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Autore: Mignon    02/09/2018    0 recensioni
«Qualcuno non vede l’ora di sposarti» disse Pansy a mezza voce, «stiamo aspettando te per cominciare».
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Bisogna tornare indietro nella memoria per capire ciò che si è diventati; e in alcuni casi dimenticare tutto.
Draco ha sempre sottovalutato i ricordi, li ha sempre temuti.
Harry ne conosce la potenza, li rispetta. Li rispettava.
Harry ha sempre sentito di Auror che parlavano del "caso della vita", quel caso seguito che in fondo, la vita, davvero te la cambia; lui pensava di averlo già vissuto combattendo Voldemort, forse si sbagliava.
Come se non bastasse questi due ragazzi dovranno rivedere il significato delle loro azioni: ne discuteranno, ne litigheranno, ne faranno il loro vessillo d'orgoglio. E si ameranno, nella semplicità.
Ma l'amore non è mai a lieto fine per chi smette di crederci.
Alcuni si arrendono e voltano le spalle alla bellezza, e per cosa? Per timore? Per senso di inadeguatezza?
Forse se lo stanno ancora chiedendo.
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, Draco Malfoy, Harry Potter | Coppie: Draco/Harry
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
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Buona lettura :*



 





4
Finalmente era tornato al lavoro, dopo quattro giorni di convalescenza forzata decise di terminare gli ultimi tre che gli restavano da scontare in ufficio. Aveva trovato un compromesso con Shacklebolt ed Hermione - non in veste di Ministro ma di guardiana della sua vita -, avrebbe potuto passare quegli ultimi giorni di malattia al Ministero, nel suo amato ufficio, ma senza provare a partecipare a riunioni o tanto meno ad azioni sul campo. Doveva far finta di non esistere, gli dissero.  
Aveva dovuto battere i piedi come i bambini e minacciare il suo capo di continue visite con la metropolvere per avere il permesso.
Superato quello scoglio, un altro problema ora gli pesava sulle spalle, anche la sua salute passava in secondo piano, se voleva mantenere ancora una parvenza di sanità mentale doveva trovare un modo per risolverlo. Ed una cosa che aveva ampiamente imparato sulla sua pelle era quella di capire, prima di avventarsi su di esso, che portata avesse quel problema. Così a naso poteva già pensare si trattasse di un problema decisamente problematico.
Da dove cominciare?
 
Le porte del San Mungo si aprirono davanti a lui, tirò fuori dalla tasca un foglietto in cui aveva scritto in modo sgangherato i turni del Medimago che stava cercando. Essere un Auror a volte aveva i suoi benefici, come quello di poter chiedere informazioni ritenute in un certo senso private senza dover dare spiegazioni. Chi lo avrebbe mai preso sul serio se avesse spiegato il reale motivo del suo interesse verso i turni di lavoro di Draco Malfoy? Meglio inventarsi qualche scusa, anche per se stesso valeva la stessa indicazione.
Non si sentiva molto a suo agio in quell’ambiente, le mura bianche e fredde lo riempivano di malinconia tutte le volte in cui si trovava obbligato a passare per di là. Tanti suoi colleghi, lui compreso, avevano pernottato in quelle stanze, colleghi più anziani li avevano rassicurati sul fatto che prima o poi, durante la loro carriera, avrebbero passato almeno una notte in tutti i reparti. Harry non aveva mai dubitato sulla verità di quella affermazione.
Il suo pensiero si stava per posare su quei colleghi usciti da quelle stanze non per tornare a casa ma per essere portati all’obitorio, a tutti quei Guaritori piegati sui loro corpi prima di pronunciare l’ora del decesso… «Signor Potter». Una vocina squillante lo distrasse, ne fu quasi sollevato.
La vocina proveniva da un personaggio di uno di quei quadri di cui erano tappezzate le pareti. La targhetta riportava il nome Victor Saxbury, un guaritore del 1300 che aveva scoperto una qualche malattia magica di cui non riusciva nemmeno a pronunciare il nome.
«Signor Potter» tossì di nuovo la grande testa dai capelli rossicci. «Uhm, salve signor Saxbury» gli rispose un confuso Harry Potter, dopo aver letto di nuovo il cognome del dipinto. Non gli dispiaceva passare il tempo a chiacchierare con i quadri, ma in quel momento era abbastanza impegnato. Al vecchio Guaritore sembrava non interessare. «Dicevano che se mi fossi trovato a parlare con lei avrei conosciuto un gentile ragazzo, forse si sono confusi con un altro Harry Potter» terminò un po’ stizzito. Harry preferì non rispondere, alzò gli occhi al cielo e sospirò.
Le lezioni di Piton gli tornarono alla mente e prese spunto da quelle per rispondere. «Mi dispiace, avevo la testa altrove. Come la posso aiutare?» chiese sfoderando il suo miglior sorriso.
Questo sembrò calmare l’animo del guaritore che scordò in fretta di essere arrabbiato con lui.
«Oh non si preoccupi ragazzo, di questi tempi è normale avere la testa tra le nuvole. Sa, a i nostri tempi invece non ci si poteva permettere di perdere per un secondo la concentrazione…» Saxbury continuava con il suo racconto ma ad Harry sembrava un bisbiglio lontano, perché la sua attenzione era rivolta altrove.
Ogni persona con il camice bianco poteva essere Draco, e lui doveva trovarlo al più presto.
«Capisce signor Potter?» il guaritore doveva aver terminato di raccontare qualche storia.
«Ma mi dica un po’, cosa la porta qui? Qualche collega? Qualche acciacco giovanile? Sicuramente nulla di grave, lei è giovane, non ha mica tutti gli anni che ho io».
Un breve sospiro uscì dalla bocca di Harry, si concentrò sugli occhi vispi del guaritore, che lo mettevano un po’ a disagio. Si ritrovò a rispondere con la verità «Sto cercando uno dei vostri colleghi, signore. Draco Malfoy, lo conosce?».
Un grande sorriso si disegnò sulla bocca stretta e larga dell’uomo «OH! Draco, oh dolce Draco. Certo, certo che lo conosco! Uno dei nostri migliori ragazzi, sa? Io stesso non ci avrei mai creduto. Quella sua altezzosità? No, no. Come avrebbe mai potuto una persona così fiera e nobile fare questo lavoro e mischiarsi con la gente normale? E invece! Oh, si, si si. Dolce Draco. Grandi mani, grande mente, grande pozionista!».
Certamente non si aspettava di dover ascoltare l’elogio a Draco Malfoy, tanto che gli scappò una risatina.
«Ma come? Non ci crede? Oh, aspetti che le racconto questa stor-».
«Oh, no no, signor Saxbury, ci credo! Non stento a crederci, mi creda» disse velocemente Harry per bloccare sul nascere quella ormai lunga conversazione. «Abbiamo passato tanti anni a scuola insieme, non avevo dubbi sarebbe diventato così bravo» terminò con un velo di nostalgia. «Ma, per caso, non è che l’ha visto qui in giro oggi?» chiese mantenendo un tono neutro.
«Certo caro ragazzo, certo che l’ho visto. Io vedo tutto da qui, e tutto ricordo! Ha passato molte ore a visitare i suoi pazienti. Grande guaritore, grande!» Disse scuotendo la testa, poi riprese: «poi l’ho visto andare negli uffici con dei colleghi, proprio dietro a quell’angolo» indicò a destra con un movimento del capo.
«Grazie signor Saxbury, grazie mille. Per favore, non dica a nessuno di avermi visto!» si allontanò con passo svelto, salutando il dipinto. Girato l’angolo poteva ancora sentirlo urlare qualche cosa, non era il momento di pensarci.
Si trovò di fronte a delle grandi porte scorrevoli, che riportavano la scritta “vietato l’accesso ai non autorizzati”. Chi più di lui poteva essere autorizzato? Certo, non era in divisa, non indossava il cartellino, non aveva nulla che potesse identificarlo come dipendente del Ministero ma, insomma, lui era…
«Potter». Esatto.
Un giovane uomo in camice bianco era proprio davanti a lui, dopo le porte scorrevoli. Come si suole dire: il fato.
Corti capelli biondi, pelle così chiara da poter ricordare il latte, occhi grigi, disprezzo per il suo nome. Poteva essere solo lui.
«Draco!» i centimetri che lo dividevano da lui non erano mai stati un problema ma in quel preciso momento si sentiva piccolo. Lo vedeva così alto, così grande, così arrabbiato da riuscire a sovrastarlo. Forse stava sbattendo le palpebre all’impazzata, forse stava cercando di balbettare qualcosa. Non capiva. Era confuso, il cuore che batteva forte, la bocca secca.
«Dracp, per favore parliamo». L’unica frase di senso compiuto. Avrebbe potuto dirgli qualsiasi cosa, scusarsi, mettersi in ginocchio, urlargli che ancora lo amava. Invece, l’unica cosa che era riuscito a dire era quella che sapeva lo avrebbe fatto infuriare. La reazione di Draco non tardò ad arrivare.
«Parlare?» urlò tra i denti. Aveva la mascella così serrata che Harry pensava non sarebbe mai più riuscito a sbloccarla. Draco si ricompose, si passò le mani sul camice per lisciarlo e le mise nelle tasche. Harry poteva vedere le dita che giocavano con qualcosa, forse qualche pezzo di carta ormai ridotto a brandelli. «No Potter, forse non ci siamo intesi. Non voglio mai più vedere la tua faccia, sentire il tuo nome, vedere degli stupidi occhiali, sentire la tua voce. Tu-non-esisti-più» disse tutto d’un fiato, guardandosi attorno per controllare che nessuno avesse sentito.
Harry accusò il colpo ma lo prese per un braccio e lo portò dentro ad una stanza, la porta si chiuse dietro di loro senza fare rumore.
Dentro la stanza c’era un signore di mezza età impegnato nella lettura del Profeta, quando li vide arrivare fece per alzare la mano e salutarli, ma entrambi i ragazzi silenziarono la stanza e Draco tirò la tenda accanto al letto per nascondere entrambi.
Draco era irrequieto, continuava a camminare da una parte all’altra, affacciandosi ogni tanto per controllare che il paziente non cercasse di ascoltare. Ad un certo punto tirò fuori la mano dalla tasca e avvicinò l’indice alla faccia di Harry. «Tu. Tu. Tu!» sussurrò con rabbia sottolineando ogni parola sbattendo il dito sulla fronte di Potter che per tutta risposta rimase fermo. «Tu, stupido-idiota-maledetto Potter. Sei sempre tu. Arrivi qui, pensi di poter parlare con me? Nel mio luogo di lavoro? Dove tutti i miei colleghi possono sentire?» disse allontanando di nuovo la mano e rimettendola in tasca. Harry aveva sempre invidiato il suo autocontrollo.
Harry lo guardò mentre cercava di ritrovare la calma, non era cambiato in quell’anno. I capelli, quelli si erano cambiati. Ora erano più corti, e aveva anche degli occhiali nuovi. Ma si ritrovò a pensare che era sempre così bello, austero. Provò ad aprire la bocca, nemmeno lui senza sapere cosa avrebbe potuto dire. Ma Malfoy lo precedette, appoggiandogli la mano sulla bocca e avvicinandosi con il viso.
«Ascoltami bene. Dirò queste cose una volta soltanto e poi tornerò a lavorare. Ho già perso fin troppo tempo con te» prese fiato e spostò la mano, senza allontanare il volto. Harry poteva sentire il suo respiro sulla guancia. «Tu» e il suo indice toccò il petto di Harry con forza. «Tu ti sei permesso di cancellare un anno della mia vita, la mia vita. E ora torni qui per cosa? Cosa vuoi da me? Hai fatto le tue scelte un anno fa, hai obbligato me a farne altre. Sai cosa è successo grazie alle decisioni che pensi di poter sempre prendere per tutti? Mi sono dovuto sposare. Sposare con una donna che non amo. Sono intrappolato in una vita che non voglio, una vita che avevo deciso di non seguire. Ma tu devi sempre pensare cosa è meglio per gli altri, senza interpellare mai nessuno. Gli anni in cui dovevi salvare le persone sono passati!» si allontanò da Harry e si avvicinò alla porta, di spalle.
«Gli anni in cui pensavi di dover salvare me sono passati, Potter. Ti devi dimenticare di me. Devi vivere con la consapevolezza che io mi sono scordato di te, che non voglio più saperne nulla. Che sei stato tu a rovinare tutto ciò che eravamo». Si girò per un secondo e Harry vide come il suo volto mostrasse solo rabbia. Non provò mai a dire una parola. «Devi vivere con la consapevolezza che per me non esisti».
Lo vide aprire la porta e scomparire dopo aver girato l’angolo, senza mai voltarsi un secondo. I pensieri di Harry correvano all’impazzata, ma lui restava fermo immobile. Non sapeva dove andare, cosa fare, che cosa provare. Annullò gli incantesimi, tirò la tenda senza mai guardare il povero uomo rimasto lì dietro ignaro di tutto e corse via. Corse davvero, senza ascoltare le lamentele della gente intono a lui, non gli importava di essere in ospedale, della gente che soffriva. Perché la sua di sofferenza in quel momento era insopportabile.
Uscì dal San Mungo, i Babbani intorno a lui camminavano tranquilli e ignari di tutto, non sentivano l’aria elettrica della magia involontaria che sprigionava Harry, che continuò a correre, fino a trovare una via solitaria. Si appoggiò al muro freddo, la fronte sudata e i vestiti incollati al corpo. Si smaterializzò senza sapere dove stava andando, forse sperando di spezzarsi in mille pezzi.
Toccò la terra pochi secondi dopo, atterrò così bruscamente che cadde sulle ginocchia, la testa ancora gli girava e la nausea era talmente forte che la colazione stava per riproporsi.
Si guardò intorno, una landa d’erba verde, delle colline sparse qua e là, ci mise pochi secondi per capire che si trovava sul terremo dei Weasley. Da lontano vedeva La Tana, piccola e sbieca. Sorrise e si sentì sollevato. Forse aveva pensato a Ron, e la sua magia lo aveva accontentato, lo aveva portato dal suo amico.
Si trovò davanti alla porta, fece per bussare, ma vide dalla finestra la signora Weasley intenta a preparare il pranzo e cantare. Era così tranquilla, non voleva disturbarla. Forse Ron non era nemmeno in casa, forse era al negozio con George, forse… forse era meglio andare via. Così fece. Si allontanò dal terreno, appena più lontano di smaterializzò di nuovo.
Di nuovo in mezzo ai Babbani, dove nessuno poteva vederlo o riconoscerlo. Erano una piccola bolla di serenità quelle strade.
Camminò per un’altra ora buona e si fermò al bar davanti l’entrata del Ministero, riconobbe alcune facce di dipendenti, un breve cenno del capo ed entrò.
Erano passato mezzogiorno da alcuni minuti, così segnava il grande orologio dietro il bancone. Tra poco Hermione sarebbe entrata dalla stessa porta. Non gli restava che aspettare, così ordinò qualcosa di alcolico e si sedette fuori.
La sua amica non lo deluse, una manciata di minuti dopo eccola camminare a passo svelto verso di lui. Quando lo vide strabuzzò gli occhi e si avvicinò al suo tavolo. Era in compagnia di altre persone, forse Indicibili, perché lo squadrarono dalla testa ai piedi senza emettere alcun suono. Si sapeva che tra l’ufficio degli Auror e l’ufficio degli Indicibili non scorreva buon sangue. Povera Hermione.
«Harry, non dovresti essere in ufficio? Cosa stai facendo? Devo forse proibirti di uscire di casa?» la solita apprensione, secondo Harry immotivata, secondo il resto del mondo invece…
Si congedò dal gruppo di persone insieme a lei e si sedette davanti all’amico, che ancora non aveva detto una parola. Spesso e volentieri Harry amava fare battutine agli Indicibili, fare domande scomode e aspettare un loro passo falso era uno dei suoi hobby, ma quel giorno non c’era gusto. Ci mise poco Hermione a capire che qualcosa non andava. E per la seconda volta in quel giorno, il Muffliato li isolò dal resto del mondo. E finalmente Harry prese a parlare, le raccontò tutto ciò che era successo poche ore prima. Del quadro, delle sue lodi per Draco, dell’emozione di riaverlo davanti e delle sue ultime parole. “Per me non esisti” aveva detto. Harry lo ripeté all’amica, con la stessa enfasi che ci aveva messo il biondo. Si muoveva sulla sedia, cambiava spesso posizione, il suo corpo era irrequieto come i suoi pensieri. Hermione ancora non parlava, non lo guardava nemmeno, il suo sguardo era invece oltre la sua spalla, ogni tanto alzava gli occhi, ogni tanto sospirava, si toglieva qualche ciuffo di capelli dal viso. Ma non parlava.
Harry finì il racconto, finì di vomitare le sue frustrazioni e i suoi dolori.
«Harry, ha ragione Draco. In tutta questa storia ha ragione lui» si sorprese lei stessa delle sue parole. Il tempo era passato, aveva imparato a voler bene anche lei a quel giovane snob, perché aveva visto nascere quell’amore sotto ai suoi occhi. Ma dire che Malfoy aveva ragione ancora le risultava un poco difficile. Ma lei era Hermione, sempre sincera, anche troppo. Quasi dolorosa da quanto risultasse diretta, certe volte. Harry sapeva che sforzo aveva fatto quella sua amica nel mantenere i suoi segreti, con la sua amica, con l’amore della sua vita nonché fratello di Ginny. Le aveva chiesto molto, ma lei mai si era tirata indietro.
Ora la ragazza lo guardava con sguardo serio, non poteva più scusarlo. «Ho fatto quello che mi hai chiesto, sono andata contro ogni mio valore per aiutarti. Sono qui, sarò sempre qui, lo sai. Ma lo hai voluto tu. Ti sei mai fermato a chiederti cosa significassi tu per lui? Ancora non ho capito per quale motivo hai voluto fare tutto questo, perché cancellare tutto quello che siete stati?» si sedette di nuovo, questa volta accanto a lui. Gli prese la mano e continuò. «Harry, tu sei forte, lo sei sempre stato. Hai sacrificato la tua vita per tutti noi. Ma le scelte difficili le incontrerai sempre, non può essere tutto semplice come vorresti. Devi fare i conti con quello che hai fatto e con le sue conseguenze. Forse l’hai perso, forse puoi ancora recuperare qualcosa. Ma prima devi chiederti, e risponderti: perché l’hai fatto?». Diete un bacio sulla fronte al suo migliore amico e tornò dentro dai colleghi con cui era arrivata.
Harry rimase lì ancora un po’, fermo a fissare il suo bicchiere ancora pieno. Bevve tutto in un sorso il liquido chiaro, che gli bruciò la gola. Strizzò gli occhi e tossì mentre si alzava dalla sedia.
Perché lo aveva fatto?
Non aveva nessuna voglia di tornare in ufficio, avrebbe fatto un favore al suo capo, se ne sarebbe andato a casa.
 
Dopo essersi smaterializzato tra le mura di casa, si tolse da dosso tutti i vestiti e li lanciò sul divano. Ciabattando, andò verso la camera da letto e si buttò rumorosamente sul materasso.
Pochi minuti dopo e lo stress si era trasformato in stanchezza: cadde in un sonno profondo. Stanco di pensare, stanco di sentirsi male, lasciò che il sonno lo cullasse da qualche parte. E lo portò ad un giorno lontano, di un anno prima.
Prendere due personaggi, a caso, farli interagire tra loro, inventare con minuzia e particolare attenzione ogni dettaglio della loro conversazione.
Fin da piccolo quello era uno dei suoi giochi preferiti.
Bastava un soldatino trovato negli angoli della casa, lasciato lì probabilmente in uno dei tanti attacchi di frustrazione del cugino. Oppure un pupazzo, donatogli perché non ritenuto all’altezza degli altri giochi, quindi perfetto per lui, considerato come l’errore e l’intoppo che non doveva presentarsi nella vita impeccabile dei suoi zii.
Forse la sua passione, il suo interesse e l’attaccamento verso quelle anime, quegli aspetti delle persone considerati diversi, errati e di conseguenza degni di essere denigrati, derivava proprio da quello che lui aveva passato nell’infanzia. Harry Potter si era sentito un giocattolo difettoso da quando aveva cominciato ad avere ricordi della sua vita.
La persona che si trovava di fronte non era esattamente il ritratto di quello che solitamente richiamava la sua attenzione. Soprattutto per la situazione in cui si trovava.
Avevano litigato tutta la notte, era volato qualche schiaffo, qualche spinta forse un po’ troppo carica di rabbia e tensione. Le parole ancora volavano per la stanza, ferendo ancora qualcuno, con meno intensità ma provocando lo stesso dolore.
Si domandava sempre in momenti come quelli perché le loro vite si fossero intrecciate, perché tra tutte proprio quella persona; lui, a cui nessuno si degnava di puntare un dito contro, di deriderlo per una frase o una parola di troppo, niente di ciò che faceva poteva essere preso in giro, sempre tutto perfetto. Non permetteva a nessuno di avvicinarsi abbastanza e di spiare al di là di quel muro, forse un poco crepato, con il rischio che qualcosa trapelasse.
Così si ritrovarono di nuovo in quella situazione. Due persone distanti nonostante si trovassero nella stessa camera da letto.
E Harry, che ancora faceva quel gioco di quando era piccino, cominciò a prevedere ciò che si sarebbero detti da un momento all’altro.
Nella sua testa prese forma la frase, tratto per tratto davanti ai suoi occhi la prima lettera si sistemò in posizione, poi la seconda, la terza…
Chiuse gli occhi e ascoltò: «Ascolta Harry,» l’angolo della bocca si allungò leggermente verso l’alto, «non possiamo più continuare così».
Annuì, guardò la persona di fronte a lui fin quando i loro sguardi si incrociarono, con la solita naturalezza. E richiuse gli occhi: “questa storia continua da troppo tempo”.
«Questa storia continua da troppo tempo».
Come non dargli torto, pensò. Chiedendosi anche quante altre frasi avrebbe indovinato ancora.
Però non fiatava, non poteva dire nulla, tutte le sue parole si erano rinchiuse nella sua gola, come al solito. Quello non era un gioco, lo sapeva bene, ma le sue difese si alzavano così facilmente e così velocemente, che l’unico modo per sopportare quell’enorme tristezza che lo avvolgeva in quel momento, era proprio di comportarsi come quando era un bambino. Con la differenza che le parole che sentiva in quel momento erano pronunciate da qualcuno che lui amava profondamente.
Un lungo sospiro, altre frasi, mani tra i capelli, passeggiate per la stanza per sgranchirsi le gambe e cercare di eliminare un po’ di tensione.
La solita scena. Il solito epilogo.
I due corpi tornarono vicini, con le mani intrecciate ma ognuno guardava la sua porzione di soffitto. «È come se dipingessi con l’acqua-».
«E solo io potessi vederlo» terminò Harry la frase. E poi aggiunse, guardando il pavimento: «Allora vattene».
Di colpo la tristezza uscì dal suo petto, volando per la stanza, lasciando libere le lacrime, il dolore, i dubbi.
Sentì il letto scricchiolare leggermente e il solito rumore sordo della Smaterializzazione, dopodiché la sua mano stava diventando stranamente fredda.
Aveva appena lasciato l’amore della sua vita, e capì perché assomigliava così tanto a ciò che lo attraeva con così tanta forza da quando era ragazzo.
Lui era l’unico che aveva spiato al di là del muro attorno a Draco Malfoy. Harry aveva contato una ad una tutte quelle piccole, minuscole crepe. Perché Draco glielo aveva permesso.
Si svegliò di colpo, con le lenzuola sudate addosso e il cuscino un po’ umido. Gli capitava spesso di piangere nella notte, per gli incubi e per i sogni, anche quelli per belli, ma con protagonista un Malfoy.
Fuori era buio, tra poco sarebbe tornata Ginny.
Si alzò e si spinse nel bagno a fatica, facendosi violenza. La luce fredda metteva in risalto le occhiaie profonde, colpa di quelle lacrime e quei pensieri.
Nel frattempo, l’acqua cominciò a scrosciare nella doccia, accesa da uno stanco colpo di bacchetta.
Fuori ancora si faceva sempre più buio, quel blu invernale estremamente freddo, cupo. Bellissimo.
Gli piaceva il buio. Era diventata quasi un’ossessione. Cercò di allontanare i pensieri, di restare finalmente solo.
Solo l’acqua bollente e la luce spenta, i brividi dati dal calore dell’acqua e dall’aria fredda che entrava dalla finestra lasciata leggermente aperta, un’abitudine.
Sentì da lontano il rumore della porta che si apriva, Ginny era tornata.
Chiuse gli occhi, li strinse forte, per far comparire i puntini di luce dietro le palpebre serrate.
Inspirò avido l’aria umida, trattenne il respiro.
L’acqua bollente fece il resto.
 
 
 
 
  
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