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Autore: yonoi    03/10/2018    9 recensioni
Un paese di montagna, un liceo di città: al liceo, una normale mattina di lezione si trasforma in terrore.
Quindici anni e un fucile da caccia, un ragazzino introverso e un alter ego deciso, dominante, senza sensi di colpa. E poi i giorni difficili in cui occorre riprendere in mano le proprie vite, rimettersi in cammino ed affrontare un viaggio: nella bellezza estrema e impervia delle montagne o semplicemente tra le piante da far crescere in un vivaio, alla ricerca del Dio delle Vette e della semplice libertà che la natura offre.
Perché ci si mette sempre in cammino verso una meta, per poi scoprire, a volte, che la meta è il viaggio stesso, sono gli incontri e i cambiamenti del cuore.
Prima classificata al contest "In viaggio" indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP a pari merito con "Lultima battaglia di Resen-Law di Old Fashioned
Seconda classificata al contest "Specchi, ombre e presagi: il doppelganger" indetto da Shilyss, sul Forum di EFP, e vincitrice del premio speciale "Angst e dramma, questa vita è solo angst e dramma".
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini
portano scritto: più in là”
(E. Montale, “Più in là)
 
Là fuori, oltre
ciò che è giusto e ciò che è sbagliato,
esiste un campo immenso:
ci incontreremo lì”
(Jalaluddin Rumi)

 
 

3. La Gran Madre dei Ghiacci


 
            Una volta superata la forcella - una raggera di roccia rossa, simile ai denti aguzzi nella bocca di un gigante - sotto a un arco trionfale che secondo la leggenda proprio i giganti avevano costruito per gioco, si spalancò ai suoi piedi la vertigine del ghiacciaio.
            Oltre i tremila metri, la Via delle Nevi si apriva in tutto simile a una strada maestosa, coperta da una coltre che scintillava nella luce del mezzogiorno: i fiocchi caduti durante le ultime tormente si posavano su uno strato che risaliva ai tempi dell’ultima glaciazione, ed era quindi un fossile di diecimila anni.
            Il sole dei millenni non era mai riuscito a scioglierlo e a trasformarlo in torrenti e laghetti, perché su di lui vegliava la Gran Madre dei Ghiacci seduta sul suo trono: le pieghe della sua veste si levavano a est in alte creste solenni ritardando, in quel punto, il sorgere del giorno. Soltanto quando il sole giungeva al mezzogiorno la neve più recente si ammorbidiva un poco, per poi tornare a gelare nelle ore notturne. Dal lato ovest, invece, il ghiacciaio era più esposto all’azione delle alte temperature estive, e precipitava in un labirinto di crepacci e formazioni simili a cascate congelate.
            Il peso del ghiacciaio sulla roccia sottostante aveva creato quelle profonde fenditure che leggende antichissime riconoscevano come dimore delle streghe. Un pinnacolo si ergeva solitario, là dove i crepacci erano così profondi che non se ne vedeva la fine: negli ultimi cinquant’anni era stato denominato Cima Goller, dal nome del primo sconsiderato che si era arrampicato fin lassù per conquistarlo, prima di precipitare - altrettanto sconsideratamente - sulla via del ritorno, insieme agli altri quattro alpinisti della cordata.
             Ma poiché cinquant’anni anni in quel luogo millenario valevano come il sole che passa un’ora al giorno, in paese e persino nella topografia ufficiale la Cima Goller continuava a essere denominata col suo nome più antico e più suggestivo di Seggiola della Vecchia: perché appunto si diceva che là sedesse la regina delle streghe, che evocava i demoni da quelle spaccature che comunicavano direttamente con l’inferno, e scagliava tempeste sui pascoli della valle forgiandole col vento, gli incantesimi e il gelo.
            Mentre la Via delle Nevi, perennemente avvolta da una foschia lattiginosa o addirittura da ciuffi di nubi evocava l’idea di una strada per il paradiso, qualcosa di diabolico pareva veramente in agguato dal lato ovest: le saghe più recenti narravano le imprese dell’alpinista Goller, che era riuscito a conquistare la Cima ma non a ritornare, e le vicissitudini dei tanti che, dopo di lui, avevano tentato di esplorare i crepacci, finendo per trovare la morte in quei recessi. Addirittura i corpi non erano mai stati ritrovati, nemmeno dopo lunghe ricerche con gli elicotteri.
            La montagna se li è mangiati, dicevano i valligiani. L’inferno ha spalancato la bocca dei crepacci, e ha divorato quei disgraziati cuocendoli a puntino con una sola fiammata.
            Impassibile, la Gran Madre fissava il suo sguardo remoto su Enrico Del Valle, che dopo avere superato la cresta del valico si preparava a scendere la parete che l’avrebbe condotto al centro del ghiacciaio. Si diceva che il volto della Madre, a sera, si arricchisse di ombre formando un profilo di donna, e qui non si trattava solo di una leggenda: c’erano i testimoni, molti erano gli intrepidi che avevano bivaccato una notte ai suoi piedi, perché il suo versante era quello più sicuro, riparato dal vento anche se le temperature scendevano puntualmente sottozero anche in estate.
            Chi aveva bivaccato, aveva puntualmente trascorso la note insonne, in preda a pensieri inquieti: meditando se era il caso di avventurarsi per i crepacci o se era più conveniente tornare indietro, senza gloria ma almeno portando a casa la pelle. Di avventurarsi poi sulla Gran Madre in persona, non se ne parlava neppure: ci avevano provato in molti, ma la Madre li aveva puntualmente respinti rovesciando valanghe imponenti, e anche in quel caso i corpi non erano stati più ritrovati.
            Enrico Del Valle aveva l’intenzione di piantare la tenda e poi di ridiscendere senza sfidare la sorte, ci fossero o meno le streghe a sorvegliare i crepacci e senza stuzzicare gli umori della Gran Madre.
            Il giorno successivo, prevedeva di tentare la discesa dalla parete est, in modo da raggiungere un tratto di foresta dove, secondo la mappa, doveva trovarsi una cappella risalente agli antichi sentieri dell’anno mille. Lì aveva intenzione di stabilirsi, almeno per un po’: perché malgrado tutto il cammino percorso sino ad allora, non era ancora riuscito a trovare le risposte che cercava, e a far pace con se stesso.
            Presso quel romitorio - uno dei tanti che in altre epoche avevano ospitato la solitudine degli eremiti - contava di decidere se era il caso di tornare a casa e affrontare nuovamente cavilli e problematiche di una vita normale, oppure se c’era qualche possibilità di restare. Possibilità materiali, anzitutto, che dipendevano dalle condizioni del luogo, sicuramente ridotto a un rudere; il resto sarebbe dipeso da quel che sentiva dentro, e questo era il problema maggiore, perché Enrico Del Valle si sentiva confuso e triste esattamente come quando era partito.
            Era trascorso ormai un anno da quando se n’era andato. All’inizio del viaggio, e per lungo tempo, l’aveva assalito il timore di rimanere solo con se stesso. Per questo motivo, i suoi itinerari avevano fatto tappa principalmente nei rifugi: là, tutti lo conoscevano, e i vari gestori l’avevano accolto come di consueto, senza fare domande.
            A loro aveva affidato, di volta in volta, cartoline panoramiche da inviare a suor Pesca, per confermare che stava bene e far sapere a Lidia che intendeva restarsene da solo per un po’. Grazie alla mediazione di Pesca Del Valle, Enrico aveva potuto godere uno spazio di libertà senza essere cercato e senza troppi sensi di colpa. Gli bastavano già quelli che si portava dietro dalla morte di Walter, oltre a tutto il crogiuolo di sensazioni e pensieri con i quali non riusciva a far pace. Presso i rifugi, Pesca faceva pervenire anche le sue risposte, indumenti pesanti e pacchi di viveri.
            Durante l’ultima telefonata, prima di affrontare la salita al ghiacciaio, Enrico aveva messo al corrente suor Pesca del suo progetto di stabilirsi nel romitorio sotto alla Gran Madre.
            Pesca si era allarmata:
            -“Ascolta, papà, io credo che questa storia a un certo punto debba finire. Lassù, è pericoloso. Se hai bisogno di un luogo dove riflettere in pace, possiamo ospitarti in foresteria per tutto il tempo che credi”-
            -“In mezzo ai seminaristi e alle famigliole in ritiro?”- aveva riso per alleviare la tensione, perché la voce di Pesca, all’altro capo del filo, ostentava fermezza ma tradiva, in realtà, un’angoscia infinita. 
            -“Non scherzare, papà. Esporsi a rischi inutili non ti porterà nessuna risposta. Alla mamma, non ci pensi? Ti sembra giusto che non sappiamo dove sei, e se hai bisogno di aiuto?”-
            -“So che mamma sta bene, del resto è stata lei a chiedere il divorzio”- quella era un’altra ferita che non era riuscito ancora a cicatrizzare.
            -“Non barare, papà, sai bene cosa intendo. Tu sei un alpinista e sai meglio di me che è da pazzi pensare di sopravvivere sulla montagna in inverno, a tremila metri in un rudere in mezzo al bosco. Dio non parla a chi ha freddo, e anche se gli parla, chi sta morendo congelato o di fame non riesce a sentirlo”-
            -“Ritornerò a valle a settembre, Pesca. Te lo prometto”-
            Dall’altro capo del filo sua figlia era in lacrime, e così era riuscita a strappargli quella promessa. Mentre piantava la tenda ai piedi della Gran Madre, Enrico Del Valle sperava solamente che il Dio delle Vette si degnasse di rispondergli in qualche modo. Quanto a lui, era disposto a cercare quelle risposte anche a costo di arrampicarsi in cielo, pur di farsi sentire.
 
******
 
            Al tramonto, nell’anfiteatro del ghiacciaio era andato in scena uno spettacolo imponente: sul volto della Gran Madre, un incendio di luce aveva ricoperto le gote di rossore, allungato le ombre su due crinali simili a occhi dalle lunghe ciglia, e una fenditura le aveva sollevato le labbra in un sorriso.
            Sulla Via delle Nevi, l’aria aveva cominciato a rinfrescare subito dopo mezzogiorno, e il ghiaccio si era tinto di un azzurro intenso. In quel momento, un’ombra dall’apertura alare imponente aveva percorso tutta intera la Via come in una parata: silenziosa e solenne, un’aquila trasportata da altissime correnti.
            Insieme alla notte era sceso, sui crepacci e i torrioni, un silenzio possente: non si trattava della semplice tregua della città, un breve intervallo tra i rumori del traffico; neppure della quiete distensiva della campagna, punteggiata dallo scricchiolio dei grilli e dai richiami degli uccelli notturni. Neppure era la pace sovrana delle altezze che spesso Enrico Del Valle aveva sperimentato nei rifugi, di fronte a panorami che toglievano il fiato e lo sovrastavano con la potenza di un luogo sacro.    
            In confronto all’atmosfera che calava di notte sulla Via della Neve, insieme a un manto di stelle così vicine che si aveva l’impressione di poterle sfiorare, ogni altra quiete pareva rumore, chiasso confusionario: il silenzio della Gran Madre era Presenza, era l’Eternità che si chinava sulla terra, e ispirava la stessa muta contemplazione dei cori d’angeli in cielo, la stessa soggezione che toglieva il coraggio di levare lo sguardo.
            Perduto in quell’immensità senza orizzonti, che si abbassava fino a lui e lo avvolgeva con quella coltre lucente, Enrico Del Valle era sbalordito: aveva in mano il vecchio Vangelo di Pesca ma adesso era lui a sentirsi preso per mano e sollevato in alto, invitato ad alzarsi e a proseguire il cammino perché un Amore infinito si chinava su di lui, lo guardava negli occhi con la potenza di mille costellazioni, lo prendeva per mano e dopo gli chiedeva di dare da mangiare ai suoi figli.
            Chi fossero questi figli Enrico non lo sapeva, ma in quel momento il suo cuore non aveva più domande, né sentiva il bisogno di altre risposte.
            Rimase a lungo a fissare quel cielo sconfinato, lasciando andare ogni dubbio, ogni difficoltà in quell’abbraccio. Quando, molto più tardi, un brivido di gelo lo riportò alla realtà della tenda ancora aperta e sventolante sul ghiacciaio, si rese conto di avere la giacca completamente fradicia: il cielo continuava a essere libero e terso e non era piovuta neanche una goccia, tanto meno le streghe si erano divertite a tirargli palle di neve. Stupito, Enrico Del Valle si accorse che si trattava di lacrime: quelle che già gli erano cadute dal volto, e quelle che continuavano a scivolare incessanti, portando via ogni residuo di rancore, di rabbia, di dubbio.
            Gli escursionisti più intrepidi che si erano accampati sotto alla Gran Madre raccontavano di notti insonni e tormentate dal dubbio: i dubbi non riguardavano soltanto l’opportunità di esplorare i crepacci, né se era il caso di tentare la scalata alla Madre in persona; quel silenzio che pareva quasi una forma di vita, immensa e schiacciante, li riportava un tratto alla loro piccolezza e i pensieri si frammentavano in un’infinità di domande, interrogativi, incertezze.                 
            Tutte le sicurezze andavano perdute, e questo era il destino delle menti più forti.
            Quelle fragili, invece, andavano in mille pezzi come vasi di coccio caduti nei crepacci: e spesso era accaduto che dopo una notte al ghiacciaio qualcuno fosse uscito pazzo da manicomio.  
            A Enrico Del Valle, invece, toccò l’esperienza dell’abbraccio. Avvolto nel sacco a pelo ma soprattutto nel calore di un’invisibile mano, si addormentò risanato, e la mattina dopo affrontò la discesa con la strana sensazione d’essere appena nato.
 
******
           
            Aveva appena terminato di imballare una serie di piante commissionate da un albergo fuori città, lungo il nastro di strada che saliva fino ai primi contrafforti della montagna: davanti a lui cuscinetti di sassifraghe bianche e rosa, composizioni di stelle alpine dagli steli argentati, il turbante violetto del giglio martagone. Nel vivaio si coltivavano numerose specie alpine su apposite roccere, dove le piante madri crescevano al riparo dell’umidità eccessiva della pianura: nei vasi ci restavano il tempo necessario per la consegna, ed era lo stesso Ragazzo, una volta giunto sul posto, a metterle a dimora in condizioni adatte a favorirne la crescita - penombra, clima fresco, terriccio drenante.
            Gli piangeva un po’ il cuore al pensiero che quelle piante meravigliose e audaci, nate per aggrapparsi ai costoni della montagna, fossero destinate a un hotel di lusso: dove avrebbero fatto la loro bella figura per una sola stagione, salvo essere sostituite non appena sfiorivano e finire a marcire dentro a una compostiera. Più ci pensava e più gli veniva l’idea di proporre a quelli dell’hotel di andare a ritirarle a fine estate, per portarle a trascorrere i mesi del riposo invernale al vivaio.
            “L’idea che la gente ha della natura è che debba essere utile: quando il fiore appassisce la pianta si può buttare, tanto non serve più. Non sanno nulla della fatica della fioritura, del fatto che una pianta possa impiegare un anno, due anni a sbocciare, a preparare i suoi frutti. Soltanto chi coltiva sa queste cose, e non considera sterile il tempo della pazienza”.
            Il diario di viaggio era sempre con lui, e ora conteneva anche le note di giardinaggio, lo schema dei lavori da eseguire ogni giorno. Tutto ciò che gli stava a cuore trovava posto in quelle pagine, e il filo conduttore era la sua totale immersione nella natura: “vivere senza restare ancorato al passato e senza pensieri per il futuro, imparando a godere del sole e dell’acqua, in una parola vivere la bellezza dell’attimo”.
            Al passato cercava di pensare il meno possibile, così pure al futuro.
            Eppure, proprio quel giorno, il futuro venne a scovarlo mentre era intento a caricare le consegne sul camioncino, e a disporle in modo che non si rovesciassero lungo i tornanti.
            Era talmente assorto che sobbalzò quando il don gli posò la mano sulla spalla:
            -“Allora, ragazzo mio, con oggi abbiamo finito. Da domani ritorni a essere un uomo libero”-
            -“Direi di sì, signore”-
            -“Il Signore sta in cielo, qui c’è solo don Pietro. Oggi è il tuo ultimo giorno: se credi puoi restare finché non troverai lavoro da qualche parte, ma il mio consiglio è di cominciare subito a guardarti intorno. Il mestiere l’hai imparato, forse non sarà facile con quel che ti porti dietro, tutto sta a non scoraggiarsi e ovviamente a rigare dritto. Se fossi in te, eviterei la città: la gente in città guarda troppa televisione, non so se mi spiego. Fa’ un giro per la valle, sali su nei paesi per vedere come butta. In montagna uno vale per quel che sa fare, senza tante chiacchiere”-
            -“E così, in cambio della libertà perdo il lavoro. Il lavoro e la casa”-
            -“Non fare quella faccia. Qui in comunità ti vogliamo tutti bene, ma questo posto è un po’ un trampolino di lancio: la vita vera è fuori. Bisogna avere il fegato di lanciarsi, figlio mio, e di prendere il volo”-
            -“Fuori però io non conosco nessuno, non so dove andare”-
            Don Pietro sorrideva, mentre cavava dalla tasca un bloc notes e cominciava a scarabocchiare qualcosa:
            -“Vai dalle benedettine della Madonna del Pioppo. Una bella camminata in mezzo alla natura, così ti sgranchisci le gambe e ti vien su il coraggio”-
            Il Ragazzo prese il foglietto con l’indirizzo e una sorta di mappa abbozzata alla meglio, a indicare la strada. Guardò lo schizzo e poi il don, con smarrimento crescente.
            -“Quando arrivi, domanda di suor Pesca Del Valle, la nuova superiora. Se ha bisogno di informazioni, dille di telefonarmi. Anzi, facciamo una cosa: mentre fai la consegna, ci penso io a chiamarla”-
            -“…Pesca? …Del Valle?”-
            -“È una cara amica, proprio una bella testa. Eravamo a scuola insieme, e avevamo messo su un’organizzazione perfetta: lei mi scriveva il tema, io ero addetto al pronto soccorso di matematica. Suor Pesca perdeva la bussola davanti ai numeri. Poi i suoi vollero iscriverla a ingegneria, e lei tagliò la corda per entrare in monastero. Quando l’ho saputo, ho detto ai miei vecchi: io vado in seminario e voialtri zitti e muti, altrimenti scappo anch’io e buonanotte al secchio”-
            Il mattino seguente, a ventisette anni, di cui otto trascorsi in carcere e quattro in affidamento, il Ragazzo della Sparatoria lasciò la comunità L’Alpeggio da uomo libero. Con sé, aveva un piccolo zaino con lo scarso bagaglio che don Pietro era riuscito a mettere insieme. Fosse stato per lui, sarebbe partito solamente col suo diario: il resto era paura, una paura d’inferno.
            Malgrado ciò, scriveva: “la vita nuova continua - quella che ho incominciato piantando il primo seme. Ora sta a me proseguire, malgrado tutto il timore che avverto in questo momento. Il grande viaggio inizia, io non mi sento pronto ma chi può mai dire di esserlo veramente?”.
            Il vecchio prete l’aveva abbracciato a lungo:
            -“Per qualsiasi necessità, noi siamo sempre qui. Ma non ti preoccupare: suor Pesca sa tutto, sa anche che hai pagato il tuo debito”-
            Appena fuori dal grande cancello della comunità, la natura l’aveva accolto: al principio un po’ timida - soltanto qualche arbusto e cespugli sparuti, i rami rotti in più punti dal passaggio delle auto - poi, man mano che si allontanava dall’abitato e la strada diventava sempre più accidentata, il verde cominciò a prendere forza e a venirgli incontro con le prime macchie del sottobosco.
            Si trovò ad affrontare col fiatone della salita una scorciatoia che attraversava prati coperti dalla prima erba dell’anno, battuti da un vento ancora tagliente che sollevava onde come nel mare aperto.
            Ancora incappucciate dall’ultima neve, apparvero dinanzi a lui le montagne. A lato del sentiero resistevano spessi lastroni di ghiaccio, forati dalle bianche campane dei bucaneve. Ovunque risuonava il fremito dei torrenti, il fragore delle acque ingrossate dal disgelo.
            Il Ragazzo si fermò a contemplare il mondo che si stendeva dinanzi a lui, risplendente di luce: era quella la libertà che lo aspettava oltre il cancello dell’Alpeggio, e che gli aveva suscitato così tanta preoccupazione. Ora gli apparteneva, e se anche l’avessero scacciato da ogni parte, rifiutandogli il pane, un tetto e il lavoro, lui avrebbe continuato a trovare in quello splendore il coraggio, e l’unico motivo per continuare a vivere:
            “Mia bellezza infinita, potrò vivere di te come un eterno randagio, e questo mi basterebbe, non chiederei altro”.
            Arrivò al monastero nel primo pomeriggio.
            Suor Pesca lo incontrò nella penombra del parlatorio, e anche qui c’era del ghiaccio, ma di altra natura. La caffettiera ancora bollente sul vassoio e un piatto di biscotti non riuscirono a sortire l’effetto dei bucaneve. A trentacinque anni, Pesca era al suo secondo incarico come madre badessa: dopo il suo ingresso, non c’erano state altre vocazioni, la comunità invecchiava e anche se molte sorelle ultraottantenni andavano nei campi a rivoltare il fieno con lo stesso entusiasmo di quand’erano novizie, per i lavori pesanti c’era bisogno di aiuto.
            Malgrado ciò, riguardo a quell’aiuto in particolare Pesca era perplessa, con un buon sottofondo di legittima indignazione: quando aveva ricevuto la telefonata di don Pietro, la sua prima risposta, viscerale e istintiva, era stata non se ne parla. Non se ne parla proprio.
            -“Io so piantare un orto e seguire le coltivazioni, che si tratti di ortaggi o erbe officinali. In comunità facevamo dei piccoli cuscini imbottiti con le erbe, che messi a scaldare aiutano a calmare i dolori”-
            Di fronte allo sguardo indagatore della monaca, il Ragazzo si era affrettato ad aggiungere:
            -“So anche zappare, potare tutti i tipi di alberi, la fatica non mi spaventa”-
            Poiché intuiva che le perplessità della donna non riguardavano tanto le sue competenze quanto il suo passato, non si fece scrupolo a dire:
            -“Signora Madre Pesca, per favore, mi prenda”-
            Avrebbe voluto dire signora Del Valle, ma quel nome gli stava come una spina nel fianco: anche in seguito, per tutto il tempo che restò a lavorare al convento, non ebbe mai il coraggio di verificare se si trattava di una semplice coincidenza, o se la superiora - con quel nome da marmellata in vasetto - c’entrava qualche cosa con quell’altro Del Valle.
            Un’altra spina nel fianco ce l’aveva suor Pesca: proprio lei che portava avanti da anni un gruppo di supporto per chi era costretto ad affrontare una perdita, si trovava ad affrontare le stesse difficoltà che aveva sempre cercato di sanare negli altri, come se la fede potesse davvero riparare ogni breccia, e non riuscire a farlo dipendesse soltanto da una mancanza di volontà.
            Adesso era lei a trovarsi in quella situazione, e si rendeva conto di come anche la fede fosse difficile a volte, anzi il più delle volte: mentre il Ragazzo parlava, non riusciva a fissarlo negli occhi.
            Non sapendo dove rivolgere lo sguardo, si era soffermata sul grande crocifisso appeso alla parete, salvo distogliere subito il cipiglio anche da lì:
            So come la pensi. Ma stavolta perdonami, proprio non ce la faccio.
            Finché il Ragazzo non se n’era uscito con quella supplica così patetica e buffa, Signora Madre Pesca, che le aveva strappato un sorriso dal cuore: quel sorriso era diventato una crepa, e dalla crepa era scappato fuori il rancore, lasciandole la testa leggera come quando, per san Benedetto, le monache vivandiere stappavano una bottiglia di quello buono, e tutta la comunità iniziava a ridere a crepapelle.
            -“Va bene, giovanotto, si comincia domani. Avrai vitto e alloggio e anche qualche soldino, ma bada a rigare dritto. Ora et labora, dice san Benedetto, ma quel che ti riguarda il motto sarà: ora, labora et non fare scherzi”-
            Il giorno dopo in effetti aveva cominciato, sotto alla sorveglianza energica di suor Pesca armata di rastrello. Tra il frutteto, la stalla e quattro ettari di campi si ritrovò a fare più il contadino che il giardiniere, ma era contento per due ragioni: si trattava del suo primo lavoro da uomo libero, e l’aveva trovato con relativa facilità; la maggior parte del tempo la trascorreva all’aria aperta, come aveva sempre desiderato, e anche se suor Del Valle manteneva un atteggiamento distaccato, capiva che era per evitargli degli imbarazzi. Più volte i primi tempi, mentre era intento a concimare i campi con lo stallatico, a caricarlo a colpi di vanga sulla carriola, dalla stalla e dai rimorchi che lo offrivano ogni anno in dono alle monache, aveva sentito un paio d’occhi sulle sue spalle e ne aveva avvertito addirittura l’umidità, perché erano lucidi: allora più che mai si era sentito a disagio, perché non era pentito - non si era mai pentito d’aver fatto fuori Del Valle e quegli altri due.
            Da qualche parte, dentro di lui, ancora si nascondeva Barry Dale e ancora gli parlava, ad esempio quando le monache non riuscivano a dargli di più oltre al vitto e all’alloggio: “tuo padre sarebbe orgoglioso di vedere che ti spezzi la schiena per un piatto di minestra. Non hai proprio nessun amor proprio”.
            Per contrastare queste voci nella sua mente, lui scriveva, in risposta: “La natura è premio a se stessa, vale persino il sacrificio dell’amor proprio. In cambio della bellezza, essere disposti a dare qualunque cosa. Se avessi voluto del denaro sarei andato in città. Qui, non mi occorre altro”.
            Di fatto, come evocato dallo spettro malevolo di Barry Dale, dalla città qualcuno era venuto a offrirgli un lavoro ben pagato. All’indomani del suo rilascio, il padre del Ragazzo era riuscito a rintracciarlo e si era presentato un bel giorno al parlatorio della Madonna del Pioppo. Senza tanti preamboli quell’uomo grande e grosso, che dava l’impressione che un macigno fosse precipitato fin lì dalla montagna, aveva domandato subito del Ragazzo, precisando d’esser venuto per riportarlo a casa.
            La portinaia era corsa ad avvertire la madre, e Pesca aveva scambiato con il visitatore poche parole dirette a stemperare il clima, che si preannunciava rovente:
            -“Insomma, dov’è mio figlio? Si può sapere dove lo tenete nascosto? Chiamo i carabinieri!”-
            -“Suo figlio sta arrivando”- ci voleva ben altro, per turbare suor Pesca -“in questo momento è nei campi, dove sta lavorando per la comunità. È venuto da noi di sua iniziativa e le garantisco, signore, che se ne andrà soltanto se sarà lui a deciderlo”.
            Poco dopo, in effetti, era sopraggiunto il Ragazzo: lercio da capo a piedi perché si era appunto nel periodo dello stallatico, e dopo averlo sparso bisognava zappettarlo per bene per incorporarlo al terreno. I risultato era che il puzzo gli rimaneva addosso di notte e di giorno, e non c’era doccia o sapone che contasse qualcosa.
            Quando se l’era trovato dinanzi, sudato e ansante per l’apprensione più che per la fatica, il padre l’aveva preso di petto:
            -“Non voglio neanche sapere che cosa ci fai qui, e per quale motivo sei praticamente svanito nel nulla. Me l’ha detto, tua madre: niente visite e niente telefonate, e tutte le sue lettere rispedite al mittente. Mi domando se è questo, il modo di comportarsi. Cristo santo, che puzza”- tipico di suo padre, non  farsi scrupolo a imprecare in un monastero -“bene, non perdiamo altro tempo. Va’ a prendere la tua roba, ora si torna a casa e da domani inizi a lavorare in negozio”-
            -“Quale casa e quale negozio? Io non vengo proprio da nessuna parte”-
            Forte della presenza silenziosa di suor Pesca, il Ragazzo riuscì a puntare i piedi senza farsi invadere dal panico, ed anzi conservando una certa tranquillità.
             -“Come sarebbe a dire, quale negozio? Il mio negozio di caccia e pesca giù in città”- precisò il padre, come se non avesse neppure sentito le ultime parole del figlio -“vendita e noleggio di tutta l’attrezzatura. Abbiamo anche una sezione dedicata alle tecniche di sopravvivenza”-
            Per le povere bestie, immagino. Molto meglio il letame, pensò il Ragazzo tra sé. Non voleva lasciarsi trasportare dalla rabbia, così si limitò a dire:
            -“Detesto la caccia. Per quel che mi riguarda, non voglio vedere un fucile mai più”-
            -“Eppure il mio ti piaceva. Eccome, se ti piaceva. Il negozio organizza anche corsi di tiro al bersaglio, potresti prendere il porto d’armi e dare una mano”- 
            -“Lo daranno sicuramente, a uno che è stato in galera per omicidio”-
            -“Ho le mie conoscenze. Ma forse preferisci restare qui a marcire nel concime e i Gloria al Padre”-
            -“Lo preferisco, eccome”-
            -“Pensaci bene, perché uno come te non troverà un altro lavoro. Hai le mani sporche, hai la fedina sporca, sei sempre stato sporco”-
            -“Anche la sporcizia fa parte della natura”-
            La natura insegna che tutto ciò che marcisce diventa vita nuova.
            -“Questa è l’ultima opportunità che ti offro. Guarda che me ne vado, e non tornerò un’altra volta”-
            -“Io me ne sono già andato da un pezzo”- aveva risposto il Ragazzo, che già aveva infilato l’uscio del parlatorio e sbucava di nuovo al sole e all’aria aperta, all’orizzonte i campi che si aprivano liberi.
            A quel punto si fece avanti suor Pesca, per congedare quell’ospite ormai decisamente fuori dai gangheri:
            -“Dove vai, torna indietro! Delinquente, morto di fame!”-
            -“Moderi il tono e i termini. Siamo in un luogo dedicato al silenzio”-
            Si limitò a indicargli l’uscita, senza neppure prendersi la briga di accompagnarlo.
 
******
 
            Per certi versi, suo padre aveva avuto ragione.
            Il Ragazzo se ne accorse quando cominciò a cercare lavoro fuori dal monastero.
            Presso le monache del Pioppo si trovava a suo agio: col tempo, il cipiglio di suor Pesca si era stemperato in uno sguardo più fiducioso e benevolo, e lei divenne persino disponibile alla confidenza. Della sparatoria al liceo, in realtà, non parlarono mai: a entrambi era sufficiente quel poco che sapevano l’uno dell’altra, perché anche il Ragazzo s’era convinto, alla fine, che il cognome Del Valle non poteva essere un caso, ma senz’altro c’entrava con l’ombra di dolore che sempre rimaneva in fondo agli occhi di Pesca, anche quando rideva. A un certo punto decise di dare un taglio al passato una volta per tutte, e fu per questo che cominciò a scendere in paese, e a contattare gli alberghi proponendosi come giardiniere, addetto ai lavori pesanti, lavapiatti o tuttofare, insomma qualsiasi cosa.
            Il guaio era che più s’impegnava, più quel passato ingombrante si metteva di mezzo, e il risultato era sempre quello:
            -“Le faremo sapere”-
            Dopo di che, il nulla.
            Persino il suo curriculum, scritto ordinatamente al computer dalle monache, invece di favorirlo si rivelò un’arma a doppio taglio. Non appena i responsabili degli hotel notavano che a ventinove anni contava solo due esperienze lavorative, di cui una presso la comunità dell’Alpeggio, traevano immediatamente le loro conclusioni:
            -“Lei è un ex tossicodipendente? Un ex detenuto? Ci spiace veramente ma cerchi di capire, siamo un hotel cinque stelle. E comunque abbiamo già una cooperativa di fiducia, che svolge questi servizi”-
            Presso le cooperative e persino nei vecchi masi dei contadini, il risultato non cambiava.
            In barba al fatto che in montagna, come diceva don Pietro, si guarda meno tivù e si va subito al sodo:
             -“Quali sono le tue referenze?”- in certi posti non si prendevano neppure la briga di dargli del lei. E di seguito, puntualmente:
            -“Ti faremo sapere”-
            Don Pietro, d’altra parte, l’aveva avvertito: con quel che ti porti dietro, per te sarà difficile.
            Decise di darsi tempo, e per non lasciarsi andare allo scoraggiamento investì i pochi risparmi in un corso di escursionismo per principianti. Il suo sogno di diventare una guida alpina forse era irrealizzabile esattamente come riuscire a trovare lavoro dopo anni di carcere, eppure era ancora là: vigoroso e con le radici ben piantate, come le stelle alpine nei loro nidi di roccia.
            Cominciò a dedicare il tempo libero alla montagna, e a salire in quota insieme all’istruttore e ai compagni di corso: coppie di mezza età con la macchina fotografica e le scarpette da trekking, due nonne americane con cappellini a paralume, famiglie con neonati imbragati negli zaini.
            All’inizio tutta quella compagnia lo intimidiva, poi imparò a stare al passo e man mano che arrivava più in alto, vedeva il paesaggio aprirsi come una serie infinita di possibilità.
            Visto che si trattava di un gruppo di principianti, le escursioni si svolgevano su sentieri facili o di media difficoltà, che arrivavano puntualmente a qualche rifugio attrezzato con tutti i comfort: qui le mamme allattavano, le nonne controllavano le vesciche dei piedi, le coppie scattavano foto e ordinavano taglieri di speck e formaggio alle erbe.
            Lui sedeva in disparte e si lasciava catturare dall’orizzonte.
            Le vette emergevano dalla foschia di un altro mondo, il silenzio arrivava fino a lui e lo chiamava: ed era, quel silenzio, un vento impetuoso nato in fondo alle gole e che correva come i camosci lungo i bastioni, raggiungeva le cime per poi prendere il volo e giungere fino a lui, muovergli l’erba attorno e poi gridare vieni!
             Tra tutte, c’era una vetta il cui richiamo gli pareva irresistibile: somigliava a una dama adorna di ampie creste, e il suo profilo si alzava altero e dominante, coronato da un lungo strascico innevato.
            -“È la Gran Madre dei Ghiacci, la Severa”- gli aveva detto la guida, e nella sua voce si avvertiva lo stesso potente fascino che quella figura femminile e impassibile esercitava sul Ragazzo -“la madre delle terre emerse in questa valle, quando qui c’era ancora l’oceano e il mondo era appena nato”-
            In quell’epoca remota, un mare tropicale ricopriva la valle: quando iniziò a ritirarsi nacquero le montagne, da imponenti scogliere che non erano altro che mucchi di conchiglie, e scheletri di pesci che a quel tempo nuotavano dove adesso c’è il cielo. Su quel paesaggio di barriere coralline si ergeva la Gran Madre, che era in origine un vulcano sottomarino: la sua roccia impervia e nera si era formata al tempo in cui continue eruzioni avevano cacciato il mare dai suoi fondali.
            Di seguito, l’erosione delle intemperie aveva modellato il suo volto austero, e scolpito le vette che formavano il suo velo nuziale. Poi venne il tempo in cui il mondo sprofondò nella morsa del gelo: la Madre adornò di bianco il suo strascico e poi scavò ai suoi piedi il possente ghiacciaio della Via delle Nevi, insieme culla e barriera per tenere lontano da sé la presenza dell’uomo.
            -“Nessuno è mai riuscito a salire lassù?”- dal punto panoramico nel quale si trovavano, la visuale sembrava annullare le distanze e la Severa pareva ad un tiro di schioppo, come se fosse sufficiente fare un salto per arrivare in cima.
            -“Ci hanno provato in tanti. Molti sono partiti, pochi sono tornati, pochissimi sono entrati nella leggenda. Hans Goller riuscì a conquistare la Seggiola della Vecchia ancora vent’anni fa, per poi precipitare sulla via del ritorno con tutta la cordata. Erano in quattro, probabilmente spariti dentro a qualche crepaccio: li hanno cercati per mesi e non sono riusciti a trovare nemmeno un brandello. Poi, qualche anno fa, proprio sulla Gran Madre è scomparso Enrico Del Valle”-
            -“Del Valle?”- di nuovo quel nome, che a cadenze puntuali tornava come un messaggio in bottiglia. Il Ragazzo drizzò le orecchie.
            -“Enrico era una guida famosa da queste parti, un alpinista esperto. Anche riguardo a lui sono nate delle leggende: c’è chi dice che si sia ritirato sulla montagna a fare l’eremita dopo la morte del figlio. Altri dicono che la Gran Madre se l’è preso, o che comunque gli ha portato via il senno. Molti, dopo essersi accampati sulla Via delle Nevi, in una sola notte hanno perso la ragione. I vecchi dicono che lassù c’è un silenzio troppo grande, e che un cervello umano non riesce a sopportarlo senza dare di matto”-
            Sul pianoro del rifugio l’aria ormai rinfrescava, e l’istruttore aveva cominciato a far segno per radunare il gruppo e ritornare a valle prima del buio. Il Ragazzo aveva provato a trattenerlo, gli aveva rivolto uno sguardo pieno di desiderio, ma la guida l’aveva bloccato prima di dargli il tempo di dire una parola:
            -“So già cosa vuoi chiedermi, ma per quanto mi riguarda non se ne parla nemmeno: lassù non ti ci porto, anche perché io sono un semplice istruttore per gite di gruppo. Ma anche se fossi un alpinista come Goller o Enrico Del Valle, non mi spingerei fin lassù per tutto l’oro del mondo, figuriamoci poi in compagnia di un turista con le scarpe da ginnastica”-
             Il Ragazzo s’era guardato i piedi istintivamente: in effetti la sua attrezzatura lasciava a desiderare, essendo composta da una giacca che utilizzava per i lavori all’aperto e da quelle vecchie scarpe, nelle quali scoprì con grande imbarazzo un buco.
            Quella sera affrontò il discorso con suor Pesca.
            Passeggiando lungo il viale dei cipressi che delimitava i campi - chissà poi perché quel luogo era denominato Madonna del Pioppo, dal momento che di pioppi non ce n’era neppure uno - il Ragazzo della Sparatoria e la superiora avevano superato le reciproche ritrosie: abbandonandosi l’uno alla comprensione dell’altra avevano sanato, senza neppure accorgersene, tutte quelle ferite che si portavano dentro da tantissimo tempo.
            All’imbrunire, mentre i cipressi si trasformavano in gallerie d’ombre, il Ragazzo le aveva parlato di quel giorno remoto in cui l’uomo della montagna gli aveva domandato perché si viaggia.
            Suor Pesca, a sua volta, gli aveva raccontato di suo padre, di come il dolore per la perdita di Walter l’avesse spezzato, al punto che si era ritirato a vivere nel bosco ai piedi della Gran Madre, rompendo ogni rapporto con il resto del mondo.
            Di tanto in tanto capitava al convento per dare notizie di sé, e subito ripartiva con un carico di vettovaglie per trascorrere l’inverno in quel luogo selvaggio, dove non si capiva come facesse a vivere senza riscaldamento, sepolto dalla neve per dieci mesi all’anno, e senza sentire il suono di una voce umana.
            In paese si diceva che Dio gli avesse parlato sulla Gran Madre e che ora vivesse di preghiera e penitenza. Ma i più realisti pensavano che quella dell’eremita fosse una delle tante leggende nate ai piedi della Severa, e che Enrico Del Valle fosse morto da tempo.
            In tutti quegli anni, Pesca aveva cercato di mantenere la consegna del silenzio: ma di fatto anche lei, specialmente durante gli inverni più rigidi, temeva che suo padre finisse assiderato, morto sotto la neve o per qualche incidente in quell’antica cappella che Enrico Del Valle sosteneva di aver sistemato alla meglio, ma che era pur sempre un rudere, più adatto ad ospitare i corvi che gli esseri umani.
            Da un piccolo Vangelo che portava sempre con sé aveva cavato fuori una foto spiegazzata, che ritraeva un uomo sorridente e abbronzato in mezzo a un gruppo di scout:
            -“Questa me la mandò quando ero appena entrata in monastero”- le sue mani tremavano nel mostrarla all’ex detenuto, ma ancor più tremava il dito del Ragazzo mentre sfiorava la foto per indicare un bambinetto tra i tanti: l’unico che invece di guardare nell’obbiettivo fissava affascinato l’uomo della montagna.
            -“Mi piacerebbe incontrarlo”- disse piano il Ragazzo -“è da allora che ho sempre desiderato essere come lui”-
            -“Proprio tu, invece, faresti bene a lasciarlo in pace”- d’un tratto la voce di Pesca si era fatta severa -“per quanto ti riguarda, penso che lui ne abbia già avuto abbastanza”-
            -“Walter Del Valle era un bastardo vigliacco”- a questo punto, come uscito dal nulla, si era materializzato di nuovo Barry Dale  -“ricattava gli altri studenti, li umiliava nei modi più disgustosi e nessuno interveniva, nessuno faceva niente. Questa era la regola a scuola ed è così anche fuori, chi è più debole è destinato a essere schiacciato e io non potevo più sopportarlo. Dovevo farlo smettere, dovevo farlo a ogni costo perché non era giusto, perché mi ha fatto del male, perché lui era esattamente come mio padre, perché…”-
            La voce del Ragazzo si era fatta stridula, e a un certo punto si trovò a naufragare nell’isteria.
            Lo sovrastò la calma serena di suor Pesca, e sulla nuca la freschezza di una carezza:
            -“Anche tu hai fatto del male. Lo hai fatto a me, all’uomo della montagna, e a chissà quanti altri. Eppure io sono qui, accanto a te, ad ascoltarti”- sostò un attimo, pensierosa.
            In quel momento si accesero le luci nella cappella e il coro delle monache intonò i salmi dell’ultima preghiera della sera. Di nuovo si levò la voce vertiginosa che in altri tempi aveva emozionato Enrico Del Valle, richiamandolo nella penombra della chiesa e davanti all’affresco che illustrava la vicenda di un padre disperato e una figlia tornata in vita.
            Da allora, Enrico Del Valle si era interrogato a lungo sul significato di quella storia, senza riuscire mai a comprenderlo del tutto: anche ora, in quell’angolo di mondo in cui aveva trovato rifugio dopo aver sperimentato l’abbraccio del Dio delle Vette, l’uomo della montagna era chino su quella pagina e si stava interrogando, perché nel suo cuore restava ancora un dubbio.
            Uno soltanto, che era però sufficiente a impedirgli di ritrovare la pace.
            Suor Pesca ne era certa, come se lo vedesse. E fu proprio per quello che si trovò a cambiare idea all’improvviso, e suggerì al Ragazzo:
            -“Prendi la via che parte dal paese vicino, è meno rischiosa e ripida, ti procurerò una mappa anche se non so neppure se c’è un sentiero segnato. Uno dei membri del nostro gruppo è una guida esperta, il tempo di contattarlo e ti faccio accompagnare. Ho sempre rispettato il desiderio di solitudine di mio padre, ma so anche che lui ha bisogno di risposte”- la voce di Pesca si era abbassata fino a un sussurro, e anche il suo volto era chino, per non mostrare al Ragazzo che era sul punto di piangere -“ti prego, vai fin lassù a portargliele. Fai questo per lui”-
            -“Ma cosa potrò dirgli?”-
            -“Te lo dirà il tuo cuore, mentre sarai in cammino”-
 
******
 
            Quella mattina poco prima di mezzogiorno, per effetto del disgelo primaverile una placca di ghiaccio coperta da una glassa di neve farinosa si era scollata dai bastioni della Gran Madre, come un’immensa fetta di torta. Non trovandosi più la terra sotto i piedi aveva barcollato in cerca di un appiglio, poi aveva iniziato a muoversi verso valle all’inizio un po’ incerta, poi prendendoci gusto: probabilmente stanca di una vita di solitudine, trascorsa a far da strascico nuziale alla Severa, aveva deciso di scendere in cerca di compagnia, e dopo averla trovata, di portarsela appresso.
            Si era così creata nel giro di pochi minuti una valanga imponente, che si poteva osservare persino dalla valle mentre avanzava solenne trascinando con sé altra neve, scollando altri lastroni.
            Una volta giunta alla prateria bassa delle pendici, aveva cominciato a travolgere tutto: alcune rocce isolate si erano aggiunte con entusiasmo al corteo, altre più grosse e pigre avevano mosso semplicemente qualche passo limitandosi a tirare giù qualche albero.
            Con un fragore di tuono, la valanga di era schiantata sul bosco sottostante, abbattendo gli abeti dalle radici, spezzando i tronchi dei larici, franando il terreno reso morbido dal disgelo.
             L’urto sulle pareti dell’antica cappella che Enrico Del Valle aveva denominato della Vergine nera, per via di un affresco che si trovava al suo interno, aveva provocato l’effetto di un terremoto: le mura di pietra viva avevano tremato, la scorta di legna ammucchiata sul retro era esplosa in una grandinata di ciocchi sparpagliandosi ovunque. All’interno, i pochi arredi erano crollati dalle mensole. La brace, a riposo nel minuscolo focolare degli eremiti, si era fortunatamente spenta sul pavimento di terra battura e umida.
            Nel paese più vicino, che sorgeva ai piedi della parete est della Gran Madre, gli anziani avevano seguito il percorso rovinoso della valanga, e avevano commentato:
            -“Quando la Severa si scrolla la veste, è perché qualcuno è andato lassù a darle noia”-
            Lo stesso aveva pensato Enrico Del Valle, che conosceva l’antico adagio dei vecchi montanari e istintivamente aveva levato il capo e teso le orecchie. La valanga l’aveva sorpreso mentre si trovava nella foresta a far legna: in lontananza, aveva udito per tempo un brontolio avvicinarsi rapido, mentre quell’ammasso impressionante di lastroni, rocce divelte e schegge scendeva con un fracasso da fine del mondo.
            Da quel boato di catastrofe in cammino aveva riconosciuto l’arrivo della valanga, e siccome conosceva la zona palmo a palmo aveva trovato rifugio in una grotta sul fianco della montagna.
            là aveva ascoltato il rombo della valanga mentre passava sulla sua testa come un rullo, augurandosi solo che un mucchio di detriti non bloccasse l’uscita: dal fondo della grotta il fianco della Gran Madre aveva tremato, come se la Severa si stesse effettivamente scrollando dal grembiule le briciole della prima colazione.
            Non aveva sentito rumori di crollo, e questo significava forse la cappella era rimasta in piedi: poco più sotto, però, gli era sembrato di udire una voce umana, un urlo breve e spezzato, di seguito sepolto di nuovo dal silenzio, ben più cupo e opprimente, che la valanga aveva lasciato dietro di sé. Dopo un poco era uscito e nella calma che era scesa lungo il pendio, rotta solo dal fragile scrocchio di un ramo, dal tonfo di altra neve che cadeva dai rami, di nuovo aveva teso l’orecchio.
            All’inizio pensò si trattasse del vento, che cigolava in mezzo agli alberi caduti, e faceva crollare quelli pericolanti: eppure quella voce l’aveva udita sul serio, e infatti dopo un poco tornò a farsi vivo un lamento.
            Avanzò con cautela in quella direzione, a tratti sprofondando fino alle ginocchia: la valanga aveva mutato completamente la fisionomia del luogo, e lui stesso faceva fatica a orientarsi. Poco più in basso riconobbe il tetto della cappella: le mura, almeno viste da lì, parevano integre, la riserva di legna era stata spazzata via, per fortuna si era ormai a primavera, anche se lo attendevano ancora parecchi mesi di gelo. Stava già per dirigersi verso il suo rifugio per constatare i danni, quando di nuovo, flebile, lo bloccò quella voce.
            -“Dove sei?”- si ritrovò a gridare, e a un tratto si spaventò nell’udire l’eco che rimbalzava contro i bastioni della Gran Madre -“dove sei, continua a parlare!”-
            -“Sono qui”- tremò allora la voce, e qui poteva essere in qualsiasi posto e nessuno.
            Enrico Del Valle cercò d’indovinare da dove proveniva, ma l’eco della Severa si metteva di mezzo, mandandolo fuori strada.
            -“Signore, sono qui! La prego, non mi lasci!”-
            -“Cosa vedi intorno a te?”-
            -“Che cosa? Non capisco! Non vada via la prego!”- la voce, già fragile, cominciò a singhiozzare. Enrico si rese conto che si stava dirigendo dalla parte sbagliata. Gli ci volle almeno un’ora di andirivieni forsennato, e solo quando stava per smarrire le forze e la voce era ormai ridotta ad un gemito, riuscì a trovare il punto dal quale proveniva: un cumulo di neve e di tronchi abbattuti sotto ai quali, probabilmente, si era formata una sacca d’aria.
            Scavò a mani nude, servendosi di rami, pietre e qualunque cosa gli capitasse a tiro.
            Finalmente riuscì a scoprire un pezzo di tela, e di seguito anche il resto: il Ragazzo era livido e semiassiderato, ma ce la fece ugualmente a levare le braccia per farsi tirare fuori. Una gamba poteva muoverla, mentre l’altra era voltata in una posizione innaturale e preoccupante.
            -“Ti è andata bene, giovane: una gamba rotta è il minimo che ti poteva succedere”-
            Non senza difficoltà, Enrico riuscì a recuperare la slitta con cui era solito trasportare la legna, e che era riuscito a riparare appena in tempo nella caverna, insieme alla propria pelle.
            Mentre caricava il Ragazzo, si sforzò di riflettere. Nel bosco faceva buio presto, già le prime ombre cominciavano a scendere e non ci sarebbe stato tempo e luce sufficiente per arrivare a valle: anche perché non sapeva quali ostacoli avrebbe incontrato, dopo che la valanga aveva spazzato via i sentieri e cambiato tutti i punti di riferimento. Non c’era altro da fare che portare il ferito all’eremo, sperando che la notte portasse consiglio e non un’altra ondata di ghiaccio e di disastro: evento peraltro possibile, dopo il primo smottamento che aveva alterato l’equilibrio dei ghiacci sulla Gran Madre.
           Si guardò intorno e un tratto lo colse un dubbio: non aveva considerato l’eventualità più angosciosa, e gli tremò la voce mentre si rivolgeva al Ragazzo, che nella luce serale pareva ancora più livido e grigio su quella lettiga improvvisata:
           -“C’era con te qualcun altro? In quanti eravate?”-
           -“Ero solo, signore”- rispose il Ragazzo, ed era la verità: la guida a cui suor Pesca l’aveva affidato aveva constatato l’impraticabilità del terreno già a metà del percorso, e aveva cercato di convincere il giovane a fare marcia indietro.
           -“La situazione è peggiore di quel che avevo previsto”- aveva detto herr Hauser, al terzo tentativo di guadare torrenti resi più furibondi e ardui dal disgelo, di seguire il sentiero aggirando punti franosi, smottamenti frenati a malapena dagli alberi. Tutti questi accidenti non facevano che allungare i tempi di percorrenza, col rischio di farsi sorprendere dal buio in una zona dove era difficile orientarsi anche in pieno giorno. Le pacate osservazioni di herr Hauser, un austriaco imponente che con lo zaino in spalla arrivava ai due metri, erano presto sfociate in un acceso litigio, perché il Ragazzo non voleva saperne di ritornare a valle e abbandonare l’impresa:
           -“Sei solo un ragazzino egoista e ignorante”- a un certo punto Hauser aveva perso le staffe -“la prima regola, in montagna, è di non mettere a repentaglio la propria vita e quella degli altri. Tu sei sotto la mia responsabilità, ed è mio preciso dovere riportarti a valle o quanto meno avvertirti che se decidi di proseguire lo farai a tuo rischio e pericolo. Quanto a me, appena in paese provvederò a segnalare la tua bravata e ad allertare il Soccorso Alpino. Ricordati, ragazzo: l’arroganza, in montagna, è sempre stata punita molto severamente”-
            Arrancando a fatica, Enrico Del Valle impiegò un’altra ora a raggiungere le mura del suo rifugio, e a quel punto ormai il bosco era sprofondato nel buio di una notte priva di stelle.
            Più volte, durante il tragitto, aveva sentito avvicinarsi lo strepito delle pale di un elicottero che sorvolava la zona, più volte aveva cercato di uscire dal bosco per sbracciarsi e segnalare la sua presenza. L’elicotterista aveva continuato a disegnare cerchi nell’aria, restringendo o allargando il percorso di volo, abbassandosi insieme al buio, allontanandosi e ritornando in un moto continuo e tormentoso: ogni volta, Enrico Del Valle si costringeva a lasciare la lettiga e a portarsi all’aperto, ma puntualmente arrivava troppo tardi, e quando finalmente decise di rimanere immobile allo scoperto, sventolando la giacca in segno di avvertimento, l’elicottero del Soccorso Alpino non era più ritornato.
            -“Adesso ci manca solo che venga giù altra neve”- pensò a quel punto Enrico, scrutando il cielo. Anche quella era una possibilità da considerare, ma i possibili eventi avversi erano ormai così tanti che si faceva prima a non pensarci neanche: giusto per non smarrire la calma e la ragione una volta per tutte.
            Avvolta nella bruma delle sue altezze, la Gran Madre dei Ghiacci vegliava dall’alto, e anche lei pareva dialogare col cielo che la sovrastava compatto, minacciando di scaricare altre tempeste: Enrico Del Valle poteva semplicemente augurarsi che quella coltre di piombo non facesse dispetti, ma il potere della Severa andava ben oltre, e la sua intercessione presso il Dio delle vette era ben più autorevole e persuasiva. Per questo, nel Medioevo, la sua cima di roccia di lavica e scura era anche denominata la Vergine Nera, come se si trattasse di un’imponente statua della Madonna scolpita dalla natura.
            Una volta arrivato all’antica cappella, Enrico ricoverò l’infortunato presso il focolare, spazzò la cenere spenta e si adoperò per riaccendere il fuoco. Dopo averlo spogliato degli abiti bagnati, lo infilò nel suo sacco a pelo e cercò di scaldarlo con tutte le coperte che poté rimediare.
            Liberò dalle scarpe i piedi gonfi e arrossati, constatando che alcune dita erano già diventate nere e legnose. Queste le abbiamo perse, pensò tra sé, mentre grosse vesciche cominciavano a tendere la pelle in più punti. La gamba sinistra, come aveva previsto, appariva piegata in modo innaturale, e quello era l’unico punto in cui il Ragazzo confermò di sentire dolore.
            -“Non ti do dell’idiota, perché hai già avuto quello che ti spettava”- esordì Enrico, quando le condizioni dell’alloggio e del giovane furono tali da garantirgli sufficiente tranquillità -“solo, vorrei sapere come ti è saltato in mente di andare allo sbaraglio senza avere una guida e in scarpe da ginnastica. Come un idiota, appunto, il solito ragazzino che guarda i film di avventura”-
            -“Ho quasi trent’anni”- precisò l’altro, che non se la sentiva di ammettere che la guida l’aveva piantato in asso, o meglio che era stato lui stesso a farlo.
            -“Ne dimostri di meno”- indaffarato a riscaldare una minestra in scatola, Enrico Del Valle gli rispose seguendo un pensiero improvviso:
            -“Hai la stessa età che avrebbe avuto mio figlio”-
            Era da molti mesi che non pensava a Walter.
            Osservò il volto del giovane, mentre gli porgeva la ciotola di minestra.
            Il Ragazzo si sentì interpellato da quello sguardo, in fondo non aveva ancora risposto alla prima domanda:
            -“Sono salito fin qui per cercare l’eremita che vive in questa zona”-
            Aveva le mani gonfie, non riusciva a reggere il cucchiaio e la ciotola. Enrico gli sollevò il capo con l’aiuto di una vecchia cerata, e cominciò a imboccarlo. Malgrado il grigiore, il volto del Ragazzo gli appariva colmo di un’energia appassionata: nei suoi occhi scintillava una fiamma di ammirazione che si faceva più intensa mano a mano che il giovane, pur con le deboli forze che gli restavano, cominciava a rendersi conto di aver trovato l’uomo della montagna, o meglio di esser stato trovato da lui.
            -“Cosa volevi da quel vecchio pazzo che vive da queste parti? Sai che questa bravata ti costerà almeno quattro dita dei piedi?”-
            Enrico gli porgeva i cucchiai di minestra con la stessa delicatezza che avrebbe usato con suo figlio, e chissà perché, nel farlo, provava un intenso turbamento. C’era qualcosa, in quel viso, che continuava a inquietarlo, gli pareva di averlo già visto ma non riusciva a richiamarlo dalla memoria.
            Gli tornarono in mente le parole di quel passo che aveva letto così tante volte sul piccolo Vangelo sbrindellato di Pesca: “raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo, e ordinò loro di darle da mangiare”. Loro erano i genitori della fanciulla tornata in vita. Che cosa aveva voluto intendere il Cristo con quell’ordine? Dar da mangiare a un figlio morto e tornato in vita, ed ecco che lui ora si trovava a soccorrere un giovane dell’età di suo figlio, a nutrirlo e scaldarlo nell’attesa di affidarlo, l’indomani, ai soccorsi.
            -“Potrò diventare ugualmente una guida alpina? Anche senza quattro dita dei piedi?”- quella domanda prese Enrico in contropiede. Abbandonando per un attimo i suoi pensieri, si voltò a guardare il Ragazzo che ora sorrideva, rinvigorito.
            -“Non ti affaticare”- rispose, sempre più inquieto -“al dopo ci penseremo”-
            -“No, io devo dirlo adesso. Sono venuto fin qui per questo, signor Del Valle. Ricorda tanti anni fa, la gita con gli scout e il falò attorno alle tende? Lei allora mi domandò perché ci si mette in cammino, e io ora so la risposta”- un colpo di tosse, a un tratto, gli tolse la parola.
            Stupefatto, Enrico Del Valle non si chiese neppure come facesse il Ragazzo a sapere il suo nome. Da qualche cassetto impolverato della memoria cavò fuori un frammento di quei giorni trascorsi in compagnia degli scout: ricordava di aver spedito a suor Pesca una foto di gruppo, e quel pensiero richiamò il dolore del tempo in cui sua figlia se n’era andata da casa. E poi sì, gli pareva che nel gruppo ci fosse un ragazzino un po’ più vispo degli altri, o solo più sognatore, che aveva chiacchierato con lui di viaggi e montagne, di colazioni da dividere con le marmotte, di grandi desideri.
            Vedi i casi della vita, pensò Enrico Del Valle, e com’è piccolo il mondo.
            Ma c’era dell’altro.
            Improvvisamente, il Ragazzo gli aveva afferrato la mano e tentava di sollevarsi, in un movimento disordinato che gli strappò soltanto un urlo di dolore: istintivamente, Enrico lo prese tra le sue braccia, per aiutarlo a coricarsi di nuovo.
            -“Cosa vuoi fare, razza di scimunito, con una gamba rotta?”-
            -“Signor Del Valle, io voglio domandarle perdono”-
            -“Direi che sei già stato punito abbastanza”-
            -“Io non sono pentito di esser venuto fin qui. Sono pentito, invece, per quello che ho fatto prima”-
            -“Che cosa hai fatto prima? Sentiamo…”-
            Enrico Del Valle era disorientato: qualcosa in quel giovane gli ricordava insistentemente un’altra foto di gruppo, quella da cui la sua ex moglie aveva cancellato un volto grattandolo con le unghie. Cominciava ad avere un brutto presentimento.
            Il Ragazzo si aggrappò di nuovo alla sua mano:
            -“Quando sono uscito dal carcere, Suor Pesca mi ha accolto. Ho letto sui giornali che secondo la gente non ho pagato abbastanza, perché ho scontato dieci anni invece di diciotto, e nell’ultimo periodo ho anche avuto la possibilità di imparare un mestiere. Secondo la società non meritavo un lavoro, e infatti nessuno ha voluto offrirmene uno”-
            L’infortunato si fermò per riprendere fiato, Del Valle lo ascoltava con il volto di pietra.
            Il Ragazzo della Sparatoria non riusciva a guardarlo in faccia, ma si risolse a continuare ugualmente. Si sentiva sfinito ma anche libero, come se Barry Dale fosse rimasto sepolto in quella tomba di ghiaccio che per poco non s’era richiusa sopra di lui:
            -“Suor Pesca non mi ha lasciato in mezzo alla strada, e adesso io sono qui dietro sua precisa richiesta per darle delle risposte, signor Del Valle”-
            -“Cosa ti ha fa pensare che volessi incontrarti? Sei venuto fin qui a dirmi che hai sparato a mio figlio perché ti ha provocato, perché ti faceva i dispetti?”-
            A parte il giorno in cui l’aveva colto sul fatto mentre strofinava su una pozza di urina il volto di uno scolaro, quello stesso che ora gli stava di fronte, Enrico Del Valle aveva appreso ben altre prodezze leggendo sui giornali le testimonianze dei compagni di Walter Del Valle.
             D’un tratto si rese conto che era proprio lì, il cuore del suo dolore: quello che neppure l’abbraccio del Dio delle Vette era riuscito a sciogliere, durante quella notte sulla Via delle Nevi.
            Si rivolse al Ragazzo, che lo fissava con occhi limpidi e tristi:
            -“È passato molto tempo ma credimi, è proprio con questo pensiero che non riesco a far pace. Non ho saputo impedire che mio figlio diventasse un prepotente, e questa è stata la causa che ha scatenato il resto”-
            -“A premere il grilletto sono stato io, signore. Non è stato suo figlio. Ero pieno di rabbia, la coltivavo come si fa con le piante, e solamente in carcere mi sono reso conto che stavo morendo anch’io. È stato allora che è iniziato il mio viaggio. Ricorda? Ci si mette in viaggio per andare da qualche parte, e quando si arriva alla meta ecco, ne appare un’altra. La mia destinazione, e me ne accorgo adesso, era arrivare fin qui, dall’uomo della montagna della mia infanzia,  ciò che devo dirle mi sembra che sia questo: si metta in cammino, signor Del Valle. Lasci andare le colpe, le ragioni, i rimproveri. Si metta in viaggio anche lei, perché il viaggio è vita, è una meta che si sposta sempre un poco più avanti”-
            Enrico aggiunse un ciocco alla fiamma del focolare. Fuori, la notte ancora rigida e invernale cominciò a rischiarare, perché anche la primavera era in cammino e in capo a pochi giorni sarebbe giunta all’eremo, sciogliendo il ghiaccio delle valanghe, facendo spuntare il muschio dai tronchi spezzati, e riportando il canto degli uccelli sui rami degli abeti.
            Più tardi, Enrico Del Valle uscì sulla soglia e proprio di fronte a lui, lungo il pendio che scendeva ripido verso la valle, l’alba iniziava a sorgere: sotto a un cielo di cenere, la neve era una brace scintillante di luce.
            Puntualmente si udì il rumore delle pale dell’elicottero, che era si avvicinava, era sopra di lui ed Enrico si sbracciava, e non sapeva più se quello era un segnale di aiuto oppure semplicemente un modo per scrollarsi di dosso il dolore e la rabbia che l’avevano immobilizzato così a lungo.
            Quando l’elicottero iniziò le manovre di atterraggio aveva le lacrime agli occhi, ma non era per via dello spostamento d’aria che a un tratto lo investiva con la sua turbolenza: dentro di sé avvertiva compassione e sollievo, tristezza e liberazione, nostalgia ma anche leggerezza, come se una cappa opprimente gli fosse caduta di dosso.
            Mentre i soccorritori caricavano l’infortunato sulla barella, continuò a fissare il Ragazzo, non più l’enigma di un volto stampato su un giornale ma una creatura in carne e ossa, fragile e soggetta a sbagliare esattamente come aveva sbagliato Walter, e forse anche Lidia, e lui stesso.    
            Dar da mangiare a un figlio: adesso gli sembrava di capire più o meno cosa significava, e ritornò a sentire su di sé il possente abbraccio del Dio delle Vette. Assorto, fece un breve cenno di saluto al Ragazzo, senza perdere di vista quegli occhi grandi e umidi che a loro volta lo guardavano con fiducia, fino a che l’elicottero non serrò lo sportello per poi alzarsi in volo.
            Continuò a fissarlo finché divenne un piccolo punto sull’orizzonte, nel cielo sconfinato della Gran Madre dei Ghiacci che alle sue spalle lo scrutava dall’alto: silente e impenetrabile ma con l’alba sul volto, che disegnava un gioco di ombre tra le sporgenze, e qualcosa di molto simile ad un sorriso.  

 
            ******
 
 
Colonna sonora: Armand Amar, “Inanna”
Lévon Minassian, “They have taken the Only I Love”
The Cinematic Orchestra, “Arrival of the Birds and Transformation”
Eddy Vedder, “Society”, “Rise”, “Long Nights”
Tchaikovsky, “Hymn of the Cherubim”

 
  
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