ciglia folte, mentre la pupilla offuscata guardava nel vuoto. I capelli lunghi, così lontani da ogni concezione maschile, erano neri, corposi seppure insudiciati dal pavimento umido e gocciolante i liquidi della terra: gli accarezzavano il volto dalle forme morbide, toccandogli le labbra sottili come se li avesse vomitati.
Il resto del corpo era nudo, le unghie violacee, il pube esposto e i piedi magri lambiti da una pozza d’acqua fetida. Scorsi dei segni sul collo, ferite poco al di sotto delle orecchie da dove era colato sangue ora rappreso e scuro, così scuro da distinguersi a fatica dai capelli incrostati.
Annaspai un istante, in cerca d’aria. Mi detti dello stupido.
Avevo visto tanti cadaveri e orrori, in vita mia. Perché il corpo di quel giovane uomo, nemmeno eccessivamente devastato dalla morte, doveva farmi quell’effetto? Avvertii una fitta alla testa. Maledizione. Sembrava stesse andando meglio in quel periodo, ma ogni tanto le emicranie ritornavano; ad Arkham mi avevano somministrato oppiacei, se i dolori avessero continuato avrei dovuto prendere qualcosa: non potevo lavorare a un caso con la testa spaccata in due dal male.
Mi rimisi in piedi, mentre Allen sfiorava con una penna le labbra prive di sangue del cadavere; scorsi i denti bianchi simili a perle, così come intravidi da lingua gonfia.
“Si è conservato bene, per essere in questo posto merdoso – commentò, grattandosi la barba non fatta – sapete chi è?”
“Un Uchiha. Si somigliano tutti, o quasi.” Replicò asciutto Zadok Marsh.
“Beh, ci servirà un po’ più di questo.” Ribatté il mio collega, per poi esaminare le mani della vittima, curvo su essa.
Scrocchiai appena il collo, ignorando il borbottio del poliziotto che sembrava piccato, così come ignorai il campanello d’allarme nel sentire quel cognome che mi risultava familiare. Effettivamente, Uchiha era un nome piuttosto frequente dalle parti di Innsmouth, anche se, a quanto ne sapevo, i primi con quel cognome si erano insediati nella cittadina molto più tardi rispetto ai ben più antichi rappresentanti della famiglia Marsh.
Tirai un sospiro, per poi concentrarmi sui segni della parete. Vidi delle incisioni nel mattone, scritte in un linguaggio che non comprendevo, ricche di consonanti capaci di dar vita a suoni gutturali; tali incisioni erano accompagnate da immagini di creature grottesche con denti aguzzi e occhi sconosciuti al pari dell’universo. Alcune parole erano state nuovamente ricalcate con quello che sembrava sangue, anche se ormai secco, il quale in precedenza era colato oltre le scanalature scavate nel mattone, fino a venire assorbito e lasciare una crosta scura.
Capivo perché eravamo stati chiamati noi e non uno qualsiasi della Omicidi per quel caso: la posizione innaturale del corpo, i segni e le immagini erano prova del coinvolgimento di una setta o, se non altro, di un gruppo di adoratori di una qualche forma di divinità, forse quella stessa creatura incisa sulla parete che sembrava scrutarci dall’abisso. Non mi piaceva per nulla, mi trasmetteva un tremendo senso d’angoscia.
Chiusi gli occhi, nel tentativo di contenere una nuova fitta di mal di testa.
Non parlai, ma Allen si era alzato in piedi a sua volta, cominciando a segnare su di un taccuino le parole incise e, con una rapidità sommaria, ritrarre la creatura tracciata sul mattone impregnato di muffa. La luce delle candele ondeggiò un istante, soffocata dall’oscurità lugubre della stanza, poi riprese a stabilizzarsi, al pari della torcia del poliziotto ancora puntata sul cadavere. La mosca era scomparsa. Si sentiva il ticchettio dell’acqua che colava lenta dai muri e i nostri respiri ovattati, nient’altro.
In lontananza, però, a tratti credetti di sentire la risacca del mare, per quanto Innsmouth fosse caratterizzata da una calma piatta dell’insenatura che ricordava una palude, piuttosto che una località marittima.
Henry segnò altri dati forniti dal poliziotto, poi richiuse il blocchetto e lo rimise in tasca; nessuna informazione essenziale a dire il vero, ma probabilmente era inutile pretendere altro, data la scarsa collaborazione dell’autorità locale.
“Andiamo a parlare con questo Daves, poi ci cerchiamo un posto in cui dormire – spostò lo sguardo verso la nostra maleodorante guida che gli puntò la luce contro – spostate il cadavere all’obitorio. Domani voglio darci un’occhiata con un’illuminazione migliore. E, per Dio, mettetelo in una ghiacciaia prima che marcisca ancora.”
Colsi una vaga smorfia sul suo volto, con qualche ruga d’espressione più marcata delle altre e gli occhi grigi, plumbei, dall’iride contratta per via del fascio luminoso.
“Chiamerò i miei colleghi. L’obitorio è vicino alla chiesa.” Rispose la guardia in una sorta di gracidio cavernoso.
“Daves è al pub, dicevi?” domandai, dopo aver registrato mentalmente l’informazione.
L’uomo mi scrutò un istante con i suoi occhi acquosi, gonfi come quelli di una ranocchia in procinto di essere schiacciata. Poi annuì con un cenno, si avvicinò allo stipite dell’ingresso che dava sulle scale e puntò il raggio di luce: “Andate. Qui ci penso io.”
Mi guardò quando lo disse; il tanfo di marcio si fece più forte. Cominciai a salire le scale senza nemmeno attendere Allen o ribattere con qualcosa di ironico: volevo solo prendere aria, smettere di avere davanti agli occhi lo sguardo di quell’uomo e i disegni di una creatura antica tracciata nel sangue.
Quando fui all’aperto, presi grandi boccate di ossigeno, per quanto gli odori fossero rivoltanti e l’aria come contaminata da qualcosa di rarefatto, ma già andava meglio rispetto a quello scantinato soffocante.
“Shisui, si può sapere che ti è preso?” domandò Allen, uscendo a sua volta in strada.
“Niente, è che – mi bloccai un istante per poi ripetere – niente.”
Mi lanciò un’occhiata perplessa, ma forse non aveva intenzione di indagare oltre perché prese a camminare, per poi esortarmi:
“Andiamo a trovare questo Daves, vediamo se nel frattempo c’è qualcun altro che sa qualcosa. Tu non hai visto com’è morto il ragazzino qui a Innsmouth un anno fa, vero?”
“No. In quel periodo non ero esattamente lucido.” Replicai, infilandomi le mani in tasca mentre raggiungevo il mio collega.
“Il manicomio ad Arkham?”
“Sì.”
“Capisco – dopo un istante però si bloccò, portandosi davanti a me, e mi disse, fissandomi senza battere ciglio – abbiamo affrontato qualche caso assieme da quando ti sei ripreso. Non ti conosco, né so perché hanno voluto darmi qualcuno con cui investigare, però mi sembri uno in gamba, anche se a volte ti comporti da cazzone. Ma ti avviso: non dare di matto qui, siamo intesi? Non farlo in generale, però a Innsmouth in particolar modo… evita. Non perdona.”
“Lo so.” Replicai di getto, senza nemmeno rendermene conto. “So che non perdona.”
Assottigliai le labbra, sentendomi schiacciare. Non sapevo da cosa, lo avvertivo e basta.
Allen mi fissò. Sembrò in procinto di aggiungere altro, ma alla fine optò per riprendere a camminare e io lo imitai, artigliando alle cosce le mani tenute in tasca.
Giungemmo in fretta al pub, l’unico presente nella cittadina, riconoscibile per via dell’insegna ‘Pub da Bob’ dipinta con vernice ormai sbiadita in alcune lettere. Un tizio vestito di stracci era accovacciato a terra in una pozza di vomito, con il profilo che si intravedeva appena nella penombra del vicolo. Dopo avermi osservato brevemente, Henry cominciò a entrare ma io, appena la porta cigolante si richiuse alle sue spalle, mossi un passo, portandomi di fronte all’uomo a terra.
Non seppi esattamente perché, eppure mi chinai, ignorando il fetore che proveniva da quel corpo ripiegato su se stesso. Scorsi la barba sudicia e il volto scavato da rughe, consumato, i denti saltati della bocca arida semiaperta e le gote, come il naso, coi capillari scoppiati: un bello schifo, ma temo di aver sempre avuto una mia personale propensione all’orrido.
Sembrava ancora vivo, il respiro era rantolante e incerto.
“Daves.” Affermai, sicuro, sicurissimo che fosse lui.
Non dovevo aver mai visto quel volto in vita mia, eppure ero ugualmente certo che quello fosse il nostro uomo. Mi voltai un istante: nel vicolo non c’era nessuno, si udiva a malapena un vociare ovattato della gente all’interno del pub – tranquillo, per essere il tardo pomeriggio in una comunità così isolata.
Allungai una mano per provare a scuoterlo. Gli scrollai le spalle, afferrando quello che sembrava essere un cappotto rattoppato, dalle maniche e cuciture consunte; avvertii il tessuto liso sotto la mia presa, mai lavato, impregnato vagamente di salsedine incrostata tra le pieghe dell’abito.
Ma l’uomo non si mosse, gli occhi riversi e una leggera bava che cominciò a colare dalla bocca riarsa.
Merda.
Stava morendo, soffocato nel suo stesso vomito? Fantastico, risulto sempre essere l’uomo sbagliato nel posto peggiore di sempre. Pensai di sollevarmi e chiamare aiuto, anche se non sapevo che generi di tutele mediche vi fossero in un posto come quello.
Quando mi alzai in piedi, però, qualcosa mi afferrò una caviglia. La presa d’acciaio mi artigliò con un movimento talmente rapido da farmi quasi inciampare; con il cuore in gola abbassai lo sguardo e vidi Daves, lo stesso vecchio stramazzato al suolo, che si era rialzato con una piega innaturale del busto, le gambe ancora accovacciate sul suolo lercio, mentre la mano dalle unghie sudice, rotte e troppo lunghe, non accennava a lasciarmi andare.
Mi guardò dritto negli occhi, individuandomi oltre la semioscurità dopo aver ignorato la mia paura. Erano gli occhi di un morto, spenti eppure feroci, rancorosi, di chi un giorno avrebbe perseguitato una vita per saziarsi nella morte.
“Non fidarti di lui!”
Rantolò, oltre i pochi denti marci, la lingua gonfia che articolò le parole senza muoversi, quasi come se esse provenissero dall’interno della cassa toracica dilatata, quasi avesse inspirato l’aria necrotica di Innsmouth.
“Lui chi? Di chi stai parlando?” esclamai, paralizzato. Le unghie mi scavarono, volevano entrarmi nella pelle per scoperchiarmela come una vecchia coperta.
Feci per chinarmi e afferrare l’uomo, ma questi smise di guardarmi. Rise. Una risata innaturale, grottesca, con gli occhi che si girarono al contrario fino a mostrare il bianco del bulbo. Altri capillari scoppiarono, il sangue colò oltre il naso, la bocca incrostata di vomito e morte.
Poi si bloccò. Mi lasciò andare la caviglia e la mano rimase immobile, contorta come una foglia riarsa; un istante dopo, Daves voltò con un movimento brusco la testa verso l’alto: sembrò quasi che delle mani invisibili lo avessero costretto a osservare il cielo, finendo per tendergli il collo con una violenza che non gli dette tempo di prendere la boccata d’aria successiva.
Udii uno scrocchiare brusco di ossa, secco e tremendo. Indietreggiai di un passo. Daves cadde in avanti, schiantando la testa sul pavimento sudicio, tra il vomito e i liquami del vicolo ombroso.
“Shisui, si può sapere che cazzo stai…”
Per un istante non udii alcuna parola. Le orecchie mi fischiavano, sentii solo il rush violento del sangue alla testa, della paura, dell’istinto feroce di sopravvivenza che mi diceva di andarmene, fuggire, prima che fosse troppo tardi.
Non avevo sentito nemmeno la porta aprirsi con un cigolio sinistro, i passi, la sua presenza.
“Underwood!”
Sussultai. Spostai lo sguardo e vidi Allen che mi guardava, tenendosi il cappello come faceva sempre in situazioni di crisi improvvisa – ero sempre stato bravo a capire le persone, le osservavo, giusto?
“Questo era Daves – ritrovai il controllo sulle parole, anche se uscirono simili al singhiozzo di un motore – è soffocato nel suo stesso vomito.”
C’era altro. Ma quell’altro non mi piaceva: aveva portato un vecchio ubriacone alla morte prima dell’alcool da cui era dipendente.
“Fanculo – ringhiò Henry, dopo aver spostato lo sguardo con irritazione e un sentimento di remoto disgusto – nessuno eccetto questo vecchio stronzo sembra sapere nulla degli omicidi che ci sono stati, né della connessione a una setta. Vado a chiamare quel coglione di Marsh, tu fai in modo che nessuno si avvicini al cadavere di Daves: era uno attaccato alla bottiglia, ma ho visto troppe cose per credere che chi ha trovato il cadavere sia morto per una bevuta di troppo proprio dopo il nostro arrivo.”
Non mi piaceva per niente l’idea di fermarmi in quella strada, ma capivo il ragionamento di Allen e non potevo essere più d’accordo sulla coincidenza nefasta di eventi.
“Stai attento.” Gli dissi.
“Già. Anche tu.” Replicò l’altro, sistemandosi meglio il cappello.
Uscirono due uomini dal pub. Avevano i capelli neri, i lineamenti morbidi, più aggraziati di quelli del poliziotto. Si assomigliavano, in un certo senso, forse era per il taglio degli occhi scuri, forse per via dei capelli neri e lisci.
Mi guardarono un istante, ma nemmeno sembrarono notare il cadavere alle mie spalle: si limitarono giusto a lanciare un’occhiata ad Allen che li scrutò, sul chi vive. Passarono oltre, allontanandosi dal vicolo per entrare nella strada principale.
Espirai, per poi scuotere la testa:
“Ma che problemi ha questa gente? Un cadavere! C’era fottutissimo un cadavere e l’hanno totalmente ignorato!”
Henry li scrutò un istante prima di vederli sparire e commentò:
“Non lo so. Secondo me è l’aria di questa città che fa andare fuori di testa. Ritorno con Marsh per portare via il cadavere. Se non mi vedi prima che faccia buio prendi la macchina e ritorna a Boston, avvisa i capi che mandino qualcuno armato di tommy gun.”
Sembrò quasi scherzare, ma l’espressione era seria.
“Non ti abbandono in mano a psicopatici, Henry. E se lo dico io che sono stato in un manicomio, sono psicopatici proprio.” Replicai con aria tranquilla, persino scanzonata. Non so come riuscii a cambiare tono così bene, quando fino a poco fa credevo di aver sputato il cuore.
Il mio collega mi guardò un istante. Non ribatté. Scosse le spalle, si accese una sigaretta e si allontanò, con le volute di fumo che lambivano le poche luci dei lampioni dalla fiamma traballante.
Prima che facesse effettivamente buio, anche se qualche candela si era spenta e il pub era silenzioso, vidi rientrare Allen, accompagnato da Marsh e da un suo collega, almeno a giudicare dalla sua divisa. Come lui, anche l’altro poliziotto aveva lo stesso aspetto grottesco, gli occhi sporgenti, gonfi, esattamente come le labbra umide di chi sembrava essersele appena leccate.
“Cosa abbiamo qui. Il vecchio Daves non ha passato la sbornia, questa volta.” Commentò Marsh, senza curarsi di apparire nemmeno lontanamente dispiaciuto.
Illuminò il cadavere con la torcia. Il collega si limitò a una mezza risata gracidante, gutturale, però non parlò, anzi, spostò gli occhi verso di me, per guardarmi senza battere ciglio.
“Nessuno di voi sembra particolarmente affranto.” Replicai a bruciapelo.
Cercai lo sguardo di Allen che però, adombrato dal suo cappello, sembrava essere concentrato sul cadavere.
“Un ubriacone senza soldi e senza casa. Un problema in meno – liquidò il poliziotto, facendo ondeggiare appena la luce – avete ottenuto le informazioni che cercavate?”
Mi chiese. Sentii una nota di provocazione nella voce, o forse ero io a credere fosse così.
“L’indagine proseguirà. Verificheremo anche le cause del decesso di quest’uomo, domani all’obitorio. Possiamo contare sulla vostra collaborazione?”
Domandai, con un sorriso tagliente.
Marsh mi restituì uno sguardo cattivo e sussurrò con voce roca: “Certo, detective Underwood.”
“Perfetto.”
Ci osservammo un istante, poi il poliziotto passò oltre e si chinò, facendo cenno al collega per prendere il cadavere di Daves. Sembrò che non provassero nulla all’idea del sudiciume, del tanfo di morte e marcio che proveniva da quel corpo, forse dall’intero vicolo. Lo trascinarono via sotto il nostro sguardo, lasciandoci soli.
Li scrutai un istante, poi mi voltai verso Allen. Era ancora immobile.
“Henry?” domandai dopo un istante.
Lui sembrò riprendere vita, anche se non mi rispose. Prese una nuova sigaretta, la accese con un gesto quasi meccanico e aspirò diverse boccate di fumo in rapida sequenza, quasi avesse dovuto bruciarla prima dello scadere di un cronometro invisibile.
“Vai all’albergo. Domani procediamo con l’autopsia, poi ce ne andiamo da questa fottutissima città.”
Inarcai un sopracciglio. Notai il leggero tremore della mano. Allen non aveva mai tremato, nemmeno quando aveva assistito a casi di magia nera giù a Dunwich.
“Cos’è successo? – gli chiesi d’impulso – Marsh ti ha detto qualcosa, ti…”
Ma lui mi afferrò per il bavero della giacca e avvicinò il mio volto al suo, investendomi di una boccata di nicotina e carta bruciata. Vidi gli occhi: erano occhi di chi era sopravvissuto a qualcosa, occhi saggi, eppure spaventati.
“Sentimi bene, Shisui – dilatò appena le narici, per poi ribadire, quasi dopo un ripensamento – chiudi a chiave la camera, questa notte.”
“Cos…” cercai di dire.
“Tu fallo e basta.”
Portai una mano avanti, annuendo: “Ok, ok, lo farò, ma tu dove hai intenzione di andare?”
Mi lasciò, si sistemò il cappello e scrollò la cenere, tenendo un istante la sigaretta tra le dita ingiallite per il contatto con la sigaretta. Me la puntò contro quando rispose: “Devo capire alcune cose. Ti busserò alla porta della stanza quando rientro.”
Mimò il colpo, quattro volte.
Annuii, con la bocca riarsa.
Sembrò soddisfatto, perché tirò fuori dalla tasca interna del cappotto un involucro un po’ schiacciato che afferrai all’ultimo, preso in contropiede.
“Che roba è?”
“Pasticcio preso al pub: sono vecchie verdure, forse marce. Meglio di quello di carne, considerato il posto. Ci vediamo tra un po’ all’albergo.”
Lanciò il mozzicone di sigaretta a terra, calpestandolo un paio di volte. Poi cominciò a camminare e io lo seguii fino alla fine del vicolo; sulla strada principale, ci separammo.
Mi diressi all’albergo, presi la stanza, provai a mangiare un boccone della pietanza ma non riuscii a dare che qualche morso; non solo quel tortino sapeva di muffa e di stantio, ma io stesso avevo un nodo che mi attorcigliava lo stomaco, torturato dalla consapevolezza di qualcosa che avrei dovuto sapere eppure non riuscivo a ricordare.
Le fitte alla testa erano riprese, così abbandonai sulla scarna scrivania polverosa la mia tremenda cena, mi detti una sciacquata sommaria con l’acqua disponibile nel catino e mi sdraiai sul letto, vestito di mutande e canotta. L’altro letto poco distante che avrebbe dovuto ospitare Allen era logicamente vuoto.
Guardai un istante il cielo attraverso l’unica finestra presente: c’era quasi luna piena, si intravedeva oltre la coltre di nubi, e illuminava di una luce innaturale la stanza che puzzava di chiuso. Udii qualcosa grattare nel legno vecchio, forse erano tarme.
Lanciai un’occhiata alla porta. Mi alzai di scatto, ricordandomi che non l’avevo chiusa a chiave. Quando udii la serratura scattare sospirai brevemente, per poi tornare nel letto. Mi detti dell’idiota: avevo sempre affrontato le situazioni con piglio più energico, eppure in quel luogo mi sentivo inquieto, per quanto con addosso la sensazione che determinate cose stessero tornando esattamente come volevo. Non saprei spiegarmi diversamente. Forse, avrei dovuto riprendere a leggere qualche libro, la dialettica era sempre stata il mio forte.
Mi addormentai, cullato dal ticchettio di qualcosa che gocciolava.

*

Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.

Parole. Nomi. Suoni gutturali che sembravano vomitati dalle profondità della terra e delle acque abissali. Le sentivo nella testa, sibilanti, gorgheggianti nelle orecchie, mi avvolgevano la lingua, stringendomela come per mozzarmela.
Provai a respirare, a parlare, a muovermi, ma ogni mio muscolo era inchiodato al letto: qualcosa di oscuro e potente mi schiacciava contro il materasso. Lo avvertii bagnato, fradicio di acqua gelida, ne percepii l’odore palustre, di muffa che divorava i mattoni degli scantinati e penetrava fin nelle ossa, divorandole.
Poi, udii un ticchettio. Altra acqua. Più veloce, sempre più veloce. Scorreva, rapida, continua, un flusso veloce quanto la litania di parole oscure.
Allora, riuscii a risollevarmi con il torso. Avvertii quasi la pelle della schiena strapparsi e annaspai, rantolando, come un vecchio che si aggrappa all’ultima boccata di ossigeno per vivere ingordamente un giorno in più.
La stanza era divorata dall’oscurità, eccetto per il fascio lunare azzurrognolo che tagliava il pavimento, lambendo le assi divelte e rigonfie d’umidità.
Lanciai un’occhiata al letto di fianco al mio. Allen. Non era ancora tornato. Non avevo idea dell’ora, c’era solo la luna alta nel cielo e nemmeno una stella oltre le nubi grigie.
Mi portai una mano al petto, come per impedire al cuore che scalciava feroce di schizzarmi fuori dalla bocca. La sentii asciutta, sembrava mi avessero tolto la saliva, prosciugandola.
Quando il cuore si placò, mi coprii un istante il volto, per poi scuotermi la chioma dei miei capelli già mossi.
Fu allora, in quel preciso istante di silenzio assoluto, che udii l’acqua, qualcosa, perché non ero certo fosse acqua, riprendere a ticchettare. Le orecchie fischiarono, nel teso tentativo di mettere in allerta tutti i miei sensi, spinto da un istinto primordiale di sopravvivenza.
Girai il volto di scatto.
La finestra.
C’era qualcosa di lucente che stava colando, lento, oltre gli infissi e il davanzale, picchettando a terra in gocce rese più luminose dalla luce solare. Ritrassi le gambe pronto a scattare. Non sapevo nemmeno dove: se verso la finestra, per bloccare il flusso, o la porta, ricordandomi di averla maledettamente chiusa a chiave.
La finestra si spalancò. All’improvviso.
Sussultai, artigliando le mani al letto, senza riuscire a sollevarmi. Non entrò una folata di vento, nulla, ma l’acqua riprese a gocciolare più veloce, con un ritmo persino incalzante.
Un’ombra.
Un’ombra sembrò strisciare attraverso l’apertura, lenta a differenza dell’acqua grondante; alle sue spalle la luce lunare mi impediva di distinguerne il profilo.
Cerca di rimettermi in piedi, per trovare a tentoni i pantaloni abbandonati poco più in là e la pistola. Riuscii ad afferrarla e con un movimento rapido la puntai contro l’essere che gocciolava a sua volta acqua, con la schiena leggermente curva e una massa di qualcosa di pesante che pareva costringerlo a chinare il capo, qualcosa pregno di ulteriore acqua. Mi arrivò alle narici un odore di mare, di alghe e di salsedine, pareva quasi fresco, più salubre rispetto all’odore palustre di Innsmouth, ma ugualmente opprimente.
Non parlai, cercai di controllare il tremore della mano, perché quando la creatura prese ad avanzare con passo strascicato tolsi la sicura in uno scatto secco e sparai. Riecheggiò un colpo, le orecchie mi fischiarono, eppure riuscii lo stesso a udire il tintinnio del guscio del proiettile che cadeva a terra.
L’odore di polvere da sparo per un attimo impregnò l’aria, ma venne assorbito in fretta dagli umori che infettavano la stanza e tutta quella dannatissima città.
Non mi resi conto nemmeno di aver smesso di respirare.
Istanti. Fu questione di istanti affinché la creatura, immobilizzata dal colpo, sollevasse gli avambracci. Riuscii a distinguerli e rimasi sconvolto quando realizzai che c’erano delle scaglie, infinite e minuscole scaglie che rilucevano sotto i raggi della luna.
Sembrò portarsi quelle che forse erano mani, palmate, al petto.
Mosse un passo, poi un altro.
“Indietro! Dannazione, stai indietro!” esclamai, serrando la presa sull’arma.
A quel punto, l’essere si fermò di nuovo. Da quella posizione la luna lo illuminò meglio e distinsi i contorni di quello che sembrava un essere umano. Non capivo, avvertivo la testa leggera, confusa, l’emicrania era sparita, il cuore batteva veloce, tanto veloce da rimbombarmi nella scatola cranica, quasi fosse stato lì.
La creatura sollevò la testa: il manto che la ricopriva, simile a capelli lunghi, lisci, gocciolanti acqua, ricordava delle alghe, una massa fitta di alghe scure e pregne d’acqua. Con quel movimento, rivelò il volto.
Annaspai, in cerca d’aria, quando lo riconobbi.
“Tu… tu sei il ragazzo morto nello scantinato.”
 Non riuscii a sparare, il mio corpo intero era come paralizzato.
Gli occhi mi scrutarono, la pelle ricoperta da scaglie sembrò rilucere maggiormente, come bagnata. Le mani palmate, dalle dita aggraziate e diafane, tornarono a posarsi sui fianchi. Gli occhi profondi avevano ciglia che ricordavano infiniti coralli dalle sfumature bluastre. Era nudo, bellissimo e letale.
Quando parlò, attraverso le labbra sottili dal profilo violaceo, sussurrò parole che ricordarono il suono della risacca del mare intrappolata in una conchiglia.
“Itachi Uchiha. Attendevo il tuo arrivo, Shisui.”




Sproloqui di una zucca

Bene, che ne dite di questa storia? In prima persona, perché secondo me è più immersiva dato il genere e la tipologia di cose che volevo trasmettere; poi dal punto di vista di Shisui, quindi un esperimento particolare, in quanto rimanere fedeli al suo pseudo-carattere (pseudo, dato che Kishimoto l'ha giusto abbozzato) comportava un personaggio abbastanza ironico che ha creato un contrasto per me affascinante rispetto alle atmosfere cupe.
Ci saranno in totale tre capitoli con vari cambi di scenario, spero che la narrazione possa acchiappare, per quanto particolare forse; per gli amanti di Lovecraft, mi auguro possa richiamare almeno un pochino certe atmosfere alle quali ho voluto rendere omaggio, pur con tutte le variazioni del caso.
A seguire un po' di info:
l'intera storia è ambientata nel Massachusset, appunto, che ha come capitale Boston. Stato molto usato da Lovecraft nei suoi racconti e sede di città inventate quali Innsmouth (popolata anche da sorta di uomini-pesce fedeli a Dagon), Arkham (da qui il riferimento al manicomio in cui ha soggiornato Shisui, oppure la Miskatonic University) o Dunwich (per i casi di magia nera menzionati da Shisui facevo riferimento a l'Orrore di Dunwich).
Il periodo storico è volutamente non chiaro: volevo dare cenni di un'ambientazione anni '30 senza però esserne incatenata, proprio per poterla rendere concreta anche ai giorni nostri.
Per i nomi: per Shisui è voluto il cognome Underwood, c'è una ragione ben precisa; Zodak Marsh prende il nome da Zodak Allen, il marinaio ubriaco che Nella Maschera di Innsmouth da informazioni al protagonista - ubriaco che io ho omaggiato nella figura di Daves - lo stesso Allen da il cognome al mio detective Henry Allen, tra l'altro tantissimi personaggi in Lovecraft hanno il nome Henry (basti pensare a Henry Armitage, tanto per dirne uno).
La frase 
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn si può tradurre generalmente come 'In his house at R'lyeh, dead Cthulhu waits dreaming' (Nella sua dimora di R'lyeh, il morto Cthulhu attende sognando). Litania usata nella mitologia di Lovecraft per riferirsi alla città sommersa di R'lyeh dove appunto dimora il Grande Antico Cthulhu. Questa città sarà molto importante, non dimenticatevela XD

Bene, direi di aver detto tutto. Al prossimo capitolo :3

Fanart: http://intheendlessbluewine.tumblr.com/post/159407749759/something-about-tragic-boys-and-drowning-yourself
   
 
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